Il dibattito sull’ideologia marxista ha segnato il Novecento. Il revisionismo che ne consegue è il tentativo di riformulare, alla luce della realtà contemporanea, i presupposti teorici e politici del socialismo.
Alla fine del XIX secolo, il movimento socialista europeo si trovò ad affrontare una svolta teorica e strategica senza precedenti. I decenni successivi alla pubblicazione del Capitale di Karl Marx avevano trasformato l’ideologia marxista in una delle forze trainanti del pensiero politico e sociale europeo, ma allo stesso tempo nuove dinamiche economiche e istituzionali mettevano in discussione alcune delle sue previsioni fondamentali. È in questo contesto che emerse il revisionismo marxista: non una semplice deviazione, ma un vero e proprio tentativo di riformulare, alla luce della realtà contemporanea, i presupposti teorici e politici del socialismo.
Il contesto: un capitalismo in trasformazione
Tra gli anni Ottanta dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento, l’Europa attraversò una fase di rinnovata prosperità. Dopo la lunga crisi economica che aveva colpito il continente a fine secolo, la ripresa industriale si tradusse in un’espansione della produzione, una relativa stabilità politica e un rafforzamento delle istituzioni rappresentative. La diffusione del suffragio, l’adozione di prime forme di legislazione sociale e un generale miglioramento del tenore di vita del proletariato urbano sembravano contraddire l’idea, centrale nel marxismo ortodosso, di un imminente collasso del sistema capitalistico.
A fronte di questi sviluppi, molti esponenti del movimento socialista cominciarono a interrogarsi sulla validità di alcuni capisaldi dell’analisi marxiana, a partire dalla cosiddetta “teoria del crollo”: l’idea che il capitalismo fosse destinato, per effetto delle proprie contraddizioni interne, a una fine catastrofica. In assenza di segnali concreti di tale collasso, si aprì il campo a una riflessione più ampia su metodi e obiettivi del movimento socialista.
Eduard Bernstein e la critica all’ortodossia
Il principale teorico del revisionismo fu Eduard Bernstein (1850-1932), dirigente della socialdemocrazia tedesca e autore del saggio I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, pubblicato nel 1899. In quest’opera, Bernstein metteva in discussione la necessità della rivoluzione e sosteneva che il socialismo poteva essere raggiunto per via evolutiva, attraverso riforme democratiche e progressi graduali.
Il punto di partenza della sua analisi era empirico: le previsioni marxiste sulla polarizzazione sociale e sulla proletarizzazione dei ceti medi non si erano verificate. Il capitalismo, anziché implodere, mostrava una sorprendente capacità di adattamento e rigenerazione. Le grandi crisi non avevano prodotto insurrezioni generalizzate, ma al contrario un maggiore realismo da parte del proletariato, sempre più orientato a rivendicazioni moderate e a strategie sindacali e parlamentari.
Bernstein non negava l’ideale socialista, ma contestava i mezzi tradizionali per raggiungerlo. Per lui, il compito della socialdemocrazia non era quello di preparare l’abbattimento rivoluzionario del sistema, bensì di guidarne la trasformazione progressiva, puntando su una crescita culturale e politica delle masse lavoratrici e su una riforma delle istituzioni in senso democratico. In questo senso, il revisionismo bernsteiniano si nutriva anche di un’ispirazione positivista ed evoluzionista, sostituendo alla dialettica rivoluzionaria una fiducia nei meccanismi di progresso lineare e civile.
La reazione dell’ortodossia: Kautsky, Bebel e Luxemburg
Le tesi di Bernstein avviarono un acceso dibattito interno alla socialdemocrazia tedesca – passato alla storia come la Bernstein-Debatte – e innescarono una frattura tra le diverse anime del movimento socialista europeo. A opporsi con decisione furono i rappresentanti dell’ortodossia marxista, in particolare Karl Kautsky, figura centrale della SPD e teorico riconosciuto del marxismo europeo.
Kautsky, insieme ad August Bebel e Wilhelm Liebknecht, sostenne che le proposte revisioniste non solo indebolivano l’analisi scientifica del capitalismo, ma rischiavano di dissolvere la specificità rivoluzionaria del socialismo in un generico riformismo borghese. Egli ribadiva la necessità della rivoluzione come momento decisivo per il passaggio dal capitalismo al socialismo, pur ammettendo la possibilità di utilizzare strumenti parlamentari nella fase di costruzione del consenso.
Il dibattito fu ulteriormente vivacizzato da Rosa Luxemburg, che rappresentava una posizione autonoma e più radicale. Attiva tra Polonia e Germania, Luxemburg criticava sia l’ortodossia kautskiana, considerata eccessivamente schematica, sia il revisionismo, accusato di abbandonare la centralità della lotta di classe. Per lei, il motore della trasformazione rivoluzionaria doveva restare l’azione diretta e spontanea della classe lavoratrice, non il partito o l’intellettuale-guida. Dal 1904 iniziò anche a polemizzare apertamente con l’impostazione leninista, ritenuta troppo centralista e autoritaria.
Riformismo, rivoluzione e lacerazioni del movimento socialista
Il revisionismo marxista non fu un fenomeno circoscritto alla Germania, ma si diffuse in varie forme in tutta Europa, influenzando profondamente le strategie dei partiti socialisti. In molti casi, i contenuti revisionisti vennero assorbiti dalle pratiche riformiste, segnando un progressivo allontanamento dal marxismo ortodosso e l’avvicinamento a politiche di collaborazione con la borghesia liberale e progressista.
Questa deriva trovò espressione anche nel sindacalismo rivoluzionario e nelle correnti più pragmatiche del socialismo occidentale. In questo contesto, si possono distinguere due filoni: un revisionismo di destra, che portò alla costituzione di partiti socialdemocratici sempre più integrati nel sistema parlamentare borghese, e un revisionismo di sinistra, critico sia del riformismo che dell’ortodossia, orientato verso pratiche radicali, ma svincolato dalla dogmatica marxista tradizionale.
I congressi dell’Internazionale Socialista furono le sedi in cui queste tensioni esplosero con maggior evidenza, segnando un crescente divario tra le diverse componenti del socialismo europeo. Il confronto si radicalizzò fino a diventare insanabile con lo scoppio della Prima guerra mondiale, che disgregò l’unità dell’Internazionale e pose fine a ogni possibilità di sintesi.
Una frattura destinata a segnare il Novecento
Il dibattito tra ortodossia e revisionismo non fu soltanto una disputa teorica: fu il preludio delle grandi lacerazioni che attraverseranno il movimento operaio per tutto il Novecento. Dalla Rivoluzione d’Ottobre all’ascesa dei partiti socialdemocratici nei parlamenti europei, dai totalitarismi ai compromessi del dopoguerra, le scelte di strategia politica e la concezione stessa del socialismo vennero profondamente condizionate da quella frattura originaria.
A distanza di oltre un secolo, il confronto tra riformismo e rivoluzione, tra gradualismo e rottura, continua a interrogare la sinistra, non solo sul piano storico ma anche su quello culturale e programmatico. Il revisionismo, al di là delle condanne ideologiche, rappresenta un tentativo – per molti versi lucido – di confrontare la teoria con la realtà, la visione con i fatti. E come tale, costituisce ancora oggi un passaggio obbligato per chi voglia comprendere le tensioni, le possibilità e i limiti del progetto socialista.

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