Nell'anno 1220 della salutifera
Incarnazione regnando in Palermo
ed in Napoli il grande e buon re
Federico secondo di Svevia,
accadde in Napoli un caso
bellissimo che non vi sarà discaro
ascoltare, trattandosi di
piacevole argomento. Simil novella
non troverete né in istorici, né
in eleganti narratori; io stessa
la raccolsi rozza ed informe dalla
tradizione popolare e voglio,
narrandola a voi, consacrarla in
questa scrittura, affinché ne
possano avere disadorna ma chiara
notizia i più tardi nepoti, per
cui lavora e s’affatica ogni
scrittore disdegnoso del facile
plauso contemporaneo. Ma senza più
intrattenervi in preliminari,
avendo spiegata chiaramente la mia
intenzione, ecco il caso.
Nello stretto vico dei Cortellari.
che come ognuno sa, apparteneva al
seggio di Portanova, v'era una
casuccia magra ed alta, dalle
piccole finestre, aventi i vetri
sporchi ed impiombati. La porta
d'entrata era bassa e oscura;
sporca e ripida la scala; di rado
si aprivano le finestruole. La
gente vi passava dinanzi
frettolosa, dando uno sguardo fra
il collerico ed il pauroso, e
borbottando fra i denti non so se
una preghiera o una maledizione.
In verità, nella casuccia abitava
gente malfamata; al primo piano
v'era un maledetto giudeo, degno
discendente di coloro che
crocifissero nostro signore Gesù
Cristo, un giudeo ladro che dava
il denaro ad usura e tosava le
monete d'oro; al secondo una
giovane bella, di quelle che sono
la tentazione e la dannazione
dell'uomo; al terzo un marito ed
una moglie, brutti ceffi che il
giorno eran fuori di casa a
qualche ignoto ed equivoco
mestiere e quando rincasavano, a
notte piena, si battevano come la
lana. Quello che formava lo
sgomento dei viandanti non era
specialmente l'ebreo cane, lo
sguardo provocante della donna, o
gli strilli della moglie bastonata
dal marito, ma era tutto questo
insieme e principalmente il
pensiero che all'ultimo piano
della casa indiavolata abitava
Cicho il mago. Le anime timorate
di Dio si facevano il segno della
croce che è anche quello della
nostra salvazione e passavano
oltre; gli spiriti mondani
facevano le corna con la mano, si
tastavano il ginocchio,
pronunziavano qualche scongiuro e
simili cose operavano che
volgarmente si credono atte a
disperdere il malocchio. Sebbene
Cicho uscisse molto raramente e
raramente spalancasse le imposte
della sua finestruola, il popolo
sapendo della sua magia, del suo
potere sovrumano, n'avea timore
grandissimo.
Senza dubbio i misteriosi
andamenti di Cicho davan fede di
verità a quanto di lui si dicea.
Chi fosse non si sapea, né donde
venisse; sempre chiuso in casa; in
apparenza privo di amici e di
parenti: curvo nell'incedere,
lento il passo, l'occhio fisso a
terra mormorando parole greche,
latine o di qualche lingua
demoniaca; parco nel conversare,
ma non aspro nei modi, anzi
sorridente nella fluente barba
bianca; scuri ma netti i
vestimenti. Invano, quando venne
ad abitare nel vico Cortellari, le
femminette d'intorno s'informavano
di lui, chiesero, osarono
interrogarlo, fermarono il suo
servo e adoperarono i mille mezzi
che mai sempre consiglia alla
donna, la gran maestra e signora,
la curiosità. Nulla potettero
sapere e Cicho, la sua origine, la
sua famiglia, la sua vita rimasero
nelle tenebre dello sconosciuto.
Ma in seguito, spiando,
osservando, escogitando, si seppe
che Cicho intendeva a opere
magiche; durante la notte, mai si
spegneva la lampada della
stanzuccia dove egli studiava su
grossi volumi di manoscritti a
fermaglio, tolti da una polverosa
scansia, mai cessava d'uscire,
dalla cappa nera del suo focolare,
un filo di fumo e la sua stanza
era piena di storte, di lambicchi,
di fornelli, di singolari coltelli
in tutte le forme e di altri
istrumenti in ferro destinati ad
usi paurosi.
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