Il pane
è alla base della cucina
contadina, anzi ne costituisce
spesso l'unico elemento, per cui
pur nel suo aspetto più pratico e
concreto conserva in un certo
senso un significato simbolico
legato al semplice fatto che da
esso dipende il pur minimo
sostentamento. Inoltre il pane si
configura come il prodotto finito
del duro lavoro nei campi,
l’aratura, la semina la mietitura,
la trebbiatura infatti sono
operazioni che in una campagna
senza meccanizzazione dipendevano
dalle braccia del contadino. E'
significativo ad esempio il fatto
che l'aratura che è l'operazione
fondamentale con cui si apre il
ciclo di coltivazione, nella
cultura popolare siciliana sia
chiamata con il verbo "lavurari",
che mentre nella lingua italiana
indica genericamente qualsiasi
attività produttiva, qui indica
l’azione lavorativa per
eccellenza, quella da cui
dipendeva la vita stessa degli
individui.
"Lavuri" si chiama anche il grano
appena spuntato, nonché chicchi di
grano fatti germogliare in casa
secondo antichi rituali che sono
detti "lavureddi", da tutto questo
si capisce quella sorta di rituale
rispetto che le famiglie contadine
avevano per il pane e perciò tutta
quella serie di comportamenti
connessi alla preparazione e al
consumo di questo. Il pane è
considerato infatti "grazia di
Dio" quindi non s'infilza con il
coltello ma si spezza con le mani,
ma se proprio si deve tagliare
prima lo si bacia, non si rivolge
sulla tavola perché è come se si
volgessero le spalle al Signore,
le briciole del pane non si
buttano perché sono benedette e
bisogna distribuirle alle galline,
così come il pane andato a male
non si getta ma lo si conservata,
altrimenti il Signore potrebbe
farcelo desiderare, codificando
così una sorta di contrappasso.
Così
come durante il consumo, anche
durante la preparazione del pane
vi sono una serie di
comportamenti, che si possono
configurare come una specie di
iter rituale della panificazione;
innanzitutto nelle case contadine
si panifica una volta la settimana
in genere il sabato, chi
confezionava il pane di domenica o
nei giorni festivi, mancava di
rispetto a Dio e ai santi, e
quindi verrà punito, ad
esemplificazione di ciò il
Salomone Marino riferisce il caso
di una donna di Catalafimi, che
per aver fatto di domenica il pane
"perdette ucciso per accidente un
bambino, un altro ella ne arse
inavvedutamente nel forno, e
infine cadde ella stessa scannata
dal marito, che la ritenne autrice
de’ due infanticidi". Inoltre in
molti comuni rurali, nessuna
massaia preparava pane nei primi
tre giorni di Maggio perché una
vecchia credenza afferma che il
pane confezionato in quei giorni
si ammuffisce e si copre di
numerose piccole blatte che
invadono anche la casa, questo
avviene perché una donna
impastando il pane ne negò un po'
ad un poverello, mentre fu
generosa con i diavoli che il
primo maggio erano sulla terra e
le si presentarono sotto l'aspetto
di cavalieri.
Comunque tutto il processo di
panificazione,dall’impasto alla
cottura, era sottolineato da
pratiche magico-religiose, da atti
e parole rituali, il segno delle
croce accompagnava le operazioni
più critiche, soprattutto quelle
che non dipendevano dall'abilità
della massaia. "Acciurari" la
farina cioè sottoporla a più
setacciature era l'operazione che
avviava il processo della
panificazione e segnava una svolta
nel ciclo del grano, in quanto
trasferiva il lavoro all’interno
delle pareti domestiche e
trasformava la donna nella
principale protagonista della
produzione. Infatti in quella
struttura polifunzionale che era
la casa contadina tradizionale non
potevano mancare gli utensili
necessari per la lavorazione del
macinato e la preparazione del
pane come, setacci, madie,
attrezzi per il forno che facevano
parte del corredo della sposa.
Nella prima fase di setacciatura
si usava " u criu i scanigghiari
che era un setaccio a trama più
larga che separava la crusca,
destinata alle galline dalla
farina. il "crivu i sciurari"
invece separava la ranza con cui
si formavano dei pani per i cani
detti canigghiuotti dal fior di
farina con cui infine si
confezionavano le varie forme di
pane.
Se la
farina è la materia prima del pane
il lievito è comunque un elemento
importante per una buona
panificazione, in quella
tradizionale il lievito era
chiamato "criscenti" ed era in
pratica un pezzo di pasta cruda
che inacidendo acquistava la
proprietà di attivare la
fermentazione di tutto l’impasto
per questa sua proprietà la
scoperta del lievito , è stata al
centro di numerosi racconti
mitici, i cui protagonisti
rivelano alla fine i segreti del
prodigio. Era inoltre consuetudine
prestarsi il lievito
vicendevolmente per averlo sempre
fresco, così il criscenti che si
era ricavato dall'impasto pronto
per la coltura si passava alla
vicina che, avrebbe panificato la
volta successiva e così via. I
poteri straordinari del lievito
hanno trovato applicazione anche
nel campo della medicina popolare,
infatti apposto sulla foglia di
rovo guarisce l'ascesso, spalmato
sulla parte gonfia affretta la
suppurazione delle tonsille ecc.
Il pane
non perfettamente lievitato si
dice "lisu" cioè poco soffice., se
invece lievita eccessivamente si
dice "passatu" e in questo caso si
spacca, e vi si sollevano sulla
crosta delle bollicine, e allora
si dice che la padrona di casa è
incinta. Quando lievito e farina
diventano un tutt'uno si formava
un grosso rotolo di pasta detto
"pastuni" e a questo punto sì
cominciava a "scanari" cioè a
manipolare l’impasto, nelle
province della Sicilia orientale
per effettuare questa operazione
si usava spesso una speciale leva
di legno detta sbria che
richiedeva la collaborazione di
due donne. Quando il rotolo di
pasta era ben manipolato era
pronto per essere tagliato a pezzi
e ricavarne le varie forme
desiderate, che si "mettunu a
lettu" per consentire di
raggiungere un perfetto grado di
lievitazione.
Anche
l’infornata seguiva un preciso
rituale, innanzitutto spettava
all'esperienza e all'abilità della
massaia regolare la temperatura
con la giusta immissione di legna.
Per primi si introducevano i pani
più voluminosi che avevano bisogno
di una cottura più prolungata, si
disponevano dunque quei pani
passati di lievito perché il
calore arrestasse l'attività dei
microrganismi dei fermenti, infine
si collocavano i pani più piccoli
al centro vicino alla bocca del
forno. Inoltre come afferma il
Salomone Marino, "la devozione
entra anche nel lavoro
dell'infornata", innanzitutto si
comincia col dire: "In nomu di lu
Patri di lu Figghiu e di lu
Spiritu Santu, Sant'Agati dati
focu a li balati", e poichè con
questa operazione finisce la
fatica e la responsabilità della
massaia, questa aggiuge: "ora è
finita la fatica mia faciti vui
Vergini Maria".
Ad ogni
pane che si informava si invocava
un santo con il ritmo di una vera
e propria litania, che pur
variando in corrispondenza dei
differenti patrocini locali si
richiamava ad uno stesso modello
strutturale, dopo aver introdotto
tutti i pani si faceva il segno
della croce vicino la bocca del
forno. Il Salomone Marino ci
riferisce anche che bisognava
disfare subito il letto in cui i
pani erano messi a lievitare
perché altrimenti il pane restava
"acchiancatu" cioè non veniva
soffice inoltre bisognava spazzare
dinanzi il forno per allontanare
"ì mali frusculi" cioè i cattivi
spiriti."La cottura dei pani si
iscrive dunque nella dimensione
sacrale dei riti di passaggio e il
forno diventa il luogo mitico di
questo cruciale passaggio: dal
crudo al cotto, dal vegetale
all’umano, dalla Natura alla
Cultura". Le denominazioni dei
pani quotidiani o comunque di
quelli che non rientrano in una
specifica dimensione festiva,
variano da luogo a luogo ma
sostanzialmente statica la loro
tipologia.
Per la
forma quasi sempre rotonda e piena
che la pasta assumeva il pane più
comune si chiama vastedda o
guastedda quella palermitana però
si deve annoverare tra i pani
appetitosi si distingue infatti
una guastedda "schetta" da una
"marinata" condita con
caciocavallo ricotta o altri
ingredienti. Il Pitrè fa un elenco
di pani giornalieri, alcuni scrive
portano i nomi della forma che
hanno come pala, pani lisciu,
pizzaruni, pistuluni, un pane a
bastone di cui vi sono le versioni
più piccole come la pistuledda, il
rugnuneddu, a picchi brevi e corti
quest’ultimi rientrano nel pani
più piccoli detti "così minuti" di
cui fanno parte anche due pani che
si era soliti confezionare per i
bambini come i iadduzza a forma di
galletto e la pupa di pani.
L'elenco del Pitrè continua con il
ciumi tortu che è in verità nome
corrotto di cimi torti, estremità
torte oggi comunemente conosciuto
con nome di torcigliato ovvero
filone di pasta a treccia, molto
diffusa nel palermitano e nel
trapanese, la parma, palma che
oggi si può identificare con
l'attuale mafalda. Nelle masserie
in campagna invece si preparava un
grosso pane, piatto e rotondo di
circa due chili che si presentava
al centro rilevato a punta per
questo era chiamato "pani cu a
minna", e perché avesse una lunga
conservazione gli uomini pestavano
la pasta con i piedi.
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