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  LE TRADIZIONI DEL PANE
 

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di Giuseppina Mento
 
 

Il pane è alla base della cucina contadina, anzi ne costituisce spesso l'unico elemento, per cui pur nel suo aspetto più pratico e concreto conserva in un certo senso un significato simbolico legato al semplice fatto che da esso dipende il pur minimo sostentamento. Inoltre il pane si configura come il prodotto finito del duro lavoro nei campi, l’aratura, la semina la mietitura, la trebbiatura infatti sono operazioni che in una campagna senza meccanizzazione dipendevano dalle braccia del contadino. E' significativo ad esempio il fatto che l'aratura che è l'operazione fondamentale con cui si apre il ciclo di coltivazione, nella cultura popolare siciliana sia chiamata con il verbo "lavurari", che mentre nella lingua italiana indica genericamente qualsiasi attività produttiva, qui indica l’azione lavorativa per eccellenza, quella da cui dipendeva la vita stessa degli individui.

"Lavuri" si chiama anche il grano appena spuntato, nonché chicchi di grano fatti germogliare in casa secondo antichi rituali che sono detti "lavureddi", da tutto questo si capisce quella sorta di rituale rispetto che le famiglie contadine avevano per il pane e perciò tutta quella serie di comportamenti connessi alla preparazione e al consumo di questo. Il pane è considerato infatti "grazia di Dio" quindi non s'infilza con il coltello ma si spezza con le mani, ma se proprio si deve tagliare prima lo si bacia, non si rivolge sulla tavola perché è come se si volgessero le spalle al Signore, le briciole del pane non si buttano perché sono benedette e bisogna distribuirle alle galline, così come il pane andato a male non si getta ma lo si conservata, altrimenti il Signore potrebbe farcelo desiderare, codificando così una sorta di contrappasso.

Così come durante il consumo, anche durante la preparazione del pane vi sono una serie di comportamenti, che si possono configurare come una specie di iter rituale della panificazione; innanzitutto nelle case contadine si panifica una volta la settimana in genere il sabato, chi confezionava il pane di domenica o nei giorni festivi, mancava di rispetto a Dio e ai santi, e quindi verrà punito, ad esemplificazione di ciò il Salomone Marino riferisce il caso di una donna di Catalafimi, che per aver fatto di domenica il pane "perdette ucciso per accidente un bambino, un altro ella ne arse inavvedutamente nel forno, e infine cadde ella stessa scannata dal marito, che la ritenne autrice de’ due infanticidi". Inoltre in molti comuni rurali, nessuna massaia preparava pane nei primi tre giorni di Maggio perché una vecchia credenza afferma che il pane confezionato in quei giorni si ammuffisce e si copre di numerose piccole blatte che invadono anche la casa, questo avviene perché una donna impastando il pane ne negò un po' ad un poverello, mentre fu generosa con i diavoli che il primo maggio erano sulla terra e le si presentarono sotto l'aspetto di cavalieri.

Comunque tutto il processo di panificazione,dall’impasto alla cottura, era sottolineato da pratiche magico-religiose, da atti e parole rituali, il segno delle croce accompagnava le operazioni più critiche, soprattutto quelle che non dipendevano dall'abilità della massaia. "Acciurari" la farina cioè sottoporla a più setacciature era l'operazione che avviava il processo della panificazione e segnava una svolta nel ciclo del grano, in quanto trasferiva il lavoro all’interno delle pareti domestiche e trasformava la donna nella principale protagonista della produzione. Infatti in quella struttura polifunzionale che era la casa contadina tradizionale non potevano mancare gli utensili necessari per la lavorazione del macinato e la preparazione del pane come, setacci, madie, attrezzi per il forno che facevano parte del corredo della sposa. Nella prima fase di setacciatura si usava " u criu i scanigghiari che era un setaccio a trama più larga che separava la crusca, destinata alle galline dalla farina. il "crivu i sciurari" invece separava la ranza con cui si formavano dei pani per i cani detti canigghiuotti dal fior di farina con cui infine si confezionavano le varie forme di pane.

Se la farina è la materia prima del pane il lievito è comunque un elemento importante per una buona panificazione, in quella tradizionale il lievito era chiamato "criscenti" ed era in pratica un pezzo di pasta cruda che inacidendo acquistava la proprietà di attivare la fermentazione di tutto l’impasto per questa sua proprietà la scoperta del lievito , è stata al centro di numerosi racconti mitici, i cui protagonisti rivelano alla fine i segreti del prodigio. Era inoltre consuetudine prestarsi il lievito vicendevolmente per averlo sempre fresco, così il criscenti che si era ricavato dall'impasto pronto per la coltura si passava alla vicina che, avrebbe panificato la volta successiva e così via. I poteri straordinari del lievito hanno trovato applicazione anche nel campo della medicina popolare, infatti apposto sulla foglia di rovo guarisce l'ascesso, spalmato sulla parte gonfia affretta la suppurazione delle tonsille ecc.

Il pane non perfettamente lievitato si dice "lisu" cioè poco soffice., se invece lievita eccessivamente si dice "passatu" e in questo caso si spacca, e vi si sollevano sulla crosta delle bollicine, e allora si dice che la padrona di casa è incinta. Quando lievito e farina diventano un tutt'uno si formava un grosso rotolo di pasta detto "pastuni" e a questo punto sì cominciava a "scanari" cioè a manipolare l’impasto, nelle province della Sicilia orientale per effettuare questa operazione si usava spesso una speciale leva di legno detta sbria che richiedeva la collaborazione di due donne. Quando il rotolo di pasta era ben manipolato era pronto per essere tagliato a pezzi e ricavarne le varie forme desiderate, che si "mettunu a lettu" per consentire di raggiungere un perfetto grado di lievitazione.

Anche l’infornata seguiva un preciso rituale, innanzitutto spettava all'esperienza e all'abilità della massaia regolare la temperatura con la giusta immissione di legna. Per primi si introducevano i pani più voluminosi che avevano bisogno di una cottura più prolungata, si disponevano dunque quei pani passati di lievito perché il calore arrestasse l'attività dei microrganismi dei fermenti, infine si collocavano i pani più piccoli al centro vicino alla bocca del forno. Inoltre come afferma il Salomone Marino, "la devozione entra anche nel lavoro dell'infornata", innanzitutto si comincia col dire: "In nomu di lu Patri di lu Figghiu e di lu Spiritu Santu, Sant'Agati dati focu a li balati", e poichè con questa operazione finisce la fatica e la responsabilità della massaia, questa aggiuge: "ora è finita la fatica mia faciti vui Vergini Maria".

Ad ogni pane che si informava si invocava un santo con il ritmo di una vera e propria litania, che pur variando in corrispondenza dei differenti patrocini locali si richiamava ad uno stesso modello strutturale, dopo aver introdotto tutti i pani si faceva il segno della croce vicino la bocca del forno. Il Salomone Marino ci riferisce anche che bisognava disfare subito il letto in cui i pani erano messi a lievitare perché altrimenti il pane restava "acchiancatu" cioè non veniva soffice inoltre bisognava spazzare dinanzi il forno per allontanare "ì mali frusculi" cioè i cattivi spiriti."La cottura dei pani si iscrive dunque nella dimensione sacrale dei riti di passaggio e il forno diventa il luogo mitico di questo cruciale passaggio: dal crudo al cotto, dal vegetale all’umano, dalla Natura alla Cultura". Le denominazioni dei pani quotidiani o comunque di quelli che non rientrano in una specifica dimensione festiva, variano da luogo a luogo ma sostanzialmente statica la loro tipologia.

Per la forma quasi sempre rotonda e piena che la pasta assumeva il pane più comune si chiama vastedda o guastedda quella palermitana però si deve annoverare tra i pani appetitosi si distingue infatti una guastedda "schetta" da una "marinata" condita con caciocavallo ricotta o altri ingredienti. Il Pitrè fa un elenco di pani giornalieri, alcuni scrive portano i nomi della forma che hanno come pala, pani lisciu, pizzaruni, pistuluni, un pane a bastone di cui vi sono le versioni più piccole come la pistuledda, il rugnuneddu, a picchi brevi e corti quest’ultimi rientrano nel pani più piccoli detti "così minuti" di cui fanno parte anche due pani che si era soliti confezionare per i bambini come i iadduzza a forma di galletto e la pupa di pani.

L'elenco del Pitrè continua con il ciumi tortu che è in verità nome corrotto di cimi torti, estremità torte oggi comunemente conosciuto con nome di torcigliato ovvero filone di pasta a treccia, molto diffusa nel palermitano e nel trapanese, la parma, palma che oggi si può identificare con l'attuale mafalda. Nelle masserie in campagna invece si preparava un grosso pane, piatto e rotondo di circa due chili che si presentava al centro rilevato a punta per questo era chiamato "pani cu a minna", e perché avesse una lunga conservazione gli uomini pestavano la pasta con i piedi.

 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 
 
 

   
 
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