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Ora accade che sul terrazzino di
Cicho il mago sporgesse anche una
porticina di una stanzuccia dove
abitava con suo marito Jovannella
di Canzio. Era costei maliziosa,
astuta e linguacciuta quanto mai
femmina possa essere; e sua
dilettosa occupazione era
conoscere i fatti del vicinato o
per trarne personale vantaggio o
per malignarvi su. non è a dire se
la malvagia Jovannella spiasse
continuamente Cicho il mago; ché
anzi s’arrovellava di giorno e non
aveva tregua nelle lenzuola alla
notte, per la inappagata
curiosità; e più non riusciva a
saper nulla , più, per dispetto,
lacerava la riputazione delle
vicine e tormentava il marito
Giacomo, guattero di cucina al
real palazzo. Ma non senza
saviezza corrono dettami popolari
esprimenti che la donna ottiene
sempre quello che vuole fortemente
– e malgrado le precauzioni di
segretezza adoperate da Cicho il
mago, malgrado le porte chiuse, le
finestre sbarrate, la Jovannella
seppe il segreto dello stregone.
Fosse stato per buco di serratura,
per fessura di porta, per foro nel
muro, o per altro, io non so. Ma è
certo che un giorno la trionfante
Jovannella disse al guattero
marito:
– Giacomo, se hai ardire di uomo,
la fortuna nostra è fatta.
– Sei tu diventata strega? Io mel
sapeva.
– Malann’aggia la tua bocca
sconsacrata! Ascolta. Vuoi tu dire
al cuoco di palazzo che io conosco
una vivanda di così nuova e tanto
squisita fattura da meritare
l’assaggio del re?
– Femmina, tu sei pazza?
– Dio mi sradichi questa lingua
che ho tanto cara, s’io mento!
E con molte sue persuasioni lo
indusse a parlarne col cuoco, che
a sia volta ne discusse col
maggiordomo, il quale ne tenne
parola con un conte, che osò dirne
al re.
Piacque al re la novella e dette
ordine che la moglie del sguattero
si recasse nelle reali cucine e
componesse la prelibata vivanda:
infatti la Jovannella accorse
prontamente e in tre ore ebbe
tutto fatto. Ecco come: prese
prima fior di farina, lo impastò
con poca acqua, sale e uova,
maneggiando la pasta lungamente
per raffinarla e per ridurla
sottile sottile come una tela; poi
la tagliò con un suo coltellaccio
in piccole strisce, queste
arrotolò a forma di piccoli
cannelli e fattane un a grande
quantità, essendo morbidi ed
umidicci, li mise a rasciugare al
sole. Poi mise in tegame strutto
di porco, cipolla tagliuzzata
finissima e sale; quando la
cipolla fu soffritta vi mise un
grosso pezzo di carne; quando
questa si fu crogiolata bene ed
ebbe acquistato un colore
bruno-dorato, ella vi versò dentro
il succo denso e rosso dei
pomidoro che aveva spremuti in uno
straccio; coprì il tegame e lasciò
cuocere, a fuoco lento, carne e
salsa.
Quando l’ora del pranzo fu venuta,
ella tenne preparata una caldaia
di acqua bollente dove rovesciò i
cannelli di pasta: intanto che
cuocevano, ella grattugiò una
grande quantità di quel dolce
formaggio che ha nome da Parma e
si fabbrica a lodi. Cotta a punto
la pasta, la separò dall’acqua ed
in bacile di maiolica la condì
mano mano con una cucchiaiata di
formaggio ed un cucchiaio di
salsa. Così fu la vivanda famosa
che andò innanzi al grande
Federigo, il quale ne rimase
meravigliato e compiaciuto; e
chiamata a sé la Jovannella di
Canzio, le chiese come avesse
potuto immaginare un connubio così
armonioso e stupendo. La rea
femmina disse che ne aveva avuto
rivelazione in sogno, da un
angelo: il gran re volle che il
suo cuoco apprendesse la ricetta e
donò alla Jovannella cento monete
d’oro dicendo che era molto da
ricompensarsi colei che per una
così grande parte aveva concorso
alla felicità dell’uomo. Ma non fu
questa solamente la fortuna di
Jovannella, poiché ogni conte ed
ogni dignitario volle avere la
ricetta e mandò il proprio cuoco
ad imparare da lei, dandole grosso
premio; e dopo i dignitarii
vennero i ricchi borghesi e poi i
mercati e poi i lavoratori di
giornata e poi i poveri dando
ognuno alla donna quel che poteva.
Nel corso di sei mesi tutta Napoli
si cibava dei deliziosi maccheroni
– da macarus, cibo divino –
e la Jovannella era ricca.
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