Massimo Villone – Nota illustrativa del DDL di riforma costituzionale

1. Perché un disegno di legge costituzionale di iniziativa popolare

La previsione nell’art. 71 Cost. di una iniziativa legislativa popolare è rimasta a lungo sostanzialmente priva di effettività. Ma si registrano da ultimo due innovazioni significative.

Una riforma del regolamento Senato del 2017 (art. 74) ha definito con maggiore precisione l’iter del disegno di legge, in modo tale che ne risulti in principio assicurato l’approdo nel calendario di aula. Mentre questo ovviamente non garantisce l’esito, né impedisce il ricorso a pratiche dilatorie, ne risulta certamente rafforzata la possibilità che i soggetti politici siano sollecitati a prendere posizione, con una assunzione di responsabilità nei confronti dell’opinione pubblica. Un siffatto risultato sarebbe particolarmente importante per un tema come l’autonomia differenziata, sul quale si è tentato fin dal primo avvio di stendere un velo di oscurità, che tuttora preclude una piena consapevolezza dei termini reali del problema. Non è un caso che non si sia mai andati oltre audizioni in commissioni di merito o bicamerali, o risposte del governo in aula. Una discussione generale su un disegno di legge avrebbe ben altra visibilità e valenza informativa. Un riscontro concreto è dato dall’approvazione in prima lettura in aula il 3 novembre 2021 dell’AS 865, disegno di legge costituzionale di iniziativa popolare recante l’introduzione nell’art. 119 della Costituzione del concetto di insularità.

Si aggiunge a queste considerazioni la introduzione da ultimo (d.l. 77/2021) della firma online, che si applica anche all’iniziativa legislativa popolare.

Va però detto che nessuna riforma testuale della Costituzione potrà mai di per sé bloccare la deriva verso la frantumazione sostanziale del paese. L’unità della Repubblica e l’eguaglianza dei diritti sono difesi anzitutto con la battaglia politica. Ma una riforma mirata del testo costituzionale può creare condizioni migliori perché quella battaglia sia vinta.

2. Perché una riforma mirata del Titolo V

Sarebbero certamente facili, e forse di maggiore impatto mediatico momentaneo, proposte radicali, come ad esempio la abrogazione dell’intero Titolo V, e il ritorno al testo originario della Costituzione del 1948. Ma non si può realisticamente pensare di cancellare venti anni di applicazione del Titolo V, che hanno cambiato in profondità gli assetti politici e istituzionali, oltre che modellato gli apparati pubblici centrali e periferici. Una proposta in tal senso sarebbe di bandiera per alcuni, ma non avrebbe concrete possibilità di essere assunta nei processi politici e nelle sedi istituzionali.

Quello che si può realisticamente fare è individuare i punti di maggiore sofferenza e pericolo per l’unità della Repubblica evidenziati già nel dibattito sul regionalismo differenziato, e poi successivamente nell’esperienza della lotta alla pandemia. Una riforma chirurgica, orientata a correggere errori manifesti, ed a prevenire danni ulteriori.

3. Su quali punti concentrare la riforma

I punti essenziali sono tre: la riscrittura dell’art. 116.3; la rivisitazione dell’art. 117, con lo spostamento di alcune materie dalla potestà concorrente a quella esclusiva dello Stato; la introduzione di una supremacy clause della legge statale.

3.1. Modifica dell’art. 116.3

3.1.1. Va anzitutto esplicitato che la diretta connessione con una specificità territoriale è requisito essenziale per la concessione di “forme e condizioni particolari” di autonomia.

Questa in realtà è la lettura corretta della norma già con il testo vigente. Basta a tal fine guardare al Titolo V in connessione con il principio di unità della Repubblica di cui all’art. 5. Nel modello generale l’art. 116.3 è norma derogatoria, che deve trovare una sua giustificazione. Ma tale lettura non è stata fin qui seguita. Le ipotesi note abbracciano un gran numero di materie a prescindere da qualsiasi connotazione territoriale, giungendo a una sostanziale decostituzionalizzazione e ad uno stravolgimento del modello ex art. 117. Il tutto in base a una trattativa tra Governo e singole regioni tradotta in un’intesa.

3.1.2. è inoltre necessario riscrivere il procedimento di formazione della legge che concede la maggiore autonomia. Attualmente si prevede l’iniziativa della regione interessata e l’approvazione con legge a maggioranza assoluta dei componenti sulla base di intesa tra lo Stato e la regione interessata.

Gli effetti conseguenti sono:

a) a stretto rigore, il riconoscimento vede come soggetto principale la Regione, che può avviare il procedimento con l’iniziativa, e può chiuderlo con l’intesa.

b) La previsione di un’intesa introduce un principio pattizio sulla maggiore autonomia, ponendo la questione dei soggetti stipulanti – il governo e la singola regione – e soprattutto del ruolo della legge che approva la maggiore autonomia in base all’intesa raggiunta. Da qui le polemiche sulle trattative semi-segrete tra ministro/a della autonomie e le regioni, e sul ruolo del parlamento, cui secondo un’opinione è riservata una mera presa d’atto, senza alcuna possibilità di incidere sui contenuti. È evidente la pericolosità di una procedura che potrebbe vedere una momentanea sintonia politica tra una o più regioni e il governo nazionale, favorevole al riconoscimento di particolari vantaggi a danno di altre regioni, anche considerando che la maggiore autonomia potrebbe comportare vantaggi anche sotto il profilo dei rapporti finanziari. Inoltre, poiché l’art. 116.3 configura una fonte rinforzata, secondo il principio generale anche la modifica del regime così introdotto andrebbe posta con il medesimo procedimento. Quindi, una regione beneficiaria avrebbe un sostanziale potere di veto su qualsiasi modifica successiva. Potrebbe essere difficile o impossibile, ad esempio, eliminare condizioni di vantaggio o privilegio in danno di altre regioni introdotte in base all’originaria intesa, qualora errate valutazioni iniziali o condizioni mutate consigliassero una correzione o un ripristino del preesistente.
Va quindi superato il modello fondato sull’intesa, da ricondurre a parere della regione interessata nell’ambito del procedimento di formazione della legge di approvazione.

d) come fonte rinforzata, la legge approvativa dell’intesa rimarrebbe anche sottratta a un referendum abrogativo ex art. 75. Va introdotto invece la possibilità di un riscontro referendario, che offrirebbe alle altre regioni e ai loro cittadini la possibilità di esprimersi su una riforma che comunque in ultima analisi li tocca. Ciò è in particolare significativo in vista di richieste di autonomia fondate su referendum nei quali si è espressa la volontà di una frazione minima del popolo italiano, che tuttavia si vorrebbe cogente per il resto del paese.
È opportuno a tal fine prevedere sia: 1) un referendum sul modello dell’art. 138 per la legge costituzionale, giustificato perché la maggiore autonomia tocca gli assetti generali del rapporto Stato-regioni; 2) un referendum abrogativo sul modello dell’art. 75, che va esplicitamente menzionato perché diversamente potrebbe incorrere nelle esclusioni derivanti dalla giurisprudenza costituzionale, per la probabile assimilazione alle leggi tributarie e di bilancio, o alle leggi costituzionalmente necessarie.

3.1.3. Non è invece utile una legge-quadro, sul modello già proposto dall’allora ministro Boccia. In primo luogo, è dubbio che una legge comunque ordinaria possa vincolare alla propria osservanza intese approvate con leggi rinforzate che potrebbero sopravvivere o sovrapporsi a quanto stabilito nella legge quadro. Inoltre, non basta collegare l’approvazione di intese all’adozione di livelli essenziali di prestazioni (Lep), che non garantiscono uguaglianza ma al più pongono a un eccesso di diseguaglianze un argine come definito con legge da una maggioranza politica pro tempore, e certamente non pongono argini alla frantumazione del paese. Un chiaro esempio è dato dai LEA (Livelli essenziali di assistenza, l’equivalente dei Lep in sanità) che non hanno certamente impedito la distruzione del Servizio sanitario nazionale.

3.2. Modifica dell’art. 117

La riscrittura parziale dell’art, 117 Cost. si mostra necessaria perché la riformulazione dell’art. 116.3 può ridurre il rischio di un’autonomia differenziata lesiva dell’unità della Repubblica, ma di per sé non esclude che a siffatte forme di autonomia si possa giungere anche sulla base del dettato dell’art. 117 oggi vigente, senza alcun ricorso all’art. 116.3. A tal fine si prospetta l’opportunità di una revisione del catalogo del riparto di competenze, e l’introduzione di una clausola di supremazia per la legge statale.

3.2.1 Revisione del riparto di competenze.

Vengono spostate dal catalogo delle competenze concorrenti di cui all’art. 117.3 all’elenco della potestà esclusiva statale ex art. 117.2 alcune materie che si ritengono strategiche per l’unità del paese. In primo luogo la tutela della salute, per ripristinare in prospettiva un servizio sanitario effettivamente nazionale, che la pandemia ha ampiamente dimostrato non più sussistente. Si aggiunge la scuola, unitamente all’università e alla ricerca, la cui disciplina uniforme è in vario modo strategica per l’unità della Repubblica. Ancora si aggiungono materie relative alla infrastrutturazione materiale e immateriale, rilevanti sotto il profilo di diritti individuali, dell’eguaglianza, e dell’efficienza complessiva del sistema-paese.

Ovviamente, l’inclusione nel catalogo delle potestà esclusive non comporta di per sé il raggiungimento di obiettivi di eguale tutela dei diritti e di perseguimento dell’eguaglianza. Questo dipenderà in ogni caso dalla disciplina che il legislatore statale adotterà, e dalle politiche conseguentemente messe in atto. Ma basterà ad impedire a singole regioni di perseguire obiettivi di diversificazione territoriale sulla base del riparto di competenze vigente. Si potrà ricordare a tal fine il proposito, espresso dai presidenti delle regioni capofila per l’autonomia differenziata, di voler giungere a una regionalizzazione della scuola anche a prescindere da un accordo sul tema dell’autonomia differenziata. Si potrà altresì ricordare che nelle bozze di intesa che hanno avuto in passato circolazione si ipotizzava la regionalizzazione di ferrovie, autostrade, porti, aeroporti, ambiente, beni culturali di primario rilievo e altro ancora.

3.2.2. Introduzione di una clausola di supremazia/salvaguardia

Uno degli errori commessi con la riforma del Titolo V del 2001 fu la cancellazione dell’interesse nazionale come limite generale nel riparto delle competenze. Non fu colta la fondamentale aporia che si introduceva nel testo, dal momento che una Repubblica una e indivisibile (art. 5) non può non legarsi strettamente a un interesse nazionale. Tale cancellazione fu essenzialmente dovuta alla censura avanzata da una parte dei costituzionalisti dell’epoca – quelli favorevoli ad una ampia regionalizzazione – all’interesse nazionale utilizzato non come limite alla legislazione regionale, ma come fondamento per una potestà legislativa statale quasi considerata extra-ordinem. Questo errato assunto fu in parte superato con l’art. 120 del Titolo V riformato e il richiamo all’unità giuridica ed economica della Repubblica, senza però cogliere la contraddizione implicita nel prevedere un limite solo per i poteri sostitutivi del governo, e quindi per ipotesi quando il danno all’unità fosse in atto o fosse già avvenuto. Essendo invece ovvia l’opportunità di prevedere un potere del legislatore statale di definire in termini generali ex ante i limiti funzionali all’esigenza di unità, in modo da prevenire il danno.
Una parziale riconsiderazione si trova ora nell’AS 1825 (Parrini-Pinotti), che qui si riprende nella sua formulazione di base nell’art. 117.1, con qualche integrazione. Si aggiunge una esplicita menzione dell’applicabilità della clausola di supremazia per le leggi regionali eventualmente adottate in attuazione dell’art. 116.3, che si potrebbero ritenere non pienamente assimilabili alla comune legislazione regionale. Altresì, per il caso che il legislatore statale non attivi la clausola di supremazia, si prevede come limite generale per la legge regionale l’interesse nazionale e l’interesse di altre regioni, limiti che potrebbero farsi valere anche in assenza di esplicita attivazione legislativa statale della clausola di salvaguardia.