La fase verista Se la prima fase è caratterizzata dalle
descrizioni di ambienti artistici e dell’alta società, la raccolta di
novelle di Vita dei campi,
sovverte le tematiche. Come voleva la corrente del Naturalismo e quella del
Verismo, Verga si rivolge alla contemporaneità, ma nei suoi strati
sociali ed umani più bassi. E’ il
mondo contadino e popolare siciliano ad ottenere la sua
attenzione. Non vi sono grandi ribalte, ma un piccolo mondo popolare e
locale. Tra le novelle spiccano Rosso
Malpelo e Cavalleria rusticana.
Se Verga racconta la realtà e lo sfruttamento delle classi povere in Sicilia
alla fine dell’Ottocento, lo fa secondo il principio d’impersonalità,
proprio dei veristi, i quali cercano di descrivere la realtà quasi senza
emozioni, ma oggettivamente. Ciononostante nel racconto di Rosso Malpelo si
coglie la pietà dell’autore verso il personaggio e il suo inevitabile
destino. Poiché secondo delle credenze popolari i capelli rossi erano
associati al male, come una bestia può vivere e, a sua volta, comportarsi,
Malpelo, ha già nel nome la triste fine che inevitabilmente farà. Egli cerca
di far riflettere il lettore su queste terribili perle di realtà. Tanto che
crea mentalmente quello che verrà chiamato
Ciclo dei vinti. In esso,
progettò la raccolta di cinque romanzi. Scrisse i primi due,
I Malavoglia, nel 1881, e
Mastro don Gesualdo, nel 1888,
mentre gli altri tre dovevano essere: La duchessa di Leyra,
L'onorevole Scipioni e L'uomo di lusso.
Nei
Malavoglia la sconfitta
arriva dalla battaglia quotidiana in cui la famiglia cerca di soddisfare
esigenze primarie, come il pane, verso un
progresso ancora allo stato
elementare. L’aspirazione alla promozione sociale, è alla base di
Mastro don Gesualdo, il
quale, dopo aver migliorato la condizione economica, cerca ipotetiche
scalate grazie ad un matrimonio combinato.
A Verga si deve la
creazione di un Teatro Verista. Non soltanto sceneggiò alcune novelle (ad
esempio, Cavalleria rusticana e La lupa),
ma scrisse direttamente opere teatrali, come In portineria e Dal
tuo al mio. Nel 1905, dal dramma Dal tuo al mio,
scrive un romanzo di tipo sociale,
dove si riflettono le nuove teorie del Movimento Operaio. L’emblematicità
sta nell’impostazione: un sindacalista operaio che, con il matrimonio
con la figlia del padrone, si trova, sia economicamente che socialmente,
dalla parte tanto avversata
Giovanni Verga: pessimismo o fatalismo?
Seguendo una specie di darwinismo sociale, Verga descrive la
realtà sociale dell’epoca delle classi sociali più svantaggiate, non per
denunciare (come faceva il suo contemporaneo Emile Zola), ma per prendere
atto della presenza immodificabile del Male nel mondo. Secondo quasi una
legge della selezione naturale
animale, anche per l’uomo esiste la legge del più forte (Hobbes: "homo
homini lupus"). Scrivendo
impersonalmente dei vinti, la sua diventa un’osservazione lucida di
un vero crudele ed immodificabile. E’ il pessimismo verghiano: non ci sono
alternative possibili, come sentenzierebbero i latini, dura lex sed lex.
Questo pessimismo spinge Verga
alla critica della società borghese, ma anche alla sfiducia verso
ogni tentativo di lotta o progresso. Neppure la creazione di uno Stato
unitario e legiferante e le nuove teorie socialiste, portano al superamento
del pessimismo. Per Verga la lotta quotidiana vige in tutta la sua crudeltà,
soprattutto tra le classi sociali più povere La rassegnazione cosciente
delle classi popolari, così bene descritte, che accettano il proprio
destino, e che per questo posseggono saggezza e moralità, scaturisce da
quella mentalità, così siciliana, profondamente tradizionalista e fatalista
sulle cose della vita.
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