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Precettore dei nipoti dell’imperatore Domiziano, Quintiliano vive nei primi anni dell’Impero (I secolo d.C.). Con la caduta della Repubblica e l’inizio dell’età imperiale, la retorica aveva perso la sua funzione politica, pur mantenendo le sue qualità didattiche. Nella sua Institutio oratoria, Quintiliano ribadisce le potenzialità educative della disciplina e le regole da seguire per la giusta formazione dei giovani romani. Come Cicerone, anch’egli affronta la problematica del rapporto tra retorica e filosofia (anch’essa nello spettro formativo). Evitando una scelta tra l’una e l’altra, Quintiliano propugna l’eloquenza, cardine che porta ad ottenere giovani cittadini onesti ed eticamente fermi.
Sempre nell’Institutio, Quintiliano sviluppa alcune valutazioni sia sulla retorica che la composizione. Tra l’altro prende in esame:

la suddivisione delle categorie del discorso;
le cinque fasi compositive (inventio, dispositio, elocutio, memoria, actio);
le qualità morali e culturali che deve possedere un buon oratore;
il rapporto tra retore e politici.

Contemporaneo a Quintiliano, I secolo d.C., è il trattato Sul sublime. Il suo autore ci è sconosciuto, ed, infatti, viene denominato l’Anonimo del Sublime. Si è ipotizzato (come riportato da alcune fonti) che sia Dionisio oppure Longino; altri lo identificano con Cassio Longino, sofista del III secolo, ma è una attribuzione dubbia.
Il trattato si occupa dei tre stili retorici: sublime, umile e medio (al centro del dibattito che si svolgeva in quel tempo). La preferenza dell’Anonimo va al primo: il sublime, sostenuto in tutto lo scritto e da cui prende il titolo. L’autore si basa concettualmente sulla filosofia platonica, che individuava l’essenza della poesia e dell’oratoria nel pathos. Superando quell’utilità sociale che proponevano stoici e aristotelici, l’Anonimo teorizza l’eccezionalità, che si ottiene solo con la passione e la fantasia di un oratore dal grande animo. A suo dire solo il sublime «trascina gli ascoltatori non alla persuasione ma all’estasi», perché ciò che è comune e alla portata di tutti non sorprende, mentre il sublime, nella sua travolgente espressività, domina qualsiasi spettatore con il suo potere unico.
Le cinque componenti del sublime sono: la capacità mentale di pensare in grande, una passionalità forte ed ispirata, la costruzione di particolari figure, uno stile nobile, l’uso di parole solenni ed elevate. Mentre le prime due sono congenite, le altre tre si possono ottenere con la tecnica e l’esercizio continuo. Se il pathos è di per sé irrazionale, l’Anonimo non propugna per questo l’irrazionalità. Anzi, nel suo trattato trova posto una precettistica specifica e attenta, con norme da seguire e tecniche da applicare. Ciononostante egli ribadisce che senza la passionalità, che trasfigura il discorso, scarse sono le possibilità di raggiungere il sublime. Ne nascerebbe un oratoria troppo legata alle norme stilistiche, non in grado di superare la diffidenza e il senso di artificiosità.

Nel secolo successivo, la retorica giunge al suo capolinea. Nasce la Seconda Sofistica (la denominazione è di Flavio Filostrato). Se nella nuova corrente si cercava di far rinascere lo splendore della prima Sofistica (del V secolo a.C.), poiché non erano più trattati né i temi politici né quelli etici, ci si racchiuse nell’esercizio della retorica. I generi letterari in cui operarono erano diversi: si passa dai trattati fino a scritti di puro intrattenimento, e poi dialoghi, novelle e opere satiriche. Il tutto con un atteggiamento piatto e passivo, sia nei confronti del pubblico, che veniva assecondato nei gusti, sia nei confronti del potere costituito, a cui, anzi, si chiedevano favori e privilegi, il tutto alla pura ricerca del successo.
Priva di ricerca e di forza concettuale, la seconda Sofistica s’impantanò nella sterilità della pura tecnica, non avendo molto d’altro da proporre.



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