Come Orione, costruire la città della città

 

L’AREA FALCATA rappresenta uno degli ambiti più critici di Messina. Vi si concentrano tutte le incoerenze che nel tempo hanno caratterizzato questo sito di fondamentale importanza. Le strutture, tra mito e storia, hanno sempre svolto funzioni integrative di quelle urbane. Funzioni particolari: religiose, cimiteriali, sanitarie, difensive, militari, produttive, economiche, portuali e ovviamente di collegamento fra le due sponde dello Stretto. Gli ultimi interventi industriali dismessi hanno provocato fenomeni di marginalizzazione tangibile. Per fronteggiare tale situazione nel recente passato la Soprintendenza ha incaricato il prof. Massimo Lo Curzio di redigere un progetto per la realizzazione del Centro di Documentazione Arti Contemporanee (CDAC), con l’idea di recuperare e valorizzare ciò che rimane della Real Cittadella. È noto che il finanziamento regionale, accordato per un importo di oltre 11 milioni di euro, è andato perduto. Qualcuno nel backstage ha macchinato contro ma è possibile recuperare e rilanciare il progetto, ha evidenziato il presidente dell’Ars Giovanni Ardizzone alla conferenza promossa dal Kiwanis Club di Messina, presieduto dal prof. Cosimo Inferrera. La realizzazione di un Master Plan propositivo sulla Zona Falcata, sarà l’impegno che il Club ha preso per l’autunno e ha affidato il coordinamento del tavolo tecnico all’arch. Vittorio Potestà. Restauro, conservazione, servizi attinenti alle attività pubbliche e culturali, punteranno a considerare la massima fruizione della Falce, dando vita ad una «città… della città». Sarebbe un modo per riscattare – partendo come Orione dal suo luogo identitario – anche una Messina senza più un’anima, che questo luogo ha sempre negato.

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La lingua sciatta della consuetudine

 

SULL’ORATORE. Quanti approdano a Messina, ricevono la benedizione della Madonnina del porto: «Vos et ipsam civitatem benedicimus». Ma pochi di loro sanno che la Vergine parla la lingua della Chiesa e non quella di Cicerone. Lo studente del Classico sa, invece, che il verbo “benedire” regge il dativo e che la sua professoressa correggerebbe “vos” con “vobis”. Lo stesso studente ha imparato che quello insegnato nei licei è il “latino letterario”, che persino Dante usava maldestramente se Petrarca lo bacchettava a dovere. Adoperava il latino della “consuetudo”, che burocrazia, giurisprudenza, scienza, continueranno ad utilizzare. Cioè il latino della “rusticitas”, la rozzezza del campagnolo; mentre Cicerone promuoveva la lingua della città che nella sua “urbanitas” addensava le regole della Roma repubblicana. «Caratteristiche precipue di questo “latino nuovo” sono la regolarità, l’uniformità ortografica, la chiarezza semantica e la complessità sintattica, la cosiddetta ipotassi, in cui il congiuntivo la fa da principe e gli utilizzi di questo sono dettati da criteri convenuti». Chi parla è Nicola Gardini, docente di Letteratura comparata a Oxford. Con “Viva il latino”, spiega come tale lingua, non più parlata, sia testimoniata da una miriade di manoscritti quanto di testi a stampa. Permane nella forma scritta, quella più elaborata e monumentale, «più durevole del bronzo» (Orazio). Per cui, Dante non avrebbe concepito “La Commedia” senza Virgilio e Machiavelli i “Discorsi” senza Livio. Nel “De Oratore” Cicerone affermava: «La lingua deve portare luce alle cose». Scopriremmo quanto è scritto sulla vanità. Impareremmo a misurare le parole e non ci sogneremmo di blaterare a sproposito. Vero Di Maio?

 

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