L’insostituibile apporto dei giovani alla cultura

 

I volontari. A furia di adoperarsi gratuitamente si è loro sdilinquito lo stomaco. Sono sempre pronti quando le Istituzioni varano iniziative culturali edificanti e i giornali ne decantano la magnifica riuscita. Tuttavia, nonostante ogni contributo stanziato, ai volontari non va mai il becco di un quattrino. Per definizione aderiscono gratuitamente. Lo fanno per conquistarsi una “visibilità”, labile quanto il durare del giorno di festa. Ecco allora un’alternativa geniale: ricorrere a studenti e stagisti al fine di far loro acquisire la pratica necessaria ad un’attività professionale ancora tutta da acquisire. Al di là della prestazione, desteranno comunque simpatia. La presenza dei giovani è, dunque, basilare. Benché ministro, assessore, via via fino all’ultimo usciere, uno stipendio lo portano pur sempre a casa, ai giovani rimane soltanto una pacca sulla spalla, perché «loro sono il nostro futuro». Un leitmotiv che piace tanto. Ha una sua verità, ma il perdurare dell’inamovibile realtà delude ogni aspettativa, producendo giovani sempre più frustrati e progressivamente riluttanti. Senza speranza non potranno dare nulla: né a sé stessi né agli altri. Alla faccia del decantato “Sistema cultura”. Eppure il patrimonio esistente, unito agli investimenti da erogarsi per tutelarlo e salvaguardarlo, può incentivare attività grazie alle quali fare espletare ottime competenze. La politica preferisce, invece, sfruttare la cultura a scopo d’immagine e le Associazioni per raccogliere fondi e donazioni da investire prevalentemente altrove. Se però è vera la definizione che il volontariato è la prestazione gratuita di opere e mezzi disponibili, «a favore di categorie di persone che hanno gravi necessità e assoluto e urgente bisogno di aiuto e di assistenza» (Treccani), c’è da chiedersi: “bisogno e assistenza” a chi? Alle Istituzioni?

Pubblicato su 100NOVE n. 42 del 2 novembre 2017

Riscoprire a Messina qualcosa di speciale

 

Questo è il FAI, quando «racconta un Paese che ha scelto di prendersi cura concretamente del suo patrimonio più prezioso: il paesaggio, l’arte, la cultura e la natura d’Italia». Partecipare alla giornata FAI d’autunno a Messina ha significato rivedere il Catasto e la Biblioteca Giacomo Longo con occhi diversi. Sono aperti ogni giorno lavorativo, ma domenica 15 si poteva capire come le Istituzioni possano essere amichevolmente vicine: restituendo il senso della cittadinanza, senza retoriche e infingimenti; facendo comprendere le tante energie positive e il lavoro che con passione all’interno di questi palazzi si svolge; presentando i documenti del territorio e le gemme della secolare cultura cittadina. Secondo l’uso educativo del FAI i giovanissimi hanno contestualizzato, nelle vicende della Cortina del Porto, l’edificio del Catasto. In quest’opera novecentista Giuseppe Samonà e Guido Viola «hanno voluto contrapporre alla orizzontalità caratterizzante la massa di tutto l’edificio e dell’intera palazzata, un torrione terminale sulla piazza del Municipio». Si legge così, nel luglio del 1940, su “Architettura”, la rivista del sindacato nazionale fascista degli architetti, diretta da Marcello Piacentini. Nel “salone dei rapporti” – dove campeggia un discorso del Dux, 7 x 7 mt in travertino chiaro – è stata allestita una mostra di triangolazioni grafiche, mappali, planimetrie di piazze e isolati storici, strumenti di rilevamento. Le pubblicazioni sul Catasto erano invece esposte nella sezione periodici della Biblioteca. Non solo, perché lo straordinario patrimonio cartaceo in mostra spaziava dai codici miniati del San Salvatore alle monografie della collezione Messano-Calabrese. Emozioni pure, perché in giornate come questa FAI tua la consapevolezza che sia possibile una società migliore di quella che abitualmente viviamo.

Pubblicato su 100NOVE n. 41 del 26 ottobre 2017

Nostalgia della “piazza S. Martino” di un tempo

 

Michelopoli. Ci sono convention accolte con enorme favore di popolo, che riportano la memoria ad anni tanto lontani da ritrovarli soltanto sui libri di storia. Piazza Cairoli in baracca ricorda i giorni del bisogno. Quando il 16 febbraio del 1909 l’onorevole Micheli annota sull’ultimo numero di “Ordini e notizie” che «tutto sta per rientrare nelle condizioni normali», l’emergenza è ormai trascorsa, ma le sorti di Messina sono ancora da prevedere. Come oggi. Tra la baraccopoli provvisoria – che l’onorevole Giuseppe Micheli, deputato parmense, ha eretto in “piazza S. Martino” – e i primi alloggi della città definitiva del piano Borzì, passeranno non meno di 20 anni. Si dovrebbe scrivere la storia di una città di legno che fece da connessione tra la Messina del passato e quella della rinascita. Transitoria sì, ma col carattere pressoché stabile, che grande influenza ebbe sull’assetto futuro: con strade ortogonali, isolati, alloggi per la residenza e padiglioni speciali per uffici pubblici e scuole. Certo per chi ha vissuto i giorni dell’emergenza l’immagine della città «piena di baracche nuove, belle, allineate» rinfranca l’animo e il ricordo dei ricoveri di fortuna allestiti con materiali di recupero può suscitare persino la nostalgia nel rievocare i momenti trascorsi. Scrive uno dei soccorritori: «Chi potrà dimenticare quei primi giorni meravigliosi nei quali si dibatteva l’avvenire di Messina, la cui vita debole e quasi spenta palpitava intorno ai pochi fuochi di piazza S. Martino? Sotto l’acqua torrenziale rincasavamo stanchi a tarda sera e dopo l’unico pasto pareva soffice anche la terra». Sentimenti poetici, come quelli suscitati in chi gusta un arancino nella grande festa gastronomica di oggi, tra aromi e sapori. Ma nonostante ogni impegno, la scenografia ha richiamato (purtroppo) la “piazza S. Martino” di un tempo.

Pubblicato su 100NOVE n. 40 del 19 ottobre 2017

 

Bisogna ascoltare con rispetto chiunque

 

Ogni tanto prendo una boccata d’ossigeno e torno sulle pagine di studiosi eccelsi, di quei punti focali di riferimento che mi hanno aiutato a ragionare sul mondo, suscitando in me continue sorprese. Un po’ come è capitato quest’oggi, riprendendo per caso di Eco quel delizioso libro su “Come si fa una tesi di laurea”. Una sua considerazione mi ha sempre irretito: «Ho imparato che se si vuole fare ricerca non bisogna disprezzare nessuna fonte, per principio». All’epoca le tesi si redigevano diteggiando sui tasti delle macchine da scrivere. Si memorizzavano brani con schede di lettura cartacee. I libri si consultavano persino nelle Biblioteche più sperdute o potevi rinvenirli anche nei mercatini. Come accadde ad Eco, che imparò l’umiltà scientifica, acquistando a Parigi su di una bancarella “L’idée du Beau dans la philosophie de Saint Thomas d’Aquin”, pubblicato a Louvain nel 1887 da uno sconosciuto abate Vallet: «un poveretto, che ripeteva idee ricevute e non aveva scoperto nulla di nuovo». Eppure, enunciata in modo marginale, distrattamente, e forse senza neppure comprendere l’importanza dell’asserzione, l’abate fornì al giovane Eco la chiave per superare lo scoglio interpretativo della sua tesi che lo aveva fatto arenare da tempo. L’aneddoto ha un seguito. Eco trasecolò, oltre vent’anni dopo, quando riprese quel libricino che lo aveva illuminato. L’abate Vallet non aveva mai formulato la notazione attribuitagli. Raccontava con stupore: «Era accaduto che leggendo Vallet (il quale parlava d’altro), e stimolato in qualche modo misterioso da quello che lui stava dicendo, a me era venuta in mente quell’idea e, immedesimato come ero nel testo che stavo sottolineando, ho attribuito l’idea a Vallet». Certe Chiavi Magiche, a volte, ce le fabbrichiamo da soli, quando sono così intense talune letture da diventare un dialogo irreale.

Pubblicato su 100NOVE n. 39 del 12 ottobre 2017

 

La rosa dei venti del Mediterraneo

 

SabirFest, giunto alla IV edizione, inizia oggi e finisce l’otto ottobre. Quattro giorni intensi di manifestazioni disseminate tra Messina, Catania, Reggio Calabria, per far germogliare un seme: il “Manifesto per la cittadinanza mediterranea”. Sarà proposto alla discussione in SabirMaydan, la piazza nella piazza, per ripensare nuove forme di cittadinanza, per superare vecchie e nuove ingiustizie, vecchi e nuovi pregiudizi. Quest’anno l’headline della manifestazione è “Io sto con SabirFest”. Stare dalla parte di SabirFest significa pensare finalmente al Mediterraneo come casa comune, significa stare dalla parte del nostro futuro, perché il Mediterraneo è il nostro futuro. Manco a dirlo, giacché da tempo immemorabile – focalizza Fernand Braudel – nell’universo del Mediterraneo «il plurale ha sempre il sopravvento sul singolare: esistono dieci, venti, cento Mediterranei, e ognuno di essi è a sua volta suddiviso». Grandi contrasti hanno perennemente spezzato l’immagine unica di questo mare, che da sempre è il cuore del Vecchio Mondo. Il Sabir, la “langue franque ou Petit mauresque”, ha cercato di colmare a suo modo il divario, almeno fra la gente di porto e i marinai. Ma ancora oggi la gente vuole parlarsi, per capire flussi e riflussi, e trovare il “legame naturale” fra le proprie culture differenti nate però sulle sponde dello stesso mare. Conoscenza, libertà, solidarietà, diritti, saranno infatti i punti cardinali di una nuova rosa dei venti, grazie alla quale orientare il viaggio in queste quattro giornate. Un programma articolato di appuntamenti con scrittori, registi, giornalisti, artisti, di diverse nazionalità. E poi libri – tanti ne raccoglie la mostra-mercato di SabirLibri – e incontri, e laboratori, cinema, teatro, musica per un pubblico di tutte le età. All’insegna della sacra ospitalità mediterranea.

Pubblicato su 100NOVE n. 38 del 5 ottobre 2017

 

Strumenti culturali per comprendere la realtà

 

Mandanici è il luogo dove a settembre, per input di “Archetipi e territorio, osservatorio di antropologia cognitiva”, confluiscono numerosi studiosi afferenti ad aree del sapere obiettivamente distanti. Sono chiamati a sviscerare un tema, nella settima edizione incentrato su “Mediterraneo Europa Occidente, nuovi scenari, immaginario e destino”. Chi ha organizzato e coordinato la connessione fra saperi, in tre giorni d’intense esposizioni, è Pino Mento: «La vera conoscenza di un “territorio” – puntualizza – dovrebbe sempre tendere ad una “esplorazione cognitiva delle memorie” dalla quale possa emergere una nuova coscienza collettiva dell’abitare e attraversare i luoghi, non solo in senso fisico ma anche in senso spirituale, immaginario, metafisico e simbolico». Ecco, allora, che discipline differenti tendono a convergere su principî comuni. Questa intesa è stata concettualmente definita da Jean Piaget come “interdisciplinarità”, poiché dà seguito «a interazioni vere e proprie, a reciprocità di scambi, tali da determinare mutui arricchimenti». Cito di Piaget “L’épistémologie des relations interdisciplinaires” dal momento che il termine è ormai entrato nel frullatore delle parole abusate, confuso in un tutt’uno con multidisciplinarità, pluridisciplinarità, transdisciplinarità. Sinonimi? Vale distinguere. Multidisciplinarità e pluridisciplinarità evidenziano una presenza concomitante di discipline senza relazione alcuna la prima e un accenno la seconda. A Mandanici, invece, i 50 studiosi convenuti hanno tentato di superare i limiti delle proprie conoscenze specialistiche per guardare l’uno con gli occhi dell’altro. La transdisciplinarità? Sarà il traguardo dei prossimi anni; non soltanto sui Peloritani. Le diverse discipline avvieranno una coordinazione complessa tralasciando origini distinte a vantaggio delle soluzioni.

Eccovi Messina città senza veli

 

Le vie dei Tesori quest’anno si possono percorrere anche da noi. A Palermo sono apprezzate già da dieci anni. Pertanto, grazie al volenteroso assessore Carlo Vermiglio al quale la commedia politica non ha concesso di giungere alla scadenza naturale del mandato; grazie a tutta la Soprintendenza di Messina, a Orazio Micali soprintendente, a Mirella Vinci responsabile del procedimento; grazie soprattutto ai volontari che spendono tempo e competenze a vantaggio dei visitatori di questa città che, malgrado le sciagure, di tesori ne ha tanti per comprovare la propria identità. «Devastata dal terremoto del 1908 è rinata spezzata, dolente, ma ancora viva»: si legge così nel dépliant illustrativo dove sono elencati i 28 monumenti da visitare. Rievocano il vecchio tessuto all’interno del nuovo, che dopo un secolo tanto nuovo non è più. Sapete cosa c’è di buono in tutto questo? Che per due weekend il cuore di Messina batte all’unisono e tutti avvertono di vivere flash di memorie che appartengono anche alla propria storia personale allacciata a quella collettiva. Da Montalto o dai Forti lo sguardo spazia sullo Stretto e ti domandi perché non venirci più spesso. Torni al MuMe per esplorare in un dipinto i tratti di pennello e fissare negli occhi i guizzi di luce su di un panneggio. Entri nelle chiese del circuito ammirando gli altari delle navate laterali tralasciati duranti i riti domenicali. Approfitti per visitare villa Cianciafara o De Pasquale o Sanderson, e rammentare poi che una miriade di altre ville coronano la città. Ascolti nel Rifugio Cappellini il rintronare delle fortezze volanti che nel ’43 hanno reso Messina una città fantasma. E finalmente pensi che non puoi lasciare che tutto questo possa andare perduto per disinteresse, se non fosse per poche, pochissime, pregevoli persone che questa città la amano davvero.

Pubblicato su 100NOVE n. 36 del 21 settembre 2017

Niente più reazioni, né tantomeno azioni

 

Una conferenza-dibattito, quella tenuta al Monte di Pietà su “La pratica dell’arte contemporanea a Messina”. L’excursus di Daniela Pistorino, presidente Anisa Messina e storica dell’arte, ha evidenziato i protagonisti e i momenti più significativi succedutisi sul palcoscenico locale dagli anni ‘50 ad oggi. Angela Pipitò ha illustrato l’attività della GAMeC “Lucio Barbera” della Città Metropolitana. Ma il compito del “provocatore” è spettato a Carmelo Celona, direttore della GAMM al PalaAntonello. Ha posto interrogativi e scosso coscienze. Se l’arte è l’espressione di un’epoca – ha domandato ai numerosi artisti presenti – quanto risente la vostra arte del luogo Messina o quanto lo ha condizionato? Ed inoltre – posto che, come diceva Camus, «l’arte contemporanea è tale se sceglie la morale ed esilia la bellezza»; di più: «L’arte dovrebbe darci l’ultima prospettiva della rivolta» – l’arte prodotta oggi da questa città, in questo scenario (sociale, civile, urbano e politico, generale e locale) fortemente disimpegnato, quale prospettiva di denuncia, di verità e di ribellione, rappresenta? Se, ancora con Camus, «l’arte interpreta il cambiamento e genera mondi nuovi, nuovi mondi di senso», cosa hanno generato le esperienze espressive dei contemporanei messinesi? Gli interventi, sicuramente disarmanti, non hanno fatto che confermare quanto critici come Baudrillard, Daney, Débray, prospettano nei loro studi sul crescente scollamento fra realtà e arte. È l’età proliferante di simulacri svincolati dai loro referenti. S’è posto fine alla rappresentazione, scegliendo un’arte fondata piuttosto sul rapporto di alterità rispetto alla realtà. La grammatica e la pragmatica della visione artistica hanno trasformato lo sguardo sulla realtà in un’immersiva “modalità dell’ascolto”. Non ci sono più reazioni, dunque. Né tantomeno azioni.

Pubblicato su 100NOVE n. 35 del 14 settembre 2017

Lavorare sulla cultura senza inseguire il gusto

 

C’è bisogno di cultura. Cosa intendere? L’ultima volta che sono stato a Pisa, nel museo dell’Opera del Duomo eravamo quattro persone; ma dalle finestre vedevo brulicare nella Piazza dei Miracoli migliaia di visitatori presi a scattare foto nella posa spassosa di “sorreggere” la Torre pendente. Sto parlando di una città icona del turismo internazionale. Quale cultura, dunque? Personalmente sono per una conoscenza democraticamente diffusa. So bene che pochi fra quei vacanzieri sono interessati al tema dell’arcata cieca nell’architettura del romanico pisano; ma compito di chi si occupa di cultura non è nascondere la complessità del sapere, ma comunicarlo in modo semplice e interessante. Ho trascorso un bel pomeriggio con mio figlio a discutere sull’approccio ai problemi intricati escogitato da Richard Feynman quando era studente a Princeton. A volte la cultura è considerata pure noiosa. Benedetto Croce, in un saggio sui Teatri di Napoli, racconta di quel gesuita settecentesco che mentre predicava in piazza si vide sottrarre ascoltatori dalla comparsa di un Pulcinella. Ricorrendo anche lui a frizzi e lazzi da commedia dell’arte, il predicatore riuscì di nuovo ad attrarre il pubblico che via via stava dileguandosi. Croce non dice se il religioso abbia continuato poi a far riflettere sulla vita e sulla morte. Perché l’importante è non smarrire la linea dell’orizzonte, nel tentativo di calcare la scena a favore del pubblico. La cultura è sempre edificante. Ecco perché all’Entertainment è preferibile l’Edutainment, cioè quel trattenimento educativo che suole richiamarsi all’espressione latina “ludendo docere”, insegnare giocando. Divertire sì, non mancando di seminare e raccogliere frutti, come vuole l’etimologia della parola “cultura”. Conservare sementi. Sempre più. Per dare valore al presente e proiettarlo nel futuro.

Pubblicato su 100NOVE n. 34 del 7 settembre 2017

Da noi la villeggiatura potrebbe continuare

 

L’estate, dove l’avete trascorsa? A Leros nel Dodecanneso o alle Eolie? Avete imboccato i tornanti per Sarmizegetusa, capitale della Dacia o quelli che portano a Novara di Sicilia? Avete preferito il clima nordico dell’Estonia, del Baltico, della Scozia? Oppure siete andati alla ricerca di Kallipolis? Non Gallipoli, nella provincia di Çanakkale, sullo stretto dei Dardanelli e neppure Gallipoli in provincia di Lecce. Kallipolis in provincia di Messina, nell’entroterra della Valle dell’Alcantara in quel di Francavilla. A leggere le Storie della Sicilia scritte da Holm o da Freeman, la rammenteremmo. Così come ad ascoltare Maria Costanza Lentini o Giuseppe Restifo nell’incontro promosso dal Circolo Legambiente Taormina/Alcantara nell’ambito della campagna nazionale Salvalarte. È vero, c’è complementarietà tra fonti archeologiche e documentali. Ma anche col paesaggio o con le acque dello Jonio navigato da Teocle lungo la costa ubertosa che accolse la prima colonia greca di Sicilia. Chiamarono la nuova terra “Bella città”, questo significava Kallipolis nella lingua dei Calcidesi salpati dall’isola di Eubea. La fondazione risale al 734 a.C. e al 403 a.C. la distruzione, allorché Ippocrate di Gela fece guerra ai centri ionico-calcidesi della Sicilia orientale. Annientò la città e ne cancellò il nome dalla memoria. Ora che la temperatura tende a mitigarsi, è stagione ottimale per visitare gli scavi a Francavilla di Sicilia nel Parco archeologico di Naxos. Un Parco diffuso, a tutela di un comprensorio storico esteso tra Naxos, Taormina e Francavilla, un tempo così collegate da rappresentare una sola grande città: proprio Kallipolis. Nell’Antiquarium sono custoditi i suoi reperti e descritte le fasi dei rinvenimenti nella campagna di scavi condotta da Umberto Spigo. A volerlo, da noi la villeggiatura potrebbe continuare.

Pubblicato su 100NOVE n. 33 del 31 agosto 2017