Alphonse Mucha – Idealizzò a simbolo erotico l’immagine femminile

di Sergio Bertolami

28 – Il fascino fatale della femme fin-de-siècle

Quando si parla di Art Nouveau, spesso la mente corre alle leggiadre fanciulle ritratte da Alphonse Mucha, ragazze adorabili di delicata sensualità e fantasia, dai capelli boccolosi mossi dal vento, con camicie lunghe e svolazzanti, avviluppate in intrecci floreali. Questo perché Mucha è stato, da sempre, uno dei personaggi simbolo del nuovo stile e del clima parigino fin-de-siècle. Essendo, però, un convinto patriota cecoslovacco, forse si sarebbe risentito di essere considerato un “parigino” e forse anche di essere identificato soltanto per una fase della sua carriera. Capita spesso agli artisti, ecco perché non amano essere catalogati: le correnti per loro natura hanno limiti sempre troppo definiti. Alphonse Mucha, moldavo di nascita (Ivančice 1860), trascorse gli ultimi anni di vita, lavorando a quello che considerava il suo capolavoro d’arte, L’epopea slava (Slovanská epopej), venti enormi dipinti raffiguranti la storia dei popoli cechi e slavi che donò alla città di Praga nel 1928. Eppure, queste opere, sotto il profilo artistico furono criticate e sotto quello politico vennero denunciate dalla stampa, ubriacata dall’ondata crescente del nazismo, come “reazionarie”. Così quando le truppe tedesche occuparono la Cecoslovacchia, nella primavera del 1939, Mucha fu tra i primi ad essere arrestato e interrogato dalla Gestapo. I giorni di prigionia lo fecero ammalare di polmonite e, sebbene fosse stato rilasciato, il 14 luglio 1939 morì. Nei suoi ultimi anni, Mucha s’era infervorato di nazionalismo e aveva ripreso lo stile storicista considerato da molti ormai obsoleto, tanto lontano dall’arte floreale che lo aveva portato al successo.

Jiri Mucha, Alphonse Maria Mucha: His Life and Art, 1966

Suo figlio, il giornalista Jiri Mucha, gli ha dedicato molti articoli, per riportare l’attenzione sulle opere col tempo trascurate, e quando durante gli anni Sessanta del secolo scorso s’è finalmente risvegliato un interesse generale per l’Art Nouveau, in un libro ne ha celebrato la figura artistica a tutto tondo (Alphonse Mucha: his life and art, 1966). Secondo jiri, Mucha «quando ancora gattonava sul pavimento prima che imparasse a camminare, sua madre gli legava una matita al collo con un nastro colorato in modo che potesse disegnare. Ogni volta che perdeva la matita, iniziava a urlare». Chissà mai se questo preludeva davvero al grande artista. Di tali amenità a posteriori se ne leggono tante. Fatto sta che, ormai cresciuto, mentre si guadagnava da vivere come impiegato, continuava ancora a disegnare, da autodidatta. Nel 1877 tentò senza successo di entrare all’Accademia di Belle Arti di Praga. Ripiegò in qualcosa di simile un paio d’anni dopo, rispondendo ad un annuncio della ditta viennese Kautsky-Brioschi-Burghardt, che cercava disegnatori e artigiani per allestire scenografie teatrali. Qualcuno ricorderà la prima attività di Klimt; come lui anche Mucha prese a dipingere seguendo l’arte acclamata di Hans Mackart. Quando nel 1881, il Ringtheater, dove la ditta stava lavorando, fu ridotto in spezzoni ardenti, uccidendo 449 persone, il giovane disegnatore perdette il lavoro.

Paul Gauguin suona l’armonium
nello studio di Alfons Mucha
in rue de la Grande-Chaumière, Parigi, 1895 circa

Non gli rimase che fare l’artista di strada nella piccola città ceca di Mikulov, alloggiando all’Hotel Lion, un alberguccio a buon mercato. Si sosteneva con qualche veduta del paese, qualche ritratto di persone del luogo, in mostra nella vetrina di un negozio. Di quei giorni Alphonse Mucha raccontò, a suo figlio jiri, un aneddoto divertente (per noi): «Ho raffigurato il volto di una bella donna e l’ho portato a Thiery, il negoziante, che lo ha esposto in vetrina. Poi ho cominciato ad aspettare con ansia il denaro. Quando per due e anche tre giorni non ci furono notizie di Thiery, andai a chiederglielo io stesso. Il buonuomo non fu affatto contento di vedermi. La popolazione di Mikulov era indignata e lui aveva dovuto tirare via il dipinto dalla vetrina. La giovane donna che avevo raffigurato era la moglie del medico locale, e Thiery aveva messo un avviso accanto al ritratto scrivendo: «Per cinque fiorini all’Hotel Lion». Lo scandalo fu debitamente spiegato e alla fine l’equivoco funzionò a mio vantaggio. Tutta la città ora sapeva che all’Hotel Lion avrebbe potuto incontrare, non la signora del ritratto, ma un bravo artista. Nel corso del tempo, ho dipinto l’intero quartiere, tutti gli zii e le zie di Mikulov». L’aneddoto gustoso di per sé, è indicativo anche per altri motivi. Il primo fu che schizzi, disegni, dipinti di Mucha, riscossero evidenti consensi da parte della popolazione di Mikulov. Una popolazione non certo raffinata culturalmente, né incline ad accettare proposte pittoriche inconsuete. Mucha si manteneva opportunamente all’interno dei confini prescritti dall’arte accademica. Accadde tutt’altro a Gauguin col quale Mucha per un po’ dividerà lo studio parigino nel 1893, quando gli scatterà una foto spassosa, in cui il pittore senza pantaloni suona l’harmonium. In Bretagna – molti lo ricorderanno – Gauguin dipinse La Belle Angèle (1889), albergatrice a Pont-Aven, una delle donne più belle del paese. Quando alla fine le mostrò il lavoro, la donna esclamò «Che orrore!» e gli disse che poteva benissimo tenerselo. Gauguin, in quell’occasione, aveva deciso di «osare tutto», applicando le soluzioni intraviste sulle stampe giapponesi, Mucha non aveva ancora osato niente. Tant’è che quel suo operare convenzionale e accademico gli valse l’incontro col primo dei suoi mecenati, il conte Khuen Belassi, che lo invitò ad abbellire con affreschi – in verità pannelli decorativi realizzati fuori opera – la sala da pranzo nel nuovo castello di Emmahof vicino a Hrusovany. I dipinti non esistono più, distrutti negli ultimi giorni della Seconda guerra mondiale. Quando gli affreschi di Emmahof, furono terminati, il conte Khuen cedette Mucha a suo fratello, il conte Egon, che viveva nel castello avito di Gandegg in Tirolo. Qui si verificò il primo vero salto di qualità, perché, se è vero che Mucha aveva perso l’occasione di frequentare i corsi all’Accademia di Belle Arti di Praga, ora il conte Egon gli offriva di studiare a Monaco di Baviera. Ritroviamo Monaco nelle biografie di molti artisti: Corinth, Kandinsky, von Jawlensky, Klee, de Chirico. Solo che quando vi giunse, Mucha era troppo in anticipo, per la Secessione di Monaco mancavano sette anni. Con una seconda serie di affreschi a Emmahof, il conte Khuen lo compensò generosamente chiedendogli di scegliere tra Roma o Parigi. Scelse Parigi e fu la sua fortuna. Non tanto perché entrò all’Académie Julian e proseguì all’Académie Colarossi – ambienti dove fece amicizia con molti membri dei Nabis – neppure perché conobbe l’arte giapponese dilagante e neanche perché visse la città fremente in vista della mostra dell’anno 1889, quella che avrebbe celebrato i cento anni dalla Rivoluzione francese e si sarebbe imposta agli occhi del mondo con la sua simbolica torre Eiffel. Fu la sua fortuna perché non tutti i mali vengono per nuocere: alla fine del 1889, improvvisamente e senza preavviso, il conte Khuen interruppe il suo sostegno finanziario e il giovane dovette inventarsi l’arte della sopravvivenza.

Pannelli murali decorativi al castello di Hrušovany Emmahof

Per un grafico, fantasioso come lui, non era poi difficile trovare lavoro in una Parigi con un’attività commerciale stimolata dall’Esposizione Universale. Cominciò a guadagnarsi da vivere modestamente, come illustratore per varie riviste e libri. Fino ad allora Mucha aveva, però, seguito le indicazioni e le richieste dei suoi committenti. All’inizio del 1890 ancora dipingeva quadri come quelli appesi alla Neue Pinakothek di Monaco, al Musée du Luxembourg primo museo di arte contemporanea nella Parigi dell’epoca. Quadri essenzialmente accademici. Delle nuove correnti invece sapeva poco o niente, né più né meno degli altri giovani amici suoi. Il compagno di studi Maurice Denis sintetizzava bene conoscenze ed interessi: «Anche gli studenti più capaci non sapevano quasi nulla dell’impressionismo. Ammiravano Bastien-Lepage, parlavano con rispetto di Puvis de Chavannes, discutevano di Peladan e Wagner, leggevano letteratura decadente, quanto scadente, e si appassionavano al misticismo, alla Cabala e al calendario caldeo». Nelle pagine biografiche, Jiri Mucha aggiunge: «Potevo vedere in mio padre fino a che punto questa miscela di teosofia, occultismo e misticismo affascinasse i suoi seguaci, eppure mio padre non si dichiarò mai un simbolista e probabilmente sarebbe rimasto molto sorpreso da una tale classificazione». Nonostante questa osservazione, nello studio di Mucha si raccolsero molti dei simbolisti di tendenza esoterica e strinse amicizia con Albert de Rochas, famoso specialista di ipnotismo e di parapsicologia. Fatti privati che poco interessarono i suoi lavori. Ora occorreva, soprattutto, che l’arte uscisse dalle sale delle pinacoteche e dei musei, per diffondersi all’esterno, nelle piazze e nelle strade. Sappiamo che a Parigi l’arte nuova aveva svoltato grazie a due importanti promotori come Siegfried Bing col negozio “L’Art Nouveau” e Julius Meier-Graefe con “La Maison Moderne”. Affinché si verificasse, però, una trasformazione compiuta del gusto sociale, occorreva che l’arte nuova fosse percepita ovunque e da chiunque. Al di là delle facili soluzioni, occorrevano strumenti espressivi nuovi. Due furono i mezzi che a Parigi diffusero l’Art Nouveau di luogo in luogo: gli ingressi alla linea metropolitana realizzati da Hector Guimard e i manifesti concepiti da Alphonse Mucha.

Hector Guimard, Castel Béranger, il primo condominio Art Nouveau a Parigi

Lo stile Art Nouveau esplose, infatti, a Parigi col progetto di Guimard (1895-1898) noto come Castel Béranger. Nonostante il nome, era un semplice condominio, che deve avere suscitato fantasie medievali – a cominciare da quelle del progettista, seguace di Eugène Viollet-le-Duc – per la facciata asimmetrica, per il gioco di chiari e scuri volumetrici, di aggetti e rientranze. Un condominio formato da 36 appartamenti, grandi e piccoli. Al sesto piano quattro atelier d’artista, occupati fra gli altri dal pittore Paul Signac e dal designer Tony Selmersheim. Signac descrisse così il Castel Béranger per La Revue blanche del 15 febbraio 1899: «È un edificio residenziale molto moderno, a tre corpi che contengono una quarantina di appartamenti. La sua facciata, invece di essere il solito rettangolo, traforato da aperture simmetriche, è molteplice: i mattoni rossi o smaltati, la pietra bianca, l’arenaria fiammata, la graniglia di marmo, sono disposti sui lati disuguali, sui quali si aggrappano – in varie tonalità di un blu verdastro – il ferro e la ghisa dei balconi, dei bow-window, dei ganci di fissaggio, dei tubi, delle grondaie e delle boiserie, di un identico colore, ma in un tono più chiaro. La porta d’ingresso in rame rosso sfavillante». La scintilla si produsse davvero, se la realizzazione vinse il primo concorso per le facciate più belle della città di Parigi (1898). La conversione di Hector Guimard per l’arte nuova era avvenuta tre anni prima, durante un viaggio a Bruxelles dove aveva incontrato Victor Horta e visitato il cantiere dell’hotel Tassel ancora in costruzione. Il Castel Béranger, pur tributandogli la fama fra una cerchia ristretta e danarosa di estimatori, non avrebbe potuto, comunque, rendere Guimard la figura di spicco che fu per l’Art Nouveau parigina, se non fosse stato per un progetto di più ampio respiro.

Hector Guimard, capolinea della Linea 1 della Metropolitana

L’evento nodale intorno al quale ruotò il suo successo ha come contesto l’Esposizione Universale del 1900. La città di Parigi stava preparando l’evento del secolo, desiderando qualificarsi come una delle più grandi metropoli europee. Il trasporto pubblico era fra le necessità principali della modernità. La linea 1 (Porte de Vincennes – Porte Maillot) venne aperta il 19 luglio 1900, dopo venti mesi di lavoro, ma servivano anche i chioschi e gli accessi al métro. La Compagnie du Métropolitain, anziché scegliere fra i deludenti elaborati del concorso che aveva indetto, a sorpresa affidò l’incarico direttamente a Guimard, che non era neppure fra i partecipanti alla gara. Fu questo progetto a decretare la celebrità dell’architetto, non soltanto fra una committenza elitaria, ma anche tra le fasce minute dei lavoratori che per necessità si spostavano giornalmente utilizzando i mezzi pubblici: molti prestavano servizio saltuario a domicilio negli uffici e nelle abitazioni, altri godevano di stipendio come funzionari e impiegati, altri ancora come artigiani, commercianti e fornitori svolgevano attività in negozi e grandi magazzini, gli operai raggiungevano le fabbriche da un capo all’altro di Parigi. Si comprenderà bene tutto ciò, rammentando semplicemente che nella capitale francese lo stile Guimard divenne subito sinonimo di Art Nouveau.

Alphonse Mucha, manifesto per Gismonda
di Victorien Sardou con Sarah Bernhardt
al Théâtre de la Renaissance di Parigi

Alphonse Mucha divenne celebre anche lui, dalla sera alla mattina, come Guimard. A testimoniarlo è il numero speciale (tiré a part) della rivista d’arte e letteratura La Plume, che usciva il primo e il 15 di ogni mese. Ospitava scritti di Verlaine, Moréas, Laforgue, Bloy , Mallarmé. Utilizzava disegni e illustrazioni di artisti come Grasset, Toulouse-Lautrec, Denis, Gauguin, Pissarro, Signac, Seurat, Redon. Alla fine dell’anno 1897 pubblicò una monografia consacré ad Alphonse Mucha e alla sua opera, con 127 illustrazioni da lui stesso realizzate. Il numero aprì così: «Tre anni fa brillava sui muri della capitale un manifesto che annunciava: Gismonda, Sarah Bernhardt, al Theatre de la Renaissance. Viva emozione nel mondo degli artisti e in quello dei collezionisti: un nuovo talento si annunciava all’orizzonte; tra non molto le trombe della fama avrebbero segnalato la sua apparizione nel ristretto campo della gloria. Immediatamente si formarono due correnti: l’una che sosteneva l’autore di Gismonda, l’altra che difendeva strenuamente le glorie consacrate e denigrava ferocemente il talento del nuovo venuto, il quale si teneva in disparte, circondato da bizzarre leggende». Una di queste leggende bizzarre narrava dell’osannata diva che durante un tour in Ungheria s’imbatteva con lo squattrinato disegnatore nei panni di un violinista zigano. La realtà è meno romanzata, ma a volte altrettanto intrigante. A metà degli anni Novanta, Sarah Bernhardt era all’apice di una gloriosa carriera di attrice. I suoi ammiratori erano convinti che la sua “strana bellezza onirica” fosse impossibile da raffigurare. L’aveva fotografata Nadar, ritratta su tela Jules Bastien-Lepage o Antonio de la Gandara. Niente era, però, soddisfacente. Lei avrebbe voluto apparire in un dipinto del preraffaellita inglese Edward Burne-Jones, ma rimase solo un desiderio. L’unico che riuscì nell’intento fu Mucha. Il manifesto, che la mostrava nel costume di Gismonda, lo teneva appeso al muro del suo camerino: «Sarah era in piedi di fronte ad esso, incapace di distogliere lo sguardo. Quando mi ha visto, è venuta e mi ha abbracciato. Insomma, nessuna vergogna, ma successo, grande successo».

Sarah Bernhardt in copertina su di un numero della Revue illustrée
Alphonse Mucha in copertina su di un numero della Revue illustrée

Come avvenne la svolta di una vita, lo raccontò lui stesso. La mattina del giorno di Natale del 1894, Mucha si presentò alla tipografia dell’editore Lemercier in Rue de Seine, per una commissione. Sarah Bernhardt telefonò chiedendo notizie del manifesto per la nuova commedia Gismonda, scritta per lei dal celebre drammaturgo Victorien Sardou – la sua Tosca fu musicata da Puccini –. Lemercier aveva commissionato a vari pittori lavori che l’attrice aveva scartato. Con così scarso preavviso, poche erano le speranze di trovare un altro artista per Capodanno. Mucha accettò di assistere ad uno spettacolo della Bernhardt, per tentare di ritrarla. Noleggiò un frac, si fece prestare un cilindro (più largo della sua testa) e si presentò dietro le quinte del Theatre de la Renaissance, con un album da disegno e tutte le matite di cui aveva bisogno. «Ho abbozzato il suo vestito, i fiori dorati tra i capelli, le maniche larghe e una foglia di palma in mano». Dopo il teatro, sul tavolo di marmo di un bar schizzò la sua proposta al direttore dello spettacolo, un certo M. de Brunhoff. Il formato allungato del manifesto – che ricordava un tipo di stampa giapponese, che a sua volta si rifaceva alle pitture su rotoli cinesi – richiese di utilizzare due pietre litografiche in contemporanea. Ne scaturì un lavoro così bizzarro per quel suo formato insolito, una composizione ieratica, dettagli stilizzati, colori delicati e tenui, tanto che sia Lemercier che de Brunhoff, sconcertati, si aspettavano un disastro. La grande Sarah – ricordava Mucha – ne rimase incantata. Quando il manifesto apparve sui muri di Parigi, a gennaio del 1895, fece scalpore: l’immagine era riprodotta quasi a grandezza naturale, con posa solenne e sacrale. Come scrisse Jerome Doucet sulla Revue illustrée, «Questo manifesto ha reso familiare a tutta Parigi il nome di Mucha da un giorno all’altro […] Questo manifesto, questa finestra bianca, questo mosaico sulla parete, è una creazione di prim’ordine, che ha meritato il suo trionfo».

Alphonse Mucha, Manifesto Salon des Cents 1901, Museo delle Arti Decorative, Parigi
Alphonse Mucha, Moët & Chandon White Star, 1899
Alphonse Mucha – Job Cigarettes

Mucha firmò un contratto in esclusiva per Sarah Bernhardt, che accettò di pagare un acconto mensile di 3000 franchi, più 1500 franchi per ognuno dei sei manifesti che l’artista disegnò per lei: La Dame aux Camèlias (1896), Lorenzaccio (1896), La Samaritaine (1897), Médée (1898), Hamlet (1899) e Tosca (1899). Bernhardt portò numerose altre commissioni. Sulla traccia ispiratrice di quel suo successo, Mucha creò un tipo femminile ideale, riconoscibile a prima vista, che usò per pubblicizzare di tutto. Manifestazioni e prodotti commerciali: dalle diverse edizioni del Salon des Cent alle Cigarette Job, dallo Champagne Moët & Chandon alla rivista satirica Cocorico, ai manifesti per Biscuits Lefèvre-Utile, per Chocolat Idéal, per la bicicletta Perfecta. Progettò mobili e posate, scatole di biscotti e modelli per spille e ciondoli. Nel 1900 realizzò una esposizione per il gioielliere Georges Fouquet, che in Rue Royale si trovava di fronte a Maxim’s, il tempio del palato tra i piaceri della Belle Époque. Tutti lavori che gli assicurarono l’affermazione internazionale e gli consentirono l’ingresso nei salotti dell’aristocrazia dell’epoca. Fu presente anche alla grande Esposizione Universale di Parigi del 1900, dove ricevette una medaglia d’argento. Di quei giorni animati ricorderà anzitutto «l’esaurimento, la stanchezza assoluta…». Questo perché la fama comportò presto di doversi tutelare dalle imitazioni, diffuse ovunque nei padiglioni espositivi: «La mia arte era in voga, penetrava nelle fabbriche e nelle officine come “le style Mucha” e vari oggetti della Mostra venivano continuamente sequestrati per proteggere i disegni originali dalla contraffazione».

Boutique della gioielleria Georges Fouquet al 6 rue Royale di Parigi, disegnata nel 1901 da Mucha e smantellata nel 1923, Museo Carnavalet (Parigi)

Negli anni del primo Novecento le sue figure femminili comparvero sui muri delle città e sulle pagine delle riviste. La sua tecnica preferita era la litografia, ma si rivolse anche alla pittura, adottò la fotografia per studiare le pose delle sue modelle, che rappresentò anche in scultura. Quando, però, l’euforia per l’Art Nouveau sfiorì, Mucha dovette trovarsi pronto a lasciare Parigi per l’America, alla ricerca di commissioni più redditizie. Compì numerosi viaggi negli Stati Uniti, di solito rimanendo per cinque o sei mesi. Sentiva di poter fare qualcosa di più che non assecondare esclusivamente le richieste commerciali. Accolse soltanto una proposta, nel 1906, per progettare le scatole e un display per un Savon Mucha. Realizzò un manifesto per l’attrice americana Mrs. Leslie Carter, acclamata come The American Sarah Bernhardt. Preferì dedicarsi all’insegnamento dell’illustrazione e del design alla New York School of Applied Design for Women e alla Philadelphia School of Art. Rientrato in patria nel 1911, dal momento che era nato come pittore di storia, tornò infine al vecchio amore e si applicò a una serie di dipinti dedicati all’epopea slava. Amava rappresentare lo spirito del suo popolo, la «luce che risplende nelle anime di tutte le persone con i suoi chiari ideali e gli avvertimenti ardenti».

Alphonse Mucha al lavoro per la serie L’epopea slava

Con questo articolo si conclude la prima stagione sull’Arte del Novecento, dedicata ai Precursori.
Ringraziamo per l’interesse mostrato.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Andrej Astvacaturov, Giulia Marcucci – Naked People

Finalista del premio “Bestseller nazionale” 2010 in Russia I ritratti pietroburghesi delle “persone messe a nudo” di Astvacaturov ci mostrano lo spaesamento, le contraddizioni, l’ironia e gli strategemmi per sopravvivere alla dura realtà. La Russia, dagli anni ’70 a oggi, rivive i tempi difficili della fine del comunismo, della transizione e della contemporaneità sotto lo sguardo autoironico ma anche beffardo di un intellettuale occhialuto che racconta la propria infanzia e la gioventù all’università di Leningrado. L’AUTORE: Andrej Astavacaturov è docente di letteratura anglo-americana all’università di San Pietroburgo. Nipote del celebre filologo Viktor Zhirmunskij, con “Naked people” (Ljudi v golom), suo primo romanzo, è stato finalista del Premio Russian National Bestseller nel 2010. Di sé dice: “Attraverso i miei libri credo di riuscire a dire qualcosa di profondamente filosofico e non banale utilizzando storie divertenti e aneddoti”.

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IMMAGINE DI APERTURA – copertina del libro 



Mala Spina – Altro Evo, l’Album delle illustrazioni

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La città vecchia di Altro Evo ricorda la Lankhmar di Fritz Leiber, ha lo humor di Lyon Sprague di Camp, le azioni avventurose di Joe Abercrombie e nasconde un tipo di magia steampunk diversa dai sistemi classici come Dungeons & Dragons o Dragonlance.

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Torino: Walter Niedermayr. Transformations

Il 29 luglio 2021, nelle sale principali di CAMERA, apre al pubblico Walter Niedermayr. Transformations, mostra personale di Walter Niedermayr (Bolzano,1952) che, attraverso focus su un corpo di lavori creati negli ultimi dieci anni della sua carriera, approfondisce il tema dei cambiamenti dello spazio.

Walter Niedermayr, Spazio immagine (Bildraum), S 299, 2013 Trittico, 104×399 cm Courtesy Ncontemporary Milano, Galerie Nordenhake Berlin/ Stockholm © Walter Niedermayr

29 Luglio 2021 – 17 Ottobre 2021
Torino, CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia

WALTER NIEDERMAYR. Transformations

A cura di Walter Guadagnini
con la collaborazione di Claudio Composti e Giangavino Pazzola

Curato da Walter Guadagnini, con la collaborazione di Claudio Composti e Giangavino Pazzola, il percorso espositivo include gli ultimi vent’anni di ricerca artistica di uno fra i più importanti fotografi italiani contemporanei. Attraverso i temi ricorrenti della sua opera come i paesaggi alpini, le architetture e il rapporto fra lo spazio pubblico e lo spazio privato, viene evidenziato l’interesse dell’autore per l’indagine dei luoghi non solo dal punto di vista geografico, ma anche da quello sociale. Sebbene in continuità con l’eredità della tradizione fotografica italiana che vede il paesaggio come primaria chiave interpretativa della società, la ricerca visiva di Niedermayr è rilevante per la capacità di rileggere tale argomento e rinnovarlo sia dal punto di vista concettuale che formale. Per il fotografo altoatesino, infatti, oggi lo spazio fisico non può essere approcciato con un’esclusiva intenzione documentaria, ma appare come perno di una relazione trasformativa tra ecologia, architettura e società. In alcuni lavori della serie Alpine Landschaften (Paesaggi Alpini), ad esempio, la presenza dell’uomo nella raffigurazione di paesaggio è interpretata come un parametro di misurazione delle proporzioni dei panorami alpini, e al tempo stesso come metro politico del suo intervento nella metamorfosi degli equilibri naturali. Discorso che viene rimarcato anche in lavori come Portraits (Ritratti), dove i cannoni sparaneve ripresi durante la stagione estiva – quindi inattivi – diventano ambigue presenze che abitano il paesaggio.
Con una cinquantina di opere di grande formato, spesso presentate nella formula del dittico e del trittico e caratterizzate da tonalità poco contrastate e neutre, la mostra ci racconta una simultaneità di attività umane e non, che coesistono e trovano un equilibrio instabile in costate mutamento, come evidenzia la serie Raumfolgen (Spazi Con/Sequenze).

Sono esposti in mostra anche due dittici inediti realizzati a seguito di una committenza che ha permesso a Niedermayr di scattare, ad inizio anno, nel cantiere di Palazzo Turinetti a Torino che diventerà la quarta sede delle Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo. In apertura nei primi mesi del 2022, il museo sarà dedicato prevalentemente a fotografia e videoarte. La presenza di queste immagini racconta nuovamente la collaborazione tra CAMERA e Intesa Sanpaolo – Socio Fondatore e Partner Istituzionale di CAMERA – attraverso la quale nel 2019 è stata realizzata la mostra Nel mirino. L’Italia e il mondo nell’Archivio Publifoto Intesa Sanpaolo 1939-1981.

La mostra è accompagnata da un catalogo edito da Silvana Editoriale.

La mostra è realizzata in collaborazione con la galleria Ncontemporary di Milano e con il sostegno di Ediltecno Restauri, Building S.p.a., Sipal S.p.a, Pro-Tec Milano, GAe Engineering e BMS Progetti.

Walter Niedermayr

Walter Niedermayr (Bolzano,1952) è un fotografo e artista che con la sua ricerca indaga, a partire dal 1985, il rapporto intenso e ambiguo tra uomo e ambiente. A partire dal 1988 espone le sue opere fotografiche e video in istituzioni pubbliche, musei e gallerie. Il suo lavoro è stato esposto in prestigiosi enti e manifestazioni culturali tra le quali Fotografia Europea di Reggio Emilia (2018), Aut. Architektur und Tirol di Innsbruck (2017), Galéria Mesta Bratislavy di Bratislava (2015), Istituto Italiano di Cultura di Parigi (2012), Fondazione Fotografia di Modena (2011), Museion di Bolzano (2004), Württembergischer Kunstverein di Stoccarda (2003), Centre pour l’image contemporaine di Ginevra (2000), White Cube di Londra (1998), Vorarlberg Museum di Bregenz (1992) e altri numerosi spazi pubblici e privati. La sua ultima serie ideata durante il lockdown del 2020, e commissionata dal Ministero della Cultura, è esposta a Palazzo Barberini a Roma. Le sue opere sono state anche presentate in passato in mostre collettive, tra le quali si ricordano quelle al MAST di Bologna (2017), al MAXXI di Roma (2016), alla Biennale Internazionale di Architettura di Venezia (2014 e 2010), al Fotomuseum di Winterthur (2013), al Museum of Contemporary Art di Tokyo e al Denver Art Museum (2011), a Manifesta7 a Bolzano (2008), al Centre Pompidou di Parigi (2006), al MART di Rovereto (2003) e molti altri. Le opere dell’artista sono conservate in numerose collezioni internazionali, fra le quali MoMa di New York, Tate Modern di Londra, Centre Pompidou di Parigi, MAXXI di Roma, MOCA di Los Angeles, Fondation Cartier di Parigi, Intesa Sanpaolo e UBS Art Collection. Tra il 2011 e il 2014 ha insegnato fotografia artistica presso la Libera Università di Bolzano.

L’attività di CAMERA è realizzata grazie al sostegno di numerose e importanti realtà.
Partner istituzionali: Intesa Sanpaolo, Eni, Lavazza, Magnum Photos; Partner Tecnici: Reale Mutua, Mit, Cws; Mecenati: Mpartners, Synergie Italia; Mecenate e Partner didattica scuole: Tosetti Value; Sponsor Tecnici: Protiviti, Carioca, Dynamix Italia, Reale Mutua Agenzia Torino Castello, Csia, Istituto Vittoria Torino, Le Officine Poligrafiche MCL di Torino.
La programmazione espositiva e culturale è sostenuta dalla Fondazione Compagnia di San Paolo, oltre a ricevere il patrocinio e il sostegno su specifiche iniziative di Regione Piemonte e Città di Torino.
Un ruolo importante è anche giocato dalla comunità degli “Amici di CAMERA”, privati cittadini che sostengono, anno dopo anno, le attività dell’ente in qualità di benefattori.

Radio Monte Carlo è la radio ufficiale delle mostre.

CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia
Via delle Rosine 18, 10123 – Torino
www.camera.to | camera@camera.to

IMMAGINE DI APERTURAWalter Niedermayr, Lech Rüfikopf. Dalla serie Paesaggi Alpini, 20, 2015, Trittico, 131×318 cm Courtesy Ncontemporary Milano, Galerie Nordenhake Berlin/Stockholm © Walter Niedermayr

Brescia ospita la mostra “Federico Fellini | Dietro le quinte”

Fino al 31 luglio 2021, il MO.CA Centro per le nuove culture di Brescia ospita la mostra Federico Fellini | Dietro le quinte. L’iniziativa è parte della quarta edizione del Brescia Photo Festival, in corso fino 17 ottobre 2021, curata da Renato Corsini e promossa dal Comune di Brescia e da Fondazione Brescia Musei con la collaborazione di MaCof – Centro della fotografia italiana.

BRESCIA – MO.CA Centro per le nuove culture
DAL 29 GIUGNO AL 31 LUGLIO 2021
LA MOSTRA

FEDERICO FELLINI | DIETRO LE QUINTE

L’esposizione presenta 50 fotografie di autori quali Sandro Becchetti, Tazio Secchiaroli e dell’Agenzia Dufoto, che documentano il lato privato e meno conosciuto del grande regista.

A cura di Renato Corsini

Sandro Becchetti, Fellini, Roma, 1973

Il tema di quest’anno, Patrimoni, si collega alle celebrazioni per il ritorno a Brescia della Vittoria Alata, una delle più straordinarie statue in bronzo di epoca romana, portavoce del valore culturale e identitario del patrimonio della città, dopo due anni di restauro a cura dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze.

La rassegna – in linea con l’argomento scelto per il Brescia Photo Festival – ricorda un patrimonio autenticamente italiano come Federico Fellini e documenta il lato meno conosciuto del grande regista.

L’esposizione, curata da Renato Corsini, presenta infatti cinquanta fotografie, perlopiù vintage, che propongono al visitatore l’immagine di un Fellini più privato, colto nei momenti di pausa delle riprese di un film o in quelli che precedono un intervento in pubblico, comunque distante da quella ufficiale legata al ruolo di regista.

Il percorso si snoda attraverso gli splendidi ritratti in sequenza di Sandro Becchetti, dove è possibile intuire il talento di un uomo che fa dello sguardo e della mimica due momenti imprescindibili del proprio modo di esprimersi, le fotografie di scena di Tazio Secchiaroli, il paparazzo per antonomasia della Dolce Vita romana, e quelle dell’Agenzia Dufoto, in cui si nota la sua capacità di gestire il backstage dei capolavori che ha saputo creare.

Particolarmente curiosi sono gli scatti degli incontri informali e casuali che Fellini ebbe con Vittorio De Sica, con Roberto Rossellini, con Andy Warhol, con Alberto Sordi o con semplici avventori dei bar di Roma, che testimoniano una quotidianità alla quale basta la sua presenza per diventare straordinaria.

Completano la mostra alcune locandine dei suoi film più famosi.


FEDERICO FELLINI | DIETRO LE QUINTE
Brescia, MO.CA Centro per le nuove culture | Palazzo Martinengo Colleoni (via Moretto 78)
29 giugno – 31 luglio 2021

ORARI
da giovedì a domenica, dalle 15.00 alle 19.00
Ingresso libero

Ma.Co.f. – Centro della fotografia italiana
tel. 3663804795 | info@macof.it

Fondazione Brescia Musei
Francesca Guerini | T. 0302400640 | guerini@bresciamusei.com

Ufficio stampa
CLP Relazioni Pubbliche
Clara Cervia | T. 02 36 755 700 | clara.cervia@clp1968.it | www.clp1968.it

IMMAGINE DI APERTURA – Agenzia Dufoto, Fellini regista, anni ’70 (Particolare)

Pisa: presentazione del volume “1839. La prima riunione degli Scienziati italiani”

Martedì 20 luglio alle ore 17.00 i Giardini del Museo della Grafica ospiteranno la presentazione del volume 1839. La prima riunione degli Scienziati italiani (Pisa, ETS, 2020). Continua la progressiva riapertura degli spazi museali cittadini con la presentazione in presenza organizzata dall’Università di Pisa, dal Sistema Museale di Ateneo, con la collaborazione della Domus Mazziniana e dei musei dell’Università del volume 1839. La prima riunione degli Scienziati italiani, a cura di Chiara Bodei e Pietro Finelli.

Una scelta non casuale quella del Museo della Grafica che conserva nelle proprie collezioni il manifesto originale del Congresso degli Scienziati italiani, in esposizione proprio in questi giorni per la mostra Lo scrigno svelato. Tesori d’arte dalle collezioni pisane che presenta una serie di opere, inedite o particolarmente rare e preziose, legate a Pisa e alla sua storia, che sarà visitabile gratuitamente in occasione della presentazione.

Il volume riunisce gli atti della giornata di studi organizzata nel 2019 in occasione del 180° anniversario del Primo congresso degli scienziati italiani, un evento fondamentale non solo per la costruzione dell’identità nazionale italiana e per la partecipazione della scienza italiana al più ampio movimento culturale europeo ma anche per la nascita delle università come le conosciamo oggi, luoghi di studio e di insegnamento ma anche centri di ricerca con il necessario corredo di laboratori, biblioteche e musei.

Gli atti, nati dalla collaborazione tra il Sistema Museale di Ateneo e la Domus Mazziniana nell’ambito delle attività della Rete Museale Pisana, hanno visto confrontarsi storici della cultura, della politica e della scienza, museologi e responsabili e curatori delle collezioni museali dell’Università, molte delle quali nate o comunque arricchitesi proprio in occasione del Congresso degli Scienziati.

Il prodotto è un libro ricco e polifonico che indaga sulle strutture ‘materiali’ che hanno fatto dell’Università di Pisa uno dei principali centri scientifici e culturali italiani del Risorgimento.

Dopo i saluti del rettore dell’Università e presidente della Domus Mazziniana, Paolo Maria Mancarella, e del direttore del Museo della Grafica Alessandro Tosi, ne discuterà con gli autori e con i curatori Chiara Bodei, presidente del Sistema Museale di Ateneo, e Pietro Finelli, direttore della Domus Mazziniana, Roberto Balzani, docente all’Università di Bologna, tra i maggiori storici del Risorgimento e tra i primi ad aver affrontato le origini storiche della tutela dei Beni Culturali in Italia, attualmente presidente del Sistema Museale dell’Università di Bologna.

La partecipazione all’evento è libera e gratuita e si svolgerà nel rispetto della normativa anti-COVID.
Per prenotare: https://museodellagrafica.sma.unipi.it/prenotazione-eventi-speciali/

IMMAGINE DI APERTURA Locandina

Antoni Gaudí – “La retta è la linea degli uomini e la curva è la linea di Dio”

di Sergio Bertolami

27 – Gaudí espressione massima del modernismo catalano

Corsi e ricorsi caratterizzano la Storia. Per cui anche Antoni Gaudí i Cornet, dal secondo dopoguerra, è stato progressivamente “riscoperto”, così com’è accaduto per l’Art Nouveau che in Spagna ritroviamo sotto il nome di Modernismo. Molteplici le ragioni. La prima, in modo assoluto, è dovuta all’imporsi del razionalismo sulle numerose correnti del primo Novecento. Poi, sotto il profilo politico, occorrerebbe considerare le ripercussioni della guerra civile spagnola e i lunghi anni di autarchia e di governo franchista. Nel caso specifico di Gaudí, uomo dal carattere riservato, una più ampia conoscenza fu ostacolata dalla sua stessa resistenza ad intervenire agli eventi espositivi e culturali acclamati in Europa. Quando nel 1910 il suo maggiore mecenate, il conte Güell, spendendo una cifra folle per l’occasione, organizzò una sua mostra di fotografie e di progetti all’interno del Salon parigino, Gaudí escluse del tutto l’idea di parteciparvi. Oggi Gaudí – considerato uno dei più grandi architetti del Novecento, precursore di altri grandi artisti catalani come Picasso, Dalì e Buñuel – è diventato un’icona d’integrità artistica e genialità, di pietà religiosa e di amore incondizionato per la sua terra natale, la Catalogna. È assurto a larga fama più per le sue eccentricità piuttosto che per l’effettivo intendimento della sua architettura. «Era un ecologista: riciclava piastrelle rotte, stoviglie, giocattoli per bambini, vecchi aghi di fabbriche tessili, nastri metallici per imballare stoffe di cotone, reti da letto e le sagome dei forni industriali per creare i suoi edifici». Lo racconta Gijs van Hensbergen nella sua biografia critica (Antoni Gaudí, a biography, 2001).

Ritratto fotografico di Antoni Gaudí nel 1878 anno del diploma
alla scuola di Architettura di Barcellona

Eppure, il 7 giugno del 1926, riverso in strada sui binari di un tram nessuno lo riconobbe: «Sembrava un senzatetto ubriaco», dichiarò alle autorità il conducente che lo aveva appena travolto. C’era da credergli: al tempo, gli architetti di Barcellona dovevano essere ben vestiti, la piega del pantalone impeccabile, anche tra la polvere del cantiere. Ma nella vita come nella morte, Antoni Gaudí visse sempre di gesti stravaganti e di una creatività che forse rasentava la follia, di certo era espressione del suo grande misticismo. Tutti lo conoscono per la Sagrada Família, l’edificio al quale dedicò quaranta anni di vita. Dei 18 campanili progettati vide solo quello di san Bernabè. Nondimeno, il plauso non sempre è stato unanime. George Orwell, nel 1938, in Omaggio alla Catalogna, parlando proprio della Sagrada Família, la stroncava così: «Sono andato a vedere la cattedrale, una cattedrale moderna, e uno degli edifici più orribili al mondo. Ha quattro guglie merlate esattamente a forma di una bottiglia di vino del Reno. A differenza della maggior parte delle chiese di Barcellona non è stata danneggiata durante la Rivoluzione: è stata risparmiata a causa del suo “valore artistico”, si diceva. Penso che gli anarchici abbiano mostrato cattivo gusto nel non farla esplodere quando ne hanno avuto la possibilità». Per un attimo, immaginate cosa avrebbe risposto Gaudí ad Orwell. A un giovanotto che criticava la sua opera – sì molto bella e pienamente artistica, ma che a lui comunque non piaceva – Gaudí, ribatté bruscamente: «Non lavoriamo per far piacere a voi». Una delle caratteristiche più conosciute di Gaudí era proprio il carattere impulsivo e scontroso e per questo si giustificava: «Ho dominato tutti i miei vizi, meno il cattivo temperamento». La sua effettiva personalità, la sua figura solitaria, ​​è stata sempre poco accessibile. Rimane ancora un enigma. La sua architettura, viceversa, è un libro aperto. «Il grande libro, sempre aperto e che bisogna sforzarsi di leggere – ripeteva – è quello della natura; gli altri libri derivano da questo e contengono, inoltre, interpretazioni ed equivoci degli uomini. Ci sono due rivelazioni: una, quella dei principi della morale e della religione; l’altra, che guida mediante i fatti, è quella del grande libro della natura […] L’imitazione della natura arriva fino alle membrature architettoniche, dal momento che gli alberi furono le colonne; solo in un secondo momento vediamo i capitelli ornarsi di foglie. Questa è un’ulteriore motivazione della struttura della Sagrada Família».

Gaudì, volta della navata longitudinale della basilica

L’immagine più diffusa della basilica è quella esterna, ma ad entrarci, a guardare le colonne arboriformi che sorreggono la copertura, chiunque comprende che quel bosco di fusti e di rami unisce davvero “la terra al cielo”: «Le colonne della Sagrada Família seguono una linea di forza che costituisce la traiettoria della loro stabilità, ossia il loro equilibrio. Sono generate da una sezione a stella che ruota salendo; il suo movimento è, dunque, anche elicoidale (proprio come nei tronchi degli alberi). Le stelle vanno e vengono, dato che le orbite sono linee chiuse; la colonna va e viene perché ha un doppio movimento elicoidale; essa, infatti, ruota in entrambi i sensi». Ascoltare la voce dell’artista fa tutt’altro effetto. Le sue Idee per l’architettura. Scritti e pensieri raccolti dagli allievi (a cura di Maria Antonietta Crippa e Isidre Puig Boada, 2011) restituiscono il vero senso dell’architettura di Gaudí. Qualcuno, per assurdo, mette in dubbio persino la profonda fede cristiana, confondendo le sue simbologie con quelle della massoneria. Il compasso e la squadra che comparivano sulle sue fatture. La stella a cinque punte del Parco Güell. Nella Sagrada Família, il pellicano che si squarcia il petto sulla porta della Nascita – simbolo dell’eucarestia, ma anche 18° grado della scala gerarchica massonica – oppure il quadrato magico sulla facciata della Passione, dove righe o colonne sommano sempre 33 – gli anni di Cristo, ma anche il massimo grado del rito scozzese –. Per non parlare del fatto che Eusebi Güell era un riconosciuto massone e che, secondo Apeles Mestres, scrittore suo contemporaneo, Gaudí cominciò ad accettare solo progettazioni dal carattere religioso, riservandosi di assumere altri incarichi se non dopo essersi raccolto in preghiera di fronte alla Moreneta, la Vergine Nera di Montserrat.

Criptograma posto sulla facciata della Passione

La questione, in verità, era strettamente legata alla vita personale dell’artista, che nel corso degli anni maturò una spiritualità sempre più profonda, fino ad abbracciare integralmente la fede cattolica in età matura. Quello che lo cambiò intimamente fu il rapporto di amicizia con l’eccentrico Josep María Bocabella y Verdaguer, proprietario di una libreria/tipografia religiosa a Barcellona. Questo per due motivi – uno viscerale, l’altro razionale – che possono spiegare molte più cose di quanto non appaia. Facciamo un passo indietro. Uno dei primi incarichi di Gaudí, a testimonianza del suo approccio al socialismo utopico in quel periodo, fu il progetto di una fabbrica in un quartiere operaio di Matarò, la Società Cooperativa La Obrera Mataronense (1878-1882). Come spesso accade, il progetto non venne completato e solo la fabbrica, l’edificio di servizio e un magazzino furono costruiti. Il fatto viscerale fu che, a Matarò, Gaudí visse l’unica storia sentimentale della propria vita, che gli procurò una immensa delusione: l’innamorata scelse un altro pretendente e Gaudí si votò al celibato. Per questa ragione entrò, più tardi, nell’associazione religiosa del libraio Bocabella, il quale, reduce da un pellegrinaggio a Roma nel 1861, cinque anni più tardi fondò l’Associació Espiritual de Devots de Sant Josep. Anche Gaudì aderì all’associazione, celebrando la famiglia, in comunione con gli altri membri, nel nome di Maria «unita a Giuseppe, uomo giusto, da un vincolo di amore sponsale e verginale» (Collectio Missarum de Beata Maria Virgine). Lo scopo comune era di promuovere la costruzione di un tempio dedicato alla Sacra Famiglia.

Progetto del 1877 di Francisco de Paula del Villar y Lozano per la Sagrada Familia

Nel 1881 l’associazione acquistò il terreno e diede avvio alla costruzione del primo nucleo della chiesa, laddove ora si trova la cripta (e la tomba dello stesso Gaudí). Il 19 marzo 1882, giorno di San Giuseppe, il vescovo Urquinaona posò la prima pietra del tempio espiatorio neogotico progettato dal diocesano Francisco de Paula del Villar y Lozano. A luglio i primi problemi portarono alle dimissioni del progettista. Bocabella sognò che un architetto dagli occhi azzurri avrebbe assunto i lavori. Nell’autunno del 1883, Bocabella entrò nello studio di Joan Martorell i Montells – designato a sostituire Villar – e si trovò faccia a faccia con Gaudí, suo collaboratore. Era il “prescelto” del Signore. Naturalmente, accettando l’incarico, chiese di apportare modifiche al progetto iniziale. A conti fatti avrebbe dovuto edificare la chiesa in pochi mesi. Sappiamo bene che è ancora in costruzione. Prima del Covid, si programmava il termine dei lavori intorno al 2030, confidando sul mantenimento di un flusso costante di donazioni ed entrate. In verità, i lavori procedono lentamente, a causa delle difficoltà di un progetto i cui disegni e modelli sono stati distrutti nel corso della guerra civile (1936-1939). A tutt’oggi, però, non si è ancora affrontato il vero problema, dal momento che la pianta basilicale a croce latina dovrà essere completata per realizzare l’ingresso con la scalinata. Oggi si usufruisce delle altre due entrate monumentali poste sulle testate del transetto. Vari edifici circostanti, dunque, dovranno essere abbattuti. Espropri multimilionari, nuovo assetto urbano, ricostruzioni. Nessun problema, lo stesso architetto amava dire: «I lavori della Sagrada Família procedono lentamente, perché il suo Padrone non ha fretta».

Progetto piazza stellata per la Sagrada Familia (1916)

È facile comprendere perciò che per Gaudì la forma architettonica non era sicuramente la priorità, essendo completamente subordinata al suo significato religioso. A suo modo anticipava quello che per i razionalisti sarebbe diventato un assioma: la forma segue la funzione; ma per Gaudí la funzione dell’uomo è realizzare «un’opera posta nelle mani di Dio e affidata alla volontà del popolo». Attraverso il suo percorso di vita, col tempo, era andato trasformandosi in un oblato, dedito ad opere grandiose che scaturivano dalla sua estasi mistica. Ecco perché oggigiorno il Vaticano, due mesi e mezzo dopo la richiesta del cardinale di Barcellona Ricard Maria Carles, ha dato via libera alla beatificazione dell’architetto catalano. Il processo religioso è in corso. Non esiste, però, solo il Tempio di Dio, ma ci sono anche le opere per gli umani, giacché Gaudí ha arricchito la sua città pure di una decina di palazzi e varie opere di urbanistica. Ad esempio, le opere realizzate per l’industriale Eusebi Güell i Bacigalupi, di madre genovese, suo grande amico e munifico mecenate. Uomo di una ricchezza assoluta, aveva accumulato fortune smisurate aprendo nuove aziende nei settori più promettenti del momento: una fabbrica di tessuti che diverrà la futura Colonia Güell, una fabbrica per asfalti e cementi Portland, una Compagnia per trasporti marittimi e una Compagnia mineraria in Nord Africa, presidente di una banca.

Gaudì, vetrina per esporre la produzione della Guanteria di Esteve Comella (1878)

Güell conobbe il neolaureato Gaudí nel 1878, colpito dalla Vetrina per la Guanteria Comella, che quell’anno vinse una medaglia d’argento all’Esposizione Universale di Parigi. La prima commessa fu un padiglione di caccia vicino a Sitges, ma rimase solo sulla carta. Lo compensò allora facendogli realizzare il nuovo muro di proprietà, avendo allargato il giardino della propria casa estiva. Per la Finca Güell, Gaudí concepì la famosa Porta del Drago, sulla sinistra la portineria e sulla destra le scuderie e il maneggio. Per realizzare la Porta lavorò personalmente a Reus con suo zio. Il tema del dragone era ossessivo per il giovane architetto. Sin dai primi lavori – anche da collaboratore di Josep Fontseré i Mestres, nel progetto della cascata del Parco della Cittadella (1875-1881) – continuerà ad inserirlo ovunque, quale elemento decorativo. Si richiamava alla venerazione per il santo patrono della sua terra, san Giorgio, che secondo la leggenda avrebbe ucciso il mostro, tanto da comparire per devozione nelle armi nobiliari di Catalogna e d’Aragona (dragón = de Aragón). La lotta di san Giorgio contro il drago, dal medioevo, era sempre stato il simbolo della lotta del bene contro il male. Ancora simboli, in ogni opera.

Gaudì, cancello d’ingresso ai Padiglioni
Gaudì, corte interna di Palau Güell

D’altra parte, Gaudì si muoveva sotto la spinta della Renaixença, il movimento letterario le cui tematiche ricorrenti (tra idealismo, simbolismo, tradizione ed esaltazione patriottica), peroravano la rinascita catalana. Agì da sprone all’inasprirsi del sentimento di rivalsa al centralismo castigliano, favorendo il ripristino dell’uso corrente della lingua catalana, l’approfondimento della storia locale e il rifiorire di forme artigianali. Lo stesso Don Eusebi Güell, persona tanto colta quanto nazionalista, sognava la sua Barcellona come una nuova Delfi. Al centro del mondo lo pone l’architetto, disegnando la sua casa. A Palau Güell (1885-1889) l’interno si declina attorno alla grande sala del primo piano, il classico piano nobile, ma qui organizzato come un iwan, tipico ambiente islamico, una corte chiusa e coperta. Questo spazio a tutta altezza, su cui si affacciano le stanze, è il luogo di rappresentanza sociale della famiglia Güell e culmina con una cupola traforata che fa immaginare un cielo stellato di notte e filtrare i raggi solari di giorno. «Il sole è il grande pittore delle terre mediterranee!». In queste opere paradigmatiche Gaudì consolidava il proprio linguaggio, ponendo sempre in primo piano il riferimento alle forme dettate dalla natura. «Quest’albero vicino al mio studio: questo è mio maestro», così commentava agli amici. Attraverso tali stimoli, sollecitava la sua creatività e innovava forme plastiche e spazialità.

Gaudì, Park Güell

L’opera più legata al paesaggio, è Park Güell (1900-1914), nata come un progetto di urbanizzazione privata richiesto dal suo mecenate, nello stile delle città giardino che stavano sorgendo in Inghilterra, ispirate alle idee di Ebenezer Howard, il quale già dal 1898 aveva illustrato le proprie teorie riformatrici (Garden cities of tomorrow, 1902). Il complesso, suddiviso in 62 lotti edificabili, con vista panoramica sulla città, si sviluppava per 15 ettari nella parte alta del paesino di Gracia, sobborgo di Barcellona, nota come Montaña Pelada perché liscia e brulla. Gaudì progettò l’impianto generale, studiando percorsi che assecondavano l’orografia del sito e attuavano il suo principio di natura “architetturata”. Realizzò una abitazione monofamiliare campione e l’intera rete delle infrastrutture viarie completamente immersa nella vegetazione: passaggi pedonali, sovrappassi, portici e gallerie, le cui colonne in pietra s’inclinano seguendo le forze di carico della collina. «Mi domandarono perché facessi delle colonne inclinate. Risposi loro: “Per la stessa ragione per cui il viandante stanco, quando si ferma, si appoggia sul bastone inclinato, dato che se lo mettesse in senso verticale non riposerebbe”».

Vista aerea della piazza centrale del Park Güell

I due padiglioni d’accesso al Parco, uno destinato alla portineria del complesso, si aprono su di un’ampia scalinata completata da fontane sulle quali spicca un coloratissimo drago, ormai addomesticato. Si può così accedere al mercato coperto pensato come una Sala Ipostila, ritmata da possenti colonne doriche. A copertura della sala è la celebre piazza, che compare su libri e riviste quando si descrive Park Güell, destinata al tempo libero e ai giochi dei bambini, alle giostre, aperta sulla vista di Barcellona, delimitata da una sinuosa balaustra-sedile. Per realizzarla Gaudì si avvalse dell’architetto Josep Maria Jujol, uno dei suoi collaboratori più promettenti, che rivestì la seduta con un trencadís di piastrelle e ceramiche. Si racconta che Gaudí, vedendo nel laboratorio di Lluís Brú, come si provava ad accostare piastrelle di varia provenienza, ne spezzò alcune prorompendo: «Bisogna metterle a manciate, altrimenti non finiremo mai». D’altra parte, Gaudì era stato il primo a utilizzare questo metodo per rivestire superfici curve e irregolari, come i padiglioni della Finca Güell, dal momento che le forme sinuose rendevano necessario rompere le piastrelle di ceramica, riducendole a delle tessere musive e attualizzando la tecnica dell’opus tessellatum romano.  

Gaudì, balaustra-sedile a mosaico, realizzato con un “tritato” (trencadís) di bicotture e porcellane cementate

L’ambizioso progetto non riscosse il favore degli acquirenti, poiché l’urbanizzazione agli inizi del secolo fu considerata distante dalla città e decentrata in un’area troppo isolata. Cosicché la cittadella residenziale non fu mai realizzata per intero. Solo due furono le costruzioni vendute, una all’avvocato Martì Trias i Doménech (i cui eredi sono ancora i proprietari), l’altra allo stesso Gaudì, che vi trasferì il vecchio padre e la giovane nipote, che a breve scomparvero. Rimase a viverci da solo per tredici anni, prima di ritirarsi definitivamente nel tempio della Sagrada Família e continuare a fantasticare e sperimentare come sempre aveva fatto nel corso della vita e delle opere: «La scienza – diceva – è una cesta che diventa sempre più colma di oggetti e che nessuno può maneggiare se non interviene l’arte, la quale fissa dei manici alla cesta e ne estrae il necessario per le sue realizzazioni».

Gaudì, drago con trencadís sulla fontana all’ingresso del Park Güell

LEGGI ANCHE: Antoni Gaudí – Il giorno che finì sotto un tram e nessuno lo riconobbe

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

La dipendenza invisibile: è ora di rinunciare alla caffeina?

La caffeina ci rende più energici, efficienti e percettivi. Ma siamo diventati così dipendenti che ne abbiamo bisogno solo per raggiungere la nostra linea di base. Il 90% degli esseri umani ingerisce regolarmente caffeina, il che la rende la droga psicoattiva più utilizzata al mondo.

THE GUARDIAN

La dipendenza invisibile: è ora di rinunciare alla caffeina?

La caffeina ci rende più energici, efficienti e percettivi. Ma siamo diventati così dipendenti che ne abbiamo bisogno solo per raggiungere la nostra linea di base. Il 90% degli esseri umani ingerisce regolarmente caffeina, il che la rende la droga psicoattiva più utilizzata al mondo.



“Intorno al mondo” è il titolo che abbiamo pensato per caratterizzare alcune nuove pagine di Experiences. Riguarderanno temi sui quali vale riflettere e che possiamo trovare navigando i migliori siti web del globo, sulle riviste culturali e sui quotidiani internazionali. Saranno fonti autorevoli, selezionate, interessanti e originali. Tali fonti permetteranno di osservare aspetti differenti dall’usuale, oppure fonti che porteranno l’attenzione su questioni che già conoscevamo e che avevamo trascurato, argomenti che sentivamo comunque vicini alla nostra sensibilità. Tutto vero. Noi di Experiences, per onestà intellettuale, vorremmo però fare di più. Cercheremo anche di sorprenderci in prima persona (e al contempo sorprendere chi condivide le nostre idee), scoprendo realtà oggettive che non conoscevamo per niente e che faremo in modo di comprendere. Anche se potrebbero sconvolgere il nostro abituale modo di pensare.

IMMAGINE DI APERTURA: Foto di OpenClipart-Vectors e fevzizirhlioglu da Pixabay

Genova: da settembre la più grande e completa mostra dedicata a Maurits Cornelis Escher.

Sono aperte le prevendite per la più grande e completa mostra antologica dedicata al grande genio olandese Maurits Cornelis Escher, che sarà ospitata a Palazzo Ducale di Genova dal 9 settembre 2021 al 20 febbraio 2022.

APERTE LE PREVENDITE

Maurits Cornelis Escher,
Mano con sfera riflettente, 1935,
Litografia, 31,1×21,3 cm
Olanda,
Collezione Escher Foundation –
All M.C. Escher works © 2021 The M.C. Escher Company The Netherlands.
All rights reserved – www.mcescher.com

Escher
Palazzo Ducale, Genova
9 settembre 2021 – 20 febbraio 2022

Maurits Cornelis Escher
Metamorfosi II, 1939
Xilografia, 19,2×389,5 cm
Olanda, Collezione Escher Foundation
All M.C. Escher works ©2021 The M.C. Escher Company. All rights reserved
www.mcescher.com

Con oltre 200 opere e i suoi lavori più rappresentativi come Mano con sfera riflettente (1935), Vincolo d’unione (1956), Metamorfosi II (1939), Giorno e notte (1938) e la serie degli Emblemata, la mostra Escher presenta in 8 sezioni un excursus dell’intera e ampia produzione artistica di uno degli artisti più amati a livello globale e i cui mondi impossibili sono entrati nell’immaginario collettivo rendendolo una vera icona del mondo dell’arte moderna. Per la prima volta, a Genova il pubblico potrà esperire l’immaginifico universo escheriano tramite inedite sale immersive e strutture impossibili che saranno messe a confronto con opere di grandi artisti visionari del calibro di Giovanni Battista Piranesi (1720 – 1778) e di Victor Vasarely (1906 – 1997)
Tra arte, matematica, scienza, fisica, natura e design, la mostra Escher è un evento unico per conoscere più da vicino un artista inquieto, riservato ma indubbiamente geniale e per misurarsi attivamente con i tantissimi paradossi prospettici, geometrici e compositivi che stanno alla base delle sue opere e che ancora oggi continuano a ispirare generazioni di nuovi artisti in ogni campo. Promossa e organizzata dal Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, Comune di Genova, Regione Liguria e Arthemisia, in collaborazione con M. C. Escher Foundation, la mostra è curata da Mark Veldhuysen – CEO della M.C. Escher Company – e Federico Giudiceandrea – uno dei più importanti esperti di Escher al mondo.
La mostra vede come special partner Ricola.
L’evento è consigliato da Sky Arte.

Sito: www.mostraescher.it
Hashtag ufficiale: #EscherGenova

Uffici Stampa

Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura
Camilla Talfani | ctalfani@palazzoducale.genova.it T.+39 0108171612 | M. +39 335 7316687

Arthemisia
Salvatore Macaluso | sam@arthemisia.it | M. +39 392 4325883 press@arthemsia.it | T. +39 06 69308306