Alla Castiglia di Saluzzo il fotografo siciliano che ha trasformato la moda in un pezzo di realtà

Scianna, il reporter che portò la moda per strada

Dal 24 ottobre 2025 al 1° marzo 2026 la Castiglia di Saluzzo dedica una grande mostra a Ferdinando Scianna, primo italiano nella Magnum. Novanta fotografie raccontano come un reporter nato all’ombra delle feste popolari siciliane sia riuscito a reinventare la fotografia di moda senza tradire il suo stile: un equilibrio raro, tra verità e messa in scena.
Un viaggio che parte da Sciascia e arriva a Dolce&Gabbana, passando per mezzo mondo.

ALLA CASTIGLIA DI SALUZZO (CN)
DAL 24 OTTOBRE 2025 AL 1° MARZO 2026
 
FERDINANDO SCIANNA
LA MODA, LA VITA
 
 Attraverso 90 opere, la rassegna esplora, per la prima volta, uno dei capitoli che hanno segnato la carriera del fotografo siciliano: la moda.

C’è un’idea semplice alla base di questa mostra: per capire Ferdinando Scianna bisogna tornare alle sue origini, alla luce feroce della Sicilia e alle sue ombre, quelle che il fotografo ama inseguire più del sole. Alla Castiglia di Saluzzo – antica fortezza trasformata in museo – lo raccontano con novanta immagini che ricostruiscono una storia meno nota, quasi sorprendente: l’avventura di Scianna nella moda, un territorio che lui non ha mai vissuto come evasione, ma come un’estensione naturale del suo mestiere di cronista del mondo.

È una storia che comincia molto prima degli scatti per Dolce&Gabbana. Nasce nelle campagne di Racalmuto, davanti a un tavolo apparecchiato dalle zie dello scrittore Leonardo Sciascia. Lì i due si incontrano per la prima volta, quasi fosse un disegno del destino. Da quella amicizia nasce Feste religiose in Sicilia, un libriccino grande quanto un passaporto, dove più che raccontare la verità Scianna cerca le domande – sul sacro, sulla vita e sulla morte. Quel libro diventa il biglietto d’uscita dalla Sicilia: «troppo sole, troppa luce», dirà. Meglio inseguire l’ombra, quella che definisce uno stile.

Milano, poi Parigi. Prima reporter a L’Europeo, poi giornalista e infine – non senza tentennamenti – candidato alla Magnum, il tempio del fotogiornalismo. Nel 1982 entra nell’agenzia dopo anni di prove, missioni e viaggi che vanno dal Libano ai minatori delle Ande, da Benares agli Stati Uniti. È in questo periodo che presenta alla Magnum anche un lavoro sulla moda: l’idea fa discutere, ma con il tempo conquista tutti, compreso Cartier-Bresson.

La sezione introduttiva della mostra lo racconta attraverso lo sguardo di Sciascia, amico e complice intellettuale. Poi una serie di immagini provenienti dalla Fondazione Arte CRT – India, Francia, Bolivia – mostra il vero cuore dello stile di Scianna: l’attenzione per luoghi e persone, l’occhio che anticipa l’immagine per coglierne la vita che scorre. Sono fotografie che spiegano il resto: anche quando si troverà a fotografare la moda, Scianna resterà un reporter.

L’esordio nella moda – una rivoluzione gentile

Il 1987 segna un crocevia. Due giovani stilisti, Domenico Dolce e Stefano Gabbana, gli affidano le immagini per i cataloghi delle loro collezioni. È un azzardo: alla moda non si era mai pensato di affidare la propria immagine a un fotoreporter. Ma la scelta si rivela geniale.

Scianna porta la moda fuori dagli studi e la riporta nella vita. Marpessa, la modella scelta come musa, non posa: vive. Corre in mezzo ai bambini che escono da scuola, si lascia attraversare da un macellaio che passa con un quarto di bue sulla spalla, ascolta i rumori di Caltagirone e Palermo e si muove come un personaggio di una storia più grande di lei.

«Facevo il fotoreporter. Di un sogno, forse, ma un sogno vero», ricorda. Per Scianna una modella può diventare creatura, come scrisse Sciascia, in un gioco pirandelliano dove la finzione si confonde con la vita.

I successivi dieci anni sono un fiume in piena: cataloghi per Dolce&Gabbana e Yohji Yamamoto, lavori per Vogue in varie edizioni, Vanity Fair, Stern, Grazia. Ma un filo non si spezza mai: Scianna continua a cercare persone vere, «real people», come le chiamano nel gergo della moda. E quando gli capita di fotografare modelle e modelli professionisti, li tratta comunque come esseri umani, non come manichini: ne osserva la stanchezza, li ritrae mentre fumano, mentre aspettano, mentre vivono. È lì che la moda smette di essere rappresentazione e torna documento.

La fotografia come memoria del mondo

C’è un tratto costante nelle immagini di Scianna: l’ombra. «A me il sole interessa perché fa ombra», dice. Nella sua fotografia la luce non è un dettaglio tecnico, ma una metafora della vita, del destino. Lo si vede in Sicilia come nei mercati messicani, nelle stazioni di Parigi o in un villaggio nubiano. La moda, osserva, può raccontare un paese più di tante analisi sociologiche.

E quando il fotografo si trova dall’altra parte del mondo, lo sguardo non cambia. In Russia, prima della caduta del Muro, Scianna ritrae modelle e città con la stessa tensione che si respira nelle strade: l’attesa di una fine, la percezione di un passaggio epocale. A Budapest, mentre gli mostrano i monumenti staliniani, gli capita perfino di fotografare le sue modelle su un camion che trasporta i resti di una statua di Stalin. La moda si fa storia, e senza volerlo racconta un pezzo di Europa.

Poi c’è l’America, o meglio Lamerica, come la chiamavano gli emigranti. Un luogo immaginato prima ancora che conosciuto, pieno di ricordi non vissuti. Scianna ci arriva prima come reporter, poi come fotografo di moda. Anche lì non cerca l’esotico: cerca la vita, le contraddizioni, le somiglianze.

Il Sud come destino

Alla fine tutto torna al Sud. Non solo quello geografico, ma quello esistenziale, fatto di memorie che non si possono cancellare. «Il Sud è questa memoria», scrive. È una parte di sé che riemerge ovunque: in Sicilia, in Andalusia, a Portopalo o a Siviglia, dove perfino una gitana con due figli può diventare protagonista di un catalogo. Per Scianna la fotografia è un modo per ricostruire questo paesaggio interiore: un insieme di ombre, riti, struggimenti e verità. Una memoria senza nostalgia.

La mostra e il dialogo con Helmut Newton

A Saluzzo il racconto continua in parallelo. Al Filatoio di Caraglio, infatti, si apre in contemporanea la mostra Helmut Newton. Intrecci. Due fotografi diversi, due modi opposti di interpretare la moda: Newton verso una teatralità sempre più onirica, Scianna verso la verità delle strade. Entrambi, però, figli di un mondo che stava cambiando: la caduta del Muro, le prime tecnologie digitali, un’idea di immagine che non sarebbe più stata la stessa.

Il programma pubblico cura incontri, dibattiti e approfondimenti: un’occasione per capire come la fotografia, la moda e la cultura visiva si specchino nella società contemporanea.

È un invito a guardare oltre l’immagine, per ritrovare la vita che l’ha generata.


Un monumento da salvaguardare nel modo più assoluto

Simbolo della Roma medievale e testimone di duemila anni di storia, la Torre dei Conti torna oggi al centro dell’attenzione dopo i recenti crolli. La legge impone il suo restauro, non la demolizione. Ma nel dibattito sulla tutela del patrimonio non si possono dimenticare le vite perdute nei cantieri.

La Torre dei Conti prima del 1934, quando fu abbattuto palazzo Nicolini a fianco.

Un monumento scampato ai secoli

Poche architetture raccontano la storia di Roma come la Torre dei Conti, eretta sul confine tra il Foro della Pace e via Cavour, sopravvissuta a guerre, terremoti, demolizioni e persino ai piani urbanistici più invasivi del Novecento. Il recente crollo di una sua parte, seguito da quello della torre gemella di Segni, ha riportato all’attenzione pubblica la fragilità di un edificio unico nel suo genere e la necessità di un intervento urgente di restauro.

Dietro ogni disastro, però, si cela una catena di concause. E dietro ogni pietra caduta ci sono nomi e storie, come quella di Octay Stroici, l’operaio morto nel cantiere, rimasto intrappolato sotto le macerie. La sua vicenda richiama una riflessione più ampia sulla sicurezza sul lavoro, sulla responsabilità civile e sull’assenza, nel diritto italiano, di una categoria analoga all’“act of God” anglosassone, che riconosce la fatalità senza escludere la ricerca della verità. Un tema che dovrebbe riaccendere l’attenzione sul sostegno concreto alle famiglie dei caduti sul lavoro, italiani e stranieri.

Dall’età imperiale al Medioevo: duemila anni di storia

La Torre dei Conti è un mosaico di epoche sovrapposte. Le sue fondamenta risalgono all’età imperiale: un’ala laterale del Foro della Pace di Vespasiano (71-75 d.C.), che inglobava una delle nove esedre del complesso e ospitava, nella sesta aula, la celebre “Forma Urbis Romae”, la grande pianta marmorea della città affissa sotto i Severi. Durante il pontificato di Felice IV (526-530), una delle aule fu trasformata nella Basilica dei Santi Cosma e Damiano, segno di una continuità d’uso che attraversa i secoli.

Nel Medioevo, intorno all’anno 858, Pietro dei Conti di Anagni vi edificò la prima torre, inglobando parte delle strutture romane. Ma è nel 1203 che l’edificio assume la forma conosciuta, per volontà di Riccardo dei Conti di Segni, fratello di Innocenzo III, con l’intervento dell’architetto Marchione Aretino. Alta oltre sessanta metri, rastremata a gradoni e costruita su tre blocchi sovrapposti, la torre si impose come una delle più potenti fortificazioni della Roma papale, in posizione strategica fra Vaticano, Laterano, Campidoglio e Quirinale.

Lo stesso Petrarca, nella lettera XI,7 delle Familiares, ne celebrò la grandezza: dopo il terremoto del 1348, che ne dimezzò l’altezza, scrisse che la torre “come decapitata, contempla l’onore disteso al suolo della sua superba cima”.

I terremoti, gli spogli e i restauri

Da allora, la torre ha conosciuto una lunga serie di ferite: il crollo del 1348, quello del 1644, altri danni nel 1703, nel 2009 e nel 2016, fino alla dichiarazione d’inagibilità del 2006. A ogni scossa, a ogni crollo, la sua massa di laterizi e travertini – ricavati in parte dagli spolia dei Fori – si è ridotta, consolidata, ricomposta.

Nel Cinquecento, quei marmi furono persino staccati e riutilizzati per ornare Porta Pia, in un paradossale ciclo di riuso dei materiali. Nel Seicento, sotto Alessandro VII Chigi, furono aggiunti i contrafforti. Poi il degrado: stalla, deposito di carbone, rudere dimenticato nel cuore di Roma.

Con la modernità, l’assedio del tempo cambiò volto. Nel 1884, la torre passò ai Nicolini, che costruirono accanto un palazzo affacciato sul Foro Romano e tentarono perfino di demolirla, senza riuscirvi. Mezzo secolo dopo, fra il 1932 e il 1934, il palazzo fu abbattuto per aprire via dell’Impero (oggi via dei Fori Imperiali), ma la torre fu risparmiata. Nel 1937, Mussolini la donò alla Federazione Nazionale Arditi d’Italia, che vi installò il “Tempio della Pace”, trasformato poi in Mausoleo degli Arditi, dove riposa Alessandro Parisi.

Un monumento tutelato “tre volte”

Oggi la Torre dei Conti è protetta da tre diverse forme di tutela: ope legis per la proprietà pubblica, con decreto di interesse culturale specifico e con tutela d’insieme lungo l’asse dei Fori Imperiali. La legge ne vieta la demolizione e impone il restauro.

Eppure, da anni, il monumento attende interventi di consolidamento, mentre le puntellature – presenti su molti altri edifici lungo la linea C della metropolitana – sono qui assenti o insufficienti. Nel frattempo, la precarietà strutturale e l’abbandono si sommano a un contesto urbanistico sempre più fragile, dove le modifiche alla viabilità storica (come sulla via Alessandrina) rischiano di aggravare le condizioni di equilibrio di tutto il sistema archeologico.

La voce degli studiosi: l’appello dei Lincei

Il 9 novembre, ventisei accademici dei Lincei – tra storici, archeologi e storici dell’arte – hanno lanciato un appello pubblico per la messa in sicurezza immediata e il restauro della Torre dei Conti. Nella loro lettera si sottolinea come il monumento, tra i più significativi esempi dell’architettura medievale romana, debba essere restaurato secondo criteri rigorosi, evitando qualunque ipotesi di demolizione o di uso improprio.

Gli studiosi contestano inoltre i progetti che prevedono “pesanti dotazioni impiantistiche” – come una caffetteria panoramica o una sala conferenze – in una struttura tanto complessa e fragile. Invocano invece un ritorno alla sobrietà: la torre, scrivono, deve conservare la sua funzione di monumento, al pari degli altri resti antichi dell’area dei Fori imperiali, accogliendo solo usi compatibili con la sua natura.

Restauro, non demolizione

La vicenda della Torre dei Conti è una prova di coscienza per l’Italia intera. Non è solo una questione tecnica o urbanistica, ma una sfida alla memoria e alla responsabilità collettiva. A più di due secoli dal chirografo di Pio VII (1802), che sanciva la protezione dei monumenti nello Stato Pontificio, la tradizione italiana del restauro resta un modello internazionale.

Lasciare che una torre così simbolica cada nell’oblio significherebbe rinunciare a quella stessa idea di tutela che ha reso Roma un museo a cielo aperto. Restaurarla, invece, vuol dire restituirle la voce che il Petrarca le aveva immaginato: quella di una città che, ferita ma vigile, continua a contemplare la propria storia.


Appello dell’Accademia Nazionale dei Lincei

Il 9 novembre 2025, 26 studiosi – tra storici, archeologi e storici dell’arte – hanno sottoscritto una lettera aperta in cui ribadiscono che la Torre dei Conti “è un importante monumento della Roma medievale e la legge ne contempla la conservazione, in nessun caso la demolizione”. (www.ilgiornaledellarte.com)
Nel documento gli accademici esprimono preoccupazione per le destinazioni d’uso previste dall’amministrazione comunale (caffetteria panoramica, museo, sala conferenze) e sollecitano l’avvio immediato delle puntellature, ricordando che “se non lo fa il Comune, è tenuto a farlo lo Stato tramite il Ministero della Cultura”. (Corriere Roma)
Concludono con un richiamo alla tradizione italiana nella tutela del patrimonio: la torre deve essere restituita alla sua funzione di monumento — «senza provocare alterazioni incongrue e danneggiamenti». (la Repubblica)


Collezione Centanini. Cinque secoli di grande arte agli Eremitani

Dal 12 dicembre 2025 all’8 marzo 2026 il Museo Eremitani di Padova espone la “Collezione Centanini”, appartenente al patrimonio artistico della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, in una mostra curata da Alessia Vedova, con la collaborazione scientifica di Elisabetta Vanzelli. Per la prima volta a Padova si potranno così ammirare le testimonianze di ben 5 secoli di grande arte, in 70 opere tra cui diversi autentici capolavori.

RACCOGLIERE BELLEZZA
OPERE DELLA COLLEZIONE CENTANINI
Padova, Museo Eremitani
12 dicembre 2025 – 8 marzo 2026

Mostra promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e dai Musei Civici di Padova – Assessorato alla Cultura del Comune di Padova. A cura di Alessia Vedova, con la collaborazione scientifica di Elisabetta Vanzelli.

La Collezione venne donata alla Fondazione dall’avvocato Pietro Centanini nel 2015. Riunisce ciò che era stato collezionato nel tempo dalla storica famiglia di origini veneziane stabilitasi poi a Stanghella e le acquisizioni che l’avvocato stesso, cresciuto in un ambiente colto e agiato, fece sin da quando era ancora studente di giurisprudenza a Padova.

A fronte della collezione familiare, che riuniva quadri eseguiti tra il Seicento e il primo Ottocento, il suo gusto si orientò verso l’arte moderna. Le prime opere acquistate erano di artisti veneti contemporanei rispettosi della tradizione, come Bergamini, Dinon, Farina, Barbisan, o cautamente innovativi, come Breddo. Ma il gusto maturato all’interno del patrimonio familiare lo spinse anche ad apprezzare e ricercare quadri antichi del Sei e del Settecento, come la Madonna attribuita al Guercino, il paesaggio alla maniera di Salvator Rosa, e il piccolo dipinto del Maggiotto.

Dagli anni Ottanta gli acquisti si concentrano molto coerentemente sull’Ottocento italiano, con punte di vera eccellenza, come i quadri dei Palizzi, De Nittis, Milesi, Lega, Signorini, Zandomeneghi. Nel contempo, entrano a far parte dell’insieme anche opere di alcuni grandi del Novecento, come Guidi, Guttuso, Utrillo, Soffici, Chagall, Carrà, De Chirico, De Pisis e Sironi.   

Da questi apporti prende corpo una collezione che denota una profonda cultura coniugata con il gusto del momento. Una collezione per molti versi esemplare, in particolare per quanto concerne l’Otto e il Novecento, dove si evidenzia il gusto di Centanini e di sua moglie, entrambi appassionati d’arte, ma anche la loro scelta di avvalersi, nel dare forza e qualità alla loro raccolta d’arte, dei suggerimenti dei più qualificati esperti e mercanti d’arte attivi nell’Italia di quegli anni. Creando così una collezione di altissimo livello non solo per i nomi in essa via via aggiunti ma soprattutto per la qualità, notevolissima, delle opere acquisite.


I Bronzi di Riace e il mistero delle origini: nuove prove puntano alla Sicilia

Un recente studio pubblicato sull’“Italian Journal of Geosciences” rilancia un’ipotesi sorprendente: i Bronzi di Riace potrebbero non provenire affatto da Riace, ma dai fondali al largo di Siracusa. Analisi geochimiche e tafonomiche sembrano rafforzare la teoria siciliana già avanzata negli anni Ottanta dall’archeologo Robert Ross Holloway.

Divenuti ormai tra i simboli della città di Reggio Calabria, i Bronzi di Riace sono custoditi al Museo nazionale della Magna Grecia.

Per mezzo secolo la storia dei Bronzi di Riace è apparsa una certezza incrollabile: due capolavori dell’arte greca classica ritrovati casualmente nel 1972 al largo della costa calabrese, divenuti simbolo del patrimonio italiano e protagonisti del Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria. Oggi però una nuova indagine scientifica rimette tutto in discussione, spostando il baricentro del loro racconto di oltre cento chilometri a sud-ovest, fino alle acque profonde della Sicilia.

Un’indagine interdisciplinare

Lo studio, apparso sull’“Italian Journal of Geosciences”, è frutto di una rete di quindici studiosi italiani — geologi, archeologi, paleontologi, biologi marini, esperti di metalli e archeologia subacquea — coordinati da Rosolino Cirrincione e Carmelo Cantaro. L’obiettivo: verificare, con criteri scientifici moderni, la plausibilità dell’ipotesi siracusana. La teoria, formulata negli anni Ottanta da Holloway, sosteneva che i Bronzi non fossero mai stati nei fondali di Riace per più di qualche anno, ma che fossero affondati al largo di Siracusa durante il saccheggio romano della città nel 212 a.C.

Le statue e il loro enigma

I Bronzi di Riace — due guerrieri nudi e barbuti del V secolo a.C., alti quasi due metri e un tempo armati di scudi, lance ed elmi — sono tra le testimonianze più alte della scultura classica. Realizzati probabilmente nella Grecia occidentale, si ritiene raffigurassero eroi o atleti, forse parte di un gruppo monumentale. La versione tradizionale del loro ritrovamento racconta che, durante un trasporto verso Roma, una nave affondò lungo la costa calabrese, depositando sul fondale le due statue. Tuttavia, nessuna traccia di relitti o altri reperti è mai stata trovata a Riace.

La prova dei metalli e dei sedimenti

La nuova ricerca adotta un approccio geochimico comparativo. Gli studiosi hanno confrontato la composizione del materiale di saldatura dei Bronzi, rilevato durante i restauri, con quella dei sedimenti dell’area di Pantanelli, a sud di Siracusa, presso la foce dei fiumi Anapo e Ciane. I risultati mostrano una sorprendente compatibilità, suggerendo che le statue — o almeno una di esse — furono saldate e probabilmente assemblate a Siracusa.

Anche l’analisi isotopica del piombo dei tenoni di ancoraggio ha rivelato che entrambi i Bronzi furono fusi con lo stesso lotto di metallo, indizio di una produzione o restauro avvenuto nello stesso laboratorio e nello stesso periodo. Inoltre, il rame impiegato per il Bronzo B proviene non dalla Grecia orientale, come previsto, ma da miniere tirreniche controllate dai Deinomenidi, la potente dinastia di tiranni siracusani del V secolo a.C.

La teoria di Siracusa

Secondo l’ipotesi siracusana, i Bronzi facevano parte di un complesso scultoreo celebrativo degli eroi della città, commissionato dai Deinomenidi tra il 470 e il 466 a.C. Forse opera di Pitagora di Reggio – non il filosofo, ma il celebre scultore attivo in Magna Grecia – il gruppo sarebbe rimasto a Siracusa fino alla conquista romana. Trasferite via mare come bottino, le statue sarebbero poi affondate durante il trasporto verso la penisola.

La tesi trova riscontro nelle fonti antiche (Aeliano, Plutarco, Favorino) e nella coerenza storica: Siracusa fu, nel V secolo a.C., la città più ricca e potente del Mediterraneo occidentale, seconda solo ad Atene, e centro nevralgico della produzione artistica in bronzo.

Le patine raccontano un’altra storia

L’indagine più sorprendente riguarda però le patine che rivestono le superfici dei Bronzi, veri e propri registri della loro storia sommersa. Gli studiosi hanno individuato tre strati principali: uno di cuprite, tipico di ambienti poveri d’ossigeno a profondità medio-alte (50–100 metri); uno di solfuro di rame, generato da microrganismi anaerobici; e infine un sottile strato di cloruri di rame, tipico invece di acque basse e fortemente ossigenate.

Questa sequenza suggerisce una lunga permanenza iniziale su un fondale profondo e fangoso — compatibile con le acque di Brucoli, a nord di Siracusa, dove il mare raggiunge 70–90 metri e ospita sorgenti idrosolforose — seguita da un trasferimento recente, di pochi anni, in un ambiente sabbioso e poco profondo come quello di Riace. Un movimento forse dovuto a correnti o a un successivo spostamento umano.

Le conclusioni

Gli autori dello studio sono categorici: i Bronzi non possono essere rimasti per secoli nei fondali di Riace. Le loro condizioni di conservazione e la composizione delle patine indicano una storia più complessa, con un lungo deposito in acque profonde siciliane e un successivo e breve passaggio nel Mar Ionio calabrese.

Scrivono i ricercatori: “Le prove scientifiche escludono che i Bronzi abbiano potuto riposare sul fondale di Riace per più di pochi mesi o anni. Le loro caratteristiche tafonomiche e geochimiche rimandano a un deposito millenario in un ambiente geologico differente, coerente con il fondale di Brucoli, a nord di Siracusa.”

Il mito si sposta a sud

Le implicazioni di questa ipotesi sono notevoli: non solo modificherebbero la geografia simbolica dei Bronzi, ma riaprirebbero un capitolo cruciale della storia artistica del Mediterraneo antico. Se confermata, la tesi siracusana riporterebbe i due guerrieri nella loro patria originaria, restituendo alla Sicilia il ruolo di culla e custode di uno dei massimi vertici dell’arte greca.

La scoperta, lungi dal chiudere il mistero, lo rilancia su scala più ampia: la vicenda dei Bronzi di Riace non è solo un caso di archeologia, ma una metafora della mobilità e della fragilità del patrimonio antico. Due corpi di bronzo, sopravvissuti a naufragi, guerre e restauri, che ancora oggi costringono la scienza a interrogarsi sulle profondità del tempo e del mare.


I GRANDI MAESTRI DEL DESIGN. Episodio 3: la poltroncina DS4

In questo terzo episodio della nostra serie dedicata ai grandi maestri del design, ci soffermiamo sulla poltroncina DS4 disegnata da Charles Rennie Mackintosh. Un pezzo sobrio che racchiude in sé la tensione tra Art Nouveau e modernismo, la sensibilità architettonica di Mackintosh e la sua capacità di tradurre un’idea spaziale in forma d’arredo.

Sedia disegnata da C.R. Mackintosh per la sala da tè della signorina K. Cranston. Il mobile raffigurato è esposto al Lighthouse: il centro di interpretazione dedicato alle opere di C.R. Mackintosh e M. Macdonald, situato nell’edificio originariamente progettato da Mackintosh per il quotidiano Glasgow Herald. 

Charles Rennie Mackintosh (1868–1928) è stato un architetto, pittore e designer nato a Glasgow, considerato una delle figure di spicco del Movimento Moderno. Con Margaret Macdonald, che sposò nel 1900, l’amico Herbert McNair e la moglie Frances Macdonald, sorella di Margaret, tutti laureati alla Glasgow School of Art, formò un gruppo di artisti altamente innovativi per l’epoca, noti come “I Quattro”, influenzati dall’Art Nouveau, dal Simbolismo e dal movimento Arts and Crafts inglese.

L’autore e il contesto

Charles Rennie Mackintosh (Glasgow, 7 giugno 1868 – Londra, 10 dicembre 1928) è indiscutibilmente uno dei protagonisti del design e dell’architettura di fine Ottocento e inizio Novecento.

Formatosi alla Glasgow School of Art e collaboratore dello studio Honeyman & Keppie, Mackintosh sviluppò un linguaggio che combinava elementi del movimento Arts & Crafts, dell’Art Nouveau e di quel «Glasgow Style» che traeva ispirazione anche da forme giapponesi e dal gusto per l’essenzialità dei materiali.
Lavorò sull’intero progetto architettonico — edifici, interni, mobili — concependo gli elementi d’arredo come parti integrate dello spazio e non come accessori distinti.

Questa visione si colloca in un momento storico in cui le città industriali come Glasgow si trovavano a confrontarsi con le nuove esigenze funzionali e la ricerca di bellezza nelle «cose comuni». Mackintosh, più che un mero decoratore, fu un pensatore dello spazio e del oggetto.

Il modello DS4: nascita e caratteristiche

La poltroncina DS4 nasce nel 1918: una data significativa perché segna un momento di transizione nell’agire di Mackintosh, che aveva già alle spalle le sue architetture più note e si stava orientando verso l’arredo e l’interior design come parte della sua riflessione integrata.
Il modello si distingue per struttura in legno laccato nero (tipicamente frassino o ash) con seduta e braccioli curati, dimensioni che ruotano attorno a larghezza ≈ 52 cm, profondità ≈ 45 cm, altezza totale ≈ 75–76 cm.
Una caratteristica interessante è l’intarsio, in alcuni esemplari, di madreperla o dettagli raffinati sullo schienale — segno dell’attenzione all’artigianato e alla finitura, pur all’interno di un disegno dalle linee essenziali.
Va notato che, benché progettata nel 1918, la produzione della DS4 è entrata in catalogo solo molto più tardi, in particolare grazie all’edizione dell’azienda italiana Cassina, nell’ambito della sua linea «I Maestri».

La DS4 nel linguaggio del design

La DS4 occupa una posizione ibrida: non è concepita come una sedia “moderna” nel senso radicale del Bauhaus o del funzionalismo astratto, ma neppure come puro oggetto decorativo. Essa riflette la tensione di Mackintosh fra struttura e ornamento, praticità e poesia. Le proporzioni verticali, lo schienale alto rispetto al sedile, l’uso del legno laccato nero richiamano quanto fatto dall’architetto nei suoi progetti d’interni (come la famosa Hill House Chair) e più ampiamente nell’intero impianto espressivo del Glasgow Style.

La scelta di materiali nobili, l’attenzione ai dettagli — ad esempio l’intarsio madreperla — e la cura artigianale collocano la DS4 più vicino all’idea dell’arredo come oggetto d’arte che come semplice seduta. Al contempo la sua struttura rigida e geometrica evidenzia un approccio spaziale: la sedia diventa complemento, ma anche definizione dello spazio visivo, contribuendo a un ambiente coerente.
Infine, la produzione da parte di Cassina conferisce alla DS4 una rinnovata “uscita” internazionale: l’azienda, con la sua linea I Maestri, preleva capisaldi del design del Novecento e li rende accessibili — e contemporanei — non solo come pezzi da collezione ma come simboli viventi del design integrato.

Perché la DS4 importa oggi

In un panorama in cui il design è spesso associato a oggetti “iconici” e facilmente riconoscibili, la DS4 è un esempio di profondità: non tanto l’effetto wow immediato, ma la complessità di un oggetto che contiene storia, cultura e pedagogia del progetto.
Da un lato la DS4 è testimonianza di un momento in cui l’architetto-designer operava su molte scale: edificio, ambiente, arredo; dall’altro anticipatrice di concetti contemporanei come la totalità del progetto e la “firma” dello spaziatore.
Inoltre, per il lettore medio-alto interessato all’arte e al design, la DS4 offre un ponte fra due mondi apparentemente distanti: il gusto tardo-ottocentesco (Art Nouveau) e la nascente modernità del secolo XX. La sua semplicità estetica traduce una poetica complessa: rigore e grazia, struttura e decoro, tanto ambiti tipici di Mackintosh.
Infine, la DS4 ci invita anche a considerare il rapporto tra originalità e produzione: la sedia fu progettata nel 1918 ma ampiamente diffusa solo in epoca successiva. Questo pone questioni sulla “datazione del design” e sulla trasformazione degli oggetti da pezzi d’arredo a icone di collezione.


Cassina e «I Maestri»

L’azienda Cassina, fondata nel 1927, ha svolto un ruolo chiave nella canonizzazione del design del XX secolo.
Nel 1960-70, con la linea «I Maestri», Cassina acquisì i diritti per riproduzioni di modelli storici, tra cui quelli di Mackintosh (anni ’70). Questa operazione ha permesso la diffusione “ufficiale” della DS4 e di altri modelli nell’ambito del mercato internazionale del design, trasformando pezzi un tempo artigianali in elementi riconoscibili della cultura del progetto.
Per il lettore: è utile osservare come la traduzione di un progetto del 1918 in una produzione industriale (anche se di pregio) introduca elementi di mediazione — finitura, produzione, marketing — che modificano la “vicinanza” all’idea originaria, ma al contempo ne preservano l’essenza.


In conclusione, la a poltroncina DS4 di Charles Rennie Mackintosh è un oggetto che parla poco ma dice molto. In un’epoca in cui il design rischia talvolta l’effimero, la DS4 invita a rallentare lo sguardo sul complemento d’arredo come “parte di un tutto”, come sintesi di architettura, arte e mobilio. Per il pubblico colto interessato all’intersezione tra storia delle idee, design e cultura materiale, essa rappresenta un punto di riferimento che va ben oltre la mera estetica: è un compendio dell’approccio di Mackintosh – legato alla forma, al dettaglio, allo spazio – e un monito sul valore del progetto ben fatto e pensato.


Anteprima Napoli World 2025: un ponte musicale tra Napoli e Marsiglia a suon di mandolini

La quarta edizione del festival “Napoli World”, diretto artisticamente da Enzo Avitabile, inaugura il 27 novembre con una speciale Anteprima che sigla la partnership strategica e artistica tra due città simbolo del Mediterraneo, Napoli e Marsiglia. Una novità che anticipa la forza e la visione dell’intera manifestazione: tra gli obiettivi, la costruzione di ponti tra culture e business musicali internazionali, nell’ottica di consolidare, promuovere e intensificare gli scambi culturali tra le due città.

Al via l’edizione 2025 di “Napoli World”
Anteprima il 27 novembre con un ponte musicale tra Napoli e Marsiglia
e la prima assoluta

con Enzo Avitabile
Dal 26 al 28 novembre tre incontri professionalizzanti
tra Palazzo Cavalcanti e il Conservatorio di Napoli

L’anteprima di “Napoli World” – organizzata dalla società Audioimage e promossa e finanziata dal Comune di Napoli nell’ambito del progetto “Napoli Città della Musica” – è accompagnata da tre esclusivi incontri professionalizzanti, che si svolgeranno tra la Casa della Cultura di Palazzo Cavalcanti, in via Toledo 348, e il Conservatorio San Pietro a Majella in Via San Pietro a Majella 35.

Dopo l’annuncio (leggi) dei 14 artisti che formano il programma dei concerti di “Napoli World-Professional meet-up and showcase festival” – progetto organizzato da Italian World Beat e finanziato dal Ministero della Cultura (FUS 2025 Progetti Speciali e FUS Triennale 2025-2027), nonché parte integrante di “UPBEAT – The European Showcase Platform for World Music” che riunisce i 15 festival più influenti del continente – si apre il calendario delle iniziative in Anteprima

Il 26 novembre, dalle ore 10 alle ore 13, presso la Casa della Cultura di Palazzo Cavalcanti, si svolgerà un incontro professionalizzante sulla crescita in ambito musicale dal titolo “Soy Mùsico, e ahora que?”. Il meeting, con ingresso libero, sarà a cura di Mar Rubiralta, fondatrice e responsabile dell’agenzia di booking e management spagnola Balaiò Produccione. L’incontro, aperto agli addetti ai lavori e agli artisti, verterà sulle strategie e sulle dinamiche di distribuzione e organizzazione di concerti e tournée all’estero.

Il 27 novembre, dalle ore 14 alle ore 16, la Casa della Cultura di Palazzo Cavalcanti ospiterà un secondo incontro professionalizzante dal titolo “Opportunità di internazionalizzazione per artisti italiani della scena World Music”, a cura di Davide Mastropaolo della direzione organizzativa di “Napoli World”. L’appuntamento, a partecipazione libera, si trasformerà in un laboratorio con artisti ed esperti nazionali e locali per analizzare il mercato e per ottimizzare le opportunità in campo discografico e concertistico.

Nello stesso pomeriggio, a partire dalle ore 18, presso l’Auditorium del Conservatorio San Pietro a Majella prenderà vita la cerimonia di apertura di “Napoli World”, con ingresso libero fino a esaurimento posti. Sul palco, due ensemble d’eccellenza: il Melis Mandolin Quintet di Napoli e il Nov’ Mandolin di Marsiglia. L’evento, dal titolo “SORE”, offrirà un dialogo musicale straordinario, frutto di una collaborazione artistica già avviata da mesi: un’iniziativa di particolare rilievo, inserita nel quadro delle attività di cooperazione internazionale nel settore delle arti performative e della world music dei due Comuni. Il repertorio includerà una serie di brani dei musicisti coinvolti e un omaggio al celebre liutaio e compositore napoletano Raffaele Calace, figura centrale della musica a plettro, la cui eredità ha valicato i confini nazionali.

Napoli e Marsiglia – dichiara il delegato del sindaco di Napoli per l’industria musicale e l’audiovisivo – sono sorelle mediterranee nate da insediamenti greci, con un’anima profondamente segnata dal mare, che ne ha forgiato l’identità di porti aperti e accoglienti. La loro cultura è un vibrante intreccio di sapori popolari e di musiche. Proprio per questo con grande orgoglio presentiamo questo gemellaggio nel nome del mandolino, della musica e dei suoi artigiani, in piena coerenza con l’obiettivo di internazionalizzazione che ‘Napoli Città della Musica’ porta avanti con la valorizzazione delle nostre professionalità, che sempre si concretizza in questa quarta edizione di ‘Napoli World’, festival nato proprio con ‘Napoli Città della Musica’”.

Con la sua guida artistica che disegna il percorso del festival, Enzo Avitabile darà il via a Napoli World 2025 non con un semplice concerto, ma con un vero e proprio statement d’intenti. Alla testa di questo palcoscenico globale, il Maestro accoglierà i protagonisti della scena musicale internazionale partendo proprio dalla fonte: la sua iconica firma etno-folk, esplorata in tutta la sua essenza attraverso un’intima e potente performance in trio. Questo momento, carico di autenticità e sperimentazione, non è solo un’apertura, ma il preludio fondamentale che traccia un ponte ideale tra l’innovazione e la tradizione, tema portante dell’intera kermesse.

Proprio da questo ponte germoglia l’energia dei LINDAL, il cui nome, dall’occitano “soglia, principio”, sembra descrivere perfettamente questo passaggio di testimone. Il progetto di Chiara Cesano (violino) e Roberto Avena (fisarmonica) nasce dalla fusione tra la musica popolare occitana e le suggestioni visionarie dell’elettronica. Nel loro caleidoscopio sonoro, strumenti radicati nella tradizione dialogano con filtri, campionamenti e paesaggi digitali, dando vita a una narrazione musicale che attraversa i confini geografici e temporali. Cresciuti nelle Valli Occitane e plasmati da un background di feste popolari e collaborazioni con realtà come Lou Dalfin, Gran Bal Dub e la Grande Orchestra Occitana, i due musicisti forgiando in LINDAL una voce nuova, che unisce la profondità delle radici al coraggio della ricerca. Insieme agli ensemble mandolinistici, le loro esibizioni contribuiscono a fare di questa quarta edizione un laboratorio di dialogo interculturale.

Un terzo incontro professionalizzante sarà in programma il 28 novembre, dalle ore 11 alle ore 12, presso la Sala Martucci del Conservatorio San Pietro a Majella, con ingresso libero. Al centro dell’incontro, dal titolo “Voices from Southwest Asia and North Africa”, la presentazione del progetto NEST-Music Incubator a cura di Samer Jaradat, delegato ospite di Ramallah, in Palestina, e di Imed Alibi, delegato ospite della Tunisia. Il NEST è un programma che sostiene artisti e professionisti del settore musicale provenienti dal Medio Oriente e dal Nord Africa nello sviluppo delle loro carriere, con l’obiettivo di dotare i partecipanti delle competenze e degli strumenti necessari per affrontare le complessità del mercato musicale globale. NEST funge, inoltre, da piattaforma di collegamento, creando un ponte tra i music creator e i principali operatori del settore a livello mondiale. Seguirà, dalle ore 12 alle ore 13, il panel “Transglobal World Music Chart – 10 Years Celebration”, a cura di Juan Antonio Vàzquez e Araceli Tzigane, delegati ospiti della Spagna.

“Napoli World” si consolida così come piattaforma essenziale per l’internazionalizzazione degli artisti italiani, in particolare quelli campani, e come nodo cruciale per i network che guidano il mercato del live entertainment mondiale. Un appuntamento imprescindibile per direttori artistici, booker, festival e promoter alla costante ricerca di nuovi talenti e di connessioni autentiche in un panorama musicale sempre più ibrido. Tre giorni intensi tra showcase live, conference, workshop e sessioni di networking, dedicati a chi crede nel potere della contaminazione artistica e nel suo valore di mercato. Un’opportunità concreta per sviluppare l’export della scena musicale italiana, mettendo in rete le eccellenze del territorio con i principali attori della filiera internazionale.


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Ufficio Stampa Napoli World 2025
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Georgia O’Keeffe per lei l’arte non è solo ciò che mostra, ma ciò che fa accadere

Nata nel 1887 a Sun Prairie (Wisconsin), la statunitense Georgia O’Keeffe ha attraversato sette decenni di carriera reinventando la pittura moderna: fiori monumentali, paesaggi desertici, architetture di città, ossa d’animale. Una ricerca visiva rigorosa, autonoma, che ha trasformato la natura in astrazione e sentimento.

Origini, formazione e prime sperimentazioni

Georgia O’Keeffe vide la luce il 15 novembre 1887 sulle terre agricole del Wisconsin. Fin da piccola mostrò inclinazione verso il disegno e l’arte; conseguì la laurea nel 1905 e intraprese studi formali all’School of the Art Institute of Chicago e poi alla Art Students League of New York.
Durante questo periodo prese le distanze dalla pittura accademica: influenzata dalle teorie compositive di Arthur Wesley Dow (tramite il suo docente Alon Bement), iniziò a privilegiare la “selezione, eliminazione e valorizzazione” come strumento per cogliere l’essenza delle cose.
Negli anni 1910-20 sperimentò disegni astratti in carboncino e acquerello, allontanandosi dal puro realismo e aprendo la strada alla sua voce visiva autonoma.

Il linguaggio visivo: natura ampliata e astrazione sensibile

O’Keeffe sviluppò uno stile che si può definire “astrazione dall’interno della natura”. Le sue celebri serie di grandi fiori – come gli iris, i papaveri, i canna – non sono semplici fiori ingranditi, bensì campi di sensazione, superfici cromatiche che catturano la forma e la luce.
Allo stesso modo, i paesaggi del sud-ovest statunitense – ossa d’animale, cieli vasti, colline rosse – diventano segni radicali di presenza e assenza. Un oggetto (una calavera, un teschio di bovino) diventa immagine di tempo e memoria.
Nel decennio 1920-30 fu anche città-pittore: gli skyline di New York, le architetture, le radiator-buildings della metropoli americana entrarono nel suo repertorio con la stessa lentezza contemplativa.
Come scrisse il Metropolitan Museum of Art, «Per sette decenni O’Keeffe è rimasta indipendente dalle mutevoli tendenze artistiche ed è rimasta fedele alla sua visione basata sulla ricerca delle forme essenziali e astratte nella natura».

Temi centrali: silenzio, forma, presenza

Tre concetti sono al cuore della pittura di O’Keeffe: silenzio, forma, presenza.

  • Silenzio: nella vastità del New Mexico o nel dettaglio del petalo, l’immagine è sospesa, priva di azione, ma pregna di tensione.
  • Forma: la riduzione delle forme naturali all’essenziale – dove un fiore diventa curva, una placca rocciosa diventa massa – riflette la lezione modernista, ma O’Keeffe la rende personale.
  • Presenza: pur scegliendo soggetti modesti o obliterati (ossa, rocce, piante), l’artista li restituisce come presenze visive forti, come se il mondo piccolo e il mondo vasto siano ugualmente degni dello sguardo.
    Critica e storiografia hanno interpretato, inoltre, queste immagini come segnali di genere: l’espansione del fiore, la delicatezza del petalo, il mondo del deserto come metafora dell’identità femminile. Pur se O’Keeffe negò intenti sessuali nei fiori, molte analisi vi riconoscono un orizzonte femminista implicito.

Cambiamento di scenario: il New Mexico e l’autonomia dell’artista

Nel 1929 fece la prima visita a nord del New Mexico – regione che l’avrebbe segnato profondamente. Le rocce, i cieli, la luce accecante divennero materia pittorica ricorrente.
Dal 1949 la sua residenza fu stabile in New Mexico, e il paesaggio fu compagno d’arte e vita. Qui gli elementi naturali sabbiosi, ossuti, semplici – vista frontalmente – acquistarono densità visiva.
In un contesto in cui l’arte americana era spesso dominata da correnti e mode, O’Keeffe restò radicata all’interno del proprio paesaggio visivo, costruendo una voce distinta.

Ricezione, eredità e funzione contemporanea

O’Keeffe fu la prima donna artista ad avere una mostra retrospettiva al Museum of Modern Art di New York nel 1946. Nel corso della sua vita ricevette onorificenze come la Presidential Medal of Freedom (1977) e la National Medal of Arts (1985).
La sua opera oggi è centrale per comprendere la modernità americana: la natura vista non come soggetto romantico ma come superficie da indagare; la tensione tra micro e macro, femminile e universale. Le esposizioni recenti sottolineano il suo ruolo di modello per artiste e generi non-dominanti.
Inoltre le sue grandi tele floreali, già iconiche, sono divenute soggetti critici: si interrogano oggi le dimensioni della rappresentazione del corpo, dell’identità, del paesaggio.

Georgia O’Keeffe rimane un’artista fondamentale perché ha saputo vedere davanti agli altri: un fiore ingrandito non come decorazione ma come presenza; una roccia isolata non come minuta ma come monumento; un paesaggio deserto non come vuoto ma come densità sensibile. Il suo lavoro ci ricorda che l’arte non è solo ciò che mostra, ma ciò che fa accadere nella visione dello spettatore – e nella sua stessa forma visiva. Un’eredità vasta, che risuona ancora oggi.


Georgia O’Keeffe – tre opere chiave

Tre lavori simbolo che raccontano la ricerca poetica e visiva di Georgia O’Keeffe: dal macrocosmo floreale al deserto del New Mexico, fino alla tensione metafisica delle ossa e del cielo.

Georgia O’Keeffe, Red Canna, 1924
Tra le prime tele dedicate ai fiori in primo piano,
Red Canna trasforma un dettaglio botanico in una sinfonia di forme e colore. L’immagine è quasi astratta: petali e ombre si fondono in un ritmo visivo che evoca sensualità e contemplazione.

Georgia O’Keeffe – Cow’s Skull – Red, White, and Blue, 1931
Un teschio di mucca sospeso davanti ai colori della bandiera americana: il simbolo del deserto e della nazione si fondono.
L’opera mostra come O’Keeffe elevi l’oggetto naturale a icona spirituale, con rigore formale e una sorprendente economia di mezzi.

Georgia O’Keeffe – Paesaggio di Black Mesa, Nuovo Messico, retro di Marie’s II, 1930
L’orizzonte rarefatto e la luce bruciante del New Mexico
diventano in questa tela geometria pura. Linee, curve e piani di colore raccontano un paesaggio che è insieme reale e mentale,
memoria e visione del silenzio.


Barbara Kruger: il linguaggio dell’immagine che indaga il potere

La statunitense Barbara Kruger è tra le figure più influenti dell’arte concettuale contemporanea: con fotografie in bianco e nero sovrapposte a testi incisivi e slogan in bianco su fondo rosso, ha messo in crisi le dinamiche dei media, del consumo e del genere.


Origini, formazione e primissime esperienze

Barbara Kruger è nata il 26 gennaio 1945 a Newark, New Jersey, in una famiglia della classe media-bassa. Dopo un anno alla Syracuse University nel 1964, si trasferì alla Parsons School of Design a New York dove studiò arte e design, in un ambiente fortemente influenzato dal mondo della fotografia e del visual design.
Nel 1966 entrò nell’industria del design come graphic designer per la casa editrice Condé Nast (rivista Mademoiselle) e ben presto altri incarichi come art-director e picture-editor le permisero di acquisire familiarità con il linguaggio visivo della grafica, della pubblicità e del design editoriale, strumenti che poi avrebbero costituito una parte fondamentale della sua cifra estetica.

Lo stile distintivo: immagini, parole, rossi sibili

Dalla fine degli anni Settanta e, in misura crescente, negli anni Ottanta, Kruger sviluppa un linguaggio immediatamente riconoscibile: fotografie spesso in bianco-nero, sovrapposte da testi brevi (“You”, “Your”, “I”, “They”) in caratteri sans-serif – in particolare Futura Bold Oblique o Helvetica Ultra Condensed – su un fondo rosso acceso.
Questo dispositivo visivo, che richiama la grafica pubblicitaria, diventa un’arma critica: l’artista utilizza il linguaggio dei media di massa non per essere assorbita da essi, ma per farli esplodere dall’interno, mettendo in luce le strutture di potere, di desiderio, di identità che quell’estetica veicola.
Un esempio celebre è Untitled (Your Body is a Battleground) (1989), creato per la marcia delle donne a Washington per il diritto all’aborto: l’opera è divenuta icona del femminismo visivo e dell’arte pubblica.

Temi chiave: potere, consumo, identità

La riflessione centrale nella produzione di Kruger ruota attorno a meccanismi apparentemente invisibili: il potere (di genere, sociale, economico), il corpo, la rappresentazione, il consumo. Il linguaggio della pubblicità, dei media, del marketing è preso in prestito e ribaltato: slogan come Untitled (I Shop, Therefore I Am) (1987) diventano strumenti per indagare come la cultura del consumo modelli le nostre identità.

Come sintetizza un’analisi critica: «Kruger prende immagini dai mass media e vi incolla sopra delle parole, grandi e audaci estratti di testo: aforismi, domande, slogan».
In tal modo l’artista costringe lo spettatore a interrogarsi: chi parla? Chi è guardato? Qual è il messaggio che assume per sé? Quale destinatario? Quale soggetto? Come osserva un’analisi accademica, «Il messaggio di fondo è che il significato dipende dalla prospettiva, dalla posizione da cui si decodifica».

Evoluzione della pratica e amplificazione dello spazio visivo

Nel corso degli anni, il linguaggio visivo di Kruger si è ampliato: dalle litografie e poster degli anni Ottanta, si è passati alle installazioni ambientali, agli spazi espositivi interi decorati, agli output nei media digitali, ai formati urbani (murales, cartelloni, ambienti pubblici).

L’uso del “wrap” testuale su pavimenti e pareti, la saturazione visiva dell’immagine sovraccarica di testi, mostrano come l’artista non si limiti a “fare un’opera da stupire” ma cerchi un’esperienza immersiva, che investe corpo, spazio e soggetto spettatore.
Questa evoluzione rende evidente come Kruger abbia interpretato – e anticipato – la nostra epoca: in cui l’immagine, il testo, il feed continuo, lo scrolling, la velocità delle frasi diventano elementi strutturali della nostra percezione.

Impatto e critica

Kruger ha ricevuto ampio riconoscimento internazionale: le sue opere sono presenti nelle collezioni dei maggiori musei (Museum of Modern Art, Art Institute of Chicago, Los Angeles County Museum of Art eccetera) e ha partecipato e vinto importanti premi.

Al contempo, il suo linguaggio visivo – straordinariamente efficiente – è stato soggetto a dibattito: alcuni critici muovono un rimprovero circa la sua appartenenza al mercato che critica, o circa la riduzione del soggetto a slogan. Ma la forza della sua arte sta proprio nel far emergere queste ambiguità: nel mostrarci che il potere non appare solo nell’azione ma nella ripetizione visiva, nella retorica, nella grafica che assume autorità.

Significato oggi, lettura contemporanea

Oggi l’opera di Barbara Kruger appare più attuale che mai. La saturazione visiva dei social media, la grafica sovraccarica, l’uso delle frasi-meme, il body-image, la mercificazione dell’identità: tutto questo è già nel suo lavoro dagli anni Ottanta. Come sottolinea un recente articolo: «L’uso da parte di Kruger di frasi concise e brevi ha anticipato la sempre più ridotta capacità di attenzione odierna e l’ubiquità dei media brevi su piattaforme come Twitter e TikTok».
In questo senso, la sua arte non solo descrive, ma invita a una presa di consapevolezza: dell’immagine, del messaggio, dell’effetto che riceviamo e trasmettiamo. Il suo lavoro ci chiede: siamo ancora spettatori passivi dell’arte e della cultura visiva — o siamo chiamati a leggere, decodificare e rispondere?

Barbara Kruger è, dunque, un’artista che ha saputo trasformare la grafica, la fotografia e il testo in una potente macchina critica: non solo per ciò che “mostra” ma per ciò che fa accadere, per lo sguardo che sollecita. Il suo intervento visivo ci costringe a considerare chi siamo — e chi siamo diventati — in un mondo in cui le immagini e gli slogan si moltiplicano. In una cultura visiva iper-stimolata e iper-medializzata, Kruger rimane un punto di riferimento per capire come il potere sa farsi bello, apparente e – spesso – inaccessibile.


Barbara Kruger – tre opere chiave

Tre lavori emblematici che raccontano la potenza del linguaggio visivo di Barbara Kruger: slogan, fotografia e tipografia come strumenti di critica culturale.

Barbara Kruger, I Shop Therefore I Am, 1987
L’immagine di una mano femminile che regge un biglietto rosso, con la scritta bianca in Futura Bold Oblique, ribalta la celebre formula cartesiana. Kruger associa il consumo al pensiero: esistere significa comprare, essere definiti da ciò che si possiede.

Barbara Kruger – Your Body is a Battleground, 1989
Realizzata per la marcia di Washington a favore dei diritti riproduttivi, quest’opera divide il volto di una donna in positivo e negativo fotografico: il corpo come campo di scontro politico e mediatico, la bellezza come strumento di potere e controllo.

Barbara Kruger – Untitled (No Comment), LACMA 2021
Untitled (No Comment) 2021 Installazione immersiva al LACMA di Los Angeles: pareti, pavimenti e schermi invasi da testi e immagini scorrono in loop. Kruger riflette sul ruolo dei social media e sul nuovo regime dell’attenzione. Il rosso e il bianco dominano, come in un feed digitale infinito.


Spoleto: IV rassegna biennale di Fiber Art

La Biennale di Fiber Art, giunta alla sua quarta edizione, torna a Spoleto dal 15 novembre all’8  dicembre 2025 nel Complesso monumentale di S. Nicolò e nella Biblioteca G. Carandente a Palazzo Collicola. 

RASSEGNA BIENNALE DI FIBER ART – SPOLETO 2025
IV EDIZIONE

15 novembre 2025 – 8 dicembre 2025

A cura di Maria Giuseppina Caldarola
In collaborazione con Elena Armellini e Patrizia Bisonni

Inaugurazione sabato 15 novembre 2025 ore 11.00
Complesso monumentale S. Nicolò – Spoleto 

Inaugurazione sabato 15 novembre 2025 ore 15.30
Palazzo Collicola, Biblioteca Carandente – Spoleto


Performance L’uomo che cammina di Antonella Mosca
da S. Nicolò a Palazzo Collicola ore 14.30

Promossa e organizzata dall’Associazione Officina d’Arte e Tessuti di Spoleto, da un’idea di M. Giuseppina Caldarola e Pierfrancesco Caprio, la manifestazione si avvale del patrocinio della Regione Umbria e del Comune di Spoleto. Il tema fondante della Biennale è l’Arte che si confronta nel/con il sociale, in particolare, nel bando per le Accademie, con l’Ambiente e la sua Tutela, in tal modo ricalcando il precedente riferimento alla Strategia ONU per lo Sviluppo sostenibile – Agenda 2030

Alla quarta edizione della Biennale sono stati invitati gli artisti Mariacristina Bettini, Salvatore Giunta, Andrea Guerra, Anett Jakubrik-Cifra, Giancarlo Lepore, Manuela Marchesan, Lisa Martignoni, Virginia Ryan; Fabrizio Felici e Martina Carcangiu del Progetto Mustras; Renza Moreale, Laura Piovesan e Maddalena Valerio dell’Associazione DARS (Donne, Arte, Ricerca, Sperimentazione) di Udine.

È stata ripresa la ricognizione sulla Fiber art nei Paesi U.E., che nel 2018 aveva riguardato la Lituania, ospitando un focus sull’Ungheria: in mostra gli arazzi e le opere delle fiber artiste Eleonóra Pasqualetti, Katalin Zelenák, Lívia Pápai, Noémi Benedek, Edit Balogh.

È poi proseguita la collaborazione con le istituzioni dell’Alta Formazione artistica, attraverso la pubblicazione del bando 2025. Al bando hanno aderito circa cento allievi e allieve di 14 Accademie che saranno presenti a S. Nicolò accanto ad alcune loro docenti. Infine, come ormai d’abitudine, una selezione dei Libri d’Artista provenienti dalla Biennale di Udine saranno visibili presso l’anticamera della Biblioteca G. Carandente a Palazzo Collicola.

Anche le partnership si sono ampliate. Sono costantemente presenti le storiche “Le Arti tessili” di Maniago (UD) e la manifestazione “Feltrosa”, l’Associazione DARS di Udine organizzatrice della Biennale del Libro d’Artista, di cui una selezione 2024 è presente in mostra, nonché il Progetto Mustras approdata nella penultima edizione. Il Maglificio Galassia di Ponte S. Giovanni (PG) (marchio Pashmere) ha continuato a fornire scarti di lavorazione per gli allievi delle accademie. A queste si sono affiancate due nuove associazioni: il Filo Rosso APS di Spoleto, che condivide con l’associazione organizzatrice l’interesse in ambito educativo, con particolare coinvolgimento dei giovani della scuola secondaria e il Parco Culturale ecclesiale “Terre di Pietra e d’Acqua”, Spoleto/Norcia, che fra le molte attività promuove i Cammini storici, prettamente legati all’areale d’interesse, in un approccio che lega insieme molte tematiche. 

Una di queste, che l’Officina ha voluto condividere, è la pratica della Transumanza, evocata a partire dall’uso di fibre animali (la lana, in particolare) che i fiberartisti utilizzano spesso nella realizzazione delle loro opere. Pratica dichiarata dall’UNESCO nel 2023 Patrimonio culturale immateriale dell’Umanità. Non a caso il testo in Catalogo a cura della Presidente del Parco ecclesiale, Anna Rita Cosso, è intitolato Una terra, crocevia di cammini: la Via della Spina, itinerario di transumanza e di pellegrinaggio”. Oltre al cammino, tra gli eventi collaterali viene proposta una esibizione di poesia estemporanea in ottava rima, nota almeno dal Trecento, anch’essa appartenente al patrimonio culturale tradizionale, legata al mondo pastorale. Sarà una performance in cui il pubblico potrà interagire con i poeti e si svolgerà nella sede principale della Biennale (S: Nicolò) poiché l’ispirazione verrà tratta dalle opere in mostra.

Infine, una novità della IV edizione è costituita dall’ospitare a S. Nicolò un’artigiana tessile, per testimoniare che anche questo aspetto è parte del patrimonio culturale della zona. Si tratta di Anna Tosti, che ha puntato sull’innovazione per implementare un progetto creativo di abbigliamento e maglieria nato nel 2024, che fa di un indissolubile legame con il mondo dell’Arte e dell’artigianato la sua originale cifra, unita ad un’estrema attenzione alla sostenibilità per i filati e i tessuti utilizzati, provenienti da stock e scarti aziendali altrimenti destinati al macero e per la produzione di soli pezzi unici made to order interamente realizzati a mano. 

L’Officina d’Arte e Tessuti prosegue dunque il suo cammino di ricerca in campo artistico, sia nel settore delle Arti visive, sia in quello della Musica moderna, con un’attenzione specifica al Patrimonio culturale territoriale, dando spazio di volta in volta ad aspetti peculiari di tale Patrimonio. La Biennale di Fiber art come “piattaforma di impegno sociale e di produzione collaborativa”. 


Contatti
Associazione Officina d’Arte e Tessuti
officinadartetessuti21
http://www.officinadartetessuti.com

Comunicazione e ufficio stampa
Roberta Melasecca –
Melasecca PressOffice – blowart
roberta.melasecca@gmail.com
info@melaseccapressoffice.it
Da Melasecca PressOffice <info@melaseccapressoffice.it> 

Da Marilyn a Dalí: i celebri ritratti di Philippe Halsman in mostra a Piove di Sacco

La Città di Piove di Sacco annuncia la prossima apertura della mostra Lampo di genio, che sarà allestita a Palazzo Pinato Valeri dal 6 dicembre 2025 al 19 aprile 2026, dedicata a Philippe Halsman, uno tra i più originali ed enigmatici ritrattisti del Novecento.

PHILIPPE HALSMAN
LAMPO DI GENIO
Piove di Sacco (PD), Palazzo Pinato Valeri
6 dicembre 2025 – 19 aprile 2026

A Piove di Sacco la fotografia d’autore di Philippe Halsman
Celebri i suoi ritratti di Marilyn Monroe, Einstein, Picasso, Dalì

Tra i più grandi ritrattisti della storia della fotografia, Philippe Halsman (Riga 1906 – New York 1979) ha saputo lavorare sempre tra sguardo e introspezione, intuizione immediata, surrealismo, lampi di genio e tecnica raffinata.
Halsman diventa fotografo nella Parigi degli anni Trenta, a stretto contatto con l’ambiente surrealista da cui impara a guardare la realtà con sguardo straniato, innovativo, pieno di inventiva e creatività. Il talento come ritrattista è da subito evidente, sorretto da una tecnica accurata e dalla possibilità di dare a ogni volto, per ogni occasione, una freschezza e una intensità particolare, ottenuti anche sperimentando tecniche e macchinari. Quando nel 1940 arriva a New York, porta la sua sensibilità europea, l’attenzione piscologica, il gioco dei caratteri e la voglia di inventare nelle pagine delle grandi riviste come Life rivoluzionando, in questo modo, il ritratto.

Tutti sono passati di fronte al suo obiettivo: politici come Churchill e Kennedy, divi del cinema come Marilyn Monroe, Humphrey Bogart, Yves Montand, Barbra Streisand, scienziati come Einstein e Oppenheimer, artisti come Pablo Picasso e Marc Chagall e soprattutto Salvador Dalí con cui, in anni di collaborazione crea una galleria unica di immagini straordinarie, oniriche e surreali in cui l’artista e il fotografo si fondono magicamente. 

Per ogni soggetto, Halsman riesce a cercare un set particolare, una piccola performance.  Le sue immagini sono uniche, a metà tra documento e invenzione, come è proprio nella tradizione dei grandi ritrattisti cui è chiesto di interpretare il soggetto facendolo emergere, o nascondere, dietro il suo personaggio anche a costo di inventare una forma particolare, personalissima, di documento fotografico.

In mostra anche la celebre serie di “jumpology” con divi e personalità che accettano letteralmente di saltare di fronte al suo obiettivo creando un carosello di immagini giocose e dinamiche, originali nella loro realizzazione grafica e nella forza rappresentativa. Tutti si prestano al “gioco” di Halsman, alla dolce tortura di essere fotografati in uno studio, con luci, fondale e macchinari ingombranti. “Quando chiedi ad una persona di saltare tutta l’attenzione è concentrata sull’atto di saltare, e così la maschera cade ed ecco che si mostra la persona dietro di essa” (Philippe Halsman).

Nella sua carriera Halsman ha firmato oltre 101 copertine di Life, più di qualunque altro fotografo; ha creato ritratti straordinari per forza e indagine psicologica. “Lampo di genio” raccoglie tutto questo e presenta al pubblico un autore straordinario e un testimone della nostra storia recente.

In esposizione 100 immagini di diversi formati, tra colore e bianco e nero, volumi originali e documenti che ripercorrono l’intera carriera del grande autore.  Accompagna la mostra il catalogo edito da Contrasto.

L’evento espositivo della stagione 2025/2026 a Palazzo Pinato Valeri, sarà inoltre sfondo tematico e ispirazione a molte delle azioni del progetto CQFP Come Quando Fuori Piove, finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento per le politiche della famiglia per iniziative rivolte a contrastare la povertà educativa e l’esclusione sociale dei bambini e dei ragazzi. Il progetto presenta un’azione specifica, “Jump Art”, diretta alla realizzazione di laboratori e attività mirate a esplorare concetti di introspezione (autoritratto), superamento, passaggio e leggerezza (salto), offrendo a bambini, giovani e famiglie originali strumenti per affrontare il disagio e l’emarginazione con nuove consapevolezze.

Curata da Alessandra Mauro e Suleima Autore in collaborazione con l’Archivio Halsman di New York, la mostra è promossa e prodotta da Città di Piove di Sacco (PD)|Cultura e Contrasto, con l’importante sostegno di BCC VENETA Credito Cooperativo S.C.. L’iniziativa è realizzata in collaborazione con la Camera di Commercio di Padova e Venicepromex. Il catalogo è edito da Contrasto.


PHILIPPE HALSMAN
LAMPO DI GENIO
Dal 6 dicembre 2025 al 19 aprile 2026
Piove di Sacco (PD), Palazzo Pinato Valeri
 
Palazzo Pinato Valeri
Via Garibaldi 54, Piove di Sacco
 
Orari di apertura
Mercoledì, giovedì 09:00-13:00
Venerdì, sabato 09:00-13:00/15:30-18:30
Domenica 09:00-13:00/15:00-19:00 Chiusa il lunedì e il martedì
 
 Biglietti:
Intero 9,00 €
Ridotti 5,00 € (Residenti nei comuni della Saccisica e Soci BCC Veneta)
Gratuità per i minori di anni 18
 
Biglietto Open nominativo per tutta la durata della mostra:
Intero 18,00 €
Ridotto 10,00 € (residenti di nei Comuni della Saccisica e per i Soci BCC Veneta)
 
Informazioni e Prenotazioni:
Ufficio IAT Saccisica 049-9709316/9709319 
info@welcomesaccisica.it 
cultura@comune.piove.pd.it 
www.welcomesaccisica.it 
www.comune.piove.pd.it
 
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