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Nonum kal. septembres hora fere septima mater mea indicat ei apparere nubem inusitata et magnitudine et specie.” (Il nono giorno prima delle calende di settembre, verso l'ora settima, mia madre gli mostra una nube inconsueta sia per forma che per grandezza.)

Nonostante che Plinio il Giovane, che fu spettatore dell’eruzione del Vesuvio, sia la principale fonte di notizie dell’avvenimento, da tempo ne è stata messa in dubbio l’attendibilità per quanto riguarda la datazione del fatto. Nella lettera spedita a Tacito, contenuta nel suo epistolario, nella versione maggiormente accreditata, egli fa cenno esattamente a nove giorni prima delle Calende di settembre, che corrisponderebbe al 24 agosto. Ma, dopo le prime scoperte archeologiche nella zona di Pompei ed Ercolano, si ritrovarono resti che di fatto smentiscono il dato riportato da Plinio.
Poiché l’eruzione coprì, sigillandola, la vita a Pompei per quella che era il giorno dell’eruzione, i resti di frutta secca (fichi secchi, datteri, susine), di frutta fresca come melograni, castagne, uva, noci (tipicamente autunnale), la vendemmia, da tempo già effettuata, con la presenza di anfore interrate contenenti il mosto (la vendemmia avveniva tra settembre e ottobre), la raccolta della canapa da semina già realizzata (che avveniva solitamente a settembre) e la presenza di bracieri per riscaldare la casa, tutto sta ad indicare una data molto posteriore a quella pliniana. A questo si aggiunge che le anfore per il mosto venivano sigillate soltanto dopo una fermentazione all'aria aperta di una decina di giorni. In pratica l’eruzione non può che essere avvenuta nel periodo autunnale.
Un altro ritrovamento, avvenuto il 7 giugno 1974, nell’area di Pompei di un denario d'argento, nei pressi della Casa del bracciale d'oro, ha rimesso ulteriormente in discussione il problema della datazione. Nell’iscrizione riportatavi nel retro si parla dell’Imperatore Tito e della sua quindicesima acclamazione ad imperatore (cioè erano passati quindici anni dalla sua salita al potere). Poiché altre due monete (conservate a Siviglia e al British Museum), datate al 7 settembre e all'8 settembre, hanno ancora l’iscrizione della quattordicesima acclamazione, è evidente come il denario pompeiano, coniato sicuramente dopo, conferma una datazione sicuramente successiva dell’evento.
Carlo Maria Rosini, studioso napoletano del XVIII secolo, avanzò per primo l'ipotesi che il testo di Plinio fosse errato, preferendogli la data riportata da Cassio Dione Cocceiano, cioè il 23 novembre. D’altra parte non può essere addebitato l’errore a Plinio, perchè in tutte le copiature del passo pliniano (e sono molteplici) la data del disastro è sempre diversa. Nelle trascrizioni e nella traduzione del passo “Nonum kal. Septembres” può essersi verificato facilmente un errore, che ha portato a travisarne il significato e, quindi, la datazione.

Non posso darvi una descrizione più precisa della sua forma se non paragonarla a quella di un albero di pino; infatti si elevava a grande altezza come un enorme tronco, dalla cui cima si disperdevano formazioni simili a rami. Sembrava in alcuni punti più chiara ed in altri più scura, a seconda di quanto fosse impregnata di terra e cenere.” (Plinio il Giovane)

Plinio il Vecchio, al comando della flotta romana dislocata a Miseno, e tutta la famiglia, compreso il nipote, assistette incredulo ad un avvenimento del tutto sconosciuto. Decise di andare ad osservare la cosa più da vicino a scopo scientifico, ed offrì al nipote di accompagnarlo. Plinio il Giovane rifiutò, rimanendo a Miseno. Nel frattempo il Vecchio aveva ricevuto una richiesta d’aiuto da parte della moglie dell’amico Cesio Basso. Fu approntata una specie di missione di soccorso. Partì, ma avvicinatosi alla costa presso Ercolano, a causa di una pioggia di ceneri calde, unite a a grumi di pomice e roccia nera rovente, decise di dirigersi a Stabia, presso l’amico Pomponiano, dove passò la notte. Tuttavia, il giorno seguente in tutta la zona l'oscurità era più profonda della notte più nera. Dopo la pioggia di lapilli e ceneri, arrivò la lava, preceduta da un forte odore di zolfo. Plinio il Vecchio, già asmatico, morì soffocato dai vapori tossici. Tre giorni dopo ne fu ritrovato il corpo.
Pompei, Stabia ed Ercolano non furono distrutte nel medesimo modo. Mentre le prime due furono sommerse da una pioggia di cenere e lapilli che cadde ininterrotta (a parte qualche ora di sospensione), Ercolano fu travolta, dodici ore dopo, dalla cosiddetta frana piroclastica, un micidiale composto di gas roventi, ceneri e vapore acqueo. Nonostante quello che si creda, l’eruzione del Vesuvio non durò molto: in appena 25 ore il vulcano eruttò un miliardo di metri cubi di materiale. L’area splendidamente coperta di vegetazione e colture si trasformò in un deserto nero fumante. Col tempo tornò la vita attorno al vulcano, dimenticando l’immane disastro e si perse quasi memoria dell’abitato romano

Quando alla fine del Cinquecento l'architetto Domenico Fontana, occupato nella costruzione di un canale di derivazione del Sarno, mise alla luce antichi edifici con le pareti affrescate e alcune epigrafi, non attribuì i resti dell'antica città. Solo nel 1748, per volontà del re Carlo di Borbone, furono effettuati i primi veri scavi nell'area di Pompei, che continuano ancora oggi. Luogo di scoperte e studio, Pompei, Stabia ed Ercolano hanno rivelato aspetti della cultura e della vita durante l’impero romano, che altrimenti sarebbero scomparsi ad opera dei secoli. Milioni di turisti hanno visitato e visitano le antiche città romane, incredibilmente conservate, tanto da rappresentare un suggestivo viaggio nel tempo.

Il poeta Publio Papinio Stazio, scrisse:
“Crederanno le generazioni a venire [...] che sotto i loro piedi sono città e popolazioni, e che le campagne degli avi s'inabissarono?” 


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