Le prime truppe dell'esercito sardo-piemontese passarono il
Ticino il 23 marzo 1848, seguite da cinque divisioni, il 26 di
marzo. I soldati adottarono come nuova bandiera il tricolore.
L’esercito avanzò lentamente lungo la direttrice
Pavia-Lodi-Crema-Brescia, raggiungendo gli austriaci, al comando
del feldmaresciallo Radetzky, che si erano posizionati davanti
al Quadrilatero delle fortezze. Insieme all’esercito
piemontese, di circa 30.000 soldati, combattevano truppe dello
Stato Pontificio (7.500 soldati), del Granducato di Toscana
(7.000 soldati), e del Regno delle Due Sicilie (16.000 soldati).
La battaglia di Pastrengo si aprì con la storica carica dei
carabinieri a cavallo, di scorta a Carlo Alberto, anche se la
carica non ebbe un risultato decisivo, servì come simbolo e
incoraggiamento a tutti i soldati e volontari che combattevano
contro l’esercito austroungarico. Seguì , il 6 maggio, la
battaglia di Santa Lucia, sotto le mura di Verona. Pur vincendo,
gli italiani non seppero mettere a frutto il successo, dando
forza al nemico, ancora non battuto definitivamente. Questi,
infatti, risposero con una controffensiva partita da Mantova,
che diede luogo, il 28 maggio, alla battaglia di Curtatone e
Montanara, dove erano impiegate truppe di volontari toscani, e a
quella di Goito del 30 maggio. Lo stesso giorno cadde la
fortezza austriaca di Peschiera. I soldati italiani vincitori
acclamarono Carlo Alberto "Re d'Italia". Tuttavia, Pio IX, al
concistoro del 29 aprile, aveva enunciato la celebre allocuzione
Non semel, dove sconfessò l’intera guerra all'Austria. Il
Papa, infatti, capo della Chiesa Universale e contemporaneamente
Capo di uno Stato italiano, preoccupato dagli effetti della
guerra sui credenti austriaci, nella contraddizione, se ne tirò
fuori, richiamando le sue truppe. Analogamente Ferdinando II di
Borbone, anch’esso in contraddizione, mise fine alla missione
militare. Infatti l’esercito borbonico era contemporaneamente in
Sicilia, relegato alla sola piazzaforte di Messina (e una
delegazione dei rivoltosi si era recata, perfino, a Torino per
offrire la Corona ad un Principe sabaudo), e l’ambiguità stessa
di Carlo Alberto riguardo il Ducato di Parma (governato da una
dinastia borbonica), ponevano il dubbio a Ferdinando II da che
parte stare della barricata. Non tutti i soldati borbonici,
comunque, si ritirarono dalla battaglia: una parte
dell’artiglieria e del genio rimase come volontaria al comando
del generale, e vecchio patriota napoletano, Guglielmo Pepe,
anch’esso volontario. In effetti, moltissimi furono i volontari
accorsi da ogni parte d’Italia, soprattutto napoletani, toscani,
romani e numerosissimi volontari arruolati dal governo
provvisorio della Lombardia. Ugualmente Garibaldi e Mazzini
tornarono in Italia, anche se accolti senza tante feste. Lo
stesso generale Garibaldì fu utilizzato solo sul finire della
guerra, comandando una piccola guerriglia intorno a Como, sul
confine svizzero. Intanto il fronte (fra il Mincio e Verona)
godeva di tranquillità. Il generale Radetzky, asserragliato nel
quadrilatero delle fortezze, mai battuto realmente, a causa
dell'incapacità piemontese di prendere l'iniziativa, pensò di
rinvigorirsi, richiamando rinforzi. Arrivò un corpo d'armata
formato dal conte Nugent, che si posizionò sull'Isonzo, ed altri
rinforzi dal Tirolo. Il 10 giugno, mentre una delegazione
trionfante, guidata dal podestà di Milano Casati, consegnava
l’esito del Plebiscito che decretava l'unione della Lombardia al
Regno di Sardegna, Radetzky passò all’azione. Riconquistò la
piazzaforte di Vicenza e iniziò a ricacciare indietro gli
italiani. La ritirata piemontese, anche se ordinata, verso
l'Adda e Milano, fu lenta ma inesorabile. Ebbero luogo le
sconfitte denominate come prima battaglia di Custoza. Il 4
agosto vi fu la battaglia di Milano, che portò Carlo Alberto a
chiedere un armistizio agli Austriaci. Venne firmata, Il 5
agosto, la capitolazione di Milano e, il giorno successivo, gli
Austriaci rientrarono nella città da Porta Romana. Il 9 agosto
fu firmato, a Vigevano, l'armistizio di Salasco (generale
piemontese). Vennero ristabiliti i confini scaturiti dal
congresso di Vienna. L’unica città che non ritornò sotto gli
Austriaci fu Venezia, che viveva in quel momento la sua nuova
Repubblica. La città venne messa in stato d’assedio.
L’armistizio firmato con il suo articolo 6, stabiliva la durata
di sei settimane. Sia Carlo Alberto che Radetzky, sapevano,
infatti, che non essendo distrutto l’esercito piemontese, le
ostilità, presto o tardi, sarebbero riprese. La delusione fu,
tuttavia, cocente per i patrioti italiani: l’immagine di Carlo
Alberto, sotto il profilo militare, ne usciva ridimensionata e
l’obiettivo dell’Unità sembrava, ancora una volta,
irraggiungibile.
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