All’esame di Maturità 2025 la scuola incontra il Futurismo di Boccioni

All’esame di Maturità 2025, una delle sorprese più inaspettate è arrivata dalla seconda prova del liceo scientifico, dove un esercizio di matematica ha preso spunto da una celebre scultura futurista di Umberto Boccioni. Un’insolita e stimolante connessione tra arte e scienza che ha aperto una riflessione sul potenziale dell’interdisciplinarietà nella scuola contemporanea.

La moneta italiana da 20 centesimi di euro


Raffigura sul lato principale la celebre scultura futurista di Umberto Boccioni, Forme uniche della continuità nello spazio (1913), emblema del dinamismo e della modernità tipici del Futurismo. Attorno all’immagine si dispongono le dodici stelle dell’Unione Europea. Sul lato sinistro compare il monogramma “RI”, che identifica la Repubblica Italiana, mentre sulla destra si trovano il simbolo della Zecca di Roma (“R”) e l’anno di emissione (2002 nella versione raffigurata). In basso compaiono le iniziali dell’autrice del disegno, Maria Angela Cassol (“M.A.C.”).

La moneta è coniata in “oro nordico”, una lega metallica composta da rame, zinco, alluminio e stagno. Misura 22,25 millimetri di diametro, pesa 5,74 grammi e presenta un bordo liscio con sette rientranze, che le conferiscono una caratteristica forma a “fiore spagnolo”.

La scelta della scultura di Boccioni rende omaggio a uno dei capolavori del Futurismo italiano, in cui il movimento e la continuità nello spazio si fondono nella materia per rappresentare l’energia dell’uomo moderno.

Alla Maturità 2025, la seconda prova scritta del liceo scientifico ha riservato una sorpresa. Accanto a funzioni, limiti e derivate, è comparsa la sagoma inconfondibile di una delle opere più iconiche del Novecento: Forme uniche della continuità nello spazio di Umberto Boccioni. Non si è trattato di una citazione decorativa o di un esempio collaterale, ma del fulcro di un esercizio di studio di funzione, fondato sull’analisi matematica di un profilo estratto dalla celebre scultura. Un esercizio che, a prima vista, può sembrare un semplice omaggio interdisciplinare. Ma che, a ben guardare, spalanca una finestra sorprendente sulla possibilità di dialogo tra logica scientifica e visione artistica.

Questa inattesa incursione dell’arte nel cuore della matematica ha suscitato la riflessione di studiosi e critici, come Vincenzo Trione sul Corriere dela Sera, che ha colto in questa scelta un segnale di rottura rispetto alla tradizionale compartimentazione del sapere scolastico. Un esercizio come questo impone infatti di interrogare la complessità dei linguaggi e dei metodi, facendo emergere connessioni fino a ieri trascurate. In fondo, Forme uniche nasce proprio come tentativo di fissare nella materia solida il dinamismo dell’esperienza, la durata del gesto, la traiettoria del corpo. E come un’equazione, condensa in un’unica figura molteplici istanti, punti di vista e tensioni.

Realizzata nel 1913, la scultura di Boccioni è un manifesto tridimensionale del Futurismo. Alta, compatta, tagliente, rappresenta un corpo umano in corsa, lanciato nello spazio. La figura, priva di braccia, è composta da volumi fluidi e sovrapposti che si slanciano in più direzioni, generando un senso di potenza inarrestabile. L’opera, oggi esposta in varie versioni in musei di tutto il mondo – tra cui il Museo del Novecento di Milano e la Galleria Nazionale di Cosenza – è anche impressa sul retro della moneta italiana da 20 centesimi di euro, testimonianza della sua potenza simbolica e della sua riconoscibilità popolare.

Nella concezione di Boccioni, ogni forma è il risultato di una fusione dinamica tra corpo e spazio, tra tempo e materia. La figura umana non è più ritratta nella sua immobilità ideale, ma attraversata dalle forze del movimento e della velocità, resa porosa rispetto al fluire della realtà. Per ottenere questo effetto, l’artista rompe con le convenzioni della scultura classica e lavora sul gesso con un’intenzione rivoluzionaria. Le versioni in bronzo, oggi celebri, sono state fuse soltanto dopo la sua morte. Le forme, spezzate e ripiegate, si protendono all’esterno, superano l’anatomia, cercano nello spazio il prolungamento del gesto. Così, nella fissità del bronzo, l’opera sembra muoversi, vibrare, correre.

L’interesse per il dinamismo accompagna tutta la carriera di Boccioni. Nato a Reggio Calabria nel 1882, cresciuto tra Roma e Milano, il giovane artista si forma accanto a Giacomo Balla, assorbendo l’energia delle avanguardie e delle teorie del movimento. Il suo incontro con Filippo Tommaso Marinetti segna una svolta. Insieme, tra il 1910 e il 1911, firmano il Manifesto dei pittori futuristi e il Manifesto tecnico della pittura futurista, documenti fondamentali per comprendere lo spirito di rottura del movimento. Boccioni, però, non si limita alle parole: le sue tele – come Dinamismo di un ciclista o Dinamismo di un calciatore – traducono la simultaneità degli istanti, la moltiplicazione delle prospettive, l’energia urbana e meccanica del nuovo secolo.

Nel 1912, l’artista inizia a dedicarsi con ossessione alla scultura, che considera un’arte da riformare radicalmente. In una lettera scrive: «Sono ossessionato dalla scultura! Credo di aver visto una completa rinnovazione di quest’arte mummificata». Inizia così a sperimentare con il gesso, spezzando e deformando i volumi, cercando di dare forma a un realismo “fisico”, quasi trascendentale, che accolga in sé la complessità della durata e del divenire. Opere come Sviluppo di una bottiglia nello spazio o L’antigrazioso – un ritratto spigoloso della madre – sono tappe fondamentali di questo percorso. Ma è con Forme uniche della continuità nello spazio che la sua visione tocca l’apice.

La scelta del Ministero dell’Istruzione di partire proprio da quest’opera per costruire un esercizio matematico non è casuale. La scultura di Boccioni incarna infatti una geometria fluida, una relazione aperta tra i volumi, una struttura che può essere interrogata anche in termini di funzione e di superficie. Così, un dettaglio plastico – la curva di una gamba, l’espansione di un’appendice, il flusso di un rilievo – diventa occasione per uno studio analitico, in cui il linguaggio dell’arte incontra quello della matematica.

È una suggestione che riecheggia lo spirito stesso del Futurismo, teso alla sintesi e all’integrazione dei saperi. In questo senso, l’opera di Boccioni si offre non solo come oggetto estetico, ma come “cronotopo”, per usare un termine caro alla critica letteraria: uno spazio in cui tempo e forma si fondono, dando luogo a una rappresentazione simultanea di eventi. I suoi lavori, infatti, pur nella loro apparente compiutezza, sembrano sempre aperti, attraversati da correnti, da tensioni, da forze contrapposte.

Umberto Boccioni muore tragicamente nel 1916, a soli 34 anni, in seguito a una caduta da cavallo durante l’addestramento militare, dopo essersi arruolato come fervente interventista. La sua opera, tuttavia, resta come una delle testimonianze più alte dell’utopia futurista, del desiderio di fondere arte e vita, pensiero e azione, e oggi – persino tra i banchi della Maturità – continua a parlare ai giovani, a interrogare il presente, a suggerire che anche la matematica, se osservata con occhi nuovi, può contenere una scintilla di visione.


Sotheby’s racconta Napoleone Bonaparte attraverso la collezione Chalençon

Un’asta straordinaria accende i riflettori sulla figura di Napoleone Bonaparte: il 25 giugno, Sotheby’s Parigi presenta la collezione di Pierre-Jean Chalençon, una delle più vaste raccolte napoleoniche mai apparse sul mercato. Oltre cento oggetti raccontano l’Imperatore tra mito, potere e intimità, restituendo un ritratto sfaccettato attraverso arte, storia e memoria.

Pierre-Jean Chalençon, Napoléon: La collection

Pierre-Jean Chalençon è considerato uno dei massimi esperti e collezionisti al mondo nel campo delle arti legate a Napoleone Bonaparte. Ha curato importanti mostre internazionali ed è stato ospite d’onore alla Biennale di Parigi del 2018, tenutasi al Grand Palais. Figura nota anche al grande pubblico, partecipa regolarmente a trasmissioni radiofoniche e televisive, tra cui il programma Affaire conclue su France 2. Dirige il Souvenir napoléonien, il Cercle France Napoléon e sovrintende alla gestione del Palais Vivienne, storica dimora parigina. Autore prolifico, ha firmato articoli e volumi di riferimento sull’arte dell’epoca imperiale, tra cui Napoleone, l’Imperatore Immortale (2002) e L’Incoronazione di Napoleone (2004).

Il prossimo 25 giugno, Sotheby’s Parigi aprirà le porte della sua storica sede di rue du Faubourg-Saint-Honoré a un evento che unisce storia, arte e collezionismo in una delle vendite più imponenti mai dedicate alla figura di Napoleone Bonaparte. Protagonista assoluta, la collezione privata di Pierre-Jean Chalençon: oltre cento oggetti tra arredi, cimeli, dipinti, documenti e reliquie personali che restituiscono la parabola straordinaria di un uomo diventato mito, dall’ascesa imperiale alla malinconia dell’esilio.

Frutto di oltre quarant’anni di ricerca appassionata e meticoloso studio, la collezione Chalençon è considerata una delle più vaste e autorevoli raccolte napoleoniche mai apparse sul mercato. Prima dell’asta parigina, due esposizioni internazionali ne hanno anticipato il prestigio: una a Hong Kong (23–27 maggio), l’altra a New York (5–11 giugno), tappe simboliche di un itinerario globale che conferma la rilevanza culturale del progetto. Ogni pezzo in asta è testimone della grandezza storica e della dimensione più intima dell’Imperatore: l’uomo stratega, il condottiero carismatico, ma anche il marito, il padre, il prigioniero.

A guidare la narrazione, oggetti di straordinario valore simbolico. In apertura, il leggendario bicorno indossato “en bataille”, uno degli emblemi più riconoscibili di Napoleone. Donato al generale Mouton dopo la battaglia di Essling, oggi è stimato tra i 500 e gli 800 mila euro. Seguono la spada cerimoniale usata per l’incoronazione a Notre-Dame (realizzata dall’armaiolo Boutet di Versailles), e il sigillo personale in oro ed ebano, sottratto a Waterloo e successivamente donato al maresciallo prussiano Blücher — entrambi icone di un potere costruito anche attraverso la cura dell’immagine e della rappresentazione.

Ma è forse nel dettaglio degli oggetti più minuti e privati che si coglie il senso profondo della raccolta: il codicillo autografo redatto a Sant’Elena, in cui Napoleone dispone gli ultimi beni a favore dei fedelissimi; la manica macchiata di salsa di un abito consolare, custodita per un secolo dal sarto Chevallier; o ancora il letto da campo pieghevole, compagno di viaggi e battaglie, progettato per accompagnarlo ovunque. Ogni oggetto è una scheggia di romanzo, un frammento autentico che collega l’epopea storica alla fragilità quotidiana.

Il percorso dell’asta tocca anche l’arte visiva e la pittura ufficiale, documentando l’impatto del linguaggio napoleonico sull’immaginario figurativo dell’epoca. Tra le opere in catalogo, lo studio per il ritratto d’incoronazione attribuito a François Gérard (stimato intorno ai 300 mila euro) e la struggente tela di Paul Delaroche, Napoleone a Fontainebleau (1848), in cui l’Imperatore è raffigurato nell’istante in cui prende atto della sconfitta, seduto e silenzioso in una stanza vuota: icona perfetta della transizione dal potere alla memoria.

Anche gli arredi parlano la lingua del potere e dell’intimità. Dal trono da parata proveniente dal palazzo di Stupinigi, espressione del gusto torinese sotto l’Impero, alla toeletta personale di Giuseppina, proveniente dal castello di Saint-Cloud, ogni oggetto è specchio di un’epoca che ha saputo coniugare la monumentalità della forma con l’eleganza della vita quotidiana. Non manca nemmeno un’intera sezione dedicata al giovane Re di Roma, figlio tanto atteso da Napoleone e Maria Luisa d’Austria: piccoli abiti, oggetti d’infanzia, testimonianze familiari che completano la narrazione con un registro più affettuoso e privato.

Il valore della collezione, però, non si misura soltanto nel pregio materiale o nell’unicità dei pezzi. Come sottolinea Marine de Cenival, responsabile della vendita per Sotheby’s, essa offre “una visione completa e complessa dell’eredità napoleonica, mescolando emblemi del potere e memorie personali”. Un punto di vista condiviso anche da Louis-Xavier Joseph, responsabile del dipartimento mobili europei, che evidenzia come questa raccolta rappresenti una sintesi insuperata di studio, passione e competenza istintiva, capace di raccontare tanto il mito pubblico quanto la vita privata dell’Imperatore.

Pierre-Jean Chalençon, “l’imperatore dei collezionisti”, è una figura nota agli appassionati di storia e al grande pubblico. Esperto di fama internazionale, volto televisivo e animatore culturale, ha costruito negli anni un vero e proprio cabinet de curiosités all’interno del Palais Vivienne di Parigi, tempio laico della memoria napoleonica. Direttore del Souvenir Napoléonien e del Cercle France Napoléon, ha anche pubblicato opere di riferimento come Napoleone, l’Imperatore Immortale (2002) e L’Incoronazione di Napoleone (2004), contribuendo alla diffusione e alla valorizzazione del patrimonio artistico dell’epoca imperiale.

Con questa asta, Sotheby’s non si limita a vendere oggetti: mette in scena un’intera visione del mondo, un universo culturale che ha saputo imporsi nella storia attraverso simboli forti e gesti teatrali. La collezione Chalençon non è un archivio di reliquie, ma un racconto continuo, un’opera aperta che rinnova la fascinazione per una delle figure più complesse e ambigue della modernità. E lo fa con la precisione del catalogo, la suggestione del museo e l’emozione di una biografia che continua a interrogarci.


Léon Krier: l’architetto che ha sfidato i dogmi del modernismo

Figura centrale del dibattito urbanistico contemporaneo, Léon Krier ha sfidato per oltre mezzo secolo i dogmi del modernismo architettonico, proponendo una visione alternativa fondata sulla città tradizionale, policentrica e a misura d’uomo. Teorico militante, progettista selettivo e influente docente, ha lasciato un’impronta profonda nella riflessione sul futuro dell’abitare.

Gli scarabocchi polemici di Léon Krier, il padrino intellettuale del New Urbanism

Il Nuovo Urbanesimo è un movimento nato negli Stati Uniti negli anni ’80 che promuove uno sviluppo urbano sostenibile e a misura d’uomo. Al centro della sua visione ci sono quartieri pedonali, ben serviti da infrastrutture pubbliche, che combinano abitazioni, luoghi di lavoro e servizi. L’obiettivo è contrastare l’espansione urbana incontrollata e i modelli suburbani del dopoguerra, incoraggiando stili di vita più ecologici e comunitari.

Ispirandosi all’urbanistica pre-automobile, il movimento sostiene lo sviluppo tradizionale dei quartieri e la pianificazione orientata al trasporto pubblico. Promuove inoltre un’architettura contestuale, la tutela del patrimonio storico, la sicurezza stradale, l’edilizia sostenibile e la riqualificazione delle aree degradate. Dal punto di vista stilistico, gli interventi si rifanno spesso all’architettura neoclassica, postmoderna o vernacolare, pur non essendo vincolati a un unico linguaggio formale.

Nel panorama dell’architettura del Novecento e oltre, Léon Krier si distingue come una figura isolata e controcorrente. Nato in Lussemburgo nel 1946 e scomparso nel giugno 2025, Krier è stato molto più di un architetto: è stato teorico, urbanista e una delle voci più autorevoli contro l’egemonia del modernismo, di cui ha contestato tanto i presupposti ideologici quanto gli effetti concreti sullo spazio urbano. Ha difeso, invece, la forma urbana tradizionale, la città a misura d’uomo, policentrica, fondata su un equilibrio organico tra funzioni e architettura.

La sua carriera, iniziata con una rottura: dopo un solo anno, abbandonò gli studi all’Università di Stoccarda per lavorare a Londra nello studio di James Stirling, da cui si allontanerà per collaborare con Josef Paul Kleihues a Berlino, salvo poi tornare nel Regno Unito. È qui che Krier resterà per due decenni, dividendosi tra la pratica progettuale e l’insegnamento presso l’Architectural Association e il Royal College of Art. Nel frattempo, prende forma la sua vocazione teorica e militante, come dimostra la celebre frase: “Sono un architetto perché non costruisco”. Un paradosso che sintetizza bene il suo atteggiamento: l’architettura, per lui, è innanzitutto un pensiero critico, un impegno intellettuale e civile.

A partire dalla fine degli anni Settanta, Krier diventa una delle figure centrali nel dibattito sul destino delle città europee. La sua critica al modernismo si concentra in particolare sulla zonizzazione funzionale, che ha prodotto sobborghi alienanti e reti urbane frammentate, e sulla crescente tendenza al gigantismo urbano. Per contrastare questi esiti, Krier elabora una visione alternativa fondata sulla città tradizionale, densa, compatta, policentrica, capace di crescere per moltiplicazione e non per estensione.

Le sue teorie non restano sulla carta. Krier lavora a numerosi masterplan, il più noto dei quali è quello per Poundbury, sobborgo di Dorchester nel Dorset, progettato per conto del Ducato di Cornovaglia e supervisionato per oltre due decenni in collaborazione con Carlo III. Un esperimento urbano emblematico, che rappresenta l’applicazione concreta delle sue idee: un tessuto urbano misto, a scala ridotta, privo di gerarchie funzionali rigide, con edifici di altezze contenute e attenzione all’identità locale.

Un altro progetto emblematico è Paseo Cayalá in Guatemala, estensione urbana concepita secondo i principi del Nuovo Urbanesimo, movimento di cui Krier è stato ispiratore e figura di riferimento, sia in Europa sia negli Stati Uniti. La sua influenza si estende anche alla cultura accademica: per quarant’anni è stato visiting professor in importanti università americane — Princeton, Yale, Virginia, Cornell, Notre Dame — e ha diretto dal 1987 al 1990 il SOMAI (Skidmore, Owings & Merrill Architectural Institute) di Chicago.

Al di là del ruolo di consulente urbanistico, Krier ha scelto di progettare soltanto edifici a cui attribuiva un valore personale. Tra questi figurano il Museo archeologico di São Miguel de Odrinhas in Portogallo, la casa Krier nel villaggio di Seaside in Florida, il Windsor Village Hall sempre in Florida, il Jorge M. Pérez Architecture Center dell’Università di Miami, e il centro di quartiere Città Nuova ad Alessandria.

Tuttavia, l’inizio della sua carriera fu segnato da un linguaggio modernista, come dimostra il progetto per l’Università di Bielefeld del 1968. Il passaggio a una visione classica e vernacolare si consolida nel 1978, con la proposta (mai realizzata) di ricostruzione del centro di Lussemburgo, sua città natale, devastata da interventi modernisti. Da quell’idea nasce anche la progettazione della nuova Cité Judiciaire, completata tra il 1990 e il 2008 dal fratello Rob, architetto anch’egli.

Il suo attivismo lo porta a sostenere la ricostruzione della Frauenkirche e dell’area Historische Neumarkt a Dresda nel 1990, sfidando apertamente l’ortodossia architettonica dominante. Allo stesso modo, nel 2007 sostiene l’iniziativa per ricostruire lo storico quartiere di Hühnermarkt a Francoforte, anche in quel caso contro forti opposizioni tecniche e politiche.

Numerosi i masterplan da lui elaborati, spesso non realizzati, ma di grande influenza: da Kingston upon Hull e Roma (1977) a Berlino Ovest, Stoccolma, Poing Nord (Monaco di Baviera), Washington DC (1984, su commissione del MoMA), Tenerife (1987), Novoli a Firenze (1993), Corbeanca in Romania (2007), High Malton nello Yorkshire (2014), Tor Bella Monaca a Roma (2010), Cattolica (2017). In Belgio, il quartiere Heulebrug fu realizzato seguendo il suo masterplan, mentre a Newquay (2002-2006), il progetto fu poi sviluppato da Adam Associates.

Alla base della sua teoria urbana vi è una concezione quasi morale della forma della città. Krier condivideva il pensiero di Heinrich Tessenow: una città funziona davvero solo se la sua popolazione è limitata. Questa non è una convinzione astratta, bensì una constatazione storica. Le misure, la densità, l’organizzazione spaziale delle città tradizionali non sono il frutto di un ordine economico, ma il riflesso di un ordine etico e legislativo che garantisce la sopravvivenza anche in tempi di crisi. “L’intera Parigi è una città preindustriale che funziona ancora”, diceva Krier, “perché è adattabile. Milton Keynes, invece, non sopravvivrà mai a una crisi, perché è un sistema matematicamente chiuso”.

Da qui deriva la sua proposta di città a scala umana: quartieri autosufficienti, misti per funzioni e dimensioni, di massimo 33 ettari (percorribili a piedi in dieci minuti), con edifici di altezze comprese tra i tre e i cinque piani. Un tessuto urbano costruito a misura dell’uomo, delimitato non da confini astratti ma da parchi, viali, percorsi pedonali e ciclabili, in cui la forma stessa della città sia espressione visibile di una civiltà.

Negli scritti, raccolti in saggi e libri come The Architecture of Community e Drawing for Architecture, Krier ha sviluppato un linguaggio chiaro, spesso corredato da disegni esplicativi. L’urbanistica modernista, con la sua rigida divisione in zone monofunzionali (residenziale, commerciale, industriale, ecc.) è vista come espressione di una visione ideologica e autoritaria. Contro questa visione, Krier propone il modello della res publica + res privata, dove gli edifici pubblici sono monumentali e classici, collocati nei punti focali della città; gli edifici privati, invece, sono progettati secondo logiche vernacolari e tipologiche.

Il cuore della sua proposta è la tipologia. Le architetture, per Krier, devono essere riconoscibili: casa, palazzo, chiesa, torre, finestra, tetto. Questo linguaggio “senza equivoci”, come lo definiva, è ciò che permette alla città di mantenere un ordine e un senso. E quando i programmi diventano complessi, come nel progetto per la scuola di Saint-Quentin-en-Yvelines (1978), la risposta non è la megalitica espansione, ma la suddivisione: la scuola si trasforma in una piccola città.

A questa impostazione corrisponde anche un’idea precisa di varietà: non un’eterogeneità gratuita, ma una differenziazione organica, coerente con le funzioni e le tecniche. In ogni isolato devono convivere lotti di diversa dimensione, destinazione e forma, generando spazi pubblici articolati — strade, piazze, viali, parchi — pensati come parte integrante dell’architettura stessa.

Paradossalmente, è stato detto che l’architettura di Krier “non ha stile”. Eppure, le sue opere evocano chiaramente un’ispirazione romana, che si ripresenta con coerenza nei contesti più diversi: Londra, Stoccolma, Tenerife, Florida. Ha persino difeso — non senza polemiche — l’opera dell’architetto Albert Speer, distinguendola dal regime per cui lavorava. Una posizione estrema, ma coerente con il suo intento: restituire all’architettura e alla città un linguaggio leggibile, uno spazio civile, una misura umana.