
Figura centrale del dibattito urbanistico contemporaneo, Léon Krier ha sfidato per oltre mezzo secolo i dogmi del modernismo architettonico, proponendo una visione alternativa fondata sulla città tradizionale, policentrica e a misura d’uomo. Teorico militante, progettista selettivo e influente docente, ha lasciato un’impronta profonda nella riflessione sul futuro dell’abitare.
Il Nuovo Urbanesimo è un movimento nato negli Stati Uniti negli anni ’80 che promuove uno sviluppo urbano sostenibile e a misura d’uomo. Al centro della sua visione ci sono quartieri pedonali, ben serviti da infrastrutture pubbliche, che combinano abitazioni, luoghi di lavoro e servizi. L’obiettivo è contrastare l’espansione urbana incontrollata e i modelli suburbani del dopoguerra, incoraggiando stili di vita più ecologici e comunitari.
Ispirandosi all’urbanistica pre-automobile, il movimento sostiene lo sviluppo tradizionale dei quartieri e la pianificazione orientata al trasporto pubblico. Promuove inoltre un’architettura contestuale, la tutela del patrimonio storico, la sicurezza stradale, l’edilizia sostenibile e la riqualificazione delle aree degradate. Dal punto di vista stilistico, gli interventi si rifanno spesso all’architettura neoclassica, postmoderna o vernacolare, pur non essendo vincolati a un unico linguaggio formale.
Léon Krier: l’architetto che ha sfidato i dogmi del modernismo
Nel panorama dell’architettura del Novecento e oltre, Léon Krier si distingue come una figura isolata e controcorrente. Nato in Lussemburgo nel 1946 e scomparso nel giugno 2025, Krier è stato molto più di un architetto: è stato teorico, urbanista e una delle voci più autorevoli contro l’egemonia del modernismo, di cui ha contestato tanto i presupposti ideologici quanto gli effetti concreti sullo spazio urbano. Ha difeso, invece, la forma urbana tradizionale, la città a misura d’uomo, policentrica, fondata su un equilibrio organico tra funzioni e architettura.
La sua carriera, iniziata con una rottura: dopo un solo anno, abbandonò gli studi all’Università di Stoccarda per lavorare a Londra nello studio di James Stirling, da cui si allontanerà per collaborare con Josef Paul Kleihues a Berlino, salvo poi tornare nel Regno Unito. È qui che Krier resterà per due decenni, dividendosi tra la pratica progettuale e l’insegnamento presso l’Architectural Association e il Royal College of Art. Nel frattempo, prende forma la sua vocazione teorica e militante, come dimostra la celebre frase: “Sono un architetto perché non costruisco”. Un paradosso che sintetizza bene il suo atteggiamento: l’architettura, per lui, è innanzitutto un pensiero critico, un impegno intellettuale e civile.
A partire dalla fine degli anni Settanta, Krier diventa una delle figure centrali nel dibattito sul destino delle città europee. La sua critica al modernismo si concentra in particolare sulla zonizzazione funzionale, che ha prodotto sobborghi alienanti e reti urbane frammentate, e sulla crescente tendenza al gigantismo urbano. Per contrastare questi esiti, Krier elabora una visione alternativa fondata sulla città tradizionale, densa, compatta, policentrica, capace di crescere per moltiplicazione e non per estensione.
Le sue teorie non restano sulla carta. Krier lavora a numerosi masterplan, il più noto dei quali è quello per Poundbury, sobborgo di Dorchester nel Dorset, progettato per conto del Ducato di Cornovaglia e supervisionato per oltre due decenni in collaborazione con Carlo III. Un esperimento urbano emblematico, che rappresenta l’applicazione concreta delle sue idee: un tessuto urbano misto, a scala ridotta, privo di gerarchie funzionali rigide, con edifici di altezze contenute e attenzione all’identità locale.
Un altro progetto emblematico è Paseo Cayalá in Guatemala, estensione urbana concepita secondo i principi del Nuovo Urbanesimo, movimento di cui Krier è stato ispiratore e figura di riferimento, sia in Europa sia negli Stati Uniti. La sua influenza si estende anche alla cultura accademica: per quarant’anni è stato visiting professor in importanti università americane — Princeton, Yale, Virginia, Cornell, Notre Dame — e ha diretto dal 1987 al 1990 il SOMAI (Skidmore, Owings & Merrill Architectural Institute) di Chicago.
Al di là del ruolo di consulente urbanistico, Krier ha scelto di progettare soltanto edifici a cui attribuiva un valore personale. Tra questi figurano il Museo archeologico di São Miguel de Odrinhas in Portogallo, la casa Krier nel villaggio di Seaside in Florida, il Windsor Village Hall sempre in Florida, il Jorge M. Pérez Architecture Center dell’Università di Miami, e il centro di quartiere Città Nuova ad Alessandria.
Tuttavia, l’inizio della sua carriera fu segnato da un linguaggio modernista, come dimostra il progetto per l’Università di Bielefeld del 1968. Il passaggio a una visione classica e vernacolare si consolida nel 1978, con la proposta (mai realizzata) di ricostruzione del centro di Lussemburgo, sua città natale, devastata da interventi modernisti. Da quell’idea nasce anche la progettazione della nuova Cité Judiciaire, completata tra il 1990 e il 2008 dal fratello Rob, architetto anch’egli.
Il suo attivismo lo porta a sostenere la ricostruzione della Frauenkirche e dell’area Historische Neumarkt a Dresda nel 1990, sfidando apertamente l’ortodossia architettonica dominante. Allo stesso modo, nel 2007 sostiene l’iniziativa per ricostruire lo storico quartiere di Hühnermarkt a Francoforte, anche in quel caso contro forti opposizioni tecniche e politiche.
Numerosi i masterplan da lui elaborati, spesso non realizzati, ma di grande influenza: da Kingston upon Hull e Roma (1977) a Berlino Ovest, Stoccolma, Poing Nord (Monaco di Baviera), Washington DC (1984, su commissione del MoMA), Tenerife (1987), Novoli a Firenze (1993), Corbeanca in Romania (2007), High Malton nello Yorkshire (2014), Tor Bella Monaca a Roma (2010), Cattolica (2017). In Belgio, il quartiere Heulebrug fu realizzato seguendo il suo masterplan, mentre a Newquay (2002-2006), il progetto fu poi sviluppato da Adam Associates.
Alla base della sua teoria urbana vi è una concezione quasi morale della forma della città. Krier condivideva il pensiero di Heinrich Tessenow: una città funziona davvero solo se la sua popolazione è limitata. Questa non è una convinzione astratta, bensì una constatazione storica. Le misure, la densità, l’organizzazione spaziale delle città tradizionali non sono il frutto di un ordine economico, ma il riflesso di un ordine etico e legislativo che garantisce la sopravvivenza anche in tempi di crisi. “L’intera Parigi è una città preindustriale che funziona ancora”, diceva Krier, “perché è adattabile. Milton Keynes, invece, non sopravvivrà mai a una crisi, perché è un sistema matematicamente chiuso”.
Da qui deriva la sua proposta di città a scala umana: quartieri autosufficienti, misti per funzioni e dimensioni, di massimo 33 ettari (percorribili a piedi in dieci minuti), con edifici di altezze comprese tra i tre e i cinque piani. Un tessuto urbano costruito a misura dell’uomo, delimitato non da confini astratti ma da parchi, viali, percorsi pedonali e ciclabili, in cui la forma stessa della città sia espressione visibile di una civiltà.
Negli scritti, raccolti in saggi e libri come The Architecture of Community e Drawing for Architecture, Krier ha sviluppato un linguaggio chiaro, spesso corredato da disegni esplicativi. L’urbanistica modernista, con la sua rigida divisione in zone monofunzionali (residenziale, commerciale, industriale, ecc.) è vista come espressione di una visione ideologica e autoritaria. Contro questa visione, Krier propone il modello della res publica + res privata, dove gli edifici pubblici sono monumentali e classici, collocati nei punti focali della città; gli edifici privati, invece, sono progettati secondo logiche vernacolari e tipologiche.
Il cuore della sua proposta è la tipologia. Le architetture, per Krier, devono essere riconoscibili: casa, palazzo, chiesa, torre, finestra, tetto. Questo linguaggio “senza equivoci”, come lo definiva, è ciò che permette alla città di mantenere un ordine e un senso. E quando i programmi diventano complessi, come nel progetto per la scuola di Saint-Quentin-en-Yvelines (1978), la risposta non è la megalitica espansione, ma la suddivisione: la scuola si trasforma in una piccola città.
A questa impostazione corrisponde anche un’idea precisa di varietà: non un’eterogeneità gratuita, ma una differenziazione organica, coerente con le funzioni e le tecniche. In ogni isolato devono convivere lotti di diversa dimensione, destinazione e forma, generando spazi pubblici articolati — strade, piazze, viali, parchi — pensati come parte integrante dell’architettura stessa.
Paradossalmente, è stato detto che l’architettura di Krier “non ha stile”. Eppure, le sue opere evocano chiaramente un’ispirazione romana, che si ripresenta con coerenza nei contesti più diversi: Londra, Stoccolma, Tenerife, Florida. Ha persino difeso — non senza polemiche — l’opera dell’architetto Albert Speer, distinguendola dal regime per cui lavorava. Una posizione estrema, ma coerente con il suo intento: restituire all’architettura e alla città un linguaggio leggibile, uno spazio civile, una misura umana.
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