Elliott Erwitt, il maestro dell’ironia e dell’empatia visiva

Dal 28 giugno, Palazzo Bonaparte a Roma ha dischiuso le porte a un viaggio tra le immagini più iconiche della fotografia del Novecento: arriva “Elliott Erwitt. Icons”, la grande mostra dedicata al maestro dell’ironia e dell’empatia visiva.
Con oltre 80 celebri scatti, l’esposizione racconta l’universo di uno dei maestri più importanti della fotografia contemporanea, il fotografo che ha trasformato la vita quotidiana in poesia visiva, capace di farci sorridere, riflettere, emozionare.
Con uno stile inconfondibile – irriverente, poetico, profondamente umano – Erwitt ha saputo catturare la leggerezza della gioia di vivere, diventando lo sguardo più ironico e toccante della commedia umana.

Mostra “ELLIOTT ERWITT. Icons”
28 giugno – 21 settembre 2025 Palazzo Bonaparte, Roma

Dal 28 giugno al 21 settembre 2025, Palazzo Bonaparte accoglie lo sguardo più ironico e disarmante della fotografia del NovecentoELLIOTT ERWITT.
Un’esposizione che è molto più di una mostra: è un invito a osservare il mondo con leggerezza, empatia e meraviglia.

Un evento imperdibile, che racconta – attraverso oltre 80 scatti iconici – la lunga e brillante carriera di un artista capace di cogliere l’anima del Novecento e di trasformare attimi ordinari in immagini indimenticabili, con uno sguardo profondamente umano ma sempre sorprendente.

In mostra a Roma icone di un’epoca, di un modo di guardare il mondo con leggerezza e intelligenza. “Icons” perché ogni scatto di Erwitt è diventato un simbolo, della sua poetica e della nostra stessa memoria collettiva.

Erwitt non è solo un fotografo: è il cantore della commedia umana, l’infallibile testimone delle piccole e grandi assurdità della vita, che sa raccontare con un’ironia disarmante, una poesia sottile e una grazia senza tempo. Le sue immagini – celebri, indimenticabili, spesso folgoranti – riescono a essere al tempo stesso leggere e profonde, intime e universali. Sono scatti che fanno sorridere, riflettere, emozionare.
Elliott Erwitt è stato – ed è – un protagonista assoluto della cultura visiva del nostro tempo. Le sue immagini, i suoi libri, i reportage, le illustrazioni e le campagne pubblicitarie hanno attraversato i decenni, apparendo su testate internazionali e influenzando generazioni di fotografi e artisti. Questa mostra è un viaggio attraverso la sua opera e insieme un invito a guardare il mondo con occhi nuovi: con leggerezza, con empatia, con meraviglia.
Membro dal 1953 della storica agenzia Magnum – fondata tra gli altri da Henri Cartier-Bresson e Robert Capa – Erwitt ha raccontato con piglio giornalistico gli ultimi sessant’anni di storia e di civiltà contemporanea, cogliendo gli aspetti più drammatici ma anche quelli più divertenti della vita che è passata di fronte al suo obiettivo.

Nei momenti più tristi e invernali della vita, quando una nube ti avvolge da settimane, improvvisamente la visione di qualcosa di meraviglioso può cambiare l’aspetto delle cose, il tuo stato d’animo.Il tipo di fotografia che piace a me, quella in cui viene colto l’istante, è molto simile a questo squarcio nelle nuvole. In un lampo, una foto meravigliosa sembra uscire fuori dal nulla”.
Con queste parole Erwitt sintetizza lo spirito e la poetica con cui filtra la realtà, la rappresenta con la sua maestria, cogliendone gli aspetti a volte giocosi, a volte irriverenti o quasi surreali, che ne fanno un maestro indiscusso della commedia umana.

Curata da Biba Giacchetti, una delle massime conoscitrici di Erwitt a livello internazionale, con l’assistenza tecnica di Gabriele AccorneroElliott Erwitt. Icons è uno spaccato della storia e del costume, un percorso sintetico e completo della sua genialità, del suo sguardo sul mondo, dai suoi cani antropomorfi ai potenti della terra, dalle grandi star del cinema, una su tutte Marilyn, ai suoi bambini. Ma è anche un omaggio all’uomo che, con uno sguardo gentile e disincantato, ha saputo raccontare il mondo per quello che è: tragicomico, tenero, assurdo, irripetibile.

Nel percorso espositivo si incontrano i famosi ritratti di Marilyn Monroe, di Che Guevara, di Kerouac, di Marlene DietrichFidel CastroSophia LorenArnold Schwarzenegger e fotografie che hanno fatto la storia, come il diverbio tra Nixon e Krusciov, il funerale di Kennedy, il grande match tra Frazier e Alì, così come le icone più amate dal pubblico per la loro forza romantica, come il California Kiss, o quelle più intime e private, come lo scatto della sua primogenita neonata, osservata sul letto dalla mamma.
Su tutte, Erwitt posa uno sguardo incisivo e al tempo stesso pieno di empatia, dal quale emerge non soltanto l’ironia del vivere quotidiano, ma anche la sua complessità.

Con lo stesso atteggiamento, d’altra parte, Erwitt riserva la sua attenzione a qualsiasi altro soggetto, portando all’estremo la qualità democratica che è tipica del suo mezzo. Il suo immaginario è infatti popolato in prevalenza da persone comuni, uomini e donne, colte nel mezzo della normalità delle loro vite.
Dai ritratti di personaggi famosi alle immagini più ironiche e talvolta irriverenti, si passa ad alcuni autoritratti dove Erwitt non lascia più niente al caso o all’intuizione, ma costruisce un altro da sé, dove l’eccentricità fine a se stessa è metafora e puro divertimento surreale.

Una particolare attenzione poi è destinata ai cani, di cui Erwitt apprezzava l’atteggiamento irriverente, libero e svincolato dalle comuni regole che condizionano gli esseri umani.
Moltissimi sono gli scatti “dal punto di vista dei cani”, lasciando comparire nelle sue composizioni solo le scarpe o una parte delle gambe dei loro padroni. Erwitt voleva che queste fotografie risultassero buffe e per questo metteva in atto ingegnose strategie, come suonare una trombetta o emettere una specie di latrato, per ottenere dagli animali una reazione il più naturale possibile.

L’esposizione – visitabile fino al 21 settembre – segna, dopo il recente grande successo della retrospettiva di Edvard Munch, l’apertura della stagione espositiva estiva di Palazzo Bonaparte, e rende omaggio a uno dei maestri più amati della fotografia mondiale. I visitatori avranno l’occasione di ripercorrere il suo sguardo sul mondo: surreale, romantico, giocoso, sempre capace di cogliere l’essenza delle cose.

La mostra Elliott Erwitt. Icons, è prodotta e organizzata da Arthemisia, in collaborazione con Orion57 e BridgeconsultingproMain partner della mostra la Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale con Fondazione Cultura e Arte e Poema.
La mostra vede come special partnerRicolamobility partnerFrecciarossa Treno Ufficiale e sponsor tecnicoFerrari Trento.

Elliott Erwitt nacque a Parigi da una famiglia di emigrati russi, nel 1928. Passò i suoi primi anni in Italia, a Milano. A 10 anni, si trasferì in Francia con la sua famiglia e da qui negli Stati Uniti, nel 1939, prima a New York e, due anni dopo, a Los Angeles. Durante i suoi studi alla Hollywood High School, Erwitt lavorò in un laboratorio di fotografia che sviluppava stampe “firmate” per i fan delle star di Hollywood. La grande opportunità gli venne offerta dall’incontro, durante le sue incursioni newyorchesi a caccia di lavoro, con personalità come Edward Steichen, Robert Capa e Roy Stryker, che amavano le sue fotografie al punto da diventare i suoi mentori. Nel 1949 tornò in Europa, viaggiando e immortalando realtà e volti in Italia e Francia. Questi anni segnarono l’inizio della sua carriera di fotografo professionista. Chiamato dall’esercito americano nel 1951, continuò a lavorare per varie pubblicazioni e, contemporaneamente, anche per l’esercito stesso, mentre soggiornava in New Jersey, Germania e Francia. Nel 1953, congedato dall’esercito, Elliott Erwitt venne invitato da Robert Capa, socio fondatore, a unirsi all’agenzia Magnum Photos in qualità di membro fino a diventarne presidente nel 1968 per tre mandati. Oggi Erwitt è riconosciuto come uno dei più grandi fotografi di tutti i tempi.
Il fotografo si è spento nella sua casa di New York a 95 anni, il 29 novembre 2023.


Informazioni e prenotazioni
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Hashtag ufficiale
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Biglietti
Open € 17,00
Intero € 15,00
Ridotto € 14,00

Ufficio Stampa Arthemisia
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Da UFFICIO STAMPA ARTHEMISIA <press@arthemisia.it>

Catanzaro: i linguaggi del contemporaneo al Complesso Monumentale del San Giovanni

Nasce a Catanzaro un nuovo progetto dedicato all’arte contemporanea: Catanzaro Contemporanea è il nome dell’evento che prende il via dal 4 al 6 luglio 2025 con tre giornate di mostre, film, incontri e attraversamenti urbani. Il programma ruota attorno a tre assi principali – la videoarte, il cinema sull’arte e le conversazioni pubbliche – per raccontare l’arte non solo come esperienza estetica, ma come pratica di sguardo, ascolto e relazione.

CATANZARO CONTEMPORANEA
Una nuova rassegna tra videoarte, cinema sull’arte e conversazioni pubbliche: tre giornate per inaugurare un progetto culturale che, fino a novembre, esplora i linguaggi del contemporaneo nel cuore della Calabria.

4 – 5 – 6 luglio 2025
Complesso Monumentale del San Giovanni – Catanzaro
a cura di Francesco Vaccaro

La prima edizione di Catanzaro Contemporanea segna l’avvio di un percorso più ampio, che proseguirà fino a novembre con workshop, attività di formazione e nuovi appuntamenti sul territorio. Un progetto che mette in dialogo artisti, curatori, studiosi e cittadini, e che sceglie la città di Catanzaro – centro di riferimento per l’arte contemporanea in Calabria – come luogo da cui ripensare i linguaggi del contemporaneo, in connessione con la dimensione pubblica, la riflessione critica e la vita collettiva. Un programma aperto a tutti, con ingresso gratuito a ogni appuntamento: un modo per rendere l’arte accessibile, vicina, condivisa.

Ideato e curato da Francesco Vaccaro, e promosso dal Comune di Catanzaro con il patrocinio della Regione Calabria, Fondazione Marisa Bellisario, Ordine degli Architetti della provincia di Catanzaro e Università Magna Graecia, Catanzaro Contemporanea è realizzato in collaborazione con Artecinema Napoli e Accademia di Belle Arti di Catanzaro.

Il programma inaugurale di Catanzaro Contemporanea si sviluppa in tre giornate che intrecciano arte visiva, parola pubblica e narrazione cinematografica. Tre sezioni pensate per attivare esperienze differenti, ma profondamente connesse: una mostra di videoarte con otto artiste di rilievo internazionale, una rassegna di film documentari sull’arte contemporanea e un ciclo di conversazioni aperte al pubblico, con la partecipazione di curatori, artisti e architetti tra i più interessanti della scena attuale.

La prima è VIDIMU, mostra collettiva a cura di Claudio Libero Pisano, ospitata negli spazi del Complesso Monumentale del San Giovanni, che sarà inaugurata il 4 luglio alle 18.00. Un focus dedicato alla videoarte italiana contemporanea che propone la presentazione dei lavori di otto artiste di rilievo nel panorama nazionale e internazionale: Sonia Andresano, Elisabetta Benassi, Bruna Esposito, Iulia Ghita, Myriam Laplante, Raffaela Mariniello, Marzia Migliora e Fiamma Montezemolo. Le opere, di straordinaria qualità visiva e concettuale, presentano una pluralità di sguardi, linguaggi e ricerche che attraversano temi politici, sociali, intimi e collettivi. “Vidìmu in calabrese è un verbo che esprime più che il semplice guardare, una parola oziosa che contiene diverse opzioni sul modo di vedere le cose, senza fermarsi a ciò che appare, che sta di fronte, spostando invece lo sguardo verso i confini e la periferia dell’immagine, dove si rivelano soluzioni altre”, sottolinea Claudio Libero Pisano, curatore del progetto. La mostra, visitabile fino al 31 luglio, aperta tutti i giorni dalle 16:30 alle 20:30 e ad ingresso gratuito, è accompagnata da un catalogo pubblicato da Rubbettino, concepito come strumento critico e didattico, che sarà distribuito gratuitamente a visitatori, studenti e operatori culturali coinvolti nel progetto.

All’interno del programma di Catanzaro Contemporanea anche Artecinema a Catanzaro, rassegna realizzata in collaborazione con Artecinema Napoli, uno dei più autorevoli festival internazionali di film sull’arte contemporanea, nato nel 1996 e diretto da Laura Trisorio. Per la prima volta in Calabria, Artecinema porta nel cortile del San Giovanni due serate di proiezioni che offrono uno sguardo diretto sui processi creativi, le poetiche e i contesti in cui l’arte prende forma. Venerdì 4 luglio alle 21.00 si proietta “Arte Povera. Appunti per la storia” (Italia, 2023) di Andrea Bettinetti, con la presenza del regista. Sabato 5 luglio alle 20.30 il film “Daniel Buren. L’Observatoire de la lumière à la Fondation Louis Vuitton” di Gilles Coudert, alla presenza del regista, seguito alle 21.30 da “Renzo Piano. L’architetto della luce” di Carlos Saura. I film saranno proiettati all’aperto, a ingresso libero fino a esaurimento posti.

La terza sezione del festival è Conversazioni, un ciclo di incontri pubblici con curatori, artisti, architetti e teorici, pensato come spazio di confronto vivo sui temi dell’arte, della progettazione e del pensiero contemporaneo. Venerdì 4 luglio alle 19.30 in programma “La curatela come atto poetico”, con Chiara Bertola, curatrice della GAM – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino e Michela Alessandrini, storica dell’arte e curatrice presso la Fondation Cartier di Parigi. Il dialogo, moderato da Francesco Vaccaro, curatore di Catanzaro Contemporanea, si concentra sul ruolo della curatela come forma narrativa, gesto relazionale e strumento di ascolto. Sabato 5 luglio, alle 19.00, il secondo appuntamento, “La luce si fa spazio”, coinvolge Gregorio Botta, artista visivo noto per il suo lavoro sul vuoto, la trasparenza e la materia impalpabile, e Luca Galofaro, architetto, docente e fondatore dello studio LGSMA, in un dialogo, moderato da Mara Varia, vice presidente della Fondazione Architetti di Catanzaro, che si concentra sul rapporto tra luce, forma e materia, esplorando come lo spazio possa diventare esperienza sensibile e dimensione simbolica.

Il programma del festival si arricchisce anche di due attraversamenti guidati pensati per mettere in relazione l’arte contemporanea con alcuni luoghi simbolo della città e della provincia. Sabato 5 luglio alle 10.00 si tiene una visita al Parco Internazionale della Biodiversità, una passeggiata curatoriale che restituisce valore a uno dei più importanti progetti di arte pubblica realizzati in Calabria negli ultimi decenni, tra i lavori di Antony Gormley, Tony Cragg, Mimmo Paladino, Michelangelo Pistoletto, Denis Oppenheim, Stephan Balkenhol e tanti altri. Domenica 6 luglio alle 11.00, il viaggio prosegue con una visita guidata al Museo e Parco Archeologico Nazionale di Scolacium, straordinaria area archeologica immersa tra ulivi secolari e rovine romane, nel territorio di Borgia. Un luogo che conserva le tracce stratificate della storia antica del Mediterraneo e che, negli anni, ha già accolto importanti interventi di arte contemporanea, in un dialogo fertile tra memoria e visione.

Quella di luglio è solo la prima tappa di Catanzaro Contemporanea, che da qui ai prossimi mesi continuerà a tessere relazioni, attivare incontri e generare visioni. Il progetto proseguirà fino a novembre con nuovi appuntamenti, workshop e momenti di approfondimento, che verranno annunciati attraverso i canali ufficiali del festival.Catanzaro Contemporanea si fonda sulla convinzione che la diffusione del pensiero contemporaneo sul territorio possa agire come un vero e proprio enzima culturale, capace di generare nuova vitalità nei luoghi, nei paesaggi e nelle comunità. In questo senso, l’arte diventa strumento di trasformazione, capace di rigenerare il tessuto culturale e sociale e di restituire alla Calabria un ruolo attivo e centrale nel dibattito nazionale sulla cultura contemporanea.


CONTATTI:
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Caldes (Trento), Castel Caldes: le mete privilegiate delle classi agiate della Mitteleuropa

Il Museo del Castello del Buonconsiglio propone nella sua sede di Castel Caldes una mostra sul termalismo, fenomeno storico e sociale che conobbe un notevole sviluppo in Trentino, specialmente nei decenni a cavallo tra Otto e Novecento.

Gli stabilimenti termali sorti a Pejo, Rabbi, Levico-Vetriolo, Roncegno e Comano sono ancora oggi siti di grande richiamo per le proprietà terapeutiche e benefiche delle loro acque. Tra la fine della dominazione asburgica e gli anni Trenta, attraverso l’intera parabola della Belle époque, queste località divennero mete privilegiate di un raffinato turismo termale, che coinvolse le classi agiate della Mitteleuropa e del vicino Regno d’Italia. Le principali stazioni di cura si dotarono pertanto di infrastrutture turistiche e rinnovarono l’assetto architettonico dei diversi “bagni”, attuando in alcuni casi dei progetti decorativi che coinvolsero pittori specializzati nella decorazione d’interni, con risultati di alto profilo estetico.

ANTICHE FONTI. Tito Chini e la cultura termale nel Trentino

Caldes (Trento), Castel Caldes
20 Giugno 2025 – 02 Novembre 2025

In questo contesto si colloca la chiamata a Vetriolo di Tito Chini (Firenze 1898 – Desio 1947), pittore e ceramista appartenente a un’illustre dinastia di decoratori originari di Firenze e fondatori di una rinomata fornace a Borgo San Lorenzo, nel Mugello. Reduce da importanti imprese decorative portate a termine in Toscana e nel Veneto, nel 1936 il pittore venne incaricato di decorare lo Stabilimento Termale di Vetriolo.

Da tempo dismesso, l’edificio fu demolito nel 1997, ma parte della decorazione interna venne fortunatamente salvata grazie all’interessamento dell’Ufficio Beni Storico-Artistici della Provincia autonoma di Trento, che provvide d’urgenza allo stacco delle pitture murali interne e dei mosaici della facciata, ai fini di preservare la memoria di questo episodio di storia del termalismo. I dipinti di Vetriolo vengono per la prima volta esposti in pubblico in occasione di questa mostra, unitamente agli inediti bozzetti preparatori e a una selezione di manufatti ceramici prodotti dalla manifattura di Borgo San Lorenzo, nell’ambito di uno specifico focus dedicato a Tito Chini e alla stagione dell’art déco.

La mostra prosegue nel racconto della storia del termalismo trentino con particolare attenzione al territorio della Val di Sole, articolandosi in sezioni tematiche dedicate rispettivamente ai Bagni di Rabbi e alle Fonti di Pejo. Altri materiali documentano le vicende degli altri siti termali del Trentino. Ogni sezione è costituita da differenti tipologie di opere d’arte, antiche pubblica-zioni medico-scientifiche, oggetti legati alla fruizione delle acque salubri, cartoline e fotografie d’epoca, ritratti e ricordi di ospiti illustri.
Tra i materiali esposti, un posto di assoluto rilievo è riservato ai manifesti pubblicitari, spesso di grande qualità estetica, che rappresentano una prima modalità di promozione turistica del territorio e che sono al tempo stesso testimonianza dell’evoluzione del linguaggio artistico e del gusto. Gli esemplari originali dei manifesti sono stati concessi in prestito da collezionisti privati e dalla Collezione Salce di Treviso.

Nella sezione sulle Fonti di Rabbi, un focus è dedicato alla figura dello scrittore e geologo Antonio Stoppani (Lecco 1824 – Milano 1891), il celebre autore del Bel Paese, libro che si proponeva far conoscere a un vasto pubblico di lettori il territorio italiano dal punto di vista geografi-co e naturalistico, invitando a coltivare il sentimento nazionale. Stoppani contribuì in modo decisivo a far conoscere la Val di Rabbi e i suoi bagni, dove soggiornò più volte, anche attraverso la pubblicazione di uno specifico volume.
La mostra è curata dai conservatori del museo Elisa Nicolini e Roberto Pancheri ed è stata possibile grazie anche al sostegno dell’APT della Val di Sole e con la collaborazione delle Terme di Pejo e di Rabbi.


Studio ESSECI di Sergio Campagnolo s.a.s.
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Quest’estate, perché non trascorrere un pomeriggio d’arte?

Con l’arrivo del caldo estivo, una delle migliori alternative per rinfrescare la mente e vivere un’esperienza culturale è visitare le mostre d’arte nelle città italiane più vivaci. Da Venezia a Bologna, passando per Rovigo, Ferrara e Treviso, l’Italia offre un ricco calendario espositivo per chi vuole concedersi una pausa diversa, all’insegna della bellezza e della riflessione.

Vilhelm Hammershøi
Alphonse Mucha
Giovanni Boldini
Louise Nevelson
Roberto Capucci
Jung Youngsun
Harry Seidler
El Greco
John Baldessari
Davide Rivalta
Giulio Aristide Sartorio

Palazzo Roverella a Rovigo ospita ancora per pochi giorni, fino al 29 giugno, la prima mostra italiana dedicata a Vilhelm Hammershøi, uno dei pittori più importanti del Nord Europa tra Ottocento e Novecento. Conosciuto soprattutto per i suoi interni silenziosi e minimalisti, Hammershøi racconta con delicatezza e introspezione gli spazi privati, i ritratti enigmatici e le vedute architettoniche. La mostra non si limita a esporre le sue opere più famose, ma approfondisce anche il legame con l’Italia e il confronto con altri artisti europei che hanno esplorato temi come il silenzio e la solitudine.

Non ci allontaniamo di molto: a FerraraPalazzo dei Diamanti dedica due mostre parallele a un tema affascinante e sempre attuale: la rappresentazione della figura femminile nell’arte tra Ottocento e Novecento. Da una parte, la monografica su Alphonse Mucha celebra l’arte raffinata e armoniosa dell’Art Nouveau, con le sue donne eleganti, seducenti e iconiche protagoniste di manifesti, dipinti e oggetti decorativi. Le opere di Mucha incarnano un ideale femminile fatto di grazia e delicatezza, simbolo di una bellezza ideale che ha segnato un’epoca. Dall’altra parte, la mostra dedicata a Giovanni Boldini offre un ritratto della donna moderna, carismatica ed emancipata, ritratta con un linguaggio dinamico e raffinato. Boldini cattura l’energia, la personalità complessa e il fascino di figure femminili che incarnano la nuova società urbana e borghese. Entrambe le esposizioni, aperte fino al 20 luglio, hanno riscosso un grande successo di pubblico.

Per chi fosse interessato all’arte sacra e alla tradizione, il Museo di Santa Caterina a Treviso propone fino al 13 luglio “La Maddalena e la Croce. Amore Sublime“. Con un corpus di oltre cento opere, la mostra indaga il mito e la figura di Maria Maddalena, soffermandosi in particolare sul suo rapporto con Cristo e sulle molteplici rappresentazioni sacre che si sono succedute nei secoli di lei. Non si tratta di una semplice narrazione storica o religiosa, ma di un viaggio attraverso l’arte che rende universale l’esperienza del sacro, intrecciando fede, emozione e riflessione sulla condizione umana.

Rimanendo in tema di figure femminili, a Bologna è stata inaugurata da poco una grande monografica sull’artista ucraino-americana Louise Nevelson, famosa per i suoi assemblaggi lignei bianchi neri e dorati. Femminile e femminista Nevelson trovò successo già in vita. La mostra di Bologna rappresenta la prima grande esposizione di questa artista nella città e coincide con il 120° anniversario del suo trasferimento da Kiev, sua città natale, verso gli Stati Uniti. Questo trasferimento fu un momento cruciale nella sua vita: Louise si ricongiungeva al padre, che qualche anno prima aveva lasciato l’Ucraina per sfuggire alle persecuzioni antisemite dilaganti nel paese. Negli Stati Uniti, la giovane artista trovò un ambiente in cui poter affermare la propria identità e realizzarsi pienamente, sia come donna sia come creatrice. Fu lì che iniziò il suo cammino di indipendenza e successo artistico, segnando l’inizio di una carriera straordinaria. Visitabile fino al 20 luglio a Palazzo Fava.

Per chi ha un debole per la modaLa forza del colore. Roberto Capucci a Villa Pisani è la mostra giusta. Vi si celebra l’opera dello stilista italiano Roberto Capucci, noto per trasformare gli abiti in vere sculture indossabili. L’esposizione, ospitata nel Museo Nazionale Villa Pisani a Stra (Venezia) fino al 2 novembre 2025, presenta venti abiti, disegni, schizzi e fotografie, creando un dialogo unico tra le creazioni di Capucci e gli spazi storici della villa settecentesca. Il percorso espositivo mette in risalto il legame tra la moda scultorea e l’architettura monumentale, con un focus particolare sull’uso del colore, elemento distintivo dello stilista. Da non perdere: l’abito da nozze ispirato ai colori del Tiepolo, esposto nel Salone da Ballo sotto l’affresco di Giambattista Tiepolo.

Concludiamo questo tour delle mostre nelle principali città italiane con Venezia che quest’anno ospita la Biennale Internazionale di Architettura e moltissime mostre collegate.

In Piazza San Marco ha recentemente aperto un nuovo spazio espositivo: SMAC – San Marco Art Centre che ospita due mostre, entrambe aperte fino al 13 luglio. La prima, dal titolo “For All That Breathes On Earth” ruota attorno alla pioniera coreana dell’architettura del paesaggio: Jung Youngsun (classe 1941). La prima donna coreana a ottenere il titolo di ingegnere del paesaggio. Con lei è nata e cresciuta la sensibilità nei confronti del recupero di aree degradate e dell’impianto di nuovi spazi verdi, sia in area urbana che in contesti diversi, pubblici e privati. Tra i suoi interventi, la mostra documenta quelli pensati e realizzati in occasione dei grandi appuntamenti internazionali: le Olimpiadi e i Giochi Asiatici di Seul, l’Expo di Daejeon o per l’aeroporto Internazionale di Incheon.

La seconda mostra a SMAC è “Migrating Modernism. The architecture of Harry Seidler”. Un’ampia retrospettiva sulla vita e l’opera dell’architetto australiano di origine austriaca Harry Seidler (Vienna 1923 – Sydney 2006). Seidler è uno degli architetti moderni più influenti, è stato responsabile della progettazione di numerosi edifici pionieristici in Australia, oltre che di edifici in Messico, a Parigi, a Hong Kong e, alla fine della sua carriera, di nuovo nella città natale, Vienna.

Rimanendo in Piazza San Marco: “L’oro dipinto. El Greco e la pittura tra Creta e Venezia” Palazzo Ducale racconta la lunga storia di scambi artistici tra Creta e Venezia dal XV al XIX secolo, incentrata sull’uso dell’oro nella pittura sacra e sulla fusione tra la tradizione bizantina e l’arte rinascimentale veneziana. Il percorso espositivo presenta capolavori di maestri cretesi e veneziani, con un focus su El Greco, che ha iniziato la sua carriera a Creta e si è formato a Venezia.

A due passi da San Marco si intrecciano due importanti esperienze artistiche che raccontano la potenza dell’arte contemporanea nel dialogare con lo spazio. Da un lato, la mostra “No Stone Unturned – Conceptual Photography” di John Baldessari alla Fondazione Querini Stampalia, aperta fino al 23 novembre. Una mostra che ripercorre la ricerca di Baldessari dagli anni Sessanta agli Ottanta, mettendo in luce la sua capacità di trasformare oggetti semplici e quotidiani in opere ricche di riflessioni, umorismo e innovazione. Nel campo di fronte al museo, l’artista Davide Rivalta presenta “Leoni in campo”. Cinque leoni e leonesse, seduti ma vigili, incarnano la forza silenziosa della resistenza e della partecipazione attiva: non sono figure passive, ma protagonisti che “scendono in campo” con calma ma determinazione, trasformando lo spazio pubblico in un palcoscenico di simboli, potenza e controllo.

Se visitate Venezia, non potete non andare a Ca’ Pesaro! La Galleria Internazionale d’Arte Moderna presenta il ciclo monumentale “Il Poema della vita umana” di Giulio Aristide Sartorio, realizzato per la Biennale di Venezia del 1907. L’opera, composta da 14 grandi scene ispirate alla mitologia e al simbolismo, racconta la vita umana attraverso temi come la Luce, le Tenebre, l’Amore e la Morte. Il ciclo è stato recentemente restaurato e ora esposto, fino al 28 settembre, in un allestimento di grande suggestione che rievoca la sua prima apparizione ai Giardini della Biennale. Al Sartorio si aggiungono opere coeve di artisti simbolisti e con la storia culturale europea del primo Novecento.


Da Studio ESSECI <segreteria@studioesseci.net>

La Parigi pirotecnica di Brassaï in mostra al Centro Saint-Bénin di Aosta

Dal 19 luglio al 9 novembre 2025 torna al Centro Saint-Bénin di Aosta la grande fotografia internazionale con la mostra Brassaï. L’occhio di Parigi. La retrospettiva, promossa dall’Assessorato Beni e attività culturali, Sistema educativo e Politiche per le relazioni intergenerazionali della Regione autonoma Valle d’Aosta e prodotta da Silvana Editoriale, è curata da Philippe Ribeyrolles, studioso e nipote del fotografo che detiene un’inestimabile collezione di stampe di Brassaï e un’estesa documentazione relativa al suo lavoro di artista.

BRASSAÏ. L’occhio di Parigi
Aosta, Centro Saint-Bénin
19 luglio – 9 novembre 2025

A cura di Philippe Ribeyrolles

Inaugurazione: venerdì 18 luglio 2025, ore 18

La mostra presenterà più di 150 stampe d’epoca, oltre a sculture, documenti e oggetti appartenuti al fotografo, per un approfondito e inedito sguardo sull’opera di Brassaï, con particolare attenzione alle celebri immagini dedicate alla capitale francese e alla sua vita.

Le sue fotografie dedicate alla Ville Lumière – dai quartieri operai ai grandi monumenti simbolo, dalla moda ai ritratti degli amici artisti, fino ai graffiti e alla vita notturna – sono oggi immagini iconiche che nell’immaginario collettivo identificano immediatamente il volto di Parigi.

Ungherese di nascita – il suo vero nome è Gyula Halász, sostituito dallo pseudonimo Brassaï in onore di Brassó, la sua città natale – ma parigino d’adozione, Brassaï è stato uno dei protagonisti della fotografia del XX secolo, definito dall’amico Henry Miller “l’occhio vivo” della fotografia.

In stretta relazione con artisti quali Picasso, Dalí e Matisse, e vicino al movimento surrealista, a partire dal 1924 fu partecipe del grande fermento culturale che investì Parigi in quegli anni. Brassaï è stato tra i primi fotografi in grado di catturare l’atmosfera notturna della Parigi dell’epoca e il suo popolo: lavoratori, prostitute, clochard, artisti, girovaghi solitari. Nelle sue passeggiate il fotografo non si limitava alla rappresentazione del paesaggio o alle vedute architettoniche, ma si avventurava anche in spazi interni più intimi e confinati, dove la società si incontrava e si divertiva.

È del 1933 il suo volume Paris de Nuit, un’opera fondamentale nella storia della fotografia francese.

Le sue immagini furono anche pubblicate sulla rivista surrealista “Minotaure”, di cui Brassaï divenne collaboratore e attraverso la quale conobbe scrittori e poeti surrealisti come Breton, Éluard, Desnos, Benjamin Péret e Man Ray.

“Esporre oggi Brassaï – afferma Philippe Ribeyrolles, curatore della mostra – significa rivisitare quest’opera meravigliosa in ogni senso, fare il punto sulla diversità dei soggetti affrontati, mescolando approcci artistici e documentaristici; significa immergersi nell’atmosfera di Montparnasse, dove tra le due guerre si incontravano numerosi artisti e scrittori, molti dei quali provenienti dall’Europa dell’Est, come il suo connazionale André Kertész. Quest’ultimo esercitò una notevole influenza sui fotografi che lo circondavano, tra cui lo stesso Brassaï e Robert Doisneau.”

Brassaï appartiene a quella “scuola” francese di fotografia definita umanista per la presenza essenziale di donne, uomini e bambini all’interno dei suoi scatti sebbene riassumere il suo lavoro solo sotto questo aspetto sarebbe riduttivo.

Oltre alla fotografia di soggetto, la sua esplorazione dei muri di Parigi e dei loro innumerevoli graffiti testimonia il legame di Brassaï con le arti marginali e l’art brut di Jean Dubuffet.

Nel corso della sua carriera il suo originale lavoro viene notato da Edward Steichen, che lo invita a esporre al Museum of Modern Art (MoMA) di New York nel 1956: la mostra “Language of the Wall. Parisian Graffiti Photographed by Brassaï” riscuote un enorme successo.

I legami di Brassaï con l’America si concretizzano anche in una assidua collaborazione con la rivista “Harper’s Bazaar”, di cui Aleksej Brodovič fu il rivoluzionario direttore artistico dal 1934 al 1958. Per “Harper’s Bazaar” il fotografo ritrae molti protagonisti della vita artistica e letteraria francese, con i quali era solito socializzare. I soggetti ritratti in quest’occasione saranno pubblicati nel volume Les artistes de ma vie, del 1982, due anni prima della sua morte.

Brassaï scompare il 7 luglio 1984, subito dopo aver terminato la redazione di un libro su Proust al quale aveva dedicato diversi anni della sua vita. È sepolto nel cimitero di Montparnasse, nel cuore della Parigi che ha celebrato per mezzo secolo.

La mostra sarà accompagnata da un catalogo bilingue italiano-francese edito da Silvana Editoriale e curato dallo stesso Philippe Ribeyrolles, con testi di Daria Jorioz, Philippe Ribeyrolles, Silvia Paoli e Annick Lionel-Marie, posto in vendita a € 36,00.

Biglietti: Intero 8 euro, ridotto 6 euro. Ingresso gratuito per i minori di 18 anni.
Mostra inserita nel circuito Abbonamento Musei.
Orari di apertura: martedì-domenica, dalle 10 alle 13 e dalle 14 alle 18.


Per informazioni:
Regione autonoma Valle d’Aosta
Struttura Attività espositive e promozione identità culturale
Tel. 0165 275937
 
Centro Saint-Bénin
Via Festaz 27 – Aosta
Tel. 0165.272687
www.regione.vda.it
 
Ufficio stampa
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Simone Raddi simone@studioesseci.net
Elisabetta Rosa elisabetta@studioesseci.net
Da Studio ESSECI <segreteria@studioesseci.net>

A Palazzo Roverella, la prima italiana di Rodney Smith

Mostra promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, in collaborazione con diChroma photography, prodotta da Silvana Editoriale. A cura di Anne Morin.

Mi avventuro nel mondo per respirare la sua dubbia reputazione e il suo umorismo, per vedere più chiaramente, per cercare finalità e conoscenza, per aprirmi, per cogliere in modo esuberante e inesorabile la luce.
Rodney Smith

RODNEY SMITH
Fotografia tra reale e surreale
Rovigo, Palazzo Roverella
3 ottobre 2025 – 1 febbraio 2026

Per la prima volta in Italia, arriva a Palazzo Roverella una grande mostra monografica che celebra l’opera dell’acclamato fotografo newyorkese Rodney Smith (1947-2016).

L’ampia retrospettiva, che espone oltre cento opere evocative di Smith, è promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, in collaborazione con diChroma photography, il Comune di Rovigo e l’Accademia dei Concordi, con il sostegno di Intesa Sanpaolo, e prodotta da Silvana Editoriale. Sarà possibile visitare l’esposizione curata da Anne Morin dal 3 ottobre al primo febbraio 2026.

La mostra introduce il pubblico italiano a un grande protagonista della fotografia, noto per la sua inconfondibile estetica: un raffinato connubio di eleganza classica, composizione rigorosa e ironia elegante e surreale, che ha richiamato paragoni con le opere del pittore René Magritte. A lungo acclamato per le iconiche immagini in bianco e nero che combinano ritratto e paesaggio, Rodney Smith ha dato vita a mondi incantati e visionari pieni di sottili contraddizioni e sorprese. Realizzate con il solo ausilio di pellicola e luce naturale, le sue immagini oniriche, mai ritoccate, si distinguono per una meticolosa cura artigianale e una straordinaria precisione formale.

Allievo di Walker Evans, influenzato da Ansel Adams e ispirato dall’opera di Margaret Bourke-White, Henri Cartier-Bresson e William Eugene Smith, le sue fotografie sono apparse su pubblicazioni di spicco quali “TIME”, “Wall Street Journal”, “The New York Times”, “Vanity Fair” e molte altre. Non da ultimo, Smith ha ottenuto grandi riconoscimenti per la sua fotografia di moda in collaborazione con rinomati marchi tra cui Ralph Lauren, Neiman Marcus e Bergdorf Goodman.

L’estetica di Smith mostra inoltre evidenti parallelismi con la tradizione cinematografica, e si avvale di netti rimandi all’opera di registi del calibro di Alfred Hitchcock, Terrence Malick e Wes Anderson, e a leggende del cinema muto quali Buster Keaton, Charlie Chaplin e Harold Lloyd.

Rodney Smith, uomo colto e studioso di teologia e filosofia, mosso da una ricerca continua del significato della vita, ha trovato nella fotografia il linguaggio che gli ha consentito di esprimersi al meglio.

Proprio Smith che si descriveva come un “ansioso solitario”, trovava conforto nel catturare immagini considerandole un modo per “riconciliare il quotidiano con l’ideale”, per tradurre le proprie emozioni nella forma e per tramutarsi da osservatore a partecipe.

Le sue immagini iconiche catturano il mondo con humour, grazia e ottimismo. Con il suo stile distintivo ha affinato la percezione, portando ordine nel caos.

Le fotografie di Rodney Smith stupiscono, affascinano e intrigano, conducendo l’osservatore in regni poetici di riflessi e riflessioni. Sereni luoghi immaginari evocano un senso di benessere e inducono chi li osserva a sorridere e ad abbandonarsi alla tenerezza e, grazie a questa apertura e distensione, a provare stupore e ammirazione.

Così la curatrice Anne Morin descrive il lavoro di Rodney Smith:

“Ogni immagine creata da Smith, con la cura e la precisione di un orafo, è un tentativo sempre nuovo di ricreare questa armonia divina e di raggiungere uno

stato superiore, anche solo per un istante. Ogni immagine è eterea ed estatica.

(…) In qualsiasi punto dell’immagine si posi lo sguardo, l’occhio è immediatamente sedotto dalla grazia, dalla raffinatezza, dallo squisito accostamento di forme e contro forme, dalla diversità delle materie e dalla ricchezza narrativa che eccelle per sobrietà, parsimonia e silenzio.”

Il percorso espositivo è suddiviso in sei sezioni tematiche: La divina proporzioneGravitàSpazi etereiAttraverso lo specchioIl tempo e la permanenzaPassaggi.

La maggior parte delle opere esposte sono in bianco e nero, a testimonianza del fatto che Smith ha iniziato a lavorare con il colore solo a partire dal 2002.

Come spiega lo stesso fotografo: “Dopo quarantacinque anni e migliaia di rullini, provo ancora questo amore incondizionato per la pellicola in bianco e nero. Tuttavia, contrariamente a quanto pensavano molti miei conoscenti, ho cambiato idea e circa otto anni fa ho iniziato a scattare anche a colori. Assolve a una funzione diversa per me, e ne parlerò più avanti, tuttavia non c’è niente per me come l’oscurità e la sfolgorante intensità del bianco e nero. È un’astrazione che avviene per aggiunta. Sì, c’è molto più colore nel bianco e nero di quanto non ve ne sia nel colore”.

Di fatto, una volta che Smith ha abbracciato il colore e la fotografia di grande formato, i risultati sono stati sorprendenti.

Le opere di Rodney Smith sono ora esposte in musei, gallerie e importanti collezioni private in tutto il mondo.

L’imminente retrospettiva monografica che aprirà i battenti a Palazzo Roverella il 3 ottobre 2025, offrirà l’opportunità anche al pubblico italiano di lasciarsi trasportare nel mondo incantato di Rodney Smith e di approfondire la conoscenza di questo fotografo, maestro indiscusso di un’eleganza senza tempo.

Accompagna la mostra un catalogo edito da Silvana Editoriale, curato da Anne Morin e corredato dai testi delle curatrici internazionali Anne Morin e Susan Bright e di Leslie Smolan, Executive Director presso Estate of Rodney Smith.

Diplomatasi presso la National School of Photography di Arles e la École Supérieure des Beaux-Arts di Montpellier, è la direttrice di diChroma photography, società specializzata in esposizioni internazionali itineranti dedicate alla fotografia, nonché nello sviluppo e nella realizzazione di progetti culturali in collaborazione con musei e istituzioni prestigiosi, tra cui Fundación Canal (Madrid), Martin-Gropius-Bau (Berlino), Pushkin National Museum of Fine Arts (Mosca), Musée du Luxembourg, Jeu de Paume (Parigi), Palazzo Ducale (Genova). Mossa da grande passione ed entusiasmo, Anne Morin lavora alla riscoperta di artisti e fotografi. Ha curato numerose mostre di fotografi e artisti prestigiosi, tra cui Berenice Abbott, Antonio Lopez, Vivian Maier, Robert Doisneau, Jessica Lange, Jacques Henri Lartigue, Sandro Miller, Pentti Sammallahti e Margaret Watkins. Nel 2022 ha ricevuto il premio Photo Curator of the Year dei Lucie Awards (Carnegie Hall, New York) per il suo lavoro sulla mostra dedicata a Vivian Maier, Unseen, allestita al Musée du Luxembourg.


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All’esame di Maturità 2025 la scuola incontra il Futurismo di Boccioni

All’esame di Maturità 2025, una delle sorprese più inaspettate è arrivata dalla seconda prova del liceo scientifico, dove un esercizio di matematica ha preso spunto da una celebre scultura futurista di Umberto Boccioni. Un’insolita e stimolante connessione tra arte e scienza che ha aperto una riflessione sul potenziale dell’interdisciplinarietà nella scuola contemporanea.

La moneta italiana da 20 centesimi di euro


Raffigura sul lato principale la celebre scultura futurista di Umberto Boccioni, Forme uniche della continuità nello spazio (1913), emblema del dinamismo e della modernità tipici del Futurismo. Attorno all’immagine si dispongono le dodici stelle dell’Unione Europea. Sul lato sinistro compare il monogramma “RI”, che identifica la Repubblica Italiana, mentre sulla destra si trovano il simbolo della Zecca di Roma (“R”) e l’anno di emissione (2002 nella versione raffigurata). In basso compaiono le iniziali dell’autrice del disegno, Maria Angela Cassol (“M.A.C.”).

La moneta è coniata in “oro nordico”, una lega metallica composta da rame, zinco, alluminio e stagno. Misura 22,25 millimetri di diametro, pesa 5,74 grammi e presenta un bordo liscio con sette rientranze, che le conferiscono una caratteristica forma a “fiore spagnolo”.

La scelta della scultura di Boccioni rende omaggio a uno dei capolavori del Futurismo italiano, in cui il movimento e la continuità nello spazio si fondono nella materia per rappresentare l’energia dell’uomo moderno.

Alla Maturità 2025, la seconda prova scritta del liceo scientifico ha riservato una sorpresa. Accanto a funzioni, limiti e derivate, è comparsa la sagoma inconfondibile di una delle opere più iconiche del Novecento: Forme uniche della continuità nello spazio di Umberto Boccioni. Non si è trattato di una citazione decorativa o di un esempio collaterale, ma del fulcro di un esercizio di studio di funzione, fondato sull’analisi matematica di un profilo estratto dalla celebre scultura. Un esercizio che, a prima vista, può sembrare un semplice omaggio interdisciplinare. Ma che, a ben guardare, spalanca una finestra sorprendente sulla possibilità di dialogo tra logica scientifica e visione artistica.

Questa inattesa incursione dell’arte nel cuore della matematica ha suscitato la riflessione di studiosi e critici, come Vincenzo Trione sul Corriere dela Sera, che ha colto in questa scelta un segnale di rottura rispetto alla tradizionale compartimentazione del sapere scolastico. Un esercizio come questo impone infatti di interrogare la complessità dei linguaggi e dei metodi, facendo emergere connessioni fino a ieri trascurate. In fondo, Forme uniche nasce proprio come tentativo di fissare nella materia solida il dinamismo dell’esperienza, la durata del gesto, la traiettoria del corpo. E come un’equazione, condensa in un’unica figura molteplici istanti, punti di vista e tensioni.

Realizzata nel 1913, la scultura di Boccioni è un manifesto tridimensionale del Futurismo. Alta, compatta, tagliente, rappresenta un corpo umano in corsa, lanciato nello spazio. La figura, priva di braccia, è composta da volumi fluidi e sovrapposti che si slanciano in più direzioni, generando un senso di potenza inarrestabile. L’opera, oggi esposta in varie versioni in musei di tutto il mondo – tra cui il Museo del Novecento di Milano e la Galleria Nazionale di Cosenza – è anche impressa sul retro della moneta italiana da 20 centesimi di euro, testimonianza della sua potenza simbolica e della sua riconoscibilità popolare.

Nella concezione di Boccioni, ogni forma è il risultato di una fusione dinamica tra corpo e spazio, tra tempo e materia. La figura umana non è più ritratta nella sua immobilità ideale, ma attraversata dalle forze del movimento e della velocità, resa porosa rispetto al fluire della realtà. Per ottenere questo effetto, l’artista rompe con le convenzioni della scultura classica e lavora sul gesso con un’intenzione rivoluzionaria. Le versioni in bronzo, oggi celebri, sono state fuse soltanto dopo la sua morte. Le forme, spezzate e ripiegate, si protendono all’esterno, superano l’anatomia, cercano nello spazio il prolungamento del gesto. Così, nella fissità del bronzo, l’opera sembra muoversi, vibrare, correre.

L’interesse per il dinamismo accompagna tutta la carriera di Boccioni. Nato a Reggio Calabria nel 1882, cresciuto tra Roma e Milano, il giovane artista si forma accanto a Giacomo Balla, assorbendo l’energia delle avanguardie e delle teorie del movimento. Il suo incontro con Filippo Tommaso Marinetti segna una svolta. Insieme, tra il 1910 e il 1911, firmano il Manifesto dei pittori futuristi e il Manifesto tecnico della pittura futurista, documenti fondamentali per comprendere lo spirito di rottura del movimento. Boccioni, però, non si limita alle parole: le sue tele – come Dinamismo di un ciclista o Dinamismo di un calciatore – traducono la simultaneità degli istanti, la moltiplicazione delle prospettive, l’energia urbana e meccanica del nuovo secolo.

Nel 1912, l’artista inizia a dedicarsi con ossessione alla scultura, che considera un’arte da riformare radicalmente. In una lettera scrive: «Sono ossessionato dalla scultura! Credo di aver visto una completa rinnovazione di quest’arte mummificata». Inizia così a sperimentare con il gesso, spezzando e deformando i volumi, cercando di dare forma a un realismo “fisico”, quasi trascendentale, che accolga in sé la complessità della durata e del divenire. Opere come Sviluppo di una bottiglia nello spazio o L’antigrazioso – un ritratto spigoloso della madre – sono tappe fondamentali di questo percorso. Ma è con Forme uniche della continuità nello spazio che la sua visione tocca l’apice.

La scelta del Ministero dell’Istruzione di partire proprio da quest’opera per costruire un esercizio matematico non è casuale. La scultura di Boccioni incarna infatti una geometria fluida, una relazione aperta tra i volumi, una struttura che può essere interrogata anche in termini di funzione e di superficie. Così, un dettaglio plastico – la curva di una gamba, l’espansione di un’appendice, il flusso di un rilievo – diventa occasione per uno studio analitico, in cui il linguaggio dell’arte incontra quello della matematica.

È una suggestione che riecheggia lo spirito stesso del Futurismo, teso alla sintesi e all’integrazione dei saperi. In questo senso, l’opera di Boccioni si offre non solo come oggetto estetico, ma come “cronotopo”, per usare un termine caro alla critica letteraria: uno spazio in cui tempo e forma si fondono, dando luogo a una rappresentazione simultanea di eventi. I suoi lavori, infatti, pur nella loro apparente compiutezza, sembrano sempre aperti, attraversati da correnti, da tensioni, da forze contrapposte.

Umberto Boccioni muore tragicamente nel 1916, a soli 34 anni, in seguito a una caduta da cavallo durante l’addestramento militare, dopo essersi arruolato come fervente interventista. La sua opera, tuttavia, resta come una delle testimonianze più alte dell’utopia futurista, del desiderio di fondere arte e vita, pensiero e azione, e oggi – persino tra i banchi della Maturità – continua a parlare ai giovani, a interrogare il presente, a suggerire che anche la matematica, se osservata con occhi nuovi, può contenere una scintilla di visione.


Un ritratto sfaccettato attraverso arte, storia e memoria

Un’asta straordinaria accende i riflettori sulla figura di Napoleone Bonaparte: il 25 giugno, Sotheby’s Parigi presenta la collezione di Pierre-Jean Chalençon, una delle più vaste raccolte napoleoniche mai apparse sul mercato. Oltre cento oggetti raccontano l’Imperatore tra mito, potere e intimità, restituendo un ritratto sfaccettato attraverso arte, storia e memoria.

Pierre-Jean Chalençon, Napoléon: La collection

Pierre-Jean Chalençon è considerato uno dei massimi esperti e collezionisti al mondo nel campo delle arti legate a Napoleone Bonaparte. Ha curato importanti mostre internazionali ed è stato ospite d’onore alla Biennale di Parigi del 2018, tenutasi al Grand Palais. Figura nota anche al grande pubblico, partecipa regolarmente a trasmissioni radiofoniche e televisive, tra cui il programma Affaire conclue su France 2. Dirige il Souvenir napoléonien, il Cercle France Napoléon e sovrintende alla gestione del Palais Vivienne, storica dimora parigina. Autore prolifico, ha firmato articoli e volumi di riferimento sull’arte dell’epoca imperiale, tra cui Napoleone, l’Imperatore Immortale (2002) e L’Incoronazione di Napoleone (2004).

Il 25 giugno 2025, Sotheby’s Parigi ha aprerto le porte della sua storica sede di rue du Faubourg-Saint-Honoré a un evento che unisce storia, arte e collezionismo in una delle vendite più imponenti mai dedicate alla figura di Napoleone Bonaparte. Protagonista assoluta, la collezione privata di Pierre-Jean Chalençon: oltre cento oggetti tra arredi, cimeli, dipinti, documenti e reliquie personali che restituiscono la parabola straordinaria di un uomo diventato mito, dall’ascesa imperiale alla malinconia dell’esilio.

Frutto di oltre quarant’anni di ricerca appassionata e meticoloso studio, la collezione Chalençon è considerata una delle più vaste e autorevoli raccolte napoleoniche mai apparse sul mercato. Prima dell’asta parigina, due esposizioni internazionali ne hanno anticipato il prestigio: una a Hong Kong (23–27 maggio), l’altra a New York (5–11 giugno), tappe simboliche di un itinerario globale che conferma la rilevanza culturale del progetto. Ogni pezzo in asta è testimone della grandezza storica e della dimensione più intima dell’Imperatore: l’uomo stratega, il condottiero carismatico, ma anche il marito, il padre, il prigioniero.

A guidare la narrazione, oggetti di straordinario valore simbolico. In apertura, il leggendario bicorno indossato “en bataille”, uno degli emblemi più riconoscibili di Napoleone. Donato al generale Mouton dopo la battaglia di Essling, oggi è stimato tra i 500 e gli 800 mila euro. Seguono la spada cerimoniale usata per l’incoronazione a Notre-Dame (realizzata dall’armaiolo Boutet di Versailles), e il sigillo personale in oro ed ebano, sottratto a Waterloo e successivamente donato al maresciallo prussiano Blücher — entrambi icone di un potere costruito anche attraverso la cura dell’immagine e della rappresentazione.

Ma è forse nel dettaglio degli oggetti più minuti e privati che si coglie il senso profondo della raccolta: il codicillo autografo redatto a Sant’Elena, in cui Napoleone dispone gli ultimi beni a favore dei fedelissimi; la manica macchiata di salsa di un abito consolare, custodita per un secolo dal sarto Chevallier; o ancora il letto da campo pieghevole, compagno di viaggi e battaglie, progettato per accompagnarlo ovunque. Ogni oggetto è una scheggia di romanzo, un frammento autentico che collega l’epopea storica alla fragilità quotidiana.

Il percorso dell’asta tocca anche l’arte visiva e la pittura ufficiale, documentando l’impatto del linguaggio napoleonico sull’immaginario figurativo dell’epoca. Tra le opere in catalogo, lo studio per il ritratto d’incoronazione attribuito a François Gérard (stimato intorno ai 300 mila euro) e la struggente tela di Paul Delaroche, Napoleone a Fontainebleau (1848), in cui l’Imperatore è raffigurato nell’istante in cui prende atto della sconfitta, seduto e silenzioso in una stanza vuota: icona perfetta della transizione dal potere alla memoria.

Anche gli arredi parlano la lingua del potere e dell’intimità. Dal trono da parata proveniente dal palazzo di Stupinigi, espressione del gusto torinese sotto l’Impero, alla toeletta personale di Giuseppina, proveniente dal castello di Saint-Cloud, ogni oggetto è specchio di un’epoca che ha saputo coniugare la monumentalità della forma con l’eleganza della vita quotidiana. Non manca nemmeno un’intera sezione dedicata al giovane Re di Roma, figlio tanto atteso da Napoleone e Maria Luisa d’Austria: piccoli abiti, oggetti d’infanzia, testimonianze familiari che completano la narrazione con un registro più affettuoso e privato.

Il valore della collezione, però, non si misura soltanto nel pregio materiale o nell’unicità dei pezzi. Come sottolinea Marine de Cenival, responsabile della vendita per Sotheby’s, essa offre “una visione completa e complessa dell’eredità napoleonica, mescolando emblemi del potere e memorie personali”. Un punto di vista condiviso anche da Louis-Xavier Joseph, responsabile del dipartimento mobili europei, che evidenzia come questa raccolta rappresenti una sintesi insuperata di studio, passione e competenza istintiva, capace di raccontare tanto il mito pubblico quanto la vita privata dell’Imperatore.

Pierre-Jean Chalençon, “l’imperatore dei collezionisti”, è una figura nota agli appassionati di storia e al grande pubblico. Esperto di fama internazionale, volto televisivo e animatore culturale, ha costruito negli anni un vero e proprio cabinet de curiosités all’interno del Palais Vivienne di Parigi, tempio laico della memoria napoleonica. Direttore del Souvenir Napoléonien e del Cercle France Napoléon, ha anche pubblicato opere di riferimento come Napoleone, l’Imperatore Immortale (2002) e L’Incoronazione di Napoleone (2004), contribuendo alla diffusione e alla valorizzazione del patrimonio artistico dell’epoca imperiale.

Con questa asta, Sotheby’s non si limita a vendere oggetti: mette in scena un’intera visione del mondo, un universo culturale che ha saputo imporsi nella storia attraverso simboli forti e gesti teatrali. La collezione Chalençon non è un archivio di reliquie, ma un racconto continuo, un’opera aperta che rinnova la fascinazione per una delle figure più complesse e ambigue della modernità. E lo fa con la precisione del catalogo, la suggestione del museo e l’emozione di una biografia che continua a interrogarci.


Città a misura d’uomo in equilibrio organico tra funzioni e architettura

Figura centrale del dibattito urbanistico contemporaneo, Léon Krier ha sfidato per oltre mezzo secolo i dogmi del modernismo architettonico, proponendo una visione alternativa fondata sulla città tradizionale, policentrica e a misura d’uomo. Teorico militante, progettista selettivo e influente docente, ha lasciato un’impronta profonda nella riflessione sul futuro dell’abitare.

Gli scarabocchi polemici di Léon Krier, il padrino intellettuale del New Urbanism

Il Nuovo Urbanesimo è un movimento nato negli Stati Uniti negli anni ’80 che promuove uno sviluppo urbano sostenibile e a misura d’uomo. Al centro della sua visione ci sono quartieri pedonali, ben serviti da infrastrutture pubbliche, che combinano abitazioni, luoghi di lavoro e servizi. L’obiettivo è contrastare l’espansione urbana incontrollata e i modelli suburbani del dopoguerra, incoraggiando stili di vita più ecologici e comunitari.

Ispirandosi all’urbanistica pre-automobile, il movimento sostiene lo sviluppo tradizionale dei quartieri e la pianificazione orientata al trasporto pubblico. Promuove inoltre un’architettura contestuale, la tutela del patrimonio storico, la sicurezza stradale, l’edilizia sostenibile e la riqualificazione delle aree degradate. Dal punto di vista stilistico, gli interventi si rifanno spesso all’architettura neoclassica, postmoderna o vernacolare, pur non essendo vincolati a un unico linguaggio formale.

Nel panorama dell’architettura del Novecento e oltre, Léon Krier si distingue come una figura isolata e controcorrente. Nato in Lussemburgo nel 1946 e scomparso nel giugno 2025, Krier è stato molto più di un architetto: è stato teorico, urbanista e una delle voci più autorevoli contro l’egemonia del modernismo, di cui ha contestato tanto i presupposti ideologici quanto gli effetti concreti sullo spazio urbano. Ha difeso, invece, la forma urbana tradizionale, la città a misura d’uomo, policentrica, fondata su un equilibrio organico tra funzioni e architettura.

La sua carriera, iniziata con una rottura: dopo un solo anno, abbandonò gli studi all’Università di Stoccarda per lavorare a Londra nello studio di James Stirling, da cui si allontanerà per collaborare con Josef Paul Kleihues a Berlino, salvo poi tornare nel Regno Unito. È qui che Krier resterà per due decenni, dividendosi tra la pratica progettuale e l’insegnamento presso l’Architectural Association e il Royal College of Art. Nel frattempo, prende forma la sua vocazione teorica e militante, come dimostra la celebre frase: “Sono un architetto perché non costruisco”. Un paradosso che sintetizza bene il suo atteggiamento: l’architettura, per lui, è innanzitutto un pensiero critico, un impegno intellettuale e civile.

A partire dalla fine degli anni Settanta, Krier diventa una delle figure centrali nel dibattito sul destino delle città europee. La sua critica al modernismo si concentra in particolare sulla zonizzazione funzionale, che ha prodotto sobborghi alienanti e reti urbane frammentate, e sulla crescente tendenza al gigantismo urbano. Per contrastare questi esiti, Krier elabora una visione alternativa fondata sulla città tradizionale, densa, compatta, policentrica, capace di crescere per moltiplicazione e non per estensione.

Le sue teorie non restano sulla carta. Krier lavora a numerosi masterplan, il più noto dei quali è quello per Poundbury, sobborgo di Dorchester nel Dorset, progettato per conto del Ducato di Cornovaglia e supervisionato per oltre due decenni in collaborazione con Carlo III. Un esperimento urbano emblematico, che rappresenta l’applicazione concreta delle sue idee: un tessuto urbano misto, a scala ridotta, privo di gerarchie funzionali rigide, con edifici di altezze contenute e attenzione all’identità locale.

Un altro progetto emblematico è Paseo Cayalá in Guatemala, estensione urbana concepita secondo i principi del Nuovo Urbanesimo, movimento di cui Krier è stato ispiratore e figura di riferimento, sia in Europa sia negli Stati Uniti. La sua influenza si estende anche alla cultura accademica: per quarant’anni è stato visiting professor in importanti università americane — Princeton, Yale, Virginia, Cornell, Notre Dame — e ha diretto dal 1987 al 1990 il SOMAI (Skidmore, Owings & Merrill Architectural Institute) di Chicago.

Al di là del ruolo di consulente urbanistico, Krier ha scelto di progettare soltanto edifici a cui attribuiva un valore personale. Tra questi figurano il Museo archeologico di São Miguel de Odrinhas in Portogallo, la casa Krier nel villaggio di Seaside in Florida, il Windsor Village Hall sempre in Florida, il Jorge M. Pérez Architecture Center dell’Università di Miami, e il centro di quartiere Città Nuova ad Alessandria.

Tuttavia, l’inizio della sua carriera fu segnato da un linguaggio modernista, come dimostra il progetto per l’Università di Bielefeld del 1968. Il passaggio a una visione classica e vernacolare si consolida nel 1978, con la proposta (mai realizzata) di ricostruzione del centro di Lussemburgo, sua città natale, devastata da interventi modernisti. Da quell’idea nasce anche la progettazione della nuova Cité Judiciaire, completata tra il 1990 e il 2008 dal fratello Rob, architetto anch’egli.

Il suo attivismo lo porta a sostenere la ricostruzione della Frauenkirche e dell’area Historische Neumarkt a Dresda nel 1990, sfidando apertamente l’ortodossia architettonica dominante. Allo stesso modo, nel 2007 sostiene l’iniziativa per ricostruire lo storico quartiere di Hühnermarkt a Francoforte, anche in quel caso contro forti opposizioni tecniche e politiche.

Numerosi i masterplan da lui elaborati, spesso non realizzati, ma di grande influenza: da Kingston upon Hull e Roma (1977) a Berlino Ovest, Stoccolma, Poing Nord (Monaco di Baviera), Washington DC (1984, su commissione del MoMA), Tenerife (1987), Novoli a Firenze (1993), Corbeanca in Romania (2007), High Malton nello Yorkshire (2014), Tor Bella Monaca a Roma (2010), Cattolica (2017). In Belgio, il quartiere Heulebrug fu realizzato seguendo il suo masterplan, mentre a Newquay (2002-2006), il progetto fu poi sviluppato da Adam Associates.

Alla base della sua teoria urbana vi è una concezione quasi morale della forma della città. Krier condivideva il pensiero di Heinrich Tessenow: una città funziona davvero solo se la sua popolazione è limitata. Questa non è una convinzione astratta, bensì una constatazione storica. Le misure, la densità, l’organizzazione spaziale delle città tradizionali non sono il frutto di un ordine economico, ma il riflesso di un ordine etico e legislativo che garantisce la sopravvivenza anche in tempi di crisi. “L’intera Parigi è una città preindustriale che funziona ancora”, diceva Krier, “perché è adattabile. Milton Keynes, invece, non sopravvivrà mai a una crisi, perché è un sistema matematicamente chiuso”.

Da qui deriva la sua proposta di città a scala umana: quartieri autosufficienti, misti per funzioni e dimensioni, di massimo 33 ettari (percorribili a piedi in dieci minuti), con edifici di altezze comprese tra i tre e i cinque piani. Un tessuto urbano costruito a misura dell’uomo, delimitato non da confini astratti ma da parchi, viali, percorsi pedonali e ciclabili, in cui la forma stessa della città sia espressione visibile di una civiltà.

Negli scritti, raccolti in saggi e libri come The Architecture of Community e Drawing for Architecture, Krier ha sviluppato un linguaggio chiaro, spesso corredato da disegni esplicativi. L’urbanistica modernista, con la sua rigida divisione in zone monofunzionali (residenziale, commerciale, industriale, ecc.) è vista come espressione di una visione ideologica e autoritaria. Contro questa visione, Krier propone il modello della res publica + res privata, dove gli edifici pubblici sono monumentali e classici, collocati nei punti focali della città; gli edifici privati, invece, sono progettati secondo logiche vernacolari e tipologiche.

Il cuore della sua proposta è la tipologia. Le architetture, per Krier, devono essere riconoscibili: casa, palazzo, chiesa, torre, finestra, tetto. Questo linguaggio “senza equivoci”, come lo definiva, è ciò che permette alla città di mantenere un ordine e un senso. E quando i programmi diventano complessi, come nel progetto per la scuola di Saint-Quentin-en-Yvelines (1978), la risposta non è la megalitica espansione, ma la suddivisione: la scuola si trasforma in una piccola città.

A questa impostazione corrisponde anche un’idea precisa di varietà: non un’eterogeneità gratuita, ma una differenziazione organica, coerente con le funzioni e le tecniche. In ogni isolato devono convivere lotti di diversa dimensione, destinazione e forma, generando spazi pubblici articolati — strade, piazze, viali, parchi — pensati come parte integrante dell’architettura stessa.

Paradossalmente, è stato detto che l’architettura di Krier “non ha stile”. Eppure, le sue opere evocano chiaramente un’ispirazione romana, che si ripresenta con coerenza nei contesti più diversi: Londra, Stoccolma, Tenerife, Florida. Ha persino difeso — non senza polemiche — l’opera dell’architetto Albert Speer, distinguendola dal regime per cui lavorava. Una posizione estrema, ma coerente con il suo intento: restituire all’architettura e alla città un linguaggio leggibile, uno spazio civile, una misura umana.


Torna l’Art Nouveau Week: la settimana del Liberty in Europa

Dal 8 al 14 luglio 2025 si rinnova l’appuntamento con l’Art Nouveau Week, la manifestazione europea dedicata allo stile Liberty e alle arti di inizio Novecento. Giunta alla sua settima edizione, è promossa da Italia Liberty e curata da Andrea Speziali con un comitato scientifico e d’onore.

Il tema 2025 è la Farfalla, emblema della trasformazione. L’immagine coordinata presenta un’illustrazione tratta da Ver Sacrum con un riferimento al ventaglio pubblicitario “Putnam Fadeless Dyes-Tints”.

Torna l’Art Nouveau Week:
La settimana del Liberty in Europa
 
Da martedì 8 a lunedì 14 luglio 2025 torna la settimana internazionale del Liberty, tra visite guidate, grandi tour, mostre e convegni

In programma conferenze online su architettura, arti decorative, moda, illustrazione, cucina e letteratura, con 14 incontri a cura dell’esperto in materia e docente Andrea Speziali, due al giorno per tutta la settimana.

Tra gli eventi speciali, i tour tematici: “Eterno Liberty” (Italia in jet e Frecciarossa con rievocazioni storiche); “Puglia Modernista” (9-11 luglio tra Bari e Lecce); “Valencia Modernista” (11-14 luglio); “Freccia Liberty” (in treno tra dieci stazioni liberty italiane).

Sicilia protagonista con visite a Catania, Palermo e Mondello, il ciclo di conferenze “Il Modernismo in Sicilia dal Liberty all’Art Déco“, la mostra “La Belle Époque a Palermo tra arte moda e storia” a villa Pottino e aperture esclusive a Villa Ardizzone e alla Casa Museo Liberty di Chiaramonte Gulfi.

Oltre 100 visite guidate giornaliere in 70 città italiane, progettate da Andrea Speziali insieme alle guide turistiche abilitate, con accessi straordinari a ville e palazzi di norma chiusi al pubblico.

Grande spazio anche all’arte funeraria liberty con itinerari nei principali cimiteri monumentali italiani: da Milano a Genova, da Roma a Firenze, con capolavori di Bistolfi, Wildt, Orengo e Manzù.

Una settimana per esplorare un mondo elegante, fiabesco e sorprendentemente attuale.

UN’ITALIA LIBERTY DA SCOPRIRE: OLTRE 100 ITINERARI DA NORD A SUD

La settima edizione della Art Nouveau Week propone un viaggio unico tra i tesori del Liberty italiano, con un ricco calendario di oltre 100 visite guidate, passeggiate tematiche, aperture straordinarie e racconti di famiglia che svelano l’anima modernista del nostro Paese, dal 6 al 14 luglio 2025.

La Basilicata sorprende con Melfi, dove i proprietari di Palazzo Pastore – raro esempio di Liberty lucano – accolgono i visitatori in un percorso affascinante che include anche la Farmacia Carlucci e ville storiche della città.

In Abruzzo, da Pescara a Sulmona, da L’Aquila a Giulianova, si riscoprono dettagli in ferro battuto, cementi decorati e architetture floreali.

In Calabria, Reggio apre le porte dei suoi palazzi tra Déco ed eclettismo, con tour urbani dedicati alle residenze progettate da Gino Zani.

Napoli e i suoi quartieri collinari (Vomero, Chiaia, Petraio) si rivelano con itinerari tra scale monumentali, panorami e ville d’epoca.

In Emilia-Romagna, da Bologna a Riccione, ogni città propone passeggiate nella Belle Époque, come a Faenza, Ferrara e Gambettola, fino agli itinerari curati da collezionisti privati come Roberto Parenti a Sogliano al Rubicone.

In Friuli Venezia Giulia, l’eleganza nascosta di Trieste viene raccontata in una passeggiata tra case Liberty celate tra edifici ottocenteschi.

Roma apre luoghi solitamente inaccessibili come il Villino Ximenes, il Museo Boncompagni Ludovisi e la Casina delle Civette a Villa Torlonia, mentre passeggiate serali tra i quartieri Prati, Ludovisi e Coppedè restituiscono il volto fiabesco della capitale d’inizio Novecento.

La Liguria propone visite nei luoghi-simbolo del Liberty costiero: da Genova a Imperia, da La Spezia a Savona e Chiavari, si ammirano ville, vetrate artistiche e musei come Villa Rosa e il MACI di Villa Faravelli.

La Lombardia è la “capitale italiana del Liberty”, con eventi in 10 città: dai capolavori di Giuseppe Sommaruga a Milano e Varese, alle ville di Monza, Brescia e Lodi, fino al villaggio operaio di Crespi d’Adda. A Cernobbio, si inaugura con un DJ set ispirato al volo delle farfalle presso Villa Bernasconi.

Le Marche partecipano con un tour a Pesaro tra villini e ceramiche Molaroni.

In Molise, Campobasso racconta la sua trasformazione novecentesca con esempi della bottega Tucci e dell’architetto Guerriero.

Il Piemonte, secondo solo alla Lombardia per diffusione dello stile, presenta un grande evento a Stresa tra mostre, spettacoli e visite gratuite. Torino svela quartieri iconici come Cit Turin, Crocetta e San Donato.

In Puglia, Bari presenta itinerari tra Art Nouveau e Déco con tappe esclusive, tra cui affreschi attribuiti a Duilio Cambellotti.

In Sardegna, Cagliari, Arborea e Sassari celebrano la figura femminile nel Liberty e l’architettura del primo Novecento.

La Sicilia si distingue per ricchezza e varietà: da Catania con Villa Ardizzone e via XX Settembre, al percorso mattutino a Mondello con colazione in stile Liberty, fino a Palermo con le architetture di Basile e la Casa Museo di Chiaramonte Gulfi.

La Toscana propone itinerari a Lucca, Firenze, Livorno e soprattutto Viareggio, che omaggia Galileo Chini e Belluomini con tour pomeridiani e serali sul lungomare.

In Umbria, Foligno e Perugia rendono omaggio alla borghesia che plasmò il Liberty locale.

Il Veneto partecipa con Vicenza, Verona, Thiene e Venezia Lido, tra ville, fregi e giardini segreti.

All’estero, itinerari speciali conducono il pubblico fuori dai percorsi consueti.

Barcellona, visite guidate alla Manzana de la Discordia, Casa Vicens e Palau Güell rivelano il Modernismo catalano. In Svizzera, ad Ascona si svolgono workshop gratuiti di arte orafa, mentre Palma di Maiorca e Valencia aprono le porte ai gioielli del Modernismo spagnolo.

Il nuovo catalogo ufficiale della Art Nouveau Week 2025 include scoperte inedite, restauri recenti e un censimento mondiale di oltre 15.000 edifici Art Nouveau aggiornato, frutto di anni di lavoro condotto dal curatore Andrea Speziali e dalla rete internazionale di studiosi e appassionati.

Il Festival Art Nouveau Week è promosso da Italia Liberty, associazione di promozione sociale, in collaborazione con un ampio network di associazioni e istituzioni. Tra questi, ConfGuide di Confcommercio, AGI e GTI – Guide Turistiche Italiane, che garantiscono visite guidate condotte da professionisti abilitati, capaci di valorizzare con competenza il patrimonio storico-artistico e paesaggistico italiano.

L’evento si avvale anche di partner internazionali, come il magazine Coup de Fouet e Art Nouveau European Route, realtà di riferimento nella promozione dell’Art Nouveau e dell’Art Déco in Europa.

Organizzatori
Il Festival Art Nouveau Week è promosso da Italia Liberty, associazione di promozione sociale, in collaborazione con un ampio network di associazioni e istituzioni. Tra questi, ConfGuide di Confcommercio, AGI e GTI – Guide Turistiche Italiane, che garantiscono visite guidate condotte da professionisti abilitati, capaci di valorizzare con competenza il patrimonio storico-artistico e paesaggistico italiano.
L’evento si avvale anche di partner internazionali, come il magazine Coup de Fouet e Art Nouveau European Route, realtà di riferimento nella promozione dell’Art Nouveau e dell’Art Déco in Europa.
 
Biglietti
Le prenotazioni per le attività del Festival Art Nouveau Week si effettuano tramite i contatti indicati nel programma o sul sito www.italialiberty.it.
Dall’inizio di giugno sono disponibili:
Visite di gruppo prenotabili online.
Pacchetti per visitatori individuali con orari prestabiliti (da fine giugno).
Visite “su misura” con scelta di edificio, giorno e orario.
Le visite sono in italiano, con possibilità di altre lingue su richiesta.
Prenotare in anticipo consente un’esperienza più fluida e senza attese.


Da Studio ESSECI <segreteria@studioesseci.net>