Frutto di improvvisazione e oralità, il jazz nasce ai primi del Novecento nei quartieri popolari di New Orleans. Negli anni Venti, con la migrazione verso Chicago e New York, diventa un fenomeno nazionale, e da vita alle big band e all’età d’oro.

Il jazz è uno di quei fenomeni culturali che non nascono in laboratorio, ma nei quartieri polverosi, nelle osterie piene di fumo, nei bordelli, nelle strade sporche battute dalla fame e dal desiderio di riscatto. È una musica che affonda le sue radici nell’anima di un popolo — quello afroamericano — e nella commistione di lingue, suoni e storie di un’America ancora segnata dalla guerra civile. Per comprenderne davvero la nascita, occorre andare indietro agli ultimi decenni dell’Ottocento, quando strumenti musicali militari di seconda mano, venduti a prezzi stracciati dopo lo scioglimento delle bande degli Stati Confederati, iniziarono a comparire nei negozi di ferramenta delle grandi città del Sud. Quegli ottoni passarono così dalle parate dei generali alle mani callose di musicisti autodidatti, dando origine a un nuovo lessico musicale.
Secondo una teoria, il termine “jazz” potrebbe derivare dal nome James, forse quello di un uomo afroamericano che cantava spirituals nei campi di cotone della Virginia. Gli spirituals erano canti popolari, trasmessi oralmente, privi di una struttura musicale codificata. Nel 1902, un quartetto vocale nero ne registrò per la prima volta una versione su disco.
I primi segnali di questa rivoluzione musicale si manifestarono con il ragtime, il blues e il gospel, generi costruiti attorno all’improvvisazione, all’oralità, a una pulsazione ritmica che veniva più dal corpo che dalla partitura. Gli spartiti, del resto, costavano, e chi non poteva permettersi un maestro doveva contare sull’orecchio, sull’intuito, sulla pratica collettiva. Era una musica fatta senza regole accademiche, ma piena di vita.
New Orleans, città creola alla foce fangosa del Mississippi, divenne il crocevia di questa fioritura musicale. Intorno al 1900, tra le paludi e le bettole, tra le case chiuse di Storyville e le processioni funerarie che trasformavano il lutto in danza, nacque quella musica ossessiva e trascinante che solo più tardi avrebbe preso il nome di jazz. Il termine, dalle origini incerte, cominciò a circolare nei primi anni del Novecento — forse una storpiatura di “James”, un uomo che cantava spirituals nei campi della Virginia, forse un’espressione gergale nata nei bordelli — e apparve per la prima volta sulla stampa nel 1913.
In quegli stessi anni, a Storyville, il giovane cornettista Joe Oliver si faceva un nome suonando per strada, senza invito, a tutta forza. Una notte, piazzatosi davanti al locale di Peter Lalo, cominciò a suonare con tale intensità da attirare l’intero quartiere. Da allora fu chiamato King Oliver, e non fu più uno dei tanti. Il suo talento lo portò a girare il Sud con varie orchestre, tra cui la celebre Creole Jazz Band, dove per un periodo militò anche un giovane Louis Armstrong.
Ma prima ancora di Armstrong, un’altra figura leggendaria aveva dato forma a questo nuovo suono: Buddy Bolden, trombettista dalla vita breve e tumultuosa, ricordato come il primo vero padre del jazz. Sebbene non siano rimaste registrazioni della sua musica — alcune fonti parlano di un cilindro fonografico inciso già nel 1897, andato poi perduto — la sua influenza è stata cruciale per lo sviluppo del genere. Più documentata è invece l’attività di Jelly Roll Morton, pianista e compositore che nel 1906 scrisse King Porter Stomp, uno dei primi brani jazz a conquistare notorietà a livello nazionale.
Nel 1917, il jazz entrò ufficialmente nel mercato discografico. La Original Dixieland Jazz Band, composta interamente da musicisti bianchi, incise Livery Stable Blues per la Victor a New York. Si trattava di una delle rare formazioni bianche provenienti da New Orleans, e fu proprio questo a garantirle l’accesso agli studi di registrazione, che all’epoca discriminavano sistematicamente i musicisti afroamericani. Solo nel 1922 una band nera riuscì finalmente a incidere un disco: fu la Original Creole Jazz Band diretta dal trombonista Kid Ory, per una casa discografica di Los Angeles.
Il decennio successivo, gli anni Venti, segnò l’ascesa del jazz a fenomeno nazionale. La Grande Migrazione spinse molti afroamericani a lasciare il Sud per cercare migliori condizioni di vita nei centri industriali del Nord. Musicisti come King Oliver, Jelly Roll Morton e lo stesso Armstrong si trasferirono a Chicago, che divenne il nuovo polo del jazz. Intorno a loro nacque una “scuola di Chicago”, i cui protagonisti furono spesso bianchi, come Bix Beiderbecke, Frank Trumbauer e Pee Wee Russell.
In questo periodo, il jazz iniziò a essere considerato anche musica da ballo e da intrattenimento, suonata nei club, nei cabaret e nelle sale da concerto. Iniziò a definirsi la figura del solista improvvisatore, ruolo che Armstrong incarnò alla perfezione con i suoi celebri gruppi, gli Hot Five e gli Hot Seven, attivi dal 1925. Nel frattempo, musicisti come Sidney Bechet si esibivano in tournée europee, contribuendo alla diffusione del jazz fuori dagli Stati Uniti.
Contemporaneamente, a New York, si affermarono le big band, grandi orchestre capaci di coniugare l’energia del jazz con l’organizzazione della musica sinfonica. Tra i nomi più importanti ci furono Fletcher Henderson, Paul Whiteman — che commissionò a George Gershwin la celebre Rhapsody in Blue — Guy Lombardo e, soprattutto, Duke Ellington, destinato a diventare uno dei giganti della musica del Novecento.
Quello che si stava delineando era qualcosa di più di un semplice genere musicale: il jazz era ormai un linguaggio, un modo di stare al mondo, un grido di libertà che nasceva dal basso e risaliva fino ai teatri più prestigiosi. Le sue origini, segnate da povertà, discriminazioni e improvvisazione, non impedirono al jazz di diventare una delle espressioni artistiche più influenti del secolo. E se ancora oggi quel suono riesce a commuovere e sorprendere, è perché dietro ogni nota c’è una storia fatta di resistenza, talento e passione.

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