Marco Emilio Lepido e la Via Emilia, la più diritta d’Italia

 

FLIP mette in risalto la figura di Marco Emilio Lepido, console romano il cui nome è legato alla Via Emilia, che ha dato origine ad una fiorente regione, nata in «Emilia prima dell’Emilia». Basti ricordare che la città di Reggio Emilia si chiamava in età romana Regium Lepidi proprio in suo onore. Il FLIP di oggi è, dunque, un modo per rendere sempre attuale una parte della nostra storia più antica, ricchissima, per fare uscire dai libri di scuola un tratto del territorio che attorno a questa strada ha sviluppato una cultura latina che si è riverberata progressivamente in mezza Europa. La “Via Aemilia” è una delle più antiche strade d’Italia: da Rimini raggiunge Piacenza. La costruzione della Via Emilia segnò, infatti, l’inizio della colonizzazione romana della Pianura Padana e dell’Italia a Nord di Roma. Lungo questo itinerario da allora hanno viaggiato merci e persone e si continua ancora ai nostri giorni. Ciascuno trasferisce il proprio background: esperienze, idee, sensibilità, lingue e dogmi religiosi. Le guide scrivono che grazie a questo asse viario «si è formata una cultura aperta verso il viaggiatore che affonda le proprie radici in una società che fa dell’accoglienza una delle sue maggiori risorse». Luigi Mascheroni per “Il Giornale” ne percorre l’itinerario e lo racconta ai lettori interessati. Su Wikipedia possiamo informarci sul console che ideò questo primario percorso.

MARCO EMILIO LEPIDO (in latino: Marcus Aemilius Lepidus; … – 152 a.C.) è stato un esponente dei Lepidi, un ramo della gens Aemilia, e un politico e un comandante militare della Repubblica romana. Fu edile nel 193 a.C. insieme a L. Emilio Paolo, promuovendo la costruzione del nuovo porto fluviale a sud del colle Aventino. Questa nuova costruzione, chiamata Emporium, prevedeva una banchina di circa 500 m e un grosso edificio di 50 vani, i Navalia. Lo spazio retrostante i Navalia era occupato da diversi horrea, magazzini per lo stoccaggio delle merci, di cui i più noti sono gli horrea Galbana. M. Emilio Lepido fu eletto console romano nel 187 e nel 175 a.C. e ricoprì le cariche di pontefice massimo e di censore nel 179 a.C.. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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IL GIORNALE

Via Emilia, ventidue secoli “on the road” con la Storia

Simenon – In una decina di giorni il romanzo è pronto

 

Ben 164 libri in catalogo – cui fanno pendant 161 eBook – compaiono nel catalogo dell’editore italiano di Georges Simenon, che è Adelphi. Scriveva sull’impareggiabile scrittore belga, all’inizio dello scorso anno, Enrico Arosio: «Trentun anni fa Georges Simenon firmava il primo contratto con Adelphi, dopo una lunga ma frustrante fedeltà a Mondadori. L’anno 1985, quando la casa editrice di Roberto Calasso e Luciano Foà pubblicò Lettera a mia madre, libro intimo e doloroso cui l’autore teneva molto ma che a Segrate avevano sempre ignorato, segna la riscoperta italiana del prolifico autore belga; anzi: la sua ridefinizione come scrittore notevole del Novecento. In Italia, infatti, la sua presenza si era ridotta ai soli gialli di Maigret (“in edizione da chiosco di stazione”, gli aveva ricordato, con astuzia, Calasso in un primo incontro a Losanna). E nessuno dei suoi romanzi-romanzi, i cosiddetti non-Maigret, era più in libreria». Georges Simenon, quasi ottantenne, attendeva a casa per una conversazione il poco più che quarantenne Roberto Calasso. Bene! Ascoltiamo quanto ricorda l’anima di Adelphi nell’intervista rilasciata ad Attilio Giordano per il “Venerdì di Repubblica”. E naturalmente clicchiamo il FLIP dedicato al “Libraio” che ogni mese con puntualità informa sulle novità editoriali.

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Il Venerdì di Repubblica: Roberto Calasso svela come conquistò Georges Simenon

 

GEORGES JOSEPH CHRISTIAN SIMENON (Liegi, 13 febbraio 1903 – Losanna, 4 settembre 1989) è stato uno scrittore belga di lingua francese, autore di numerosi romanzi, noto al grande pubblico soprattutto per avere inventato il personaggio di Jules Maigret, commissario di polizia francese. Tra i più prolifici scrittori del XX secolo, Simenon era in grado di produrre fino a ottanta pagine al giorno. A lui si devono centinaia di romanzi e racconti, molti dei quali pubblicati sotto diversi pseudonimi. La tiratura complessiva delle sue opere, tradotte in oltre cinquanta lingue e pubblicate in più di quaranta Paesi, supera i settecento milioni di copie. Secondo l’Index Translationum, un database dell’UNESCO che raccoglie tutti i titoli tradotti nei Paesi membri, Georges Simenon è il diciassettesimo autore più tradotto di sempre e il terzo di lingua francese dopo Jules Verne e Alexandre Dumas (padre). Nonostante la sua opera abbia intrecciato diversi generi e sottogeneri letterari, dal romanzo popolare, al romanzo d’appendice, passando dal noir e dal romanzo psicologico, Simenon è noto soprattutto per essere l’ideatore del commissario Maigret, protagonista di racconti e romanzi polizieschi.  (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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IL LIBRAIO

Georges Simenon: Maigret e la commedia umana

Abbas – Il fotografo iraniano che scriveva con la luce

 

Si è spento a Parigi Abbas Attar, il grande fotografo che si firmava col solo cognome. Ha lavorato per l’Agenzia Magnum Photos dal 1981. La stessa agenzia ha diffuso la notizia della sua scomparsa. Celebre per i suoi reportage, ha fotografato guerre e rivoluzioni, fame e carestie, dall’Irlanda del Nord al Vietnam, da Cuba al Sud Africa. A partire dagli anni Novanta del Novecento anticipa le tensioni esplose nel mondo musulmano e l’interesse per l’Islam lo porta a sviluppare i temi più attuali legati al rapporto tra le religioni attraverso coinvolgenti libri fotografici: cristianesimo, buddhismo, induismo. FLIP rinvia ad un ricordo curato da Michele Smargiassi su “Repubblica.it” e i link seguenti rimandano alla miriade di scatti, presenti nei suoi libri più famosi e che vediamo in un website incentrato sulla figura di Abbas o sulle pagine del suo Portfolio curato dall’Agenzia Magnum. Qui troviamo anche un resoconto tracciato dallo stesso autore sull’attività degli ultimi anni, che ha consolidato la sua fama. Sommariamente traduciamo: «Dal 1978 al 1980 ho coperto la rivoluzione iraniana, poi per sette anni, dal 1987 al 1993, ho viaggiato nella terra dei musulmani. Dal Sinkiang al Marocco, da Londra a Timbuktu, visitando New York e la Mecca, ho fotografato le vite quotidiane dei musulmani, i rituali della loro fede, la loro spiritualità e l’emergere dell’islamismo, del suo fanatismo e della sua violenza. Spinto dal desiderio di comprendere le tensioni all’interno delle società musulmane, ho esposto il conflitto tra un’ideologia politica emergente – che cerca ispirazione in un passato mitico – e il desiderio universale di modernità e democrazia. Questo lavoro è durato sei anni, dal 1995 al 2000. Ho anche fotografato le comunità cristiane di tutto il mondo con lo stesso occhio critico. Annunciando l’alba del “terzo millennio”, l’anno 2000 si impose come calendario universale e quindi simbolo della civiltà occidentale: gli ebrei celebravano l’anno 5760 e i musulmani l’anno 1420. Durante questi viaggi, ho fotografato pure gli ebrei, figli di Abramo, il profeta rivendicato come antenato comune anche dai cristiani e dai musulmani. Infine, ho raccolto le tre religioni monoteiste in un’unica mostra con estratti dai miei diari di viaggio».

Abbas.site: L’opera fotografica di Abbas attraverso le sue stesse immagini

Agenzia Magnum Photos: Portfolio, Abbas Iranian/French, b. 1944, d. 2018 (Estate)

 

ABBAS ATTAR (Iran, 1944 – Parigi, 25 aprile 2018) è stato un fotografo iraniano noto per i suoi reportage in Biafra, Vietnam e Sudafrica negli anni settanta, e per i suoi ampi saggi sulle religioni negli anni successivi. È stato dal 1971 al 1973 membro dell’agenzia Sipa, membro dell’agenzia Gamma dal 1974 al 1980 e di Magnum Photos dal 1981. Abbas Attar, iraniano trapiantato a Parigi, ha dedicato i suoi reportage più importanti agli eventi politici e sociali dei paesi in via di sviluppo. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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REPUBBLICA.IT

Addio Abbas, patriarca con metodo

Barbin – una strana storia del “vero sesso” finita male

 

Nel FLIP di oggi ricordiamo un personaggio pressoché sconosciuto, salvo agli specialisti della letteratura medica e ad alcuni studiosi di storia. Si tratta delle tristi vicissitudini riguardanti l’ermafrodita Herculine Barbin, che le cronache dell’epoca segnalarono al pubblico per la particolarità del suo sesso. L’Écho rochelais del 18 luglio 1860 scriveva di una ragazzina di ventun anni: «Un’insegnante straordinaria sia per gli alti sentimenti del suo cuore come per la sana istruzione, era vissuta, pietosamente e modestamente, fino ad oggi, nell’ignoranza di se stessa, vale a dire, credendo di essere ciò che appariva nell’opinione di tutti, sebbene ci fossero, per persone esperte, particolarità organiche che avrebbero dovuto generare stupore, poi il dubbio e, con il dubbio, la luce; ma l’educazione cristiana della ragazza era l’innocente benda che velava la verità. Finalmente, abbastanza recentemente, una circostanza fortuita è arrivata a gettare qualche dubbio nella sua mente; la chiamata è stata fatta alla scienza, e un errore sessuale è stato riconosciuto… La ragazza era un giovane uomo». In seguito ad esami medici si venne alla determinazione di riconoscere ufficialmente la Barbin di sesso maschile. Fu così che Alexina cambiò il nome in Abel e il caso balzò sulle pagine dalla stampa. Abel si trasferì a Parigi. Qui visse in povertà e scrisse la propria biografia, dalla quale apprendiamo quasi tutto ciò che oggi conosciamo. A febbraio del 1868, il portinaio del palazzo di rue de l’École-de-Médecine, trovò il giovane esanime nel suo appartamento. Barbin si era suicidato col gas di una stufa. Le sue memorie furono rinvenute accanto al letto. Questo manoscritto è stato trascritto quasi interamente dal dottor Ambroise Tardieu nel suo libro “Questione medico-legale di identità in relazione ai difetti di conformazione degli organi sessuali” (Parigi, 1874). Nella presentazione, Tardieu ricorda le circostanze della scoperta del cadavere e del manoscritto: «In una delle più povere mansarde del Quartiere Latino, a Parigi, all’inizio dell’anno 1868, un giovane si è dato la morte (…) il Dr. Regnier, medico dello stato civile, e il commissario di polizia del quartiere si sono recati a casa del poveretto. Dopo aver constatato il decesso e le anomalie fisiche che presentavano certe parti del corpo, hanno rinvenuto su di un tavolo una lettera autografa indirizzata alla madre in cui il suicida chiedeva perdono (…) Oltre a questa lettera, il giovane ha lasciato un manoscritto in cui racconta la sua triste esistenza. Le pagine che seguiranno sono estratte testualmente … Riporterò qui il manoscritto quasi nella sua interezza e come mi è stato trasmesso. Escluderò solo passaggi che allungano la storia senza aggiungere interesse, ma ovunque rispetterò la forma che ha un particolare timbro di sincerità e di impressionanti emozioni». La triste vicenda ha ispirato molti saggi ed opere letterarie. Se ne è occupato, fra l’altro, anche Michel Foucault, del quale riportiamo di seguito la traduzione italiana della prefazione all’edizione americana del libro “Herculine Barbin, dite Alexina B” edito da Gallimard. Nel 1985 un film è stato presentato al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard ed oggi, come troviamo nell’articolo de LA STAMPA va in scena fino al 27 aprile lo spettacolo teatrale scritto da Olivia Manescalchi: «Una strana confessione. Memorie di un ermafrodito». Una storia angosciante che rispecchia il clima di un’epoca, ma che ancora oggi fa riflettere su come occorra rendere onore a qualunque diversità.

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HERCULINE BARBIN (Saint-Jean-d’Angély, 8 novembre 1838 – Parigi, 13 marzo 1868) è stato uno pseudo-ermafrodito francese, a cui era stato attribuito alla nascita il sesso femminile a causa di una variazione dei genitali, ma al quale fu imposto per sentenza di tribunale di assumere sesso e nome maschile dopo la pubertà. Al momento di suicidarsi lasciò un celebre memoriale, tradotto in molte lingue. Il suo caso è stato studiato in anni recenti, a partire da Michel Foucault, per la luce che getta sulla questione della formazione dell’identità di genere e della sua importanza nell’equilibrio psichico dell’individuo. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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LA STAMPA

Per il lieto fine il coraggio non basta: a teatro il dramma dell’ermafrodita Herculine

Newton – L’allievo che Barrow promosse professore

 

Il termine “gregario” è usato soprattutto nel ciclismo. In questo ambiente sportivo i gregari li chiamano “portatori d’acqua”. Si sacrificano per il campione spesso nel più completo anonimato. Il regista lituano Arunas Matelis ha raccontato, in un documentario in concorso al Trento Film festival, di quel piccolo gruppo di gregari del ciclismo professionistico, che ha seguito durante il Giro d’Italia, e dei quali nessuno parla mai. Il documentario si intitola: «Wonderful Losers. A Different World». Esistono anche tanti altri gregari. Nelle pagine della “Lettura” leggiamo di Gordon Lish, grande editor di molti scrittori americani degli ultimi cinquant’anni. Dalla narrativa saltiamo al mondo dell’arte, e ricordiamo Antonio D’Este, che ha curato le “Memorie di Antonio Canova”. Del grande scultore D’Este eternò virtù, temperamento e sensibilità. Assistette il suo amico nell’esecuzione delle opere e lo accompagnò nei viaggi. In questo spazio di FLIP parliamo, invece, di un altro gregario come fu Newton. Lo facciamo riprendendo con un link l’articolo pubblicato dalla “Lettura” e approfondendo la figura del grande scienziato su Wikipedia.

ISAAC NEWTON (Woolsthorpe-by-Colsterworth, 25 dicembre 1642 – Londra, 20 marzo 1727) è stato un matematico, fisico, filosofo naturale, astronomo, teologo e alchimista inglese; citato anche come Isacco Newton, è considerato uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi e fu Presidente della Royal Society. Noto soprattutto per il suo contributo alla meccanica classica, Isaac Newton contribuì in maniera fondamentale a più di una branca del sapere, occupando una posizione di grande rilievo nella storia della scienza e della cultura in generale. Il suo nome è associato a una grande quantità di leggi e teorie ancora oggi insegnate: si parla così di dinamica newtoniana, di leggi newtoniane del moto, di legge di gravitazione universale. Più in generale ci si riferisce al newtonianesimo come a una concezione del mondo che ha influenzato la cultura europea per tutto il Seicento. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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LA LETTURA (CORRIERE DELLA SERA)

Isaac Newton, il «gregario» 
diventato genio

Huysmans – Repulsione per la volgarità e l’orrore della banalità

 

FLIP, come scrivevamo ieri, è un angolo di Experiences dove mettere in risalto alcune buone letture. Oggi questo spazio è dedicato a Joris-Karl Huysmans, autore fra l’altro del famosissimo “À rebours” (Controcorrente), che Guy de Maupassant definì come la «storia di una nevrosi», vissuta nella Parigi fin de siècle dall’unico personaggio del romanzo, Jean Floressas Des Esseintes , ma in realtà specchio dello stato d’animo dell’autore, tanto controverso quanto critico quanto mai nei confronti della società e dei suoi movimenti artistici più retrivi. Nel 1880 pubblicherà nella raccolta collettiva di novelle “Les soirées de Médan” di Émile Zola un proprio racconto, “Sac au dos”, che sarà considerato manifesto del movimento naturalista. Richiamiamo con un link la pagina online de Il Sole 24 ore e su Wikipedia approfondiamo vita ed opere di questo scrittore coinvolgente.

JORIS-KARL HUYSMANS, nato Charles-Marie-Georges Huysmans (Parigi, 5 febbraio 1848 – Parigi, 12 maggio 1907), è stato uno scrittore francese che influenzò notevolmente lo sviluppo del romanzo decadente. Huysmans era figlio di madre francese e di un miniaturista olandese, Victor Godfried-Jan, ed è proprio per omaggiare le proprie origini olandesi che cambia il suo nome in Joris-Karl. Alla morte del padre, avvenuta nel 1856, Joris-Karl viene trasferito in un collegio; la madre si risposa un anno dopo. Nel 1862 Huysmans si trasferisce a Parigi per studiare al Lycée Saint-Louis, dove si diploma nel 1866. Ottiene un lavoro presso il Ministero degli Interni (da lui sempre definito il «maledetto ufficio»), dove lavorerà tutta la vita. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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IL SOLE 24 ORE

Il coraggio di essere dandy

Cattelan – L’arte è un territorio che tutti possono esplorare

 

FLIP è un angolo di Experiences dove mettere in risalto alcune buone letture, come l’intervista a Maurizio Cattelan, provocatore per eccellenza, che della sua “arte principale” dice: «La provocazione? È un cavallo di Troia per mettere sulla bocca di tutti argomenti che si vogliono tacere». Richiamiamo con un link la pagina online del Corriere della Sera e su Wikipedia approfondiamo vita ed opere di questo personaggio particolare.

MAURIZIO CATTELAN (Padova, 21 settembre 1960) è un artista italiano. Inizia la sua carriera a Forlì, negli anni Ottanta, collaborando con alcuni artisti del luogo. Il debutto espositivo è nel 1991, alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna, dove presenta Stadium, un lunghissimo tavolo da calcetto con ai due lati due schiere di giocatori, in cui i bianchi erano le riserve del Cesena e i neri degli operai senegalesi che lavoravano in Veneto. Le sue opere combinano la scultura con la performance, ma spesso includono eventi di tipo “happening”, azioni provocatorie, pezzi teatrali, testi-commento sui pannelli che accompagnano opere d’arte sue e non, articoli per testate. Vive e lavora tra Milano e New York. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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CORRIERE DELLA SERA

Maurizio Cattelan: «Da infermiere a creativo. E ora vendo la mia fronte 
per finanziare buone azioni»

Renato Rovetta, innovatore e creatore di moderni brevetti

 

I migliori cervelli italiani, alla fine dell’Ottocento, si misero al lavoro nella ottimizzazione delle varie fasi del lavoro dei pastai. Questo partendo dai motori azionati grazie al vapore o con l’elettricità. Le fasi del mestiere erano principalmente quattro: l’impastamento, la gramolatura, la torchiatura e essiccazione. L’obiettivo era la trasformazione dell’attività in un ciclo continuo, che producesse un unico grande passaggio perfettamente automatizzato. Le aziende metalmeccaniche, molto attive, lavoravano sul continuo miglioramento delle soluzioni già trovate. Quindi lavoravano non solo nella ideazione di nuove attrezzature, ma anche sulla sostituzione di macchinari antiquati, mandati in soffitta, in un mercato in forte rinnovamento.
Tra gli ingegneri che si applicarono in questi studi, citiamo Renato Rovetta, innovatore e creatore di moderni brevetti. Egli si cimentò nell’invenzione di una macchina ”universale”. Questo rimase per lungo tempo, un sogno irrealizzato. Solo nel 1933, le officine Braibanti di Milano produssero questa macchina “totale”, in grado di effettuare le prime tre fasi del processo in un ciclo unico, esclusa, quindi, l’essiccazione. Nel 1937, la società dà vita al primo impianto completamente automatizzato per la produzione di pasta, che venne presentato alla fiera di Milano di quell’anno. Purtroppo, era in arrivo la seconda guerra mondiale.
Dopo il conflitto, tutte le carte erano in regola, per gli investimenti e per l’avvio di una seconda industrializzazione. Grande era la produttività, più veloce e meno costosa, soprattutto sotto il profilo della manodopera.

 

Le nuove tecnologie per la produzione della pasta

 

Nelle regioni dell’Italia Settentrionale, o in Francia, nella Provenza, sorsero pastifici moderni perfettamente meccanizzati, azionati da motori instancabili. Nelle regioni meridionali, invece, già in storico ritardo, ci si mosse lentamente verso la meccanizzazione, che comunque, alla fine, arrivò anche al Sud.
Nei pastifici la produttività aumentava se si migliorava l’efficienza stessa delle macchine a disposizione. Così assistiamo all’introduzione di nuovi macchinari o al perfezionamento di quelli consueti come la gramola a stanga. Tra le innovazioni: i torchi orizzontali, dotati di grandi ruote a forma di pala.
Con un mercato in forte crescita e la possibilità di una meccanizzazione per l’aumento della produzione, il settore della pasta richiama finanzieri, imprenditori e ricchi commercianti, che investono denaro e organizzano nuove realtà produttive. In più si apre un nuovo settore, quello dell’ideazione e produzione di macchinari per una sempre più sviluppata industrializzazione.

È il successo delle idee e dell’iniziativa. Ne è un esempio la società Guppy & Co, fondata da due ingegneri, nel 1853 a Napoli. Sebbene inizialmente si occupasse della costruzione e riparazione di locomotive a vapore, nei decenni successivi allargò il suo mercato di riferimento, costruendo motori e caldaie a vapore per mulini, frantoi da olio, torchi idraulici e attrezzature varie per la produzione della pasta. Uno di questi ingegneri, Giovanni Pattison, fonda con i suoi figli, nel 1864, la C.T.T. Pattison, che produrrà la prima gramola automatizzata, detta gramola a coltelli. Renato Rovetta, anch’esso ingegnere, la considerò la “migliore gramola per paste molli ad acqua bollente”. Ciononostante, a causa della forte concorrenza presente nel settore, la società svizzera Fratelli Bühler contrappose la sua gramola a molazza, che registrò un ottimo successo. L’invenzione poteva essere mossa indifferentemente dalle nuove energie del tempo, vapore o elettricità.
Nel 1880, ecco apparire la nuova gramola a rulli conici, costruita dalla società Ceschina e Busi di Brescia. Anch’essa ebbe ovunque molto successo, meno che a Napoli, dove aveva pure una succursale, perché nel napoletano si preferiva la gramola a coltelli.

Alla fine del secolo l’industria lombarda si afferma sul mercato metalmeccanico. La stessa fabbrica Ceschina e Busi viene assorbita dalla più grande Officine Riunite Italiane. Sempre di Brescia è la società Guglielmini. A queste si aggiunge, a Milano, la società Breda. In Piemonte si distingue la ditta Losa e Campo di Torino. Inutile dire che l’affermazione tecnologica della Lombardia su Napoli, significò uno sviluppo più deciso della stessa industria della pasta. Ciononostante, la società napoletana C.T.T. Pattison, mantenne la superiorità nell’ambito della creazione e produzione di macchinari per la pasta. Introdusse, infatti, sul mercato un torchio idraulico soprannominato ”a gotto montante”, veramente innovativo, che prese il posto del vecchio torchio a vite. La ricerca della soluzione globale, sarà rimandata al Novecento, ma la vasta gamma di attrezzature dà effervescenza ad un settore redditizio, data la forte domanda sempre in crescita. Tra le creazioni del periodo, ricordiamo il “voltapasta automatico”, che spinge automaticamente, la pasta sotto i rulli della gramola.

Ottocento: innovazioni e brevetti nel settore della pasta

 

Già nel Regno borbonico, agli inizi dell’Ottocento, si era sviluppata un’attenzione particolare verso l’uso di macchine e motori. Un po’ ovunque nel Regno delle Due Sicilie. Tanto che, a Napoli, iniziò ad operare la “Reale commissione per l’incremento industriale”. Le premesse, quindi, vi erano tutte. La commissione prese in considerazione diverse innovazioni e brevetti, anche nel settore della pasta. Vengono presentati strumenti con piccole modifiche. Come la variante alla gramola a stanga avanzata da Salvatore Savarese, pastaio, ma anche modifiche molto più complesse. È il caso dell’ingegnere Cesare Spadaccini, che fa esaminare il suo progetto di un “Novello e grande stabilimento di pasta con l’Uomo di Bronzo”. Quest’ultimo era una specie di robot, che impastava utilizzando i suoi piedi di legno. In pratica era un automatismo che replicava il lavoro umano degli operai, che in effetti impastavano anche con i piedi. Spadaccini, però, non era motivato a creare un nuovo macchinario, ma piuttosto era interessato a una modifica igienista. Ma non basta.

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Cesare Spadaccini si rivelò un utopista “ante litteram”, proponendo molte ulteriori idee. Prefigurava che il mondo dell’industria dovesse essere rigidamente regolamentato. Tale procedura era obbligatoria per i dipendenti. Innanzitutto, gli operai giunti alla fabbrica si svestivano utilizzando spogliatoi separati. Qui, dovevano lavarsi e cambiarsi d’abito, indossando una tuta da lavoro (la fornitura spettava all’azienda). Spadaccini prevedeva inoltre una serie di incentivi, come in caso di malattia o incidente; proponeva anche una piccola dote per le figlie degli operai validi, che andavano in sposa. In ultimo, lo stipendio doveva essere maggiorato, ma pagato per una metà in denaro e l’altra metà direttamente in natura, con la pasta prodotta dalla fabbrica stessa.
Tali concezioni si possono considerare innovative, nella misura in cui prefigurano il futuro del mondo industriale. Ma già nel 1830 lo scrittore Andrea de jorio considerò tutto questo come un pezzo da museo. Spadaccini aprì anche un proprio pastificio, dove cercò di applicare le sue idee. Inutile dire che non fece molta strada.
Le modernizzazioni da lui proposte, comunque le si voglia considerare, rappresentano l’alba di un settore in cambiamento. Altri imprenditori imiteranno le sue anticipazioni. In ogni caso, a partire dal 1850, bene o male inizia a svilupparsi quella che sarà la vera e propria industria della pasta.