Ha smesso di piovere, ma io non ho smesso ancora di parlare. Solo una pausa, per preparare un espresso. Fa freddo. Mi piace, però, spalancare una finestra per lasciarmi baciare da una folata d’aria fresca: il tempo di gettare uno sguardo sulla strada. Gli unici alberi che ci sono – commento divertito – sono quelli che costeggiano i marciapiedi. Tutt’altra cosa è la campagna. Adoro il profumo dell’erba bagnata.

Sprofondo di nuovo in poltrona col mio caffè da bere fumante nella tazza che scotta. Mi viene da pensare che Lilli è l’unica che riesce a seguirmi per un tempo infinito, quando prendo a parlare. Ma finora m’è parso che anche Eulalie e Alizée non sono da meno.

Nella Francia ottocentesca, mentre la grande borghesia consolidava la propria egemonia in città dove svolgeva gli affari finanziari importanti, i nobili riconquistano la campagna, trovandovi il rifugio ideale per inscenare un nostalgico ritorno al passato. Le dimore rurali, abbandonate già da prima della Rivoluzione, tornano a essere i luoghi nei quali ricostruire l’immagine perduta della loro antica superiorità. Un’illusione tenace, che precedette perfino l’ascesa al trono di Luigi Filippo, il “re borghese”, che con il suo avvento sancì l’estromissione definitiva dell’aristocrazia dalla scena politica. La nobiltà legittimista, relegata ai margini del potere, cercò pertanto nella terra e nel racconto ancestrale le tracce di una feudalità ormai irrecuperabile. Fu così che si diffuse, anche in Francia, la moda del neogotico. Un’estetica, tuttavia, che si trasformò in una sorta di esibizione grottesca, una teatralizzazione caricaturale.

«Basti pensare alle residenze settecentesche brutalmente modificate con l’aggiunta di torrioni e merlature, secondo un gusto che oggi definiremmo kitsch, ma che all’epoca rispondeva a un’autentica ossessione passatista». Alizée interviene senza neppure alzare la testa dal Moleskine sul quale sta prendendo nota.

Eulalie, approfittando della mia interruzione, prosegue: «La borghesia, al contrario, preferiva modelli più vicini alla propria filosofia di vita. L’arte del Rinascimento – epoca di grandi personalità, invenzioni e scoperte – pareva loro più affine alla celebrazione del successo personale. Così, mentre i nobili nei castelli finto-feudali si illudevano di recuperare le proprie origini, i nuovi ricchi non si lasciarono travolgere da queste nostalgie, affermando al contrario un “modus vivendi” più in sintonia con una filosofia individualista».

Proprio così, confermo io. Un esempio paradigmatico di questa visione borghese, tanto lontana dalla nevrosi goticheggiante quanto intrisa di ambizione e modernità, è rappresentato dal castello di Ferrières-en-Brie, appena fuori Parigi. A volerlo fu James de Rothschild, uno dei protagonisti assoluti del mondo finanziario europeo. Nel 1829, Rothschild acquistò dai discendenti di Joseph Fouché – l’astuto e controverso ministro della polizia napoleonica – un piccolo castello affacciato su di uno stagno. L’edificio fu demolito per fare posto a una residenza nuova, grandiosa e tecnologicamente all’avanguardia. Esemplare fu che, per realizzarla, Rothschild si rivolse a Joseph Paxton, un’archistar dell’epoca.

Giardiniere e architetto inglese, come sapete, Paxton diverrà famoso con la realizzazione del Crystal Palace, capolavoro di vetro e acciaio costruito per ospitare la Grande Esposizione di Londra del 1851. La prima pietra del nuovo castello di Ferrières fu posata nel 1855, e i lavori si conclusero nel 1858. L’edificio, di pianta quadrata, è dominato da quattro torri angolari simmetriche; ma la sua vera innovazione architettonica risiedeva nello spazio centrale, una vasta hall coperta da una struttura in vetro che rievocava, in chiave residenziale, la grande architettura espositiva londinese. Era uno spazio pensato non solo per stupire gli ospiti, ma anche per riflettere il nuovo concetto di rappresentanza borghese: non più l’esibizione dell’antico lignaggio, ma la celebrazione della modernità, della trasparenza, della luce.

Intorno a questa hall si articolavano, al primo piano, gli ambienti destinati alla vita sociale e ai ricevimenti: saloni, sala da pranzo, sala da gioco, sala da biliardo. Il secondo piano ospitava le camere da letto, progettate secondo criteri di comodità allora rivoluzionari. Ogni stanza era concepita come un piccolo appartamento indipendente, con ingresso privato, bagno e toilette: un’attenzione al comfort che testimonia quanto la cultura borghese dell’abitare fosse maggiormente orientata al benessere, piuttosto che al prestigio simbolico.

«Mi pare che Paxton sia l’eccezione che conferma la regola», interviene Alizée. Per l’appunto: Paxton conferma la regola. E questo è avvalorato da molte ricerche recenti, che hanno mostrato un quadro assai più sfaccettato, rispetto all’idea sclerotizzata di concentrare l’attenzione soltanto su Viollet-le-duc. L’architetto del restauro di Notre-Dame divenne, certo, il volto più noto del gotico ottocentesco, ma la gran parte delle costruzioni che fiorirono in provincia fu opera di progettisti meno celebri, eppure non meno determinanti. Tra questi spicca René Hodé, di Angers, che nel corso della sua carriera costruì ben quattordici castelli e rinnovò una decina di residenze signorili nelle campagne dei Paesi della Loira.

Il suo lavoro fu unito a filo doppio, ovviamente, alla committenza legittimista rimasta devota alla monarchia borbonica, intransigente oppositrice dello spirito illuminista espresso dai “philosophes”. Tra i suoi clienti vi furono il conte di Falloux, il conte di La Rochefoucauld, il conte di Quatrebarbes, nobili che, pur esclusi dal potere, cercavano accortamente di far fruttare le proprie terre, gestendole con oculatezza, e tentando al contempo di riconquistare il favore dei contadini alla causa monarchica. Un tentativo che, almeno localmente, spesso non fu privo di risultati.

I castelli disegnati da Hodé sono sogni di pietra perfettamente simmetrici: torri slanciate, merlature, tetti spioventi rivestiti di ardesia, finestre ogivali, ghimberghe sormontate da frontoni e pinnacoli. L’effetto è teatrale, costruito per colpire, per riaffermare una visione eroica e idealizzata dell’aristocrazia. Una delle differenze più significative, rispetto all’Ancien Régime, è la nuova configurazione spaziale: il castello non è più aggregato ad un villaggio agricolo brulicante di attività. Ora si staglia solitario nel paesaggio. Le case dei mezzadri e le dipendenze sono relegate a distanza, quasi a sancire una distanza soprattutto sociale. In molti casi, per ottenere questa netta separazione, Hodé non esitò a demolire le fattorie contigue, liberando nelle vecchie residenze rurali spazio per torri aggiuntive o abbattendo muri all’interno per ampliare le stanze.

«Non fu un fenomeno isolato, immagino». Interviene Alizée, che continua a prendere appunti sul suo taccuino rosso. Sicuramente no, rispondo. Nella vicina Vandea – terra di antica e incrollabile fedeltà monarchica – si contano circa duecento castelli costruiti nel corso del XIX secolo. Anche qui, il gotico è lo stile prevalente, vessillo di una memoria storica e politica. L’architetto Joseph Libaudière, nato a Nantes, è anche in questo caso un esempio significativo. Assistente di Charles Garnier durante la costruzione dell’Opéra di Parigi, Libaudière ricoprì per circa mezzo secolo l’incarico di architetto dipartimentale della Vandea. Tra il 1880 e il 1906 – pensate, dunque, per quanto tempo si andò avanti su questa linea, valicando il secolo – progettò quattordici chiese neogotiche e numerosi castelli. Il suo stile, pur ispirato ai modelli storicisti, è tuttavia segnato da una profonda coerenza con il paesaggio e la tradizione locale.

Intanto, nel Nord della Francia, a Bondues nei pressi di Lille, un altro architetto, Louis Cordonnier, lasciava il segno con un’interpretazione personale e fantasiosa del gotico romantico. Affascinato dal castello bavarese di Neuschwanstein, Cordonnier costruì residenze dal profilo fiabesco, con frontoni complicati, comignoli dall’aspetto quasi vegetale, tetti inclinati merlati e muri in mattoni scanditi da fasce di pietra bianca. In queste architetture si coglie un’estetica dell’eccesso, dell’immaginazione. Non c’è realmente nostalgia, ma piuttosto una celebrazione della fantasia.

Come è possibile comprendere, nel complesso, il castello ottocentesco francese è un gesto culturale, una dichiarazione d’intenti, una visione del mondo tradotta in architettura. I castelli di Hodé, di Libaudière, di Cordonnier, fra i tanti che occorrerebbe citare, sono narrazioni di pietra. Tuttavia, torno a chiedervi: avete visto tutto questo nel progetto di Émile a Creil? E aggiungo: cosa accomuna la nostra casa con questi castelli immaginari?

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