|
Il
saggio di Sergio Bertolami e Rosa Manuli è
il frutto di una ricerca che vuole
richiamare l’attenzione sull’area falcata,
partendo dal recupero della sua identità
storica. Il percorso delineato tende a
spiegare da dove scaturisca il toponimo di
“braccio di San Raineri”, chi lo abbia
imposto e perché questa denominazione sia
rimasta da secoli nell’uso quotidiano.
Uno dei testi più
importanti della storia messinese è
l’Iconologia (1644) del gesuita Placido
Samperi, che riferisce una versione
attinta dalla tradizione orale, alla quale
gli storiografi locali delle generazioni
future hanno fatto riferimento. Il dotto
messinese afferma che la denominazione
della penisola è dovuta alla «costantissima
fama» di un certo Romitello di nome
Rainerio, che faceva vita solitaria
vivendo «in una capannuccia sotto
un'antica, e rovinosa fabrica». Gaetano La
Corte Cailler, accettando sia il racconto
dell’eremita sia l’ipotesi della sepoltura
in un un luogo imprecisato della penisola,
indica giorno ed anno della scomparsa: 17
giugno 1161. Attribuisce, inoltre, il nome
“braccio di San Raineri” alla presenza di
una cappella devozionale dedicata al
santo, di cui anche Caio Domenico Gallo
conferma l’esistenza «nel braccio del
Santissimo Salvatore nella Lingua del
Faro».
Francesco Maurolico,
scenziato eccezionale e di ben più alto
spessore storiografico, nel suo
Martyrologium redatto nel 1568 secondo
Santa Romana Chiesa, riporta, dopo la
conclusione del concilio tridentino, la
prima indicazione ufficiale che registra
un santo di nome Ranieri. L’abate
messinese attesta un «Ranerij Pisis. 17
Iunij». Alla data del 17 giugno ne
tratteggia la figura: nato a Pisa, nobile,
convertitosi visitò come pellegrino
Gerusalemme, morì famoso per la sua
religiosità nell’anno 1161. I resti del
santo sono conservati nella cattedrale di
Pisa, dove dal 1633 è celebrato come «patronus»
della città. Ciò dimostra che la realtà
storica è ben delineata nei tempi e nei
fatti. A Messina, invece, siamo dinanzi ad
una palese amnesia storica, una
progressiva perdita di memoria
affievolitasi con il tempo fino a
scomparire del tutto.
L’inconsistenza
della leggenda riportata da Samperi, è
dimostrata nel 1927 anche da Domenico
Puzzolo Sigillo. Infatti, il racconto
dell’eremita preoccupato di mantenere
acceso il fuoco notturno per evitare
pericoli ai naviganti nelle notti
tempestose, va documentalmente ricondotto
alla presenza nella penisola di una
comunità dell'ordine dei Continenti, primo
nucleo del francescanesimo in Sicilia.
Questi frati vivono nell’osservanza della
povertà, dell'obbedienza e della castità,
dimorano nella Torre di San Raineri e sono
impegnati ad alimentare l’illuminazione
notturna dello Stretto, ponendo un fanale
proprio in cima alla Torre.
In realtà fino
agli inizi del Settecento il riferimento
al Ranieri pisano è dimostrato anche dal
gesuita Benedetto Chiarello, che nel suo
libro di memorie sacre di Messina cerca di
conciliare fra loro due opposte tesi. La
prima è quella dell’eremita di Samperi; la
seconda tesi è sostenuta da uomini di
valente cultura come Gio. Pietro
Villadicani, nobile messinese, amico di
Maurolico. «Vogliono questi esser appunto
il Santo, di cui parlamo, S. Rainero
Pisano, simile al soprallegato, nell’aver
egli per qualche tempo nell’antidetto
luogo esercitata l’opera mentovata di
carità a i legni passeggeri nello scuro
delle notti tempestose». Questa tesi è, in
parte, negata dalle fonti storiche,
poiché Ranieri pisano non ha mai
soggiornato a Messina.
La domanda da porsi
non è se Ranieri, di passaggio, si sia o
meno fermato a Messina, ma perché
intitolargli addirittura l’intera area del
porto, anziché la sola e semplice chiesa
di cui parla Gallo negli Annali, elevata
dalla comunità pisana, che per ragioni
commerciali, ha stabilito la propria
presenza in città.
|