Una soluzione dinamica
di Gio Bonaventura
Oggi Repubblica e Corriere informano che per l’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) quasi la metà degli adulti italiani ha grosse difficoltà nel “problem solving”. È incapace a soddisfare le numerose situazioni che richiederebbero prontamente una soluzione dinamica.
Anche le newsletter appena sveglio, prima ancora di sfogliare i giornali, mi ricordano che ho una risposta in sospeso e devo darla in tempi ragionevoli. Rientra nel “problem solving”. Istintivamente sarei portato a mantenere fermo il proposito di declinare incarichi impegnativi, se si escludono quelli che posso assolvere utilizzando iPhone e iMac. Siamo connessi al mondo, lo sanno tutti, e io lo faccio in ogni momento, tessendo relazioni con una moltitudine di persone. Ormai vado in studio soltanto quando necessita – quasi per cambiare aria – avendo lasciato gli impegni ordinari alle collaborazioni. Anche se neppure loro, i collaboratori, hanno più necessità di fare capo ad una sede fissa e sono liberi di scegliere quando e dove operare. Tutto sembra essersi incantevolmente smaterializzato.
L’idea di tornare a viaggiare, se non per diletto, non mi frullava più da un pezzo, soprattutto dopo i due anni di Covid. Prendere un aereo e tornare a casa, alcune volte addirittura nella stessa giornata. Partire di notte e tornare di notte. Cambiarsi in fretta nella toilette di un aeroporto. Mangiare un panino al volo tra il check-in e l’imbarco. L’ho fatto per anni, ma ero giovane e motivato. Dalla prima villa disegnata con mio padre e realizzata in Val di Susa, una villa che segnò amaramente la mia famiglia. Tranne essere astemio, mio padre assomigliava al personaggio di Don Draper nella serie televisiva Mad Men. Esattamente il mio contrario, che in tutta la vita ho amato una sola donna. Ma non ho amato una sola città. Certo, Roma, è stata sempre la mia preferita: ci sono nato. Mi si affastellano in mente una quantità lavori. Un hotel, un ristorante, varie abitazioni. Il restauro e la sistemazione interna dell’Hotel dove alloggiano cantanti e musicisti del Teatro dell’Opera: le porte di ogni stanza sono dipinte per intero con vedute di Roma. Il Ristorante nell’ala del convento maronita di Porta Pinciana, appena imboccata Via Veneto: piatti in porcellana Richard Ginori, posate d’argento, bicchieri di cristallo. Eleganti appartamenti di illustri professori, come i due piani Anni Trenta sul Lungotevere Flaminio. Aggiungerei anche tanti altri progetti condotti a Milano, a Napoli, a Pisa o Firenze. Tuttavia, sono le due recenti filiali di Londra e Amsterdam, per una Casa d’Arte, che potrebbero avermi dato l’idea giusta da prospettare a Marcel. Città, Londra e Amsterdam, nelle quali, tengo a dirlo, non sono mai stato materialmente presente.
Ammesso e non concesso di avere trovato la soluzione, ecco allora prendere senso l’incitamento dei miei amici secondo cui, questa di Parigi, è un’ottima opportunità per rinnovarsi, impegnarsi in luoghi nuovi, ristabilire vecchi rapporti. Attività preziose e stimolanti che non dovrebbero essere trascurate. Oltre a tutto, i sogni premonitori sono una risorsa inestimabile, poiché anticipano possibilità da cogliere immediatamente. Stranissima cosa sono i sogni, quando si tramutano in realtà mi lasciano perplesso. Anche in un caso positivo come questo. Se accettassi la proposta di Marcel, saprei già come muovermi. Il tempo del taxi dall’aeroporto. L’albergo alla Défense che scelgo da anni. La stazione della metro, dove al piano inferiore partono i collegamenti veloci per l’hinterland. Mentalmente è come se fossi là, ma non sono più il giovanotto in gamba che ero. Fare un progetto e realizzarlo distante è per il mio studio un fatto ricorrente. Seguire personalmente il cantiere delicato dell’edificio che già conosco è tutt’altro. Questa casa, poi, è una strana scatola a sorpresa. «Une boîte en bois peint à la main».
E poi, Parigi non è dietro l’angolo. Oppure sì? Ci si mette anche Lilli, mia moglie, che di nome non si chiama Dietlinde come Gruber, detta Lilli, la giornalista che ogni sera conduce il programma televisivo “Otto e mezzo”. Lilli è il soprannome che ho affibbiato io a mia moglie, perché mi sembra che abbiano molto in comune e della Gruber è una sfegatata ammiratrice. Ogni volta che glielo faccio presente, lei aggiunge in segno di stima che Lilli parla correntemente italiano, francese, inglese e tedesco, come nostro figlio. Orgoglio di mamma. Insomma, iPad in mano, Lilli ha già trovato i collegamenti con Parigi e mi fa notare che posso usufruire di almeno tre voli diretti giornalieri, ad orari del tutto comodi. In termini pratici, parto la mattina e in tre ore sono là. Un paio d’ore dopo, poco più poco meno, mi affaccio dal grattacielo di Courbevoie. L’hotel dista dalla linea 1 della metro un tiro di schioppo e sono in centro. Parigi arriviamo! >>> Segue >>>
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