Roma: webinar – Le sfide dell’Iran contemporaneo

Le sfide dell’Iran contemporaneo
04/06/2021 -16:00 –18:00
Webinar su piattaforma zoom.
Per partecipare scrivere – entro il 2 giugno – a:

info@vision-gt.eu

Partecipano:

  • Prof. Pejman Abdolmohammadi – Università di Trento
  • Amb. Alberto Bradanini – già ambasciatore Iran, saggista
  • Prof. Giampiero Cama – Università di Genova
  • Prof. Carlo Giovanni Cereti – La Sapienza Università di Roma
  • Dr. Tiberio Graziani – Vision & Global Trends

Nel corso del webinar sarà presentato il volume “Contemporary Domestic and Foreign Policies of Iran” di P. Abdolmohammadi (Università di Trento) e G. Cama (Università di Genova)

Il webinar è organizzato da Vision & Global Trends -International Institute for Global Analyses
in collaborazione con: 
Scuola di Studi Internazionali (Università di Trento)
•Dipartimento di Scienze Politiche (Università di Genova)

Storia del negozio che ha identificato l’Art Nouveau in Italia

di Sergio Bertolami

19 – Arthur Lasenby Liberty seguace di William Morris

Le trasformazioni artistiche o letterarie sono quasi sempre lente, mai lineari, né assolute. Neppure sotto il profilo temporale, per cui leggere su qualche testo che lo Stile Liberty ebbe inizio nel 1890 dovrebbe far sorgere qualche comprensibile dubbio. Questo perché, se il termine Liberty fu usato in Italia in riferimento ai magazzini londinesi di Arthur Lasenby Liberty, occorrerebbe considerare anche che tali magazzini furono aperti nel 1875. Ancora prima di Liberty, fu William Morris a ideare the Firm nel 1861, influenzato dalle idee di Augustus Pugin e John Ruskin che occorresse contrastare il pressappochismo dell’industria nascente e tornare all’artigianato e al lavoro manuale degli artisti medievali. Non erano che influssi di un radicato romanticismo. Riflettiamo, però, che erano anche gli anni in cui si cominciavano a brevettare le prime “carrozze a vapore”, quelle che noi chiamiamo automobili, per farle circolare sulle strade comuni e non solo su strade ferrate. Al contrario William Morris avrebbe voluto piantare una bella frenata all’industria nascente. Fondò la confraternita dei Preraffaelliti e con alcuni di questi – Burne-Jones, Rossetti, Webb, Ford Madox Brown, Charles Faulkner e Peter Paul Marshall ­– aprì la sua impresa per produrre artigianalmente carte da parati, tessuti chintz (quelli che in Francia s’imporranno col nome di toile de Jouy), tappeti, piuttosto che mobili, vetri o metalli. Il tutto con la speranza di ripristinare la decorazione, quale una delle belle arti. Nondimeno, a ben riflettere, l’opera di Morris non si identificò in tutto e per tutto con la storia della sua ditta commerciale. Più che da imprenditore, in quanto critico d’arte, pubblicista, pittore, decoratore e grafico, fu il tenace assertore di alcune idee che ritroveremo sempre più mature nel corso della prima metà del Novecento. Fra tutte: la diffusione di manufatti semplici e corretti in un mercato in evoluzione soggetto invece alla routine meccanicistica del tempo, la distinzione degli elementi strutturali e dei materiali, una produzione che premiasse le competenze tecniche ed estetiche degli artigiani manifatturieri. Sono questi alcuni dei principi ideali, che ritroveremo nella coscienza critica della moderna rivoluzione artistica, della quale sto provando ad accennare sommariamente il percorso.

Uno dei cataloghi della società di William Morris
The Arts et Crafts, Exibition Society di Londra

Arthur Lasenby Liberty non era lontano dalle idee di William Morris e dal suo movimento delle Arts and Crafts (Arti e Mestieri); ma, differentemente da lui, non demonizzava affatto la meccanizzazione in ascesa. Questo fu l’elemento che lo portò al successo, perché non aveva soltanto gusto, ma anche il fiuto negli affari. Non appena i porti giapponesi ripresero a commerciare con l’Occidente, dal 1853, in Europa si diffuse una considerevole varietà di prodotti fino ad allora conosciuti da pochi estimatori. Tra questi, sete, porcellane, ventagli e kimono, stampe da blocchi di legno in stile Ukiyo-e. «Il desiderio di possedere oggetti giapponesi – scriveva Christopher Dresser, tra i maggiori interpreti del movimento di Morris – si diffuse con l’apertura dell’Esposizione Internazionale del 1862, e di lì a breve i nostri commercianti iniziarono ad interessarsi alla produzione di questi strani oggetti come articoli commerciali». Nel 1874, dopo oltre una decina d’anni di servizio presso la Farmer & Rogers, al rifiuto di essere nominato partner della fiorente attività alla quale aveva contribuito, Arthur Lasenby Liberty decise di aprire un esercizio commerciale in proprio. Si fece prestare poco più di 2.000 sterline dal futuro suocero e affittò solo mezzo negozio al n° 218 di Regent Street, nel nascente West End di Londra. Il negozietto del trentaduenne Liberty mostrava già dall’insegna East India House (Casa dell’India orientale) che vi si vendevano articoli d’importazione, come sete d’arredamento, tappezzerie, oggetti decorativi e d’arte, provenienti dalle Indie, dal Giappone e dall’Estremo Oriente. Non passarono che diciotto mesi, per essere in grado di rimborsare il prestito e acquisire pure la seconda metà del magazzino di Regent Street. Fu così anche per gli anni successivi, perché man mano che l’attività cresceva, continuò ad acquistate e aggiungere, di proprietà in proprietà, anche i locali attigui. Le idee non mancavano. Sostenitore di un design conveniente in quanto a prezzo, ma distintivo per la qualità, non solo importava articoli, ma si rivolgeva anche a piccoli industriali per produrre mobili, articoli per la casa e tessuti pregiati. Strinse accordi per commercializzare tessuti prodotti in serie limitate, abbattendo i prezzi di vendita rispetto a quelli tradizionalmente fatti a mano. Per questo motivo, Liberty prese a pubblicare, dal 1881, cataloghi che presentavano sete pregevoli per varietà di colore, stampa e peso. I Liberty Art Fabrics divennero largamente ricercati ed imitati. I coloranti all’anilina, usati nella filiera industriale, in questi tessuti d’arte artigianali furono scartati a favore dei coloranti naturali; furono, inoltre, enfatizzate la classicità dei disegni e l’irregolarità della tessitura, che evidenziavano la produzione artigianale. Le sete Mysore di Liberty, per esempio, erano tessute a mano in India, prima di essere tinte e stampate a mano in Inghilterra, e infine promosse come «riproduzioni esatte di antiche stampe indiane».

Arthur Lasenby Liberty ritratto da Arthur Hacker (1913)

Nel 1884 Liberty introdusse il reparto “costume”, diretto da Edward William Godwin, rinomato architetto e fondatore della The Costume Society. Insieme crearono capi di abbigliamento per sfidare la concorrenziale moda parigina. L’anno successivo acquisì anche i locali di Regent Street al n°142-144 per soddisfare la crescente domanda di tappeti e mobili. Il seminterrato fu riorganizzato per dare vita al Bazar Orientale, con ampia esposizione di oggetti d’arredo decorativi. Il negozio divenne il ritrovo di Londra dove incontrarsi per fare gli acquisti alla moda, il luogo in cui vedere ed essere visti, dove s’incontravano uomini e donne dal gusto raffinato ed anche personaggi importanti. Qualificavano il negozio, all’attenzione del pubblico, scrittori di grido come Oscar Wilde o artisti ammirati come il preraffaellita Dante Gabriel Rossetti, alla ricerca di sete per drappeggiare le modelle dei suoi dipinti. A novembre del 1885, Liberty – con l’evidente obiettivo di promuovere il suo settore di oggetti d’antiquariato e curiosità orientali – mise in scena un “villaggio vivente” con quarantacinque abitanti fatti venire da un vero villaggio indiano. «Saranno impegnati solo per quattro ore di lavoro al giorno, e dovranno esibirsi in tutte le attrazioni di Londra» precisava The Times of India. Agli uomini erano offerte 75 rupie al mese, 25 alle donne, per sei mesi di presentazioni nel villaggio allestito da Liberty, con la possibilità di un rinnovo dei contratti, un pubblico di alta qualità – persino la regina Vittoria – e l’aspettativa di ricevere mance da parte degli spettatori. Fu il primo dei bellissimi set giapponesi, francesi, inglesi, messi in scena nel corso degli anni. l’Illustrated London News elogiava: «Presenta in un piccolo spazio una varietà di industrie indù tipiche, ed è popolata da quarantacinque indigeni provenienti da diversi distretti dell’India, di diverse caste e credo. Entrando nel villaggio, le cui case sono rappresentazioni accurate dell’architettura indiana, lo sguardo viene catturato dai colori variegati e brillanti dei tessuti e dei costumi orientali». Una mescolanza di culture indiane che lasciavano le pagine dei periodici illustrati per comparire, grazie a personaggi in carne e ossa, nel negozio del signor Liberty: ballerini, acrobati, musicisti, lottatori, prestigiatori, soprattutto filatori di seta, tessitori, intagliatori di legno di sandalo, ricamatori, orafi e argentieri. Un artigiano costruiva davanti agli spettatori il suo sitar, un grande liuto indiano da suonarsi con un plettro. «Una delle occupazioni più interessanti – descriveva ancora l’Illustrated London News – è quella del vasaio, che, con la sua ruota di tipo antico e le sue dita, plasma una varietà di articoli di bella simmetria, anche se di semplice carattere».

East India House, negozio di Arthur Lasenby Liberty su Regent Street

A partire dagli anni Novanta, Liberty incentivò il lavoro di artisti e artigiani come Christopher Dresser, Rex Silver, Frederickl James Patridge, Richard Lethaby. Fra questi, Birmingham William Hassler e il famoso Archibald Knox erano specializzati argentieri. Le influenze degli stili suscitati dalle Arts and Crafts non tardarono ad imporsi e a svilupparsi. È, infatti, tra le fila di questo movimento che troviamo i primi artisti Art Nouveau. Fra di loro si svilupperà quell’interesse per la natura, quel gusto floreale, che contraddistinse ovunque gli artisti dell’Art Nouveau. Non meraviglia, dunque, se persino oltre Oceano il New York Mail decantava: «Vaghi per le numerose stanze del loro grande magazzino come in un sogno incantato». Un sogno che si riverberò in Italia quando nel 1902 aprì i battenti la grande Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna di Torino. La Mostra «antesignana sempre di ogni idea di Libertà e Progresso» fu espressamente progettata in chiave moderna. Il suo scopo era esplicito sin dalle notifiche iniziali: «Saranno ammessi solo prodotti originali che mostrano una decisa tendenza al rinnovamento estetico della forma. Non saranno accettate mere imitazioni di stili passati, né prodotti industriali non ispirati da un senso artistico». Alla Esposizione d’Arte Decorativa si aggiunsero altre mostre particolari. Una Esposizione Internazionale di Automobili: la FIAT era stata fondata tre anni prima ed esponeva, fra l’altro, un’automobile che percorse i 847 chilometri della linea Torino-Firenze-Roma in un tempo eccezionale: 21,30 ore consecutive. Una Mostra di Fotografie artistiche e l’Esposizione Quadriennale di Belle Arti. Tutte queste Esposizioni, come specificava il catalogo, trovarono posto nello stesso recinto situato nel vastissimo Parco del Valentino, sulla sponda sinistra del Po.

Manifesto dell’Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna a Torino (1902), di Leonardo Bistolfi

Nella stessa pagina di apertura del catalogo è possibile leggere: «Spiriti rivoluzionari, menti di poeti, male si adattano gli Artisti alle viete forme che li obbligano a copiare, mentre in essi innato è l’istinto del creare. E non mancava certo ragione alla loro aspirazione. Ogni età ebbe il suo stile, manifestazione e prova della civiltà che rappresenta, così abbiamo lo stile Egiziano, il Greco, il Cristianesimo, il Rinascimento, il Barocco ed il Napoleonico, rappresentanti tutti una evoluzione del pensiero adatto a civiltà dei tempi in cui si esplicava e veniva creato. A ragione dunque essi anelavano dare un’impronta propria allo stile dell’età presente. Spontaneamente, dalle più variate regioni, innumeri Artisti esplicavano il loro pensiero rappresentandolo con lavori che diedero certo segno che i tempi erano maturi per una ardita innovazione». Per incoraggiare questa grande rivoluzione moderna, il compito di allestire una Esposizione unitaria fu affidato al «bravissimo D’Aronco, architetto del Sultano di Turchia». Raimondo D’Aronco, che aveva sempre alternato la progettazione con l’insegnamento – prima all’Accademia di Carrara, poi a Cuneo, a Palermo, e infine all’Università di Messina – dal 1893 lavorava in Turchia, dove, in seguito al terremoto di Istanbul del 1894, fu architetto-capo per la ricostruzione della città. Con i padiglioni per l’Esposizione Internazionale d’Arte Decorativa Moderna di Torino del 1902, contribuì alla diffusione della popolarità dell’Art Nouveau in Italia. Del suo lavoro, scrive Pieter van Wesemael (in Architecture of Instruction and Delight) che nella storia delle Esposizioni universali, l’unica mostra dedicata esclusivamente a un solo stile artistico fu proprio quella di Torino, segnando il successo dell’Art Nouveau in Italia. O meglio dell’arte Liberty come da noi fu chiamata quest’Arte Nuova.

Guida dell’Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna a Torino (1902)
SFOGLIA

Naturalmente nel catalogo della Mostra torinese non si parla di un’arte la cui risonanza deve ancora esplodere fra il largo pubblico. Né si fa il nome di Arthur Lasenby Liberty, giacché non si elencano gli espositori commerciali, ma soltanto i padiglioni nazionali e la rassegna delle opere d’arte ufficiali. Proviamo a dare un’occhiata, scoprendo quali erano gli interessi del tempo, i personaggi in vista, le opere poste all’attenzione. Comprenderemo che ogni epoca ha i propri miti, allora come oggi: «A sinistra l’ingresso alle altre sale della Mostra inglese. Esaminiamo in questa prima sala i disegni, libri, giornali illustrati, caricature, ecc., di Walter Crane.
La seconda sala, intitolata alla The Arts et Crafts, Exibition Society di Londra, è divisa in dieci ambienti, cinque per parte.
Notiamo nel primo ambiente a destra una lampada da parete per elettricità. Il pavone che vi vediamo è in argento smaltato, e due scrivanie di Ashbee e di Guild. I quadri sono di Southalt.
Nel primo ambiente di sinistra osserviamo un paravento sul quale R. Moton-Nance dipinse le tre caravelle di Cristoforo Colombo. Vi si trova pure una vetrina con gioielli smaltati, bottiglie e coppe di cristallo inciso di Jaïmes Powel.
Nel terzo ambiente, a sinistra, sta esposto un arazzo, le Quattro Stagioni, di William Morris; questo lavoro venne incominciato nel 1834 e terminato nel 1896. Nel terzo ambiente, a destra, la Essec and C. Y. di Westminster espone tappezzerie. Vi è pure il disegno per grande arazzo, dipinto da Brangwyn.
Nel quarto ambiente a sinistra troviamo vetrine con lavori in cuoio (rilegature di libri) e con la mostra di composizioni tipografiche della Libreria Hacou e Richelts di Londra.
Nella corsia della sala osserviamo una vetrina con Lavori decorativi in metallo della ditta W. A. S. Benson e C. di Londra.
Una statua in bronzo di W. R. Colton, rappresentante un trovatore di mummie.
Nella terza sala, a sinistra, esaminiamo due quadri: La nascita di Venere ed I conquistatori del mondo, entrambi di Walter Grane; a destra esamineremo vari progetti-disegni per vetrate a colori e tappezzerie. Nell’ultima sala Walter Grane espone Studi di fiori, acquerelli e disegni».

Tavole fotografiche sull’Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna a Torino (1902)
SFOGLIA

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Bassano del Grappa (Vi) – Palladio, Bassano e il ponte. Invenzione, storia, mito

Bassano del Grappa (Vi), Museo civico
29 Maggio 2021 – 10 Ottobre 2021
PALLADIO, BASSANO E IL PONTE. Invenzione, storia, mito
Sito web: www.museibassano.it

Avviso. La situazione sanitaria è in continua evoluzione. Consigliamo di verificare le informazioni su giorni, orari e modalità di visita sul sito web della Mostra.

Andrea Fasoli, ff.14, 1853 Positivo, ff. 14 h18,5 x 21,9. Museo Civico, Bassano del Grappa

Dal 29 maggio al 10 ottobre, i Musei Civici di Bassano del Grappa propongono “Palladio, Bassano e il Ponte. Invenzione, storia, mito”, mostra a cura di Guido Beltramini, Barbara Guidi, Fabrizio Magani e Vincenzo Tiné.
L’esposizione è stata promossa dall’Amministrazione Comunale di Bassano del Grappa per celebrare la conclusione del lungo restauro del Ponte Vecchio conosciuto anche come il Ponte degli Alpini. “Attendiamo con gioia l’apertura di questa importante mostra – dichiara il Sindaco Elena Pavan –, una mostra che, oltre a farci ripercorrere l’affascinate storia di questo singolare monumento divenuto simbolo di Bassano, rappresenta il primo di una ricca serie di appuntamenti volti a festeggiare la sua restituzione alla città”.

Roberto Roberti, Il Ponte di Bassano, 1807, Olio su tela, 845×530 mm. Museo Civico, Bassano del Grappa

A differenza della maggior parte degli architetti cinquecenteschi, Palladio è un architetto di ponti: ponti di pietra, di legno e di carta. Questi ultimi sono senza dubbio quelli che avranno un impatto più marcato sulla cultura figurativa dei secoli successivi: pubblicati sulle pagine dei Quattro Libri, il trattato edito a Venezia nel 1570, diventeranno i protagonisti dei sogni degli artisti del Settecento. Algarotti chiederà a Canaletto di fargli vedere il ponte di Rialto come lo aveva pensato Palladio, ma anche Bellotto, Carlevarijs e Piranesi faranno dei ponti uno dei soggetti privilegiati delle loro vedute.
La mostra racconterà il mito del ponte, ma contemporaneamente parlerà di un ponte concreto e reale da 500 anni, il ponte di Bassano, disegnato da Palladio, distrutto e ricostruito più volte in un’epopea che dal Settecento del Ferracina giunge al presente del ‘Ponte degli Alpini’.
Il racconto della mostra si snoderà a partire da disegni originali di Palladio, libri cinquecenteschi, mappe antiche, dipinti del Settecento, fotografie di fine Ottocento, modelli di studio contemporanei.
La mostra è frutto di una sinergia fra il Museo Civico di Bassano, la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le provincie di Verona, Rovigo e Vicenza e il Centro Studi Internazionali di Architettura Andrea Palladio-Palladio Museum di Vicenza.
La mostra sarà accompagnata da un volume scientifico, in grado di fornire gli strumenti di lettura della storia del ponte di Bassano e dei suoi secoli di storia.
Il volume è articolato in tre sezioni. La prima, di taglio storico, contestualizza la fase di costruzione cinquecentesca del ponte all’interno dell’economia, politica e società bassanese dell’epoca, senza trascurare anche la “preistoria” del ponte, con i diversi attraversamenti dal medioevo in avanti. La seconda sezione, di tema palladiano, renderà conto delle novità nelle ricerche su Palladio e i ponti in pietra e in legno, con particolare attenzione al ponte nella città di Bassano e a quello a Cismon del Grappa. Una terza sezione riguarderà la “vita materiale” e le
trasformazioni del ponte in un arco cronologico che va dalla sua costruzione sino al recente restauro, nonché alla forza del suo mito nelle arti figurative.

IMMAGINE DI APERTURARoberto Roberti, Il Ponte di Bassano, 1807, Museo Civico, Bassano del Grappa (Particolare)

Lugano: Past / Present – Mostra di Elisabetta Benassi, Liliana Moro, Melik Ohanian, Namsal Siedlecki

Past/ Present, la nuova mostra con cui Michela Negrini prosegue la stagione espositiva della sua galleria a Lugano, riunisce diverse opere che, con i loro riferimenti, chiamano in causa la questione del tempo ed esistenza.

Past / Present

Mostra di Elisabetta Benassi (Italia), Liliana Moro (Italia), Melik Ohanian (Francia), Namsal Siedlecki (Italy/USA)
Galleria Michela Negrini, Lugano21 maggio / 10 settembre 2021

La mostra, una collettiva, si estende oltre i confini abituali delle immagini, nella loro dimensione spaziale e temporale, e nasce da una riflessione su questo particolare tempo “congelato” che stiamo vivendo a causa della pandemia Covid19. 

Una delle numerose conseguenze della pandemia è il cambiamento della nostra percezione del tempo. Lo spazio della vita quotidina ha subito enormi limitazioni. Il virus, inatteso, ci ha bloccati. Abituati a guardare al futuro, oggi viviamo nell’incertezza. Prigionieri del presente, la vita è diventata sopravvivenza, senza proiezione, se non quella individuale. Dopo anni di progresso, viviamo i limiti del presente e l’impossibilità di immaginare il futuro: grande contraddizione della nostra epoca.

La mostra esplora, attraverso il lavoro di quattro artisti – Elisabetta Benassi, Liliana Moro, Melik Ohanian, Namsal Siedlecki – le molte implicazioni dell’esperienza del tempo, della sua essenza e della sua percezione.

Elisabetta Benassi
Atlas Shrugged, 2018 – 2021
Libro, foglia di palma artificiale in polipropilene e acciaio/ polypropylène artificial palm leaf and steel
24 x 16,5 x 177 cm. Ed. 3 + 1 AP
Courtesy l’Artista/the Artist e/and Magazzino, Roma e/and Galleria Michela Negrini

Attraverso il recupero e la trasformazione di materiali e di simboli, Elisabetta Benassi osserva criticamente l’eredità culturale, politica e artistica spesso controversa dei nostri tempi, per esplorare il rapporto tra passato ed epoca contemporanea, interrogandosi sulla condizione e l’identità del presente. In mostra Atlas Shrugged, un lavoro del 2018 che si inserisce nell’esplorazione di un mondo in cui l’idea di comunità è sparita e in cui regna “l’individuo sovrano”. Qui, le nozioni di “proprietà di sè” e di “sovranità assoluta” dell’individuo su se stesso e in relazione al mondo sociale sono centrali. Concetti-mito del liberalismo del XIX secolo, all’individuo sovrano è riconosciuto un valore assoluto e autonomo nel raggiungimento del proprio destino, rispetto alla sfiducia nella società e in qualsiasi progetto di emancipazione universale. Nel dibattito contemporaneo, il modello di un soggetto sfrenatamente liberista – completamente a suo agio in un mondo dove ogni passione collettiva è offuscata e solo la volontà individuale e le iniziative private hanno un valore – ritorna sotto forma di ideologia invisibile e indiscutibile. In questo preciso momento storico di “sospensione” temporale e privo di proiezione collettiva, questo lavoro ci propone una possibilità immaginaria di sottrarsi al caos del mondo reale, con i suoi limiti e conflitti, con le sue contraddizioni tra salvezza individuale e catastrofe collettiva.

Liliana Moro
Still life, 2020
Argilla refrattaria ingobbiata / engobed terracotta
cm 40 dia ca. Edizione Unica/Unique edition
Courtesy dell’Artista, Galleria De Foscherari e Galleria Michela Negrini
 

In mostra anche opere inedite di Liliana Moro: grandi sculture in ceramica bianca candida, a forma di melagrana. Simbolo primitivo del ciclo morte-vita, del continuum su cui si basa la nostra esistenza, il frutto ne rappresenta l’energia vitale. Negli ultimi anni la ceramica è tornata molto spesso nel lavoro di Liliana Moro, anche per realizzare forme prese dal mondo naturale, come per esempio la frutta. 

Per queste composizioni, l’artista ha utilizzato la ceramica, partendo dall’origine del materiale, cioè la terra, il fango ed i minerali che la compongono. Riflettendo sulla centralità della scelta del materiale quale parte fondamentale del processo creativo, Liliana Moro ci porta a riflettere sul tempo del materiale, elemento fondamentale che restituisce forma alla terra, scandendo i tempi di realizzazione e sul fascino dell’attesa, di asciugature e cotture.

Ponendo l’accento sul tempo modellatore, o – come scrive Marguerite Yourcenar “grande scultore” – capace di dare forma sempre, anche quando il materiale siamo noi, queste sculture tonde, coronate di foglie, con un’apertura circolare ci permettono di avvertirne la cavità, il vuoto che c’è dentro. E come Italo Calvino nelle sue Lezioni americane, anche Liliana Moro procede per “sottrazione di peso”, alleggerendo il frutto, scavando nel suo tempo passato e bloccandolo in un tempo presente, impotente, in cui solo la relazione col nostro sguardo puo’ proiettarlo nel futuro.

Melik Ohanian
Portrait of Duration – Serie II (T1343), 2015/2016
Photograph mounted on alu/dibond
175 x 152 cm. Edizione Unica/Unique edition
Courtesy l’Artista/the Artist e/and Galleria Michela Negrini

Da sempre, la ricerca artistica di Melik Ohanian indaga il mondo dell’immagine e il suo potere allegorico e la dimensione spaziale e quella temporale possono essere identificate quali nodi centrali di tutta la sua poetica. In mostra nuove opere della serie Tomorrow Was. Senza indicazioni di tempo, né di spazio, questa serie medita su un possibile domani. Queste fotografie non si propongono di cogliere un istante preciso, bensi’ di speculare in un modo riflessivo su di una narrativa personale dello spettatore. Ciascuno, posto di fronte a questi fragmenti di vita, sarà portato ad anticipare il proprio rapporto col mondo. In mostra anche opere della serie Portrait of Duration – Cesium Series, un lavoro che presenta i passaggi dallo stato solido a quello liquido del Cesio 133, elemento il cui decadimento radioattivo è stato usato a partire dal 1967 per stabilire la durata del secondo universale negli orologi atomici. Registrando il suo processo di trasformazione, ciascuna fotografia rappresenta il tempo attraverso la materia, e restituisce in modo speculare lo stato della materia a un certo tempo T. Melik Ohanian investiga così l’osservazione e la rappresentazione della misura del tempo, e in particolare della sua unità di riferimento: il secondo. Sebbene il tempo rimanga un concetto relativo e astratto, queste immagini ne costituiscono “un ritratto attraverso la rappresentazione della materia che lo definisce” in una sorta di “tautologia fotografica”, come l’ha definita l’artista. Invece che semplicemente indicare o misurare il tempo, ce lo mostrano. Invitandoci a esperire il tempo attraverso il suo scorrere e quindi la sua misurazione, Ohanian propone uno scenario cosmico sospeso tra poesia e scienza. È “una ricerca di uno stato di consapevolezza”: un’oscillazione tra scenari cosmici e mentali, che richiamano i paesaggi surrealisti di Max Ernst.

Namsal Siedlecki
Trevis Maponos, 2020
argento/silver
75 x 19 x 5 cm. Edizione Unica/Unique edition
Courtesy l’Artista/the Artist e/and Magazzino, Roma e/and Galleria Michela Negrini

Gli ex voto hanno rappresentano fin dal paleolitico un elemento di legame col divino, cui l’uomo sirivolge alla ricerca di forza e conforto. Questa antica forma di preghiera, in cui predominante è la presenza di figure umane, è portata in mostra grazie al lavoro di Namsal Siedlecki: una scultura in argento nata da alcune scansioni 3d che l’artista ha realizzato in Francia nel 2019, a Clermont Ferrand, nei cui pozzi votivi negli anni 60 sono stati ritrovati una serie di reperti archeologici risalenti al 50 a.C. Ex-voto scolpiti in legno di faggio e gettati in acqua come offerta ad una divinità dei Galli, Maponos. Gettate invece nella Fontana di Trevi sono le monete d’argento usate per realizzare questa scultura. Nella fontana, ogni anno vengono gettati circa 2 milioni di euro di monetine, di cui per vari motivi l’8% non riesce ad essere cambiato. L’artista affascinato da questo insieme di desideri, intrappolati in una sorta di limbo quasi come se non si fossero compiuti ne ha comprato circa 500 kg. Siedlecki si sofferma sull’idea che in oltre 2000 anni l’umanità continua a ripetere lo specifico rituale di gettare qualcosa in acqua cercando un aiuto soprannaturale. Questi due desideri di due epoche distanti, entrambi legati all’acqua, qui si uniscono in un unico desiderio potenziato all’interno del liquido di una vasca galvanica.

IMMAGINE DI APERTURA – Elaborazione grafica delle immagini in pagina

Urbino – SUL FILO DI RAFFAELLO. Impresa e fortuna nell’arte dell’arazzo

Urbino, Palazzo Ducale – 21 Maggio 2021 – 12 Settembre 2021
SUL FILO DI RAFFAELLO. Impresa e fortuna nell’arte dell’arazzo
a cura di Anna Cerboni Baiardi e Nello Forti Grazzini
http://www.gallerianazionalemarche.it/

Avviso. La situazione sanitaria è in continua evoluzione. Consigliamo di verificare le informazioni su giorni, orari e modalità di visita sul sito web della Mostra.

Manifattura Gobelins (da Raffaello), Attila scacciato da Roma, arazzo, 1732-1736, cm 485 x 850, Mobilier National, Parigi

La Galleria Nazionale delle Marche, in collaborazione con i Musei Vaticani e con il Mobilier National di Parigi, organizza, nel Palazzo Ducale di Urbino, una mostra dedicata a Raffaello e al mondo degli arazzi, indagando sia l’apporto che il pittore fornì in questo specifico settore per il quale sperimentò invenzioni e realizzò cartoni poi tessuti nelle botteghe fiamminghe, sia la fortuna che le opere di Raffaello conobbero nel corso dei secoli nella produzione di arazzi. Con dodici grandiose pezze tessute nelle migliori arazzerie europee, raffiguranti principalmente le pitture delle Stanze Vaticane, Urbino potrà esibire, nel maestoso salone del Trono, tutta la monumentale opera pittorica del suo cittadino più illustre, la potenza e l’equilibrio classico che Raffaello raggiunse a Roma, circa 25 anni dopo aver lasciato la sua città natale. Gli spazi dove Raffaello aveva camminato da bambino accompagnato dal padre Giovanni Santi accoglieranno – in all’indomani del cinquecentenario della morte del divin pittore e complici gli arazzi – la sua opera più grandiosa, realizzata a Roma per i papi, apprezzata da artisti, critici, conoscitori e dai turisti di tutte le epoche.

Il successo ottenuto dalle immagini tessute, riproposte in tempi e manifatture differenti, entra a pieno titolo nel tema della fortuna che l’artista urbinate conobbe nel corso dei secoli. Un’approvazione che è parte integrante del complessivo consenso che Raffaello raggiunse mentre era ancora in vita. Modelli inesauribili di forme e d’invenzioni, le opere di Raffaello raggiunsero i contesti più disparati, grazie all’opera di tanti incisori che con i loro intagli ne consentirono una rapida diffusione. Raffaello aveva offerto il suo fondamentale contributo alla diffusione delle pratiche incisorie con le quali si era garantito una notevole pubblicità; l’incisione lo avrebbe ripagato nel corso dei secoli rendendolo l’autore più tradotto di tutti i tempi. Con gli arazzi si verificò di fatto la stessa cosa: i suoi cartoni nobilitarono questo genere artistico che, più tardi, avrebbe contribuito al consolidamento e all’arricchimento della sua fortuna.

La mostra urbinate si pone nel solco delle ricerche riguardanti l’irradiamento dell’opera del Sanzio, verificandone la fortuna nello specifico campo dell’arazzeria. Spettacolare la visione che avrà lo spettatore entrando nel salone del Trono del palazzo di Federico di Montefeltro: vi troverà squadernati, grazie all’allestimento curato dagli architetti della Galleria Nazionale delle Marche, i celebri affreschi che Raffaello ha realizzato a Roma, qui proposti nei colori e negli intrecci delle tessiture. Undici degli arazzi esposti provengono dal Mobilier National di Parigi e testimoniano come la Francia, più di ogni altro paese, sotto il regno di Luigi XIV (ma poi fino al XIX secolo), abbia nutrito una vera e propria venerazione nei confronti di Raffaello, al punto da concepire il “folle” progetto di ricreare ad arazzo a Parigi, in più repliche, i più celebri affreschi dell’Urbinate, utilizzando – a tal fine – da un lato i pittori francesi dell’Accademia di Francia residenti a Roma per copiare dal vivo i prototipi, dall’altro l’abilità straordinaria degli arazzieri inquadrati da Colbert sotto l’egida della manifattura dei Gobelins, aperta a Parigi e attiva esclusivamente per le commissioni reali, dove molte delle tappezzerie furono tessute.

La Galleria Nazionale delle Marche ha contribuito, oltre che alla conoscenza di questa raffinata arte, anche alla conservazione dei preziosi tessuti sostenendo finanziariamente il restauro di alcuni dei pezzi prestati dal Mobilier National di Parigi. L’intero studio sotteso alla mostra, con un’ampia panoramica sulla produzione di arazzi legati all’universo raffaellesco, è esposto in maniera esaustiva nel ricco catalogo, curato da Anna Cerboni Baiardi e Nello Forti Grazini, edito da Silvana Editoriale.

IMMAGINE DI APERTURAdettaglio di Attila scacciato da Roma

Angela Maria Benivegna – Erice: suggestioni senza tempo fra cielo e mare

Erice – suggestioni senza tempo fra Cielo e Mare, è da intendersi come un assaggio di un percorso più complesso ed articolato in prossima pubblicazione. La versione completa condurrà il lettore, in particolare, alla scoperta del fulcro che caratterizza la piccola cittadina medievale: il Castello di Venere. Un luogo complesso e dalla duplice identità: in origine fu “luogo sacro”, qui infatti sorgeva l’antico Santuario della Dea Venere, divenne anche “fortezza”, cioè il Castello Normanno come appare ancora oggi. Il legame tra la montagna ericina e la Dea Venere, in questo ebook, viene già simbolicamente evocato della colomba rossa che vola. La colomba rossa è infatti attributo iconografico della Dea Venere, dei riti e delle feste sacre ericine ad essa legate. Nelle dinamiche di lettura ipertestuale, invece, la piccola icona della colomba, che troverete sparsa nei capitoli, funge da link con cui potrete “volare” fra le metafore e gli input fotografico-narrativi legati al luogo.

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IMMAGINE DI APERTURA – Copertina del libro



La Biblioteca Regionale di Messina partecipa alla rassegna “Pedagogie dell’Essenziale”

Maestre e Maestri nella storia d’Italia” – Appuntamento 19 maggio 2021 ore 12 in diretta live sulla piattaforma Microsoft Teams dell’Università degli Studi di Messina

L’interessante tematica “Maestre e Maestri d’Italia” che verrà discussa durante un intervento in modalità telematica da parte della Direttrice della Biblioteca Regionale “Giacomo Longo” di Messina, Dr.ssa Tommasa Siragusa, è inserita nella corposa calendarizzazione della seconda edizionedel Progetto “Pedagogie dell’essenziale”, curata dall’Università degli Studi di Messina, Dipartimento di Scienze cognitive, psicologiche, pedagogiche e degli studi culturali che anche quest’anno si avvale della partecipazione di illustri studiosi,docenti e responsabili di Istituzioni e Enti di istruzione e culturali.

La trattazione “de qua” – incentrata sul processo evolutivo della didattica delle scuole oggi definite primarie, dal periodo post-unitario, anche sotto il profilo normativo, sarà preceduta da un’introduzione a cura della coordinatrice Prof.ssa Caterina Sindoni, ordinario di Storia della Pedagogia. Le riflessioni svolte dalla Biblioteca indagheranno le storie, i progetti e i sogni sottesi alla tipologia di insegnamento, con focus sul ruolo dei protagonisti, ancora ai nostri giorni non adeguatamente valorizzato: compiti che non involgono la corretta trasmissione dell’istruzione tout court, ma si caratterizzano altresì per la loro connotazione altamente formativa, in ispecie negli Istituti scolastici Primari. Proprio per le superiori motivazioni la Biblioteca è grata del proprio coinvolgimento, nella fondata convinzione che la strutturata iniziativa del Cospecs contribuirà a far compiere importanti passi avanti nel solco di una piena presa di coscienza della funzione delle Maestre e dei Maestri: infatti,la prospettiva di un sano sviluppo in toto del nostro Paese, non può essere disgiunta dalla considerazione della essenzialità di seminare bene in rapporto alla crescita delle generazioni future.

Farà da corollario all’iniziativa, l’allestimento di un’esposizione bibliografica che sarà resa fruibile anche in modalità web attraverso i canali social d’Istituto, una rassegna assai interessante per comprendere l’evoluzione della didattica. La Biblioteca, infatti, possiede importanti testi, italiani e stranieri, in materia raccolti nel Fondo Bongiovanni: 240 monografie, 43 miscellanee riportate nei registri topografici, e ancora documenti di valutazione che riepilogano i risultati scolastici, per singole materie, degli allievi delle scuole primarie dei tempi passati, i loro quaderni delle esercitazioni con bellissime copertine. A questa raccolta si aggiungono, altresì, pregevoli testi, anche datati, recuperati attraverso recenti progetti catalografici Sbn Web.

La ripresa video dell’incontro, arricchita da immagini della esposizione bibliografica a corredo, sarà postata, a decorrere dal 20 maggio p.v., sulla pagina Facebook d’Istituto: https://www.facebook.com/bibliotecaregionaledimessina/?ref=bookmarks
Per Info: Ufficio Relazioni con il Pubblico urpbibliome@regione.sicilia.it – Tel.090674564

IMMAGINE DI APERTURA – Elaborazione grafica della locandina

Artisti italiani uniti contro il Covid-19. Arthemisia approda al MAC USP di San Paolo in Brasile

Artisti italiani uniti contro il Covid-19.
Arthemisia approda al MAC USP di San Paolo in Brasile con un progetto del tutto inedito e dal respiro internazionale. Per la prima volta al mondo viene presentata la mostra
“Além de 2020. Arte italiana na pandemia”,
un’esposizione di reazione e di forte ispirazione sociale che presenta circa 40 opere di 30 artisti italiani e il racconto di 10 iniziative che hanno coinvolto centinaia di artisti

29 maggio – 22 agosto 2021
MAC USP Museu de Arte Contemporânea da Universidade de São Paulo, Brasile

TVBOY
Love in the time of coronavirus
2020
Olio su tela, 200×100 cm
Courtesy TVBOY

Una grande prima mondiale: dal 29 maggio al 22 agosto 2021 al MAC USPMuseu de Arte Contemporânea da Universidade de São Paulo viene presentata la mostra Além de 2020. Arte italiana na pandemia, un progetto espositivo tutto italiano pensato per dar voce a un’arte che non si è mai fermata e che nella pandemia ha trovato nuova linfa.

Con nuove forme di espressione e di reazione al cambiamento, il mondo dell’Arte ha individuato nell’emergenza sanitaria un’occasione di riflessione, ispirazione, collaborazione e umanità. A livello mondiale, durante la pandemia sono stati infatti tantissimi gli artisti che hanno sentito un forte richiamo e, in prima persona, hanno voluto dare il loro sostegno alle comunità più colpite, talora mettendo all’asta le proprie opere, talora donandole o raccogliendo fondi che potessero fare da supporto economico alle più varie situazioni di emergenza.
Grande fermento, voglia di reazione e forte senso sociale sono stati soprattutto i motori di un fenomeno tutto italiano che ha smosso non solo gli artisti in prima persona ma anche molte realtà istituzionali che hanno dovuto adeguarsi e far fronte alle nuove necessità.
Da qui, l’idea di dar vita a un progetto che fornisse da una parte una panoramica sulla reazione creativa degli artisti alla pandemia e al lockdown, analizzando l’impatto che l’isolamento ha avuto sulla loro produzione; dall’altra il racconto di come le istituzioni protagoniste della scena contemporanea si siano attivate sia ideando nuovi linguaggi di fruizione e art-sharing sia promuovendo iniziative di fund-raising che hanno messo l’Arte al servizio dell’emergenza sanitaria.

Con circa 40 opere tra dipinti, sculture, fotografie, video, installazioni, fumetti e disegni, la mostra Além de 2020. Arte italiana na pandemia è organizzata da Arthemisia con il generoso supporto dell’Istituto Italiano di Cultura di San Paolo e del Consolato Generale d’Italia di San Paolo ed è curata da Teresa Emanuele e Nicolas Ballario.

Além de 2020 fa il suo esordio a San Paolo, su impulso delle istituzioni italiane e non è un caso. Questa mostra che racconta l’arte contemporanea italiana, in particolare durante la pandemia, approda nella metropoli più grande dell’America Latina che è anche la città con più discendenti italiani al mondo (stimati nella sola città circa 5 milioni). È una scelta che intende sottolineare come anche nella fase della pandemia il legame indissolubile che unisce San Paolo all’Italia, che tanto ha dato alla città brasiliana anche a livello culturale e artistico (basti pensare alla figura dell’Architetta Lina Bo Bardi), si sia ulteriormente rinsaldato. Le migliaia di attestati di vicinanza e solidarietà, le lettere aperte, le offerte di volontariato registrate, con cui nei primi mesi del 2020 i paulisti hanno teso e non solo metaforicamente la loro mano all’Italia, hanno unito ulteriormente questi due mondi tra quelli più colpiti dalla pandemia. Além de 2020 intende celebrare tutto ciò.

Alberto Di Fabio
Sinapsi Blu + Galassie
2010
Acrilico su tela, 140×140 cm
Courtesy Alberto Di Fabio e Gagosian
Gallery

LA MOSTRA

Alla base del progetto espositivo c’è una vera e propria “chiamata alle armi” rivolta agli artisti che sono stati invitati a condividere il frutto delle proprie riflessioni di questo ultimo anno attraverso il prestito di una o più opere che potessero raccontare il loro stato d’animo e la direzione della loro ricerca.
È anche interessante notare come alcuni di loro abbiano, con grande entusiasmo, affiancato ai propri e consueti mezzi espressivi dei media nuovi o comunque secondari, come Icaro che, “nonostante se stesso”, ha disegnato; o Bucchi che ha trasferito il suo segno dalla tela al monitor; o Di Fabio che, non potendo realizzare i suoi affreschi, ha lavorato a dei bozzetti utilizzando pacchi Amazon e pupazzetti Playmobil; o ancora Ventura, che non potendo fotografare si è dedicato al disegno, così come ha fatto lo scultore Savini; e infine Tvboy, street-artist, che ha trasferito uno dei suoi stencil su tela.

Altri artisti invece hanno elaborato il momento attraverso i propri canali espressivi, per scoprirsi talvolta al sicuro nella certezza della propria consapevolezza creativa, talaltra a riflettere su nuovi temi.

Altri ancora hanno investito gli interminabili giorni del lockdown lavorando al proprio archivio per scoprire, come nel caso di Jodice, come fotografie vecchie di decenni apparissero più che mai attuali; o per ritrovare, come Messina, motivazione e ispirazione per rielaborare una sua cella.

A questi si aggiungono Matteo BasiléRiccardo BerettaMaurizio CannavacciuoloTommaso CascellaBruno CeccobelliAron DemetzGianni DessíGiuseppe GalloEmilio LeofreddiGiovanni OzzolaBenedetto PietromarchiCristiano PintaldiFrancesca Romana PinzariDavide QuayolaReborPietro RuffoFabrizio SpucchesMarco TirelliGian Maria TosattiMassimo Vitali e Abel Zeltman.

La mostra si propone anche di offrire una panoramica su tutte quelle iniziative di art-sharing e fund-raising che hanno visto coinvolte tantissime personalità e realtà del mondo dell’arte a 360°, che hanno voluto dare il proprio personale contributo per alleviare le gravi conseguenze sistemiche causate dalla pandemia.
Tra le iniziative di condivisione quelle di Studio Azzurro, che ha reso disponibili online vecchi video dal proprio archivio; ExtraFlags, attraverso il quale il Centro Pecci di Prato ha commissionato a moltissimi artisti delle bandiere da issare fuori dal Museo; o Oliviero Toscani, che attraverso La Repubblica ha invitato la collettività alla condivisione di un proprio autoritratto; o 1 meter closer di Ater Balletto che dimostra come il distanziamento non possa fermare la danza.
Impulsi di fund-raisinig sono invece DaiUnSegno promosso dall’Accademia Nazionale di San LucaArt for Covid-19 della Fondazione PaoliniArte per la Vita in Val d’Aosta; 100 Fotografi per Bergamo di PerimetroL’abbraccio più forte di Valerio BerrutiCOme VIte Distanti di ARF e la vendita fund-raising di mascherine di Ai Wei Wei, grazie alle quali centinaia di artisti hanno donato il proprio lavoro raccogliendo centinaia di migliaia di Euro che sono poi state devolute a sostegno del sistema sanitario duramente messo alla prova dall’emergenza sanitaria.

In mostra è infine prevista la partecipazione del collettivo brasiliano Projetemos, nato durante la pandemia per dar voce alla collettività attraverso proiezioni su edifici pubblici e che allestirà lungo il percorso espositivo una sala dedicata a laboratori didattici performativi.

MAC USPMuseu de Arte Contemporânea da Universidade de São Paulo
Il MAC USP nasce nel 1963, anno in cui viene ceduta all’Università di San Paolo l’intera collezione del Museo di Arte Moderna di San Paolo (MAM), composta innanzitutto dalla preziosa collezione del suo fondatore – nonché fondatore della Biennale di San Paolo – Ciccillo Matarazzo e di sua moglie Yolanda Penteado; negli anni successivi la collezione del museo si arricchisce con ulteriori donazioni.
Ubicato nel centro di San Paolo, all’interno dell’imponente complesso architettonico creato negli anni ‘50 dall’architetto Oscar Niemeyer, vanta ad oggi una collezione di circa 10.000 opere fra cui spiccano capolavori di Amedeo Modigliani, Pablo Picasso, Joan Miró, Alexander Calder, Wassily Kandinsky, Lucio Fontana, Henry Moore e Joseph Beuys.
È considerato un punto di riferimento nazionale ed internazionale per l’arte moderna e contemporanea.

Informazioni
Sede
MAC USP Museu de Arte Contemporânea da Universidade de São Paulo
Avenida Pedro Álvares Cabral, 1301 – Ibirapuera
São Paulo – Brasil

Ingresso gratuito
Orario
Dal martedì alla domenica dalle 10.00 alle 21.00
(prenotazione obbligatoria)

Sito mostra
www.mac.usp.br
www.arthemisia.it

Link prenotazione
sympla.com.br/visitamacusp

Infoline
T. +55 11 2648.0254

Hashtag ufficiale
#AlemDe2020
#ArteItalianaNoBrasil
#Museuspelavida
Ufficio Stampa Arthemisia
press@arthemisia.it | T. +39 06 69380306 | T. +39 06 87153272 – int. 332

Art Nouveau il primo vero stile internazionale dell’età moderna

di Sergio Bertolami

18 – Un movimento dalle poliedriche manifestazioni.

Tchudi Madsen in Sources of Art Nouveau del 1956 elencava una serie di nomi utilizzati, tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, per identificare il nuovo fenomeno artistico. Alcuni di questi nomi li abbiamo già incontrati, ma ne vorrei aggiungere altri, per chiarire qualche importante concetto. Cominciamo dai nomi. Troviamo un sintetico Style 1900 e appellativi che alludono agli aspetti puramente formali: Stile anguilla (Paling Sijl), Lombrico arrabbiato (Gereitzer Regenwurm), Stile onda (Wellenstil), Stile giglio (Lilienstil), Stile spaghetti (Style Nouille), Stile a spirale (Schnörkestil), Linea giarrettiera moderna (Moderne Strumpfbandlinien). Con riferimento agli ambiti geografici, oltre a quelli già detti, in Inghilterra a Modern Style si affianca Glasgow Style, Style Morris, dal nome del critico William Morris; in Francia oltre ad Art Nouveau, scopriamo Style Jules Verne, oppure Style Guimard o Style Métro, associato al disegno particolare degli ingressi alle stazioni della metropolitana parigina progettati appunto dall’architetto Hector Guimard. In Germania, oltre a Stile nuovo (Neustil) e Nuova arte tedesca (Neudeutche Kunst), si parla anche di Tenia belga (Belgoscher Bandwurm). Per contro in Belgio si usa Belgische Stil, Style des Vingt dal gruppo artistico dei Venti, e ancora Veldesche Stil o Stil van de Velde e Style Horta, in relazione all’arte innovativa dei noti architetti Henry van de Velde e Victor Horta. 

Si potrebbe continuare nell’elencazione, ma dovremmo domandarci piuttosto: perché tante e così varie denominazioni? L’idea che restituiscono questi nomi è sicuramente meno “generica” di Arte nuova, declinata nelle differenti lingue nazionali. Generica, perché è “nuova” qualsiasi cosa «avvenuta o manifestatasi da poco, spesso in contrapposizione diretta a vecchio, antico, e quindi con significato prossimo a recente, attuale, moderno» (Treccani). Basterà ricordare il titolo del libro già citato di Ludwig Hevesi, Altkunst – Neukunst (Vecchia arte – nuova arte, Vienna 1894). Ai tempi, si voleva, dunque, generare un’arte “nuova e moderna”, quale espressione di tutte le forme peculiari ancorate al progresso e all’evoluzione che caratterizzavano l’età che si stava vivendo. Tutto ciò in contrapposizione a quanto era vecchio e antiquato, o quantomeno convenzionale, accademico, canonico. Lo attestavano gli stessi protagonisti del cambiamento, come ad esempio Henry van de Velde ed Hermann Muthesius. Van de Velde contestava l’idea che si dovesse raccordare l’arte con l’industria. Idea sostenuta da Muthesius, che aveva fondato la Deutscher Werkbund, un’associazione orientata ad aumentare la qualità dei prodotti artigianali e industriali. Non era una semplice polemica fra architetti di diverse nazionalità, il primo belga, il secondo tedesco. Era il cuore del problema. Affermava Van de Velde: «Finché ci saranno nel Werkbund degli artisti […] essi contesteranno ogni tipo di standardizzazione. L’artista è essenzialmente un appassionato individualista, un creatore spontaneo. Non si sottoporrà mai ad un canone». Affronteremo questa tematica nello specifico, perché aprirà un importante ragionamento su “Arte e Industria”. Per ora cerchiamo di comprendere meglio questa “Arte nuova” che pervade l’orizzonte europeo.

Dalla molteplicità delle denominazioni si ravvisa che l’Art Nouveau è l’insieme di esperienze individuali influenzate dalla cultura di Paesi differenti. Per cui è comprensibile la contrapposizione fra il belga van de Velde e il tedesco Muthesius, l’uno interessato alla libertà creativa dell’artista, l’altro precursore dell’Industrial design. Così come è evidente un’altra contrapposizione, tra le aspirazioni dello stesso Muthesius, indirizzato alla “progettazione industriale”, e le aspirazioni dell’austriaca Wiener Werkstätte attratta dal prodotto di “alto artigianato”, seguendo la lezione inglese delle Arts and Crafts (Arti e Mestieri). In pratica l’Art Nouveau si presentava come un movimento rivoluzionario dalle mille sfaccettature e dalle mille contraddizioni, tanto da poter essere recepito per alcuni aspetti estremi quasi come un movimento reazionario. Rifiutava lo storicismo, ma assecondava i revival ; anticipava sorprendentemente gli sviluppi futuri, ma elogiava il pezzo unico frutto del lavoro artigianale di qualità e per questo avversava la meccanizzazione. Alcuni celebravano le scoperte della tecnica, mentre altri segnalavano i pericoli della produzione seriale nel livellamento dei gusti di massa. Il dibattito culturale si presentava, dunque, sfaccettato. Da tutto ciò conseguiva l’impossibilità, a tutti gli effetti, di definire nell’Art Nouveau un’estetica modernista univoca. Nonostante questo, il fenomeno si riverberò di nazione in nazione investendo tutta l’Europa e, oltrepassando l’Oceano, approdò anche in America.

Le tre Gorgoni all’ingresso al Palazzo della Secessione a Vienna progettato da Joseph Olbrich nel 1898
Alfons Mucha, Le quattro stagioni, 1897

Tutte quelle differenti denominazioni rappresentavano la prova tangibile che l’Art Nouveau, pur costituendo il primo vero stile internazionale dalla diffusione globale, era sfaccettato in poliedriche manifestazioni non riunite da un comune programma. Si moltiplicava in area europea la frammentarietà già riscontrata nelle stesse Secessioni, dove quella di maggior vigore fu l’austriaca, perché s’identificò almeno inizialmente con le idee del “gruppo Klimt”. Per comprendere queste contrapposizioni, basterebbe limitarsi a confrontare, in massima sintesi, proprio i caratteri della Secessione viennese con quelli della più ampia Art Nouveau europea: senso della decadenza – senso della modernità; solennità – vitalismo; staticità – dinamismo; forme geometriche – forme naturalistiche; linea spezzata – linea sinuosa; donna idolatrata – donna floreale. Quale era, al contrario, la linea comune che legava insieme questa tavolozza dalle tinte variegate? Direi l’opposizione all’Accademia e la volontà di portare avanti, comunque, la ricerca estetica verso sempre nuove sperimentazioni. Ma un altro aspetto pare non trascurabile e davvero unificante. Lo evidenziava bene Theodor Adorno, quando sottolineava che l’emancipazione dell’arte fu possibile solo sviluppando una sorta di “ideologia della citazione a domicilio dell’arte nella vita” attraverso l’assimilazione del “carattere di merce” quale preludio dell’industria culturale: «Il progredire di una differenziazione soggettiva, la crescita e l’ampliamento della sfera degli stimoli estetici, rese questi ultimi disponibili; essi poterono essere prodotti per il mercato culturale. L’accordo dell’arte con le reazioni individuali più fuggevoli si alleò con la reificazione dell’arte, la sua crescente somiglianza col soggettivamente fisico la allontanò, nella ampiezza della produzione, dalla sua obiettività e si raccomandò al pubblico; pertanto, la parola d’ordine l’art pour l’art fu la copertura del contrario».

Copertina del libro Wren’s City Churches di Mackmurdo, una stampa da The Hobby Horse (Inghilterra), pubblicata da G. Allen nel 1883

Il dibattito artistico, di per sé astratto, dunque, secondo Adorno trovò la propria concretezza in un’ampia produzione merceologica da offrire al pubblico. Ad avvalorare questo pregnante concetto è il fatto che in genere i maggiori esponenti dell’Art Nouveau, più che dall’architettura o dalla pittura, furono attratti dalle arti decorative, dal nascente design e dall’arredamento d’interni, dalla grafica e dall’editoria. Certo non mancarono architetti innovatori, come vedremo, né scarseggiarono pittori, ma quest’ultimi per esempio continuarono i temi simbolisti, rileggendoli in chiave personale e originale attraverso una notevole varietà di soggetti che influiranno su molti dei movimenti futuri. A ben guardare fra i primi esempi di questa nuova sensibilità “floreale” vanno citati i lavori di Arthur Heygate Mackmurdo. Ad esempio, la copertina di un libro del 1883 sulle chiese londinesi di Wren (Wren’s city churches) oppure i suoi disegni di stoffe, arazzi o lavori in metallo e mobili degli anni Novanta dell’Ottocento. Sicuramente è il pioniere di un linguaggio che si svilupperà nei decenni successivi, partendo dall’Inghilterra. Non va dimenticato, infatti, che Mackmurdo aveva studiato alla Ruskin School of Drawing and Fine Art di Oxford e nel 1874 aveva accompagnato lo stesso John Ruskin in Italia. In questo contesto culturale non è possibile non riferirsi anche a William Morris. Il primo effetto – osservava Nikolaus Pevsner – fu che sotto l’influsso degli insegnamenti di Ruskin e di Morris «molti giovani artisti, architetti e dilettanti, decisero di dedicarsi all’arte applicata. Ciò che per oltre mezzo secolo era stata considerata una occupazione inferiore, diventò nuovamente un compito nobile e degno». Sono questi gli anni in cui cominciò l’importazione degli oggetti orientali grazie all’apertura di una politica di scambi col Giappone. Probabilmente si deve proprio a questi scambi l’humus dell’innovazione; in modo particolare all’opera degli importatori di quei manufatti, tra i quali si distinsero Arthur Lasenby Liberty – il cognome del quale indicò in Italia quello che al momento era chiamato Stile floreale – o Sigfriend Bing, la cui bottega d’arte orientale a Parigi dette alla nuova produzione artistica la denominazione di Art Nouveau. Su Liberty e Bing ci soffermeremo ampiamente nelle prossime pagine.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

A Catanzaro: la mostra “Chagall. La Bibbia”

Chagall. La Bibbia

Per la prima volta a Catanzaro, una mostra dedicata al genio artistico di Marc Chagall, uno dei più grandi artisti del Novecento, in un’inedita e approfondita narrazione del testo biblico, tra storie e creature fantastiche.

23 maggio – 29 agosto 2021
Complesso Monumentale del San Giovanni, Catanzaro

Dal 23 maggio 2021, nella straordinaria cornice della Complesso Monumentale del San Giovanni di Catanzaro, verrà ospitata una mostra dedicata al grande artista russo Marc Chagall (1887-1985), al suo rapporto con la religione ebraica e alla sua personalissima maniera di rileggere, in chiave pittorica, il Messaggio Biblico.

A cura di Domenico Piraina, la mostra Chagall. La Bibbia vede esposte 170 opere grafiche di Marc Chagall ed è corredata da un ampio apparato didattico sui temi chagalliani e biblici, sull’ebraismo in Calabria e sulle influenze dell’arte ebraica sulla cultura contemporanea.  Saranno infatti esposte anche le opere dei due celebri artisti contemporanei Max Marra e Antonio Pujia, a completamento di un percorso ricco e del tutto inedito.

La mostra “Chagall. La Bibbia” è prodotta e organizzata dal Comune di Catanzaro e dall’Assessorato alla Cultura della Città di Catanzaro con Arthemisia, è realizzata grazie al contributo della Regione Calabria, con il Patrocinio dell’Amministrazione Provinciale di Catanzaro e con il fondamentale contributo della Fondazione Cultura e Arte, ente strumentale della Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale presieduta dal Prof. Avv. Emmanuele F. M. Emanuele, grazie a cui tutte le scuole della Provincia di Catanzaro potranno usufruire dell’ingresso gratuito alla mostra.
Il catalogo della mostra è di Editore Rubbettino.

Marc ChagallM 253 Job en prière, Chagall Verve, 1960. Litografia, 36,4×26,3 cm. © Chagall®, by SIAE 2021

LA MOSTRA

Attraverso le serie della Bibbia, in bianco e nero e a colori, e La storia dell’Esodo, la mostra Chagall. La Bibbia si propone di evidenziare quel “segreto” che l’artista ha voluto trasmettere, cercando di mettere in luce le motivazioni profonde delle sue scelte, il suo approccio al “Libro”, di illustrare come la Bibbia per lui sia soprattutto una storia di uomini, una vicenda di patriarchi e di profeti, di re e di regine, di spose, di pastori: Noè, Abramo, Giacobbe, Isacco, Rebecca, Rachele, Giuseppe, Mosè, Aronne.
Un percorso espositivo che narra i fatti biblici come una speciale galleria di figure. Lo stesso Chagall, nel raccontare ad altri il suo progetto “biblico” usava dire che Vollard gli aveva commissionato di fare i “profeti”. Per Chagall, infatti, la Bibbia non è la storia della Creazione ma delle creature.

Ad arricchire la mostra e a chiusura del percorso espositivo un prezioso nucleo di opere realizzato dall’artista contemporaneo Max Marra, una serie denominata Il ghetto densa di drammatici rimandi all’immane tragedia del popolo ebreo, alle persecuzioni razziali nazifasciste e alla Shoah; a seguire anche Pirgos, ceramiche parlanti, un’installazione appositamente creata dall’artista Antonio Pujia Veneziano per la Giudecca di Bova: 7 vasi in ceramica decorata con gli antichi e sacri simboli ebraici della Menorah, della Stella di David o dello Shofar a omaggiare l’antica presenza della comunità ebraica nell’area grecanica calabrese; per ultimo una ristampa anastatica del 2006 dell’unico, antico e raro incunabolo conosciuto con il titolo Commentarius in Pentateuchumdi Rashi (Rabbi Salomon ben Isaac), tomo edito con caratteri ebraici mobili (senza vocali) a Reggio Calabria il 18 febbraio1475 (l’originale è conservato presso la Biblioteca Palatina di Parma).

Contributo che restituisce in mostra il sapore di antiche memorie è quello della musica colta e popolare di Francesca Prestìa che, con tre brani, riattualizza le tradizioni musicali calabresi e promuove le conoscenze di antiche lingue che ancora oggi si parlano in alcuni contesti calabresi come il grecanico, l’arbëreshe e l’occitano-guardiolo.

Chagall. La Bibbia a Catanzaro è un connubio che nasce sotto il segno della storia e della cultura, dal momento che la mostra consente anche di promuovere la conoscenza dell’antica presenza di comunità ebraiche in Calabria, con l’obbiettivo di far riscoprire un patrimonio culturale, materiale e immateriale, di primaria importanza nel definire l’identità della Calabria stessa.
Un patrimonio culturale la cui conoscenza non è ancora sufficientemente diffusa nonostante, negli ultimi anni, si sia assistito a un progressivo arricchimento di studi e di ricerche, archivistiche e archeologiche, che meritano indiscutibilmente di essere valorizzate.

La mostra rappresenta un’occasione eccezionale per gettare uno sguardo sui rapporti che hanno unito nei secoli la Calabria al popolo di Abramo. Una storia antichissima che ha lasciato tracce indelebili non solo nel patrimonio orale ma anche nelle fonti, nell’archeologia, nella conformazione urbanistica di molte città calabresi. Un passato, quello della Calabria Judaica, che continua a intrecciarsi continuamente con il presente, nel profondo desiderio di ritessere i fili di una narrazione segnata da momenti di pacifica convivenza interreligiosa e periodi di soprusi e di violenze. Trame e orditi di una eredità storica consolidata che torna oggi a essere al centro dell’attenzione nei processi di ridefinizione identitaria sperimentati in diversi centri della Calabria, dove la memoria ebraica diventa sempre più strumento di valorizzazione integrata, di crescita culturale e sviluppo delle risorse endogene dei territori.

Marc ChagallM 131 Salomon, Chagall Verve, 1956. Litografia, 36,4×26,3 cm. © Chagall®, by SIAE 2021

L’ARTISTA

Marc Chagall, (Vítebsk, Russia, 1887 – Saint-Paul-de-Vence, Francia, 1985) dalla vita quasi centenaria, segnata da tutti i grandi eventi storici della prima metà del XX secolo, nasce da famiglia ebraica nel quartiere di Vitebsk, in Russia, ma raggiunge la perfezione plastica a Parigi, dove viene riconosciuto dai più grandi poeti e artisti surrealisti come uno di loro.
Nel 1914 torna in Russia per rivedere Bella, la sua ragazza, il suo grande amore, la sua musa. Sebbene la sua intenzione fosse quella di ritornare a Parigi dopo una breve permanenza, lo scoppio della prima guerra mondiale, prima, e la rivoluzione bolscevica, in seguito, lo costringono a rimanere nel suo paese fino al 1922 dove lavora per la Rivoluzione, fondando un’Accademia d’Arte e dipinge per un periodo per il Teatro ebraico di Mosca.
Torna presto a Parigi, dove la sua fama di pittore e illustratore ha inizio. Durante la seconda guerra mondiale, si rifugia negli Stati Uniti, dove si trasferisce dal 1941 al 1948, per evitare di essere deportato dai nazisti. Nel 1944 Bella muore inaspettatamente e Chagall smette di dipingere per qualche tempo. Nel 1948 torna in Francia, questa volta a Nizza e Saint-Paul-de-Vence, dove muore nel 1985.

Sede espositiva:
Complesso Monumentale del San Giovanni – Catanzaro
Orari:
Da martedì a domenica:
mattina dalle ore 10.00 alle ore12.30
pomeriggio dalle ore 17.00 alle ore 20.30.
Lunedì chiuso
(la biglietteria chiude mezz’ora prima)
Biglietti:
Intero € 8,00 – Ridotto € 6,00

Info e prenotazioni

T. + 39 348 724 67 47
comunicazione@4culture.it
www.catanzarodascoprire.it


IMMAGINE DI APERTURA – Pannello della mostra