Siegfried Bing, il mercante d’arte che sapeva fare rete fra Oriente ed Occidente

di Sergio Bertolami

20 – Il ruolo di Bing a sostegno delle arti applicate

Ho parlato di Arthur Lasenby Liberty e non posso trascurare Siegfried Bing. A cercare due notizie su di lui, troverete che era un mercante di nascita tedesca, un editore ed anche un mecenate. Proveniva da una ricca famiglia ebrea di Amburgo. Suo padre era da principio un decoratore di ceramiche, poi divenne anche produttore. Suo figlio, Marcel Bing, un talentuoso disegnatore di gioielli in stile Art Nouveau. Troverete anche che il grande successo di Bing fu aprire un negozio di artigianato orientale a Parigi alla fine degli anni Settanta del XIX secolo, che trasformò nel 1895, battezzandolo Art Nouveau. Con questo nome identificò una corrente artistica che oggi tutti conoscono. Pochi sanno, però, che dal momento della sua morte, a settembre del 1905, un velo oscurò ciò che era noto a molti fino a quel momento. Si tornò a parlare di lui solo quando negli anni Sessanta del Novecento un rinnovato interesse portò di nuovo all’attenzione le arti decorative e, con queste, soprattutto l’Art Nouveau. Questo protagonista eccellente era talmente uscito di scena, che qualcuno, leggendo “S. Bing”, confuse persino il suo nome di battesimo Siegfried con Samuel. Mi piacerebbe soffermarmi a lungo sulla sua figura; come, ad esempio, avrei preferito non essermi limitato a qualche accenno su Paul Cassirer e suo cugino Bruno Cassirer, i quali come ricorderete promossero, con la propria galleria d’arte e la propria casa editrice, la Secessione di Berlino. Bing, tedesco come loro, mercante come loro, s’interessò a diffondere, invece, la sensibilità per un Oriente fino ad allora sconosciuto nella sua vera essenza. Dette vita alla fine del 1880 a un periodico mensile, Le Japon artistique, e organizzò una serie di mostre sull’arte giapponese, con ceramiche e stampe ukiyo-e. Chi, al suo tempo, parlava di Siegfried Bing lo descriveva come un apprezzato esteta; il suo atteggiamento rifletteva eleganza, cultura, capacità di appassionare ad esotici oggetti di qualità.

Manifesto per la Maison de l’Art Nouveau (museo delle arti decorative, Parigi)

Julius Meier-Graefe, il noto critico tedesco – che quale amichevole concorrente tentò la strada del commercio, aprendo anche lui a Parigi La Maison Moderne, una galleria che esponeva opere Art Nouveau – scriveva di Bing: «Tutti pensavano alla sua figura delicata, con una mente da intellettuale parigino. Parlava e scriveva un francese classico, evitando tutte quelle frasi fiorite da boulevard. Aveva i modi educati di un marchese dei vecchi tempi, che trascorreva i momenti di libertà a caccia di bon mot nella sua biblioteca. Difficilmente gli si sarebbe attribuita l’eccezionale energia di un ricercatore, né tanto meno quella di un commerciante. Eppure, Bing era entrambe le cose. Ecco perché una parte sostanziale dell’inizio della conquista intellettuale del Giappone è dovuta a lui». Bing in verità era un uomo d’affari, ma colto e raffinato come pochi, soave e persuasivo verso i suoi clienti. Aveva compreso come per avere successo occorresse, anziché seguire l’opinione pubblica, allontanarsene quanto più possibile. L’arte giapponese fu lo stimolo creativo, oltre che commerciale, per Bing, ma anche per lo stesso Julius Meier-Graefe oppure – giusto per citarne uno solo – per Henri Vever, il più famoso gioielliere degli inizi del Novecento, che aveva un negozio proprio di fronte a quello di Bing. Utilizzando volantini che invitavano alle mostre, allestendo ambientazioni in stile che esponevano le preziose collezioni, diffondendo cataloghi ricchi di immagini, e tanti altri mezzi promozionali, come le pubbliche conferenze alla Japan Society di Londra di cui era socio, Siegfried Bing rese tangibile ai suoi contemporanei il nuovo gusto estetico che si stava diffondendo in Occidente. All’epoca in cui tutto questo si materializzò Bing aveva pochi concorrenti disposti ad investire la propria reputazione e una considerevole fortuna nella ricerca pioneristica di nuove forme d’arte. A Londra abbiamo seguito le “avventure” commerciali di William Morris o di Arthur Lasenby Liberty, ma fu il negozio di Bing a fare sprizzare il movimento Art Nouveau in ambito internazionale.

Siegfried Bing

Naturalmente – come vale sempre per i visionari e i precursori – l’attività di Bing fu derisa dalla stampa francese, che chiedeva il motivo per cui non esibisse la produzione artistica europea anziché proporre l’arte esotica. Ma Bing era convinto, sapeva cosa fare, giacché nel commercio era cresciuto. Suo padre Jacob era comproprietario, con Samuel Joseph Renner, della Bing Gebrüder, un’azienda fondata ad Amburgo per importare porcellana e vetro francesi e che rimarrà attiva fino al 1888. I soci si erano divise le responsabilità: Renner operava ad Amburgo e Jacob a Parigi, a partire pressappoco dal 1850; per cui ben presto, finiti gli studi, i figli Siegfried, Michael e più tardi Auguste, raggiunsero la famiglia a Parigi ed entrarono in azienda. Nel 1854, Jacob acquistò una modesta manifattura a St. Genou, un piccolo centro della Valle della Loira, per la produzione di oggetti in porcellana, spinto dal rapido aumento del commercio import-export di articoli pregiati. Con l’acquisizione, arrivò anche un brevetto per la cottura della porcellana dura in un forno a carbone, innovazione particolarmente efficiente per i tempi, aumentando la produzione dell’azienda. Quando però nel 1863 le spese superarono le entrate, la manifattura fu venduta. Il venticinquenne Siegfried Bing rilevò gli interessi di famiglia e acquisì azioni della Leullier fils una nuova manifattura di porcellana operante nel mercato locale. Avrebbe rifornito il negozio di famiglia in rue Martel a Parigi, fiorente nella vendita di porcellane e vetri artistici ad una clientela benestante. Padre e fratelli continuarono a gestire il punto vendita, mentre Siegfried, con questo suo ingresso nella manifattura Leullier, intraprese la sua ascesa. La produzione industriale incrementò e si distinse, così da essere premiata alle Esposizioni per l’eccellenza artistica di alcune delle sue creazioni. Erano quelli gli anni del regime bonapartista di Napoleone III, la Francia competeva con altre nazioni europee, in particolar modo con l’Inghilterra, nella fabbricazione di articoli di lusso, rinomati per le qualità estetiche e l’alto valore commerciale. Leullier fils produceva e decorava servizi in porcellana, ma realizzava anche lampadari e altri complementi d’arredamento per impreziosire le abitazioni di una borghesia rampante. Un set da tavola vinse persino una medaglia all’Esposizione Universale di Parigi del 1867. A maggio 1868 Jacob Bing morì, ma come da calendario a luglio Siegfried sposò Johanna Baer, una cugina di terzo grado, di famiglia ricca, colta e ben consolidata ad Amburgo. La coppia si trasferì a Parigi, al 31 di rue de Dunkerque, in prossimità degli uffici Leullier.

Exposition Universelle Paris, Porcellane Leullier Fils & Bing Incisione del 1867. 

Tuttavia, la stagione propizia era al volgere. Le nubi avverse delle crisi finanziarie del Secondo Impero e soprattutto la guerra franco-prussiana (1870-1871) avrebbero potuto rovesciare le fortune di Bing, per via della sua origine tedesca e degli stretti legami familiari con la Germania. Tuttavia, grazie all’abilità d’imprenditore, nonostante le avversità riuscì a rafforzare la propria immagine. Dopo avere trascorso a Bruxelles il periodo del pesante assedio prussiano di Parigi, Bing rientrando nella capitale dopo la resa trovò la Leullier in scompiglio. La maggior parte dei suoi dipendenti arruolati nell’esercito e il commercio delle arti decorative completamente crollato. Con una città prostrata dai lutti e dalla fame, caseggiati distrutti dai cannoneggiamenti, le persone erano preoccupate della sussistenza piuttosto che del lusso. Come se non bastasse la tragedia colpì la famiglia Bing. Il fratello di Siegfried, Michael, morì a febbraio del 1873 e il terzogenito della coppia, nato a maggio, morì due mesi dopo. Come può accadere nei momenti di crisi, c’è chi si lascia abbattere e chi invece trova la forza morale di affrontare e capovolgere la realtà. Bing, per primo, s’impegnò a mantenere attiva la manifattura di porcellana, evitando licenziamenti e stabilendo relazioni con diversi importatori stranieri. Quindi, richiese ed ottenne la cittadinanza francese. Era un passo dovuto. Non doveva essere facile per un imprenditore tedesco riavviare l’attività commerciale in una città straziata dalla guerra contro i prussiani. Nella sua domanda di naturalizzazione del 1876 si presentava come un candidato devoto alla Francia quale paese di adozione; di nascita tedesca, ma residente in terra francese da ventidue anni ininterrotti; senza alcun coinvolgimento in politica, ma interessato soltanto agli affari e alla famiglia, senza interessi diretti nel suo paese d’origine. Nonostante tutto, la Bing Gebrüder era ancora attiva e alla morte di Michael l’intera gestione ricadde su Siegfried, l’unico della famiglia Bing a trovarsi stabilmente in Francia.

Da sinistra: Siegfried Bing, Louis Gonse, Mme Roujon, Emmanuel Gonse e Mme Gonse a Midori-no-sato, 1899. Fotografia. Reims, Musée Le Vergeur, Société des Amis du Vieux Reims, Archivi Hugues Krafft

È precisamente in questi anni che Siegfried Bing cominciò ad interessarsi di arte orientale e a collezionare oggetti ceramici di raffinata fattura. Dal momento che era pur sempre un uomo d’affari, con una forte propensione per le arti decorative, si può dire che seppe fiutare il mercato che lo indirizzava quasi naturalmente a soddisfare la mania dei parigini per le curiosità giapponesi. Questo, almeno, è quanto si legge riguardo ad un uomo particolarmente riservato. Scrive Gabriel P. Weisberg, il suo maggiore biografo: «Sempre discreto, Bing era piuttosto ossessivo riguardo alla decisione di nascondere la propria identità; solo poche persone conoscevano le sue collezioni private, e ancor meno sapevano qualcosa della sua vita personale. Per lui, l’opera d’arte che difendeva – fosse giapponese o, più tardi, una sua versione Art Nouveau – era la sola cosa più importante; il suo ego, e la vita, dovevano essere sublimati, addirittura eliminati». Ci sono, tuttavia, alcuni fatti particolari che vanno presi in considerazione. A partire dal 1870 il cognato di Bing, Martin Michael Bair, ricoprì per due mandati (1870-74 e 1877-81) l’incarico di console a Tokyo. La sua posizione gli permetteva di intrattenere rapporti con l’alta società giapponese e apprezzare le migliori raccolte d’arte private. Da buon collezionista, acquistò articoli selezionati, non solo per sé stesso, ma anche per Bing.  Nella sua qualità favorì lo sviluppo di relazioni commerciali, come nel caso della Ahrens and Company, società di import-export, che aveva uffici a Yokohama, Tokyo e Londra. Fatto sta che nel 1874 Siegfried Bing era già diventato un collezionista abbastanza conosciuto da essere invitato a unirsi alla Società dell’Asia orientale di Tokyo. Nel marzo del 1876 organizzò, inoltre, la sua prima esposizione pubblica all’Hotel Drouot, la più grande casa d’aste parigina, nota per le belle arti, l’antiquariato e le antichità. La vendita gli fruttò oltre 11.000 franchi, e questo suggerisce che all’epoca avesse già raccolto una buona collezione di oggetti esotici da proporre alla sua platea di acquirenti. «Questa vendita – annota Gabriel P. Weisberg – presentò anche il primo record del suo pubblico coinvolgimento in questo mercato».

Henry Somm, Fantaisies Japonaises, S. Bing, Rue Chauchat, incisione del 1879 circa

La mania viscerale dei parigini per l’arte giapponese trovò ampio sfogo due anni dopo, in occasione dell’Esposizione Universale di Parigi del 1878. L’enorme padiglione giapponese ospitò, nel corso dell’evento, campioni e dimostrazioni pratiche riguardanti l’arte e l’industria. I numerosi visitatori furono avvinti dagli aspetti della vita e della cultura del Sol Levante, resi espliciti da una dovizia di notizie su ogni luogo specifico e su ogni tecnica adottata dagli artisti e dagli artigiani, che fosse ceramica o bronzo. Siegfried Bing, naturalmente, non si lasciò sfuggire l’occasione, perché programmò l’apertura del suo nuovo negozio, al 19 di rue Chauchat, in coincidenza con l’apertura dell’Esposizione e del suo ricercatissimo padiglione giapponese. Non è necessario rimarcare che ebbe un grande successo, tanto da ripagare l’investimento iniziale e permettergli nel giro di quattro anni di acquistare definitivamente i locali. Era giunto ormai il tempo per Siegfried Bing di stabilire legami diretti con i giapponesi e organizzare il suo primo viaggio in Estremo Oriente, che immancabilmente ebbe luogo nel 1880.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Stephen King – Laurie

Quando sua sorella Beth si presenta con una cagnolina, la prima reazione di Lloyd – vedovo da sei mesi, solo e senza figli – è di rifiuto. Il lutto gli ha tolto forze e desideri: già gli pesa occuparsi di se stesso, gestire un cane sarebbe impensabile. Ma la paziente fiducia della cucciola e i modi perentori della sorella – una persona in lutto ha bisogno di qualcosa per tenere la mente occupata – hanno ben presto la meglio sulla fragile determinazione di Lloyd. Rimasti soli, l’uomo e la cagnetta – che Lloyd ha chiamato Laurie – imparano a conoscersi, scoprendo insieme il piacere di semplici riti condivisi. Fra questi, la passeggiata lungo il canale. Un sentiero tranquillo, che però un giorno diventa teatro di un evento atroce, a cui né Lloyd né Laurie erano preparati… Un regalo di King ai lettori italiani, in occasione dell’uscita del nuovo romanzo “The Outsider”.

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IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Mabel Amber da Pixabay



Addio a Sergio Palumbo: giornalista e documentarista colto e riservato

Sergio Palumbo

di Sergio Bertolami

Un altro amico è scomparso. Sono troppi, ormai, ed è sempre più difficile parlarne. Per questo lascio che di Sergio Palumbo siano alcuni degli amici che condividevamo a delineare i tratti essenziali. Il primo, Giuseppe Ruggeri, perché già dalle prime ore di ieri mattina, nel diffonderne la notizia su Messina Today, ha espresso la sua (e la nostra) costernazione: «Con Sergio Palumbo se ne va un pezzo della Messina che conta. Che conta per intelligenza, apertura culturale, passione». Il secondo, Sergio Di Giacomo, lo ha ricordato con un pezzo redatto stamani per la Gazzetta del Sud, sulle cui pagine culturali Sergio Palumbo svolgeva con dedizione il proprio lavoro di giornalista. Ripropongo ambedue gli articoli qui di seguito, così come vorrei suggerire il sito web che Sergio stesso curava e dove si possono ritrovare le sfaccettature della sua attività di critico letterario e documentarista. Potrei stralciarne appena poche righe, ma preferisco che leggiate direttamente. A scorrere le sue pagine, infatti, è possibile imbattersi in una miriade di personaggi che hanno elevato la cultura italiana del Novecento e che Sergio ha incontrato davvero nel corso delle sue interviste, dei quali ha scritto a più riprese. Nella mia mente riaffiorano i discorsi che intessevamo sui grandi ogni qualvolta ci incontravamo: sulla famiglia Piccolo di Calanovella o Giuseppe Tomasi di Lampedusa, per esempio. Proprio in occasione dei cinquant’anni dalla morte dell’autore che non conobbe mai il successo del Gattopardo, preparammo una pagina speciale per la Gazzetta del Sud, partendo da un lavoro di Rosa Manuli sulle visite dello scrittore a Messina, che gli avevo segnalato. A riflettere bene, tutte le volte che un amico scompare, penso sempre a quante iniziative avremmo potuto realizzare insieme e mi rendo conto delle occasioni che non abbiamo concretizzato. Come quando con un gruppo di amici, anni fa, avevamo programmato un incontro pubblico per l’uscita di un mio libro. L’ho presentato altrove, ma non a Messina. Occasione irripetibile, oramai; non certo per il libro, ma per quanti che non ci sono più. Di quel gruppo il primo ad andare via è stato Franco Bonardelli e ieri anche Sergio Palumbo. È proprio vero quello che diceva qualcuno: scopriamo sempre, quando è tardi, che le sole cose che non si rimpiangono mai sono gli sbagli.  

Messina Today: Addio a Sergio Palumbo, una vita dedicata alla storia di Messina e ai suoi miti
Gazzetta del Sud: Morto Sergio Palumbo, giornalista e scrittore
Il sito web dell’autore: Sergio Palumbo, critico letterario e documentarista

IMMAGINE DI APERTURA – Immagine di Messina vista dallo Stretto in una foto di Christian Georg Sulzer da Pixabay

Storia del negozio che ha identificato l’Art Nouveau in Italia

di Sergio Bertolami

19 – Arthur Lasenby Liberty seguace di William Morris

Le trasformazioni artistiche o letterarie sono quasi sempre lente, mai lineari, né assolute. Neppure sotto il profilo temporale, per cui leggere su qualche testo che lo Stile Liberty ebbe inizio nel 1890 dovrebbe far sorgere qualche comprensibile dubbio. Questo perché, se il termine Liberty fu usato in Italia in riferimento ai magazzini londinesi di Arthur Lasenby Liberty, occorrerebbe considerare anche che tali magazzini furono aperti nel 1875. Ancora prima di Liberty, fu William Morris a ideare the Firm nel 1861, influenzato dalle idee di Augustus Pugin e John Ruskin che occorresse contrastare il pressappochismo dell’industria nascente e tornare all’artigianato e al lavoro manuale degli artisti medievali. Non erano che influssi di un radicato romanticismo. Riflettiamo, però, che erano anche gli anni in cui si cominciavano a brevettare le prime “carrozze a vapore”, quelle che noi chiamiamo automobili, per farle circolare sulle strade comuni e non solo su strade ferrate. Al contrario William Morris avrebbe voluto piantare una bella frenata all’industria nascente. Fondò la confraternita dei Preraffaelliti e con alcuni di questi – Burne-Jones, Rossetti, Webb, Ford Madox Brown, Charles Faulkner e Peter Paul Marshall ­– aprì la sua impresa per produrre artigianalmente carte da parati, tessuti chintz (quelli che in Francia s’imporranno col nome di toile de Jouy), tappeti, piuttosto che mobili, vetri o metalli. Il tutto con la speranza di ripristinare la decorazione, quale una delle belle arti. Nondimeno, a ben riflettere, l’opera di Morris non si identificò in tutto e per tutto con la storia della sua ditta commerciale. Più che da imprenditore, in quanto critico d’arte, pubblicista, pittore, decoratore e grafico, fu il tenace assertore di alcune idee che ritroveremo sempre più mature nel corso della prima metà del Novecento. Fra tutte: la diffusione di manufatti semplici e corretti in un mercato in evoluzione soggetto invece alla routine meccanicistica del tempo, la distinzione degli elementi strutturali e dei materiali, una produzione che premiasse le competenze tecniche ed estetiche degli artigiani manifatturieri. Sono questi alcuni dei principi ideali, che ritroveremo nella coscienza critica della moderna rivoluzione artistica, della quale sto provando ad accennare sommariamente il percorso.

Uno dei cataloghi della società di William Morris
The Arts et Crafts, Exibition Society di Londra

Arthur Lasenby Liberty non era lontano dalle idee di William Morris e dal suo movimento delle Arts and Crafts (Arti e Mestieri); ma, differentemente da lui, non demonizzava affatto la meccanizzazione in ascesa. Questo fu l’elemento che lo portò al successo, perché non aveva soltanto gusto, ma anche il fiuto negli affari. Non appena i porti giapponesi ripresero a commerciare con l’Occidente, dal 1853, in Europa si diffuse una considerevole varietà di prodotti fino ad allora conosciuti da pochi estimatori. Tra questi, sete, porcellane, ventagli e kimono, stampe da blocchi di legno in stile Ukiyo-e. «Il desiderio di possedere oggetti giapponesi – scriveva Christopher Dresser, tra i maggiori interpreti del movimento di Morris – si diffuse con l’apertura dell’Esposizione Internazionale del 1862, e di lì a breve i nostri commercianti iniziarono ad interessarsi alla produzione di questi strani oggetti come articoli commerciali». Nel 1874, dopo oltre una decina d’anni di servizio presso la Farmer & Rogers, al rifiuto di essere nominato partner della fiorente attività alla quale aveva contribuito, Arthur Lasenby Liberty decise di aprire un esercizio commerciale in proprio. Si fece prestare poco più di 2.000 sterline dal futuro suocero e affittò solo mezzo negozio al n° 218 di Regent Street, nel nascente West End di Londra. Il negozietto del trentaduenne Liberty mostrava già dall’insegna East India House (Casa dell’India orientale) che vi si vendevano articoli d’importazione, come sete d’arredamento, tappezzerie, oggetti decorativi e d’arte, provenienti dalle Indie, dal Giappone e dall’Estremo Oriente. Non passarono che diciotto mesi, per essere in grado di rimborsare il prestito e acquisire pure la seconda metà del magazzino di Regent Street. Fu così anche per gli anni successivi, perché man mano che l’attività cresceva, continuò ad acquistate e aggiungere, di proprietà in proprietà, anche i locali attigui. Le idee non mancavano. Sostenitore di un design conveniente in quanto a prezzo, ma distintivo per la qualità, non solo importava articoli, ma si rivolgeva anche a piccoli industriali per produrre mobili, articoli per la casa e tessuti pregiati. Strinse accordi per commercializzare tessuti prodotti in serie limitate, abbattendo i prezzi di vendita rispetto a quelli tradizionalmente fatti a mano. Per questo motivo, Liberty prese a pubblicare, dal 1881, cataloghi che presentavano sete pregevoli per varietà di colore, stampa e peso. I Liberty Art Fabrics divennero largamente ricercati ed imitati. I coloranti all’anilina, usati nella filiera industriale, in questi tessuti d’arte artigianali furono scartati a favore dei coloranti naturali; furono, inoltre, enfatizzate la classicità dei disegni e l’irregolarità della tessitura, che evidenziavano la produzione artigianale. Le sete Mysore di Liberty, per esempio, erano tessute a mano in India, prima di essere tinte e stampate a mano in Inghilterra, e infine promosse come «riproduzioni esatte di antiche stampe indiane».

Arthur Lasenby Liberty ritratto da Arthur Hacker (1913)

Nel 1884 Liberty introdusse il reparto “costume”, diretto da Edward William Godwin, rinomato architetto e fondatore della The Costume Society. Insieme crearono capi di abbigliamento per sfidare la concorrenziale moda parigina. L’anno successivo acquisì anche i locali di Regent Street al n°142-144 per soddisfare la crescente domanda di tappeti e mobili. Il seminterrato fu riorganizzato per dare vita al Bazar Orientale, con ampia esposizione di oggetti d’arredo decorativi. Il negozio divenne il ritrovo di Londra dove incontrarsi per fare gli acquisti alla moda, il luogo in cui vedere ed essere visti, dove s’incontravano uomini e donne dal gusto raffinato ed anche personaggi importanti. Qualificavano il negozio, all’attenzione del pubblico, scrittori di grido come Oscar Wilde o artisti ammirati come il preraffaellita Dante Gabriel Rossetti, alla ricerca di sete per drappeggiare le modelle dei suoi dipinti. A novembre del 1885, Liberty – con l’evidente obiettivo di promuovere il suo settore di oggetti d’antiquariato e curiosità orientali – mise in scena un “villaggio vivente” con quarantacinque abitanti fatti venire da un vero villaggio indiano. «Saranno impegnati solo per quattro ore di lavoro al giorno, e dovranno esibirsi in tutte le attrazioni di Londra» precisava The Times of India. Agli uomini erano offerte 75 rupie al mese, 25 alle donne, per sei mesi di presentazioni nel villaggio allestito da Liberty, con la possibilità di un rinnovo dei contratti, un pubblico di alta qualità – persino la regina Vittoria – e l’aspettativa di ricevere mance da parte degli spettatori. Fu il primo dei bellissimi set giapponesi, francesi, inglesi, messi in scena nel corso degli anni. l’Illustrated London News elogiava: «Presenta in un piccolo spazio una varietà di industrie indù tipiche, ed è popolata da quarantacinque indigeni provenienti da diversi distretti dell’India, di diverse caste e credo. Entrando nel villaggio, le cui case sono rappresentazioni accurate dell’architettura indiana, lo sguardo viene catturato dai colori variegati e brillanti dei tessuti e dei costumi orientali». Una mescolanza di culture indiane che lasciavano le pagine dei periodici illustrati per comparire, grazie a personaggi in carne e ossa, nel negozio del signor Liberty: ballerini, acrobati, musicisti, lottatori, prestigiatori, soprattutto filatori di seta, tessitori, intagliatori di legno di sandalo, ricamatori, orafi e argentieri. Un artigiano costruiva davanti agli spettatori il suo sitar, un grande liuto indiano da suonarsi con un plettro. «Una delle occupazioni più interessanti – descriveva ancora l’Illustrated London News – è quella del vasaio, che, con la sua ruota di tipo antico e le sue dita, plasma una varietà di articoli di bella simmetria, anche se di semplice carattere».

East India House, negozio di Arthur Lasenby Liberty su Regent Street

A partire dagli anni Novanta, Liberty incentivò il lavoro di artisti e artigiani come Christopher Dresser, Rex Silver, Frederickl James Patridge, Richard Lethaby. Fra questi, Birmingham William Hassler e il famoso Archibald Knox erano specializzati argentieri. Le influenze degli stili suscitati dalle Arts and Crafts non tardarono ad imporsi e a svilupparsi. È, infatti, tra le fila di questo movimento che troviamo i primi artisti Art Nouveau. Fra di loro si svilupperà quell’interesse per la natura, quel gusto floreale, che contraddistinse ovunque gli artisti dell’Art Nouveau. Non meraviglia, dunque, se persino oltre Oceano il New York Mail decantava: «Vaghi per le numerose stanze del loro grande magazzino come in un sogno incantato». Un sogno che si riverberò in Italia quando nel 1902 aprì i battenti la grande Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna di Torino. La Mostra «antesignana sempre di ogni idea di Libertà e Progresso» fu espressamente progettata in chiave moderna. Il suo scopo era esplicito sin dalle notifiche iniziali: «Saranno ammessi solo prodotti originali che mostrano una decisa tendenza al rinnovamento estetico della forma. Non saranno accettate mere imitazioni di stili passati, né prodotti industriali non ispirati da un senso artistico». Alla Esposizione d’Arte Decorativa si aggiunsero altre mostre particolari. Una Esposizione Internazionale di Automobili: la FIAT era stata fondata tre anni prima ed esponeva, fra l’altro, un’automobile che percorse i 847 chilometri della linea Torino-Firenze-Roma in un tempo eccezionale: 21,30 ore consecutive. Una Mostra di Fotografie artistiche e l’Esposizione Quadriennale di Belle Arti. Tutte queste Esposizioni, come specificava il catalogo, trovarono posto nello stesso recinto situato nel vastissimo Parco del Valentino, sulla sponda sinistra del Po.

Manifesto dell’Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna a Torino (1902), di Leonardo Bistolfi

Nella stessa pagina di apertura del catalogo è possibile leggere: «Spiriti rivoluzionari, menti di poeti, male si adattano gli Artisti alle viete forme che li obbligano a copiare, mentre in essi innato è l’istinto del creare. E non mancava certo ragione alla loro aspirazione. Ogni età ebbe il suo stile, manifestazione e prova della civiltà che rappresenta, così abbiamo lo stile Egiziano, il Greco, il Cristianesimo, il Rinascimento, il Barocco ed il Napoleonico, rappresentanti tutti una evoluzione del pensiero adatto a civiltà dei tempi in cui si esplicava e veniva creato. A ragione dunque essi anelavano dare un’impronta propria allo stile dell’età presente. Spontaneamente, dalle più variate regioni, innumeri Artisti esplicavano il loro pensiero rappresentandolo con lavori che diedero certo segno che i tempi erano maturi per una ardita innovazione». Per incoraggiare questa grande rivoluzione moderna, il compito di allestire una Esposizione unitaria fu affidato al «bravissimo D’Aronco, architetto del Sultano di Turchia». Raimondo D’Aronco, che aveva sempre alternato la progettazione con l’insegnamento – prima all’Accademia di Carrara, poi a Cuneo, a Palermo, e infine all’Università di Messina – dal 1893 lavorava in Turchia, dove, in seguito al terremoto di Istanbul del 1894, fu architetto-capo per la ricostruzione della città. Con i padiglioni per l’Esposizione Internazionale d’Arte Decorativa Moderna di Torino del 1902, contribuì alla diffusione della popolarità dell’Art Nouveau in Italia. Del suo lavoro, scrive Pieter van Wesemael (in Architecture of Instruction and Delight) che nella storia delle Esposizioni universali, l’unica mostra dedicata esclusivamente a un solo stile artistico fu proprio quella di Torino, segnando il successo dell’Art Nouveau in Italia. O meglio dell’arte Liberty come da noi fu chiamata quest’Arte Nuova.

Guida dell’Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna a Torino (1902)
SFOGLIA

Naturalmente nel catalogo della Mostra torinese non si parla di un’arte la cui risonanza deve ancora esplodere fra il largo pubblico. Né si fa il nome di Arthur Lasenby Liberty, giacché non si elencano gli espositori commerciali, ma soltanto i padiglioni nazionali e la rassegna delle opere d’arte ufficiali. Proviamo a dare un’occhiata, scoprendo quali erano gli interessi del tempo, i personaggi in vista, le opere poste all’attenzione. Comprenderemo che ogni epoca ha i propri miti, allora come oggi: «A sinistra l’ingresso alle altre sale della Mostra inglese. Esaminiamo in questa prima sala i disegni, libri, giornali illustrati, caricature, ecc., di Walter Crane.
La seconda sala, intitolata alla The Arts et Crafts, Exibition Society di Londra, è divisa in dieci ambienti, cinque per parte.
Notiamo nel primo ambiente a destra una lampada da parete per elettricità. Il pavone che vi vediamo è in argento smaltato, e due scrivanie di Ashbee e di Guild. I quadri sono di Southalt.
Nel primo ambiente di sinistra osserviamo un paravento sul quale R. Moton-Nance dipinse le tre caravelle di Cristoforo Colombo. Vi si trova pure una vetrina con gioielli smaltati, bottiglie e coppe di cristallo inciso di Jaïmes Powel.
Nel terzo ambiente, a sinistra, sta esposto un arazzo, le Quattro Stagioni, di William Morris; questo lavoro venne incominciato nel 1834 e terminato nel 1896. Nel terzo ambiente, a destra, la Essec and C. Y. di Westminster espone tappezzerie. Vi è pure il disegno per grande arazzo, dipinto da Brangwyn.
Nel quarto ambiente a sinistra troviamo vetrine con lavori in cuoio (rilegature di libri) e con la mostra di composizioni tipografiche della Libreria Hacou e Richelts di Londra.
Nella corsia della sala osserviamo una vetrina con Lavori decorativi in metallo della ditta W. A. S. Benson e C. di Londra.
Una statua in bronzo di W. R. Colton, rappresentante un trovatore di mummie.
Nella terza sala, a sinistra, esaminiamo due quadri: La nascita di Venere ed I conquistatori del mondo, entrambi di Walter Grane; a destra esamineremo vari progetti-disegni per vetrate a colori e tappezzerie. Nell’ultima sala Walter Grane espone Studi di fiori, acquerelli e disegni».

Tavole fotografiche sull’Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna a Torino (1902)
SFOGLIA

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Carmen Margherita Di Giglio – Lo scrigno di Ossian

 

Bello. Subdolo. Vizioso. E tremendamente affascinante. 1938. In fuga dal suo amore impossibile per l’affascinante e misteriosa Paolina, sua zia, il giovane pianista Andrea Ligerio lascia la vecchia casa paterna in Basilicata per trasferirsi in Germania. Qui il suo destino si incrocia con quello del duca Philipp Rosenberg, potente e ricco protettore di artisti, che lo introduce nel suo castello di Werdenstein con l’intento di favorirne la carriera pianistica. Ma una volta entrato fra quelle mura, circondato da una corte di personaggi stravaganti e imprevedibili, il giovane scoprirà che non è così facile uscirne, che intorno a lui niente e nessuno è quel che sembra e che, dietro le maschere, tra le alcove dorate e i labirintici corridoi della sontuosa Werdenstein, si cela in realtà un segreto mortale. Tormentato dai fantasmi del passato, travolto nel vortice di una vita sfrenata, fatta di piaceri e di vizi, fra passioni proibite, occulti riti d’iniziazione e intrighi politici che vedono coinvolto l’imperante regime nazista, Andrea, bello e innocente, smarrisce se stesso e perde la purezza, precipitando in una vertiginosa discesa agli inferi.

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IMMAGINE DI APERTURA – Foto di David Schwarzenberg da Pixabay 



Angela Maria Benivegna – Erice: suggestioni senza tempo fra cielo e mare

Erice – suggestioni senza tempo fra Cielo e Mare, è da intendersi come un assaggio di un percorso più complesso ed articolato in prossima pubblicazione. La versione completa condurrà il lettore, in particolare, alla scoperta del fulcro che caratterizza la piccola cittadina medievale: il Castello di Venere. Un luogo complesso e dalla duplice identità: in origine fu “luogo sacro”, qui infatti sorgeva l’antico Santuario della Dea Venere, divenne anche “fortezza”, cioè il Castello Normanno come appare ancora oggi. Il legame tra la montagna ericina e la Dea Venere, in questo ebook, viene già simbolicamente evocato della colomba rossa che vola. La colomba rossa è infatti attributo iconografico della Dea Venere, dei riti e delle feste sacre ericine ad essa legate. Nelle dinamiche di lettura ipertestuale, invece, la piccola icona della colomba, che troverete sparsa nei capitoli, funge da link con cui potrete “volare” fra le metafore e gli input fotografico-narrativi legati al luogo.

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IMMAGINE DI APERTURA – Copertina del libro



Art Nouveau il primo vero stile internazionale dell’età moderna

di Sergio Bertolami

18 – Un movimento dalle poliedriche manifestazioni.

Tchudi Madsen in Sources of Art Nouveau del 1956 elencava una serie di nomi utilizzati, tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, per identificare il nuovo fenomeno artistico. Alcuni di questi nomi li abbiamo già incontrati, ma ne vorrei aggiungere altri, per chiarire qualche importante concetto. Cominciamo dai nomi. Troviamo un sintetico Style 1900 e appellativi che alludono agli aspetti puramente formali: Stile anguilla (Paling Sijl), Lombrico arrabbiato (Gereitzer Regenwurm), Stile onda (Wellenstil), Stile giglio (Lilienstil), Stile spaghetti (Style Nouille), Stile a spirale (Schnörkestil), Linea giarrettiera moderna (Moderne Strumpfbandlinien). Con riferimento agli ambiti geografici, oltre a quelli già detti, in Inghilterra a Modern Style si affianca Glasgow Style, Style Morris, dal nome del critico William Morris; in Francia oltre ad Art Nouveau, scopriamo Style Jules Verne, oppure Style Guimard o Style Métro, associato al disegno particolare degli ingressi alle stazioni della metropolitana parigina progettati appunto dall’architetto Hector Guimard. In Germania, oltre a Stile nuovo (Neustil) e Nuova arte tedesca (Neudeutche Kunst), si parla anche di Tenia belga (Belgoscher Bandwurm). Per contro in Belgio si usa Belgische Stil, Style des Vingt dal gruppo artistico dei Venti, e ancora Veldesche Stil o Stil van de Velde e Style Horta, in relazione all’arte innovativa dei noti architetti Henry van de Velde e Victor Horta. 

Si potrebbe continuare nell’elencazione, ma dovremmo domandarci piuttosto: perché tante e così varie denominazioni? L’idea che restituiscono questi nomi è sicuramente meno “generica” di Arte nuova, declinata nelle differenti lingue nazionali. Generica, perché è “nuova” qualsiasi cosa «avvenuta o manifestatasi da poco, spesso in contrapposizione diretta a vecchio, antico, e quindi con significato prossimo a recente, attuale, moderno» (Treccani). Basterà ricordare il titolo del libro già citato di Ludwig Hevesi, Altkunst – Neukunst (Vecchia arte – nuova arte, Vienna 1894). Ai tempi, si voleva, dunque, generare un’arte “nuova e moderna”, quale espressione di tutte le forme peculiari ancorate al progresso e all’evoluzione che caratterizzavano l’età che si stava vivendo. Tutto ciò in contrapposizione a quanto era vecchio e antiquato, o quantomeno convenzionale, accademico, canonico. Lo attestavano gli stessi protagonisti del cambiamento, come ad esempio Henry van de Velde ed Hermann Muthesius. Van de Velde contestava l’idea che si dovesse raccordare l’arte con l’industria. Idea sostenuta da Muthesius, che aveva fondato la Deutscher Werkbund, un’associazione orientata ad aumentare la qualità dei prodotti artigianali e industriali. Non era una semplice polemica fra architetti di diverse nazionalità, il primo belga, il secondo tedesco. Era il cuore del problema. Affermava Van de Velde: «Finché ci saranno nel Werkbund degli artisti […] essi contesteranno ogni tipo di standardizzazione. L’artista è essenzialmente un appassionato individualista, un creatore spontaneo. Non si sottoporrà mai ad un canone». Affronteremo questa tematica nello specifico, perché aprirà un importante ragionamento su “Arte e Industria”. Per ora cerchiamo di comprendere meglio questa “Arte nuova” che pervade l’orizzonte europeo.

Dalla molteplicità delle denominazioni si ravvisa che l’Art Nouveau è l’insieme di esperienze individuali influenzate dalla cultura di Paesi differenti. Per cui è comprensibile la contrapposizione fra il belga van de Velde e il tedesco Muthesius, l’uno interessato alla libertà creativa dell’artista, l’altro precursore dell’Industrial design. Così come è evidente un’altra contrapposizione, tra le aspirazioni dello stesso Muthesius, indirizzato alla “progettazione industriale”, e le aspirazioni dell’austriaca Wiener Werkstätte attratta dal prodotto di “alto artigianato”, seguendo la lezione inglese delle Arts and Crafts (Arti e Mestieri). In pratica l’Art Nouveau si presentava come un movimento rivoluzionario dalle mille sfaccettature e dalle mille contraddizioni, tanto da poter essere recepito per alcuni aspetti estremi quasi come un movimento reazionario. Rifiutava lo storicismo, ma assecondava i revival ; anticipava sorprendentemente gli sviluppi futuri, ma elogiava il pezzo unico frutto del lavoro artigianale di qualità e per questo avversava la meccanizzazione. Alcuni celebravano le scoperte della tecnica, mentre altri segnalavano i pericoli della produzione seriale nel livellamento dei gusti di massa. Il dibattito culturale si presentava, dunque, sfaccettato. Da tutto ciò conseguiva l’impossibilità, a tutti gli effetti, di definire nell’Art Nouveau un’estetica modernista univoca. Nonostante questo, il fenomeno si riverberò di nazione in nazione investendo tutta l’Europa e, oltrepassando l’Oceano, approdò anche in America.

Le tre Gorgoni all’ingresso al Palazzo della Secessione a Vienna progettato da Joseph Olbrich nel 1898
Alfons Mucha, Le quattro stagioni, 1897

Tutte quelle differenti denominazioni rappresentavano la prova tangibile che l’Art Nouveau, pur costituendo il primo vero stile internazionale dalla diffusione globale, era sfaccettato in poliedriche manifestazioni non riunite da un comune programma. Si moltiplicava in area europea la frammentarietà già riscontrata nelle stesse Secessioni, dove quella di maggior vigore fu l’austriaca, perché s’identificò almeno inizialmente con le idee del “gruppo Klimt”. Per comprendere queste contrapposizioni, basterebbe limitarsi a confrontare, in massima sintesi, proprio i caratteri della Secessione viennese con quelli della più ampia Art Nouveau europea: senso della decadenza – senso della modernità; solennità – vitalismo; staticità – dinamismo; forme geometriche – forme naturalistiche; linea spezzata – linea sinuosa; donna idolatrata – donna floreale. Quale era, al contrario, la linea comune che legava insieme questa tavolozza dalle tinte variegate? Direi l’opposizione all’Accademia e la volontà di portare avanti, comunque, la ricerca estetica verso sempre nuove sperimentazioni. Ma un altro aspetto pare non trascurabile e davvero unificante. Lo evidenziava bene Theodor Adorno, quando sottolineava che l’emancipazione dell’arte fu possibile solo sviluppando una sorta di “ideologia della citazione a domicilio dell’arte nella vita” attraverso l’assimilazione del “carattere di merce” quale preludio dell’industria culturale: «Il progredire di una differenziazione soggettiva, la crescita e l’ampliamento della sfera degli stimoli estetici, rese questi ultimi disponibili; essi poterono essere prodotti per il mercato culturale. L’accordo dell’arte con le reazioni individuali più fuggevoli si alleò con la reificazione dell’arte, la sua crescente somiglianza col soggettivamente fisico la allontanò, nella ampiezza della produzione, dalla sua obiettività e si raccomandò al pubblico; pertanto, la parola d’ordine l’art pour l’art fu la copertura del contrario».

Copertina del libro Wren’s City Churches di Mackmurdo, una stampa da The Hobby Horse (Inghilterra), pubblicata da G. Allen nel 1883

Il dibattito artistico, di per sé astratto, dunque, secondo Adorno trovò la propria concretezza in un’ampia produzione merceologica da offrire al pubblico. Ad avvalorare questo pregnante concetto è il fatto che in genere i maggiori esponenti dell’Art Nouveau, più che dall’architettura o dalla pittura, furono attratti dalle arti decorative, dal nascente design e dall’arredamento d’interni, dalla grafica e dall’editoria. Certo non mancarono architetti innovatori, come vedremo, né scarseggiarono pittori, ma quest’ultimi per esempio continuarono i temi simbolisti, rileggendoli in chiave personale e originale attraverso una notevole varietà di soggetti che influiranno su molti dei movimenti futuri. A ben guardare fra i primi esempi di questa nuova sensibilità “floreale” vanno citati i lavori di Arthur Heygate Mackmurdo. Ad esempio, la copertina di un libro del 1883 sulle chiese londinesi di Wren (Wren’s city churches) oppure i suoi disegni di stoffe, arazzi o lavori in metallo e mobili degli anni Novanta dell’Ottocento. Sicuramente è il pioniere di un linguaggio che si svilupperà nei decenni successivi, partendo dall’Inghilterra. Non va dimenticato, infatti, che Mackmurdo aveva studiato alla Ruskin School of Drawing and Fine Art di Oxford e nel 1874 aveva accompagnato lo stesso John Ruskin in Italia. In questo contesto culturale non è possibile non riferirsi anche a William Morris. Il primo effetto – osservava Nikolaus Pevsner – fu che sotto l’influsso degli insegnamenti di Ruskin e di Morris «molti giovani artisti, architetti e dilettanti, decisero di dedicarsi all’arte applicata. Ciò che per oltre mezzo secolo era stata considerata una occupazione inferiore, diventò nuovamente un compito nobile e degno». Sono questi gli anni in cui cominciò l’importazione degli oggetti orientali grazie all’apertura di una politica di scambi col Giappone. Probabilmente si deve proprio a questi scambi l’humus dell’innovazione; in modo particolare all’opera degli importatori di quei manufatti, tra i quali si distinsero Arthur Lasenby Liberty – il cognome del quale indicò in Italia quello che al momento era chiamato Stile floreale – o Sigfriend Bing, la cui bottega d’arte orientale a Parigi dette alla nuova produzione artistica la denominazione di Art Nouveau. Su Liberty e Bing ci soffermeremo ampiamente nelle prossime pagine.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Michela Oliviero – Storia di un orologiaio, un fiore e una mosca

 

Storia del tempo che scorre incessante e di un orologiaio che vive in cima ad una torre. A fargli compagnia solo un fiore alla sua finestra, che deve essere protetto da una mosca che cerca di mordere i suoi petali. Nessuno può bussare alla sua porta. Nessuno può fermare il tempo.

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IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Pavlofox da Pixabay 

Laboratori d’arte per dare vita ad oggetti, di cui l’utilità è il primo principio

di Sergio Bertolami

17 – Nasce la Wiener Werkstätte di Hoffmann e Moser.

L’azienda Wiener Werkstätte (vale a dire Laboratori viennesi) nacque con l’intento di rinnovare le arti applicate sulla base di un artigianato di alta qualità. Per farlo occorreva produrre soltanto oggetti unici, di straordinaria bellezza e di esclusiva fattura. Il motto ricorrente era: «Meglio lavorare su di un oggetto per dieci giorni che produrre dieci oggetti in un giorno». Perciò fa un certo effetto cogliere una nota ironica su di una rivista del tempo: «Per giudicare le esigenze comuni osservate il modo in cui si acquistano i regali. La folla compra chiedendo: “Vorrei qualcosa di veramente economico, ma molto appariscente!” Ovviamente non c’è niente per loro nella Wiener Werkstätte». Non a caso, nel corso del primo anno di esistenza furono realizzati soltanto gioielli. Rimasero sempre i pezzi artistici preferiti, ma ben presto furono affiancati da una miriade di oggetti di uso quotidiano, preziosi però quanto gli stessi gioielli: mobili, tessuti, ceramiche, vetri, complementi d’arredo. La Wiener Werkstätte – indicata anche come Wiener Werkstatte, Vienna Workshop, Wiener Werkstaetten o Wiener Werkstätten – mirava ad unire tutti gli aspetti della vita sociale in un’opera d’arte totale, quella Gesamtkunstwerk da considerarsi come il denominatore comune per chi s’identificava con la Secessione viennese. I promotori, e gli artisti moderni più importanti che operarono per l’azienda, facevano parte del cosiddetto “Gruppo Klimt”, stretti intorno al celebre pittore. Sebbene, senza troppo rumore, fosse stata fondata nel 1903 come una semplice impresa commerciale, due anni dopo la Wiener Werkstätte s’identificò con le prerogative di uno specifico programma artistico, indirizzato principalmente all’emergente classe medio-alta della monarchia. Era strutturata, infatti, come una società produttiva formata da artisti e artigiani. Nel 1905 già contava un centinaio di dipendenti – fra i quali 37 erano i maestri artigiani – che avevano diritto, oltre al loro guadagno settimanale, ad acquistare una quota dei profitti realizzati; la quota costava duecento corone, pagabili in dieci rate mensili uguali. Con il consenso dell’esecutivo, si potevano acquisire ancora più quote, ma occorreva pagarle per intero al momento dell’acquisto. Gli ideatori di una simile azienda, che innovava persino lo status giuridico del lavoratore austriaco, erano impegnati in prima persona nella conduzione dell’impresa che avevano fondato: l’architetto e designer Josef Hoffmann, il pittore e grafico Koloman Moser, e Fritz Waerndorfer, un imprenditore con la propensione per l’arte moderna. Ai tre si aggiungerà Carl Otto Czeschka, forse meno conosciuto, ma sicuramente il più notevole fra i vari progettisti interni all’azienda. In un articolo del 1911, la prestigiosa rivista The Studio (Illustrated Magazine of Fine and Applied Art) anche di quest’ultimo, oltre che dei fondatori, esaltava le qualità: «Solo un oggetto in mostra assicurerà il suo nome fino ai posteri: un magnifico armadietto d’argento, acquistato per oltre 50.000 corone il giorno dell’inaugurazione da Herr von Wittgenstein, uno dei principali mecenati austriaci dell’arte moderna».

Il logo dell’azienda

Dal canto suo, anche l’imprenditore Fritz Waerndorfer fu, a tutti gli effetti, il cuore e l’anima della Wiener Werkstätte, giacché ritagliandosi il ruolo di direttore commerciale trasformò quello che avrebbe potuto essere un semplice laboratorio d’arte in un vero e proprio marchio, una maison d’alta classe. Investendo i capitali necessari per avviare l’attività, permise ai due promotori artistici di realizzare la loro ambizione. Hoffmann e Moser – entrambi membri chiave della secessione viennese – costituivano un vero e proprio binomio: si completavano a vicenda talmente bene che spesso era difficile distinguere i rispettivi progetti. Gli obiettivi d’altronde erano chiari ed univoci. Precisamente, per citare le parole di Hoffmann, erano quelli di «creare uno stretto contatto tra il pubblico, i designer e gli artigiani, dando vita a buoni e semplici oggetti d’interni, di cui l’utilità è il primo principio, ma con altri evidenti punti di forza basati sulle giuste proporzioni e nel giusto trattamento dei materiali, introducendo la decorazione soltanto quando possibile, mai forzandola o sovraccaricandola». È evidente come Hoffmann e Moser cercassero di promuovere una sapiente artigianalità negli oggetti domestici di uso comune, sul modello Arts and Crafts, escludendo però le decorazioni ridondanti della tradizione eclettica, che a loro avviso ne rendevano poco chiare le funzioni. Josef Hoffmann, occupato già da cinque anni nell’insegnamento alla Scuola di Arti applicate (Kunstgewerbeschule), all’interno dell’azienda assunse la responsabilità di direttore artistico. Intorno a lui raccolse alcuni fra i migliori creativi austriaci: oltre a Kolo Moser e a C. O. Czeschka, è bene citare Otto Prutscher, Adolf Bohm, Berthold Loffler, R. von Larisch, Edward Wimmer, Paul Roller, Michael Powolny, Leopold Forstner e Alfred Roller (direttore della Kunstgewerbeschule), mentre tra gli amici e simpatizzanti dell’istituzione erano Gustav Klimt, il prof. Otto Wagner, Carl Moll, i professori Metzner e F. Lederer , W.F. Jager, Anton Kling, Moritz Jung, il prof. Emil Orlik, Rosa Rothansel, Richard Taschner. Come si nota, tutti austriaci, i quali per ragioni professionali operarono anche in Germania.

Sala reception della Wiener Werkstätte

L’azienda prese sede nel quartiere urbano di Neubau, al 32–34 della Neustiftgasse, dove fu ristrutturato un edificio commerciale già esistente. I piani spaziosi ospitarono gli uffici e l’intero complesso delle attività produttive. L’igiene era alla base di una bellezza invitante, si leggeva sui giornali. Gli ambienti interni erano luminosi e salubri – a differenza delle solite fabbriche, sporche e tristi come caserme – le pareti e le parti in legno erano dipinte di bianco, quelle in ferro erano blu o rosse; inoltre, per caratterizzare ogni laboratorio vi dominava un colore specifico. All’entrata era posta una sala reception, che permetteva la collocazione a vista dei prodotti realizzati. La sala era dotata di vari salottini per le contrattazioni; in aggiunta, nel 1907, fu aperto un negozio nel centro della città, così anche il pubblicò poté ammirare direttamente le creazioni. Nelle vetrine della sala espositiva, incassate a muro, era presentata una panoramica delle numerose opere d’arte in metallo prezioso, legno, cuoio, vetro e pietre dure, gioielli e oggetti d’uso quotidiano. Tutte in forme rigorosamente coerenti alla propria funzione e al materiale. Spingendosi avanti, si incontravano gli uffici di progettazione per l’architettura e le arti applicate; nonché una buona biblioteca per istruirsi o aggiornarsi. La gran parte dello spazio dell’edificio era chiaramente destinata ai vari laboratori, dedicati alle lavorazioni di oreficeria, argenteria, gioielleria con incastonati avori cesellati e pietre preziose, officine per tutti i tipi di metalli o per l’intaglio del legno. C’era persino la legatoria per i libri e non mancavano la pelletteria, la sartoria e la modisteria, dove venivano foggiati con stile nuovi modelli di abiti, accessori e cappelli.

Alcuni dei laboratori

Piuttosto che il rumore della fabbrica, questo era il luogo dell’artigianato più silenzioso, seppure anche qui fossero installate attrezzature meccaniche. La Wiener Werkstätte, infatti, era al passo con tutte le innovazioni tecniche del momento, con una differenza sostanziale, come le cronache dell’epoca evidenziavano: «È completamente attrezzata, ma qui la macchina non è sovrana e tiranna, è invece al servizio degli artigiani, e i prodotti non ne presentano la fisionomia industriale, ma esprimono lo spirito dei loro creatori all’insegna dell’arte». La Wiener Werkstatte si articolava, dunque, in numerose manifatture, e per altre operazioni, che non poteva svolgere direttamente, si appoggiava ad una rete di fabbriche specializzate di alto pregio.

Servizio da tè di Josef Hoffmann, 1903 – © MAK/Georg Mayer
L’archivio della Wiener Werkstätte è oggi conservato al MAK – Museo di Arti applicate di Vienna ed è costituito da 16.000 bozzetti e 20.000 pezzi fra corrispondenza commerciale, cataloghi, campionature, manifesti pubblicitari, album fotografici. Inoltre, il museo espone una raccolta dei prodotti per documentare tutte le fasi creative dell’azienda.

Josef Hoffmann, ad esempio, intrattenne con la viennese J&L Lobmeyr, produttrice di lampadari e cristallerie, un lungo rapporto di collaborazione, reso più intenso dall’amicizia con Stefan Rath, che aveva ereditato la società dal nonno. Gli articoli in ceramica furono invece prodotti nella Wiener Keramic-Werkstatte condotta da Michael Powolny e dal prof. Berthold Loffler, le lavorazioni a mosaico furono eseguite nella Wiener Mosaic-Werkstatte guidata da Leopold Forstner, i tessuti stampati a macchina od operati a mano furono realizzati da Backhausen and Sons, così molte altre attività furono compiute sempre in stretto contatto con la WAV, come familiarmente era chiamata la Wiener Werkstätte fra gli addetti ai lavori.

Sale da pranzo del Sanatorio Purkersdorf

Il settore di architettura era uno dei più importanti all’interno della Wiener Werkstätte. L’architetto responsabile, Paul Roller, aveva studiato col prof. Otto Wagner all’Accademia di Belle Arti, come d’altronde aveva fatto lo stesso Hoffmann. Paul Roller era più di un architetto, informa sempre The Studio: «Pratico come un muratore, avendo attraversato tutte le fasi del suo mestiere, è un operaio completo nel miglior senso della parola, oltre ad essere un uomo della più alta intelligenza. Ha diversi giovani architetti che lavorano sotto di lui, come Karl Brauer, Emil Gerzabek, Wilhelm Martens, Johann Schloss e Rudolf Auswald, tutti ex studenti della Kunstgewerbeschule di Vienna, un fatto che la dice lunga sulla qualità del lavoro svolto alla Werkstatte». Questa attenzione all’architettura era sostanziale nella conduzione dell’azienda. Per capire come una iniziativa, sia pure artistica, possa imporsi (o al contrario declinare) non si possono tralasciare le strategie economiche e finanziarie. L’amicizia fra Josef Hoffmann e Berta Zuckerkandl portò, ad esempio, al primo grande incarico per la Wiener Werkstätte, il sanatorio di Purkersdorf, ad ovest di Vienna, edificato negli anni 1904-05 per conto del cognato di Berta, l’industriale Victor Zuckerkandl.

Sala da pranzo di Palazzo Stoclet, alle pareti il Fregio di Klimt

L’altro incarico di notevole risonanza fu palazzo Stoclet, il più famoso progetto di Josef Hoffmann, realizzato tra il 1905 e il 1911 nell’hinterland di Bruxelles. A Vienna e in altre città dell’Austria la Wiener Werkstätte costruì o ristrutturò ville, arredandole e decorandole di tutto punto. Si realizzarono negozi e uffici in molte località ed anche il governo austriaco richiese l’intervento dell’azienda. Per eseguire le opere di falegnameria, inizialmente nel 1904, s’impiantò un laboratorio interno, ma ben presto fu necessario commissionare la produzione di mobili ad eccellenti falegnami ed ebanisti come Portois & Fix, Johann Soulek (Palais Stoclet, Haus Ast), Anton Ziprosch e Franz Gloser (Purkersdorf), Anton Herrgesell, Anton Pospisil, Friedrich Otto Schmidt e Johann Niedermoser. In ogni caso, tutti i lavori affidati ai maestri artigiani dovevano rispondere a requisiti di qualità estremamente severi, affinché i prodotti si potessero esporre e commercializzare nei punti vendita della capitale o nelle filiali all’estero: Karlsbad (1909), Marienbad e Zurigo (1916/17), New York (1922), Berlino (1929).

Architetture, arredo e complementi, erano solo una parte della produzione diretta o indiretta della Wiener Werkstatte. Al suo interno, per fare ancora un esempio, non si stampavano libri, ma si graficizzavano e si seguivano nel loro percorso editoriale e finalmente, quando erano pronti, i sedicesimi venivano rilegati in marocchino con la massima cura. Era utilizzato soltanto il cuoio migliore, dando vita a creazioni eleganti e resistenti, ma dal costo elevato. Erano libri per bibliofili, dalle copertine pregiate, trattate o intarsiate con oro, eseguite su disegni personalizzati da Hoffmann, da Moser, da Czeschka o da qualche altro artista specificamente richiesto dai committenti. A dirigere la legatoria era un maestro rilegatore di nome Beitel. In un differente laboratorio, altri maestri artigiani erano invece indaffarati nella realizzazione di borse da donna in pelle o astucci per oggetti di valore, anche questi fatti esclusivamente a mano. L’ultimo ideato fu il reparto in cui foggiare le “mode”, così erano chiamate tutte quelle creazioni di lusso con ruolo sempre crescente nei gusti raffinati dell’alta società, come nel caso di abiti femminili e cappelli. Il settore – affidato a Edward Wimmer, originale artista dalla fervida fantasia, assistito dalla sarta Marianne Zeis – produsse creazioni moderne in seta e nei migliori tessuti, su modelli ideati dagli stilisti. La Wiener Werkstätte s’impose, dunque, come sinonimo di eleganza e raffinatezza. Una infinità di prodotti che esprimevano un savoir-faire unico. Un patrimonio di composizioni innovative, realizzate con dedizione. Un impegno dinamico, per dare spazio alla modernità.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Hermann Parzinger – Insieme. Un nuovo Patto per il patrimonio europeo

Il patrimonio culturale europeo è un mosaico composto da innumerevoli tessere multisfaccettate che, oltre a raccontare il nostro passato e il nostro presente indicano anche la direzione futura. È questa la nostra immensa eredità per le generazioni future e ognuno di noi ha il preciso dovere di difenderla in quanto complesso di beni preziosi ma fragili. La pandemia di coronavirus è la dimostrazione di come le nostre le vite possano cambiare da un giorno all’altro a seguito di un evento imprevisto. Ed è probabile che in futuro emergano nuove minacce in grado rimettere in discussione non solo la nostra sicurezza, la nostra salute e l’ambiente in cui viviamo, ma anche le strutture e i valori della nostra società, oltre che la sua capacità di competere sui mercati globali. Come può l’Europa tenere fede alla sua promessa se prima non si procede a una radicale trasformazione del progetto europeo partendo dalle sue fondamenta, trovando soluzioni innovative e coraggiose per un futuro sostenibile? C’è bisogno di un “New Heritage Deal for Europe”, un nuovo Patto per il patrimonio europeo, che porti avanti una trasformazione della società, dell’economia e dell’ambiente “a trazione culturale”. Hermann Parzinger è un archeologo, uno storico e un esperto di patrimonio culturale. Nel 2018 è stato nominato Presidente esecutivo di Europa Nostra, la federazione paneuropea per il patrimonio culturale che rappresenta le organizzazioni della società civile impegnate nella salvaguardia del patrimonio culturale e naturale europeo. Tra le principali attività condotte da Europa Nostra fin dal 2013 figura il Programma “I 7 più a rischio”, realizzato in collaborazione con l’Istituto Banca europea per gli investimenti (BEI). Questo è il quindicesimo essay della serie Big Ideas creata dalla Banca europea per gli investimenti.

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IMMAGINE DI APERTURA – Foto di ahlams da Pixabay