di Sergio Bertolami
24 – l’ideale sociale di Henry van de Velde.
Dicono bene i critici, che parlano di Henry van de Velde, l’esposizione fatta nel negozio di Bing il 26 dicembre 1895 e l’esposizione del 1897 a Dresda, «contribuirono fortemente alla diffusione delle sue idee e alla sua fama in Europa tenuta viva anche dalla forza del suo esempio, dalla sua continua preoccupazione didattica e di sollecitazione culturale che egli esercitò con i suoi scritti, con la sua attività di propaganda delle idee, le sue conferenze, le sue lezioni» (Lara Vinca Masini). Eppure, come sappiamo, per van de Velde questo inizio fu alquanto turbolento. Auguste Rodin lo insultò verbalmente fuori del negozio, Edmond de Goncourt lo fece per iscritto sul suo Journal. Tali improperi rendono perfettamente un momento di passaggio come questo, perché siamo dinanzi a personaggi illustri della storia dell’arte, colti però in un flash che ritrae un presente dissociato, tra il passato illustre dell’arte francese che dettava all’Europa le proprie influenze e un futuro internazionale tutto da scrivere. A ben considerare, quanti frenavano l’innovazione non erano soltanto i denigrati conservatori, ma anche gli innovatori di ieri che faticavano a comprendere gli innovatori di oggi. Perciò, prendiamo atto dell’irritazione di Edmond de Goncourte e leggiamo per intero quanto aveva da dire: «Lunedì 30 dicembre. – Exposition Bing. Non sono contrario all’idea della mostra in quanto tale, ma solo all’evento del giorno, l’esposizione di oggi. Cosa? Il nostro paese, che ha prodotto mobili civettuoli e paffuti per il comfort del XVIII secolo, è minacciato da mobili duri e spigolosi che sembrano fatti per abitanti delle caverne e palafitticoli ignoranti. La Francia sarebbe condannata a forme premiate in un concorso di bruttezza. Condannata cioè a coppe dalla forma di bacche, finestre e cassettiere improntate allo stile “oblò di una nave”, a schienali di divani, di poltrone, di sedie, che si richiamano alle rigide piattezze di fogli di lamiera e con rivestimenti tessili dove uccelli, color cacca d’oca, volano sul risciacquo blu di una saponata, condannata a specchiere da bagno e altri mobili imparentati coi lavandini di un dentista, nei dintorni di un obitorio. E un parigino dovrebbe mangiare in questa sala da pranzo, al centro di boiserie finto mogano decorate con questi arabeschi in polvere d’oro, accanto a un siffatto camino che sembra un radiatore per scaldare gli asciugamani di uno stabilimento balneare; e un parigino dovrebbe dormire in questa camera da letto, tra queste due sedie di gusto terrificante, in questo letto che altro non è che un materasso adagiato su di una lastra tombale? Davvero, saremmo snazionalizzati, sottomessi moralmente da una occupazione peggiore della guerra [franco-prussiana], in questo tempo in cui non c’è più posto in Francia che per la letteratura moscovita, scandinava, italiana, e forse presto per quella portoghese, in questo tempo in cui sembra anche non esserci più posto in Francia che per i mobili anglosassoni oppure olandesi. Non quello, il futuro mobile francese, quello no! No! Uscendo da un’esposizione di tal genere, come non potevo fare a meno di ripetere ad alta voce per la strada: «Il delirio… il delirio della bruttezza!». Tanto che, un giovane, avvicinandosi, mi disse: «State parlando con me, signore?».
Sul marciapiede di fronte al negozio di Bing, poi sul Journal, Edmond de Goncourt imprecò che il più ridicolo degli espositori, van de Velde, aveva progettato i suoi mobili applicando uno “stile yacht”. «Inconsciamente c’era del vero in questa osservazione – commentò anni dopo, in risposta, lo stesso van de Velde nell’autobiografia – De Goncourt ha riconosciuto l’essenza del “design razionale” che legava i miei mobili alle navi». Una relazione davvero sorprendente, anticipatrice di almeno un quarto di secolo. Henry Van de Velde era a tutti gli effetti un precursore, piuttosto che un innovatore. Al tavolo verde dell’arte, non faceva il suo gioco con singolare maestria, usava direttamente un nuovo mazzo di carte. In breve, il verdetto generale fu devastante, ma l’arte nuova s’impose ugualmente; ma quale arte nuova? Negli articoli apparsi sulle riviste qualche critico imparziale riconobbe l’importanza della mostra, come Gabriel Mourey che su The Studio, il mensile d’arte inglese più vivace dell’epoca, il 3 gennaio 1896, in un saggio intitolato The Big Event of the Present Art Season, scriveva: «Questi uomini sono alla ricerca di un’arte semplice e profonda; usano un buon metodo per farlo: un infaticabile sforzo. Il loro contributo personale può essere riconosciuto da alcuni dettagli. Ad esempio, se si guardano le stanze progettate da Henry van de Velde, vi si noterà l’equilibrio di tutte le linee del mobile, volute in modo consapevole; si riconoscerà la grazia sottile nella cornice di un vetro o di uno specchio, e si vedrà come le incrostazioni di rame intarsiate nel legno, intorno alla stanza, si traducano in una serie di arabeschi di grande fascino».
Com’era stato concepito il progetto? Lo racconta van de Velde stesso. Un giorno, dopo che la prima pietra della casa Bloemenwerf era stata posta sul terreno in pendenza, si presentarono alla porta due signori sconosciuti. I loro biglietti da visita riportavano il nome di S. Bing e Julius Meier-Graefe. Il primo, lo aveva sentito solo nominare: in quegli anni, nessun “amante del Giappone”, recandosi a Parigi, avrebbe mancato di visitare la galleria di Bing in rue de Provence. Il compagno di viaggio, gli fu presentato come uno scrittore e critico d’arte tedesco. Stavano facendo un giro, oltremanica e in vari paesi del continente, per rintracciare segni di rinascita dell’artigianato: da Bruxelles intendevano recarsi in Inghilterra, poi in Olanda e da lì in Danimarca, Germania e Austria. Quella mattina Bing e Meier-Graefe avevano visitato a lungo la Kunsthaus, una Maison d’Art allestita a Bruxelles nella precedente casa di Edmond Picard. L’idea che ventilavano era che necessitasse fornire agli sforzi individuali degli artisti e degli artigiani un sostegno commerciale, tale da garantire una maggiore risposta del pubblico. Della casa di van de Velde apprezzavano le pareti appena tappezzate con la carta da parati “Dahlia”, l’effetto armonioso del suo rosso amaranto, del verde e del blu indaco, in sintonia con il colore del legno di cedro dei mobili. Conoscevano van de Velde dai suoi articoli e mostrarono una cartella di ritagli sull’argomento, tuttavia, Bing, stava ben attento a non rivelare che il suo tour europeo potesse farlo decidere a realizzare una Maison d’Art del genere. Lo fece qualche settimana più tardi, quando fu van de Velde a raggiungerlo a Parigi nel suo piccolo studio in rue Vézelay. «Senza ulteriori preamboli – commentava van de Velde – mi informò della decisione di convertire la sua galleria in rue de Provence in una casa per L’Art Nouveau. La visita alla Kunsthaus di Bruxelles, gli aveva fatto una grande impressione e credeva nel futuro di tali imprese. Il suo tour lo aveva convinto che fosse imminente una rinascita dell’artigianato e che gli artisti che aveva visitato nei vari Paesi erano decisi a rompere con l’imitazione degli stili un tempo consueta». Decisero di avviare insieme l’iniziativa, ma dai primi incontri operativi emerse la preoccupazione che la mostra avrebbe provocato critiche e ostilità. La stampa a pagamento avrebbe spinto il pubblico a credere in una operazione antipatriottica, condotta da ribelli, per lo più stranieri, determinati a strappare alla Francia una proprietà culturale inalienabile. Non solo idealmente, ma anche materialmente, suscitando timori che sarebbe stata messa in crisi l’indiscutibile superiorità dell’industria artistica francese.
Henry van de Velde cominciò a pensare di avere accettato piuttosto incautamente l’incarico di Bing. Per una serie di ragioni. Anzitutto era chiaro il fatto di trovarsi in prima linea in una battaglia contro «i mobili e le suppellettili delle dimore in cui si nascondeva la società francese». La seconda ragione nasceva dai tempi di consegna molto stretti, dovendo installare a Parigi tanti arredi e complementi in date stabilite. Difficile oltretutto era ottenere specifici materiali dall’estero. Gli veniva richiesto di realizzare un salotto in legno di limone, una grande sala da pranzo in legno di cedro, una sala fumatori in paddock del Congo, una sala più grande rotonda con mobili e pannelli da parete coordinati. A tutto ciò si aggiungevano apparecchi d’illuminazione, carte da parati, tessuti e tappeti, ideati da altri artisti, ma da comporre in modo armonioso. La terza ragione aveva carattere progettuale: «Per quanto mi riguardava direttamente, ho avuto anche qui il mio problema. Quello che avevo creato fino ad allora era sempre stato destinato a stanze esistenti e a clienti di cui conoscevo gusti ed esigenze. In caso di dubbio, avrei potuto discuterne con loro. Lavorare per clienti sconosciuti e per stanze immaginarie mi risultava estraneo. Questa volta, al contrario, avrei dovuto progettare intere stanze basate su vari mobili tutti ideati da me. Alla fine, mi sono abituato a queste condizioni insolite, ma solo lentamente e con difficoltà, temendo sempre di non essere in grado di consegnare ciò che in quel momento si stava chiarendo nella mia mente con insolita fretta». Tali preoccupazioni furono, comunque, tutte superate; ma quando la presentazione ebbe luogo, van de Velde già a sfogliare il catalogo si accorse del problema maggiore: la mancanza di unità e di contesto, rispetto a quanto Bing e Meier-Graefe immaginavano come Art Nouveau. Van de Velde prese a domandarsi come si fosse mai potuta allestire una mostra senza un programma definito, se non quello della novità fine a sé stessa: «In quale altro modo si sarebbero potute presentare sotto lo stesso termine collettivo le mie creazioni e quelle di Carabin, i vetri di Tiffany, Powell e Köpping, i candelieri di Benson ed Eckmann? Per avere un’idea dei principi del tutto oscuri di Bing, basti ricordare che accanto alle mie stanze, i visitatori potevano ammirare una camera da letto progettata da Maurice Denis, i cui mobili erano altrettanto assurdi quanto la poltrona del famoso scultore Carabin […] Se Bing avesse riconosciuto i principi fondamentali e gli obiettivi morali a cui tendevo con tutte le mie forze, avrebbe sicuramente rifiutato il mio lavoro. L’idea di fondere la morale con il design artistico, di fare ritorno a forme semplici e vere non poteva significare nulla per lui». Insomma, quella di Bing era una Maison d’art nouveau ou de nouveautés artistiques? Esponeva i risultati di una creatività innovativa o semplicemente una serie di nuovi pezzi d’arte?
Queste osservazioni non erano peregrine: coglievano quantomeno il desiderio di Bing di scoprire una “nuova eleganza” più orientata al virtuosismo pittorico di Boldini o Gandara, alle fantasie orafe di Lalique. Differente era invece l’impronta di van de Velde e il suo percorso futuro lo dimostrerà compiutamente. Poche settimane dopo l’apertura della scandalosa mostra in rue de Provence, una delegazione guidata dal direttore generale dei musei di Dresda, Woldemar von Seidlitz, visitò la galleria di Bing e chiese di reinstallate nel Palazzo delle Esposizioni di Dresda le quattro stanze realizzate dal designer belga, in occasione dell’Esposizione Internazionale d’Arte del 1897. Inoltre, si chiedeva di realizzare una grande “sala relax” per i visitatori. Dopo appena tre settimane dall’inaugurazione dell’Esposizione, van de Velde divenne talmente famoso in tutta la Germania da essere sommerso di incarichi progettuali. Il crescente numero di commesse tedesche superò rapidamente, per importanza e valore monetario, le commesse belghe. Per converso, si profilarono all’orizzonte problemi organizzativi ed economici che avrebbero portato a cambiamenti radicali. Il più importante fu sicuramente la nascita della Société van de Velde, per fare fronte al lavoro esecutivo. Il barone Eberhard von Bodenhausen – del comitato editoriale di Pan, la rivista di cui Meier-Graefe era direttore – e il pittore berlinese Curt Herrmann, decisero di investire i propri capitali, consentendo di allestire nel sobborgo di Ixelles a Bruxelles moderni laboratori per la produzione di mobili, lampadari e altri arredi. La nuova attività e le relazioni strette con varie Maison d’Art di Parigi, Berlino e L’Aia, permisero a van de Velde di esporre e vendere i propri prodotti e di accettare numerose commissioni di arredi, ma anche di tessuti, gioielli e copertine di libri. Prova ne sia che la direzione della Secessione di Monaco gli mise a disposizione due sale da arredare completamente. Questo dette all’osannato artista l’opportunità di avere il suo primo contatto con amici d’arte nel Sud della Germania. Una opportunità eccezionale, perché all’epoca Monaco, come s’è detto, era un centro artistico molto apprezzato in tutta Europa. Né Dresda, né Düsseldorf, per non parlare di Berlino, potevano competere con Monaco.
Il segreto di van de Velde era la continua meticolosità: «Per avere un’idea della risposta che aveva generato la mia partecipazione al dipartimento di arti e mestieri della Secessione del 1898, mi sono mescolato alla folla nell’Hofbräuhaus dopo l’apertura. Mi resi conto di aver combattuto una battaglia, un’altra battaglia dopo le battaglie di Parigi e Dresda. Il pubblico aveva ricevuto uno shock». Tuttavia, a Monaco le parole taglienti che aveva usato Edmond de Goncourt non furono affatto pronunciate, non ci fu alcuna rivolta come a Parigi, anzi non ci fu proprio nessuna reazione improvvisa. Ciò che faceva piuttosto impressione era l’apatia dei visitatori, ai quali senz’altro piaceva parlare d’arte, ma senza provare emozioni. Ne discutevano in birreria. «A Monaco la gente amava l’arte come la birra», ironizzava l’architetto. Davanti ad un boccale s’intrattenevano conversazioni piacevoli con rinomati pittori o scultori, con drammaturghi, attori, cantanti o compositori. Letteratura e poesia, invece, erano di casa nei caffè.
Alla luce dei fatti, si può dire che finalmente van de Velde aveva quadrato il cerchio della sua professione. Se a Parigi l’intellighenzia lo snobbava, in Germania il suo lavoro di designer divenne noto attraverso articoli su periodici d’arredamento come Innen-Dekoration, rivista illustrata di arti e mestieri per la decorazione d’interni. Nel 1899 si lasciò “rapire” dalla Germania e decise di stabilirsi a Weimar, in una casa in Cranachstrasse, nella zona residenziale di Silberblick, a poche centinaia di metri dalla villa di Elisabeth Förster-Nietzsche, sorella del suo filosofo più amato. «Ricordo gli ultimi tre anni del XIX secolo come un periodo di eterna felicità, come una sola primavera o un’estate luminosa, con aiuole meravigliosamente fiorite, che mia moglie accudiva con amore, quando non si dedicava alla nostra piccola Nele o ad altri lavoretti di famiglia. La vedo ancora nei suoi bellissimi vestiti da giardino fatti di rari tessuti esotici, che lei stessa aveva realizzato con i miei disegni ideati per lei».
Maria arredò anche il nuovo appartamento con i piccoli mobili trasferiti da casa Bloemenwerf. Van de Velde, invece, su mandato del giovane Granduca Wilhelm Ernst, come consulente artistico si dedicò a infondere la “cultura del prodotto” alle imprese artigiane e industriali del Paese. Continuò anche il suo lavoro educativo, alla Scuola di Arti applicate granducale sassone (Grossherzoglich-Sächsische Kunstgewerbeschule Weimar) da lui stesso fondata nel 1908 e inizialmente sostenuta dal Granduca per poi passare allo Stato. «Ho chiamato questo istituto “Seminario di arti e mestieri” perché ero convinto di poter raccogliere e distribuire lì i semi, che poi sarebbero germogliati».
Van de Velde fu il direttore della Scuola fino alla chiusura, nel 1915, anno in cui pur in ottimi rapporti dovette lasciare la Germania per via della guerra, in quanto belga. Suggerì che l’architetto Walter Gropius gli succedesse. Torneremo a parlarne, perché dopo il 1919 la Scuola di Arti e Mestieri si fuse con l’Accademia d’Arte di Weimar, per dare vita al celebrato Bauhaus. In qualche modo si concretizzavano le parole con cui si era chiuso il primo numero de L’art décoratif del 1898, interamente dedicato alla sua figura e alla sua opera: «Seguiranno altri atelier di tessitura, ricamo e altre industrie domestiche, dove la macchina prenderà la sua indispensabile parte al lavoro. Il senso meccanico penetra oggi in tutte le opere di Van de Velde e garantisce che nelle sue mani l’arte non rimarrà, come avviene oggi, a beneficio di un piccolo numero di persone di buon gusto, ma che penetrerà fra la moltitudine, diffondendo verità e bellezza. Allora si realizzerà l’ideale sociale di Van de Velde, davanti al quale, secondo le sue stesse parole, un uomo vale tanto di più se il suo lavoro porta frutti o benefici a tanti altri di più».
IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay