Art Nouveau – “Il delirio… il delirio della bruttezza!”

di Sergio Bertolami

24 – l’ideale sociale di Henry van de Velde.

Dicono bene i critici, che parlano di Henry van de Velde, l’esposizione fatta nel negozio di Bing il 26 dicembre 1895 e l’esposizione del 1897 a Dresda, «contribuirono fortemente alla diffusione delle sue idee e alla sua fama in Europa tenuta viva anche dalla forza del suo esempio, dalla sua continua preoccupazione didattica e di sollecitazione culturale che egli esercitò con i suoi scritti, con la sua attività di propaganda delle idee, le sue conferenze, le sue lezioni» (Lara Vinca Masini). Eppure, come sappiamo, per van de Velde questo inizio fu alquanto turbolento. Auguste Rodin lo insultò verbalmente fuori del negozio, Edmond de Goncourt lo fece per iscritto sul suo Journal. Tali improperi rendono perfettamente un momento di passaggio come questo, perché siamo dinanzi a personaggi illustri della storia dell’arte, colti però in un flash che ritrae un presente dissociato, tra il passato illustre dell’arte francese che dettava all’Europa le proprie influenze e un futuro internazionale tutto da scrivere. A ben considerare, quanti frenavano l’innovazione non erano soltanto i denigrati conservatori, ma anche gli innovatori di ieri che faticavano a comprendere gli innovatori di oggi. Perciò, prendiamo atto dell’irritazione di Edmond de Goncourte e leggiamo per intero quanto aveva da dire: «Lunedì 30 dicembre. – Exposition Bing. Non sono contrario all’idea della mostra in quanto tale, ma solo all’evento del giorno, l’esposizione di oggi. Cosa? Il nostro paese, che ha prodotto mobili civettuoli e paffuti per il comfort del XVIII secolo, è minacciato da mobili duri e spigolosi che sembrano fatti per abitanti delle caverne e palafitticoli ignoranti. La Francia sarebbe condannata a forme premiate in un concorso di bruttezza. Condannata cioè a coppe dalla forma di bacche, finestre e cassettiere improntate allo stile “oblò di una nave”, a schienali di divani, di poltrone, di sedie, che si richiamano alle rigide piattezze di fogli di lamiera e con rivestimenti tessili dove uccelli, color cacca d’oca, volano sul risciacquo blu di una saponata, condannata a specchiere da bagno e altri mobili imparentati coi lavandini di un dentista, nei dintorni di un obitorio. E un parigino dovrebbe mangiare in questa sala da pranzo, al centro di boiserie finto mogano decorate con questi arabeschi in polvere d’oro, accanto a un siffatto camino che sembra un radiatore per scaldare gli asciugamani di uno stabilimento balneare; e un parigino dovrebbe dormire in questa camera da letto, tra queste due sedie di gusto terrificante, in questo letto che altro non è che un materasso adagiato su di una lastra tombale? Davvero, saremmo snazionalizzati, sottomessi moralmente da una occupazione peggiore della guerra [franco-prussiana], in questo tempo in cui non c’è più posto in Francia che per la letteratura moscovita, scandinava, italiana, e forse presto per quella portoghese, in questo tempo in cui sembra anche non esserci più posto in Francia che per i mobili anglosassoni oppure olandesi. Non quello, il futuro mobile francese, quello no! No! Uscendo da un’esposizione di tal genere, come non potevo fare a meno di ripetere ad alta voce per la strada: «Il delirio… il delirio della bruttezza!». Tanto che, un giovane, avvicinandosi, mi disse: «State parlando con me, signore?».

Volume del Journal di Edmond de Goncourt
nel quale compare il brano su Henry van de Velde

Sul marciapiede di fronte al negozio di Bing, poi sul Journal, Edmond de Goncourt imprecò che il più ridicolo degli espositori, van de Velde, aveva progettato i suoi mobili applicando uno “stile yacht”. «Inconsciamente c’era del vero in questa osservazione – commentò anni dopo, in risposta, lo stesso van de Velde nell’autobiografia – De Goncourt ha riconosciuto l’essenza del “design razionale” che legava i miei mobili alle navi». Una relazione davvero sorprendente, anticipatrice di almeno un quarto di secolo. Henry Van de Velde era a tutti gli effetti un precursore, piuttosto che un innovatore. Al tavolo verde dell’arte, non faceva il suo gioco con singolare maestria, usava direttamente un nuovo mazzo di carte. In breve, il verdetto generale fu devastante, ma l’arte nuova s’impose ugualmente; ma quale arte nuova? Negli articoli apparsi sulle riviste qualche critico imparziale riconobbe l’importanza della mostra, come Gabriel Mourey che su The Studio, il mensile d’arte inglese più vivace dell’epoca, il 3 gennaio 1896, in un saggio intitolato The Big Event of the Present Art Season, scriveva: «Questi uomini sono alla ricerca di un’arte semplice e profonda; usano un buon metodo per farlo: un infaticabile sforzo. Il loro contributo personale può essere riconosciuto da alcuni dettagli. Ad esempio, se si guardano le stanze progettate da Henry van de Velde, vi si noterà l’equilibrio di tutte le linee del mobile, volute in modo consapevole; si riconoscerà la grazia sottile nella cornice di un vetro o di uno specchio, e si vedrà come le incrostazioni di rame intarsiate nel legno, intorno alla stanza, si traducano in una serie di arabeschi di grande fascino».

Mostra ‘Art Nouveau’ nel negozio di S. Bing, Parigi, dicembre 1895. Sala da pranzo
Mostra ‘Art Nouveau’ nel negozio di S. Bing, Parigi, dicembre 1895. Sala fumatori. Lavorazione del legno di mogano, finestra, pannello a mosaico, specchiera e divano. I mosaici e il fregio sono di G. Lemmen da Bruxelles.

Com’era stato concepito il progetto? Lo racconta van de Velde stesso. Un giorno, dopo che la prima pietra della casa Bloemenwerf era stata posta sul terreno in pendenza, si presentarono alla porta due signori sconosciuti. I loro biglietti da visita riportavano il nome di S. Bing e Julius Meier-Graefe. Il primo, lo aveva sentito solo nominare: in quegli anni, nessun “amante del Giappone”, recandosi a Parigi, avrebbe mancato di visitare la galleria di Bing in rue de Provence. Il compagno di viaggio, gli fu presentato come uno scrittore e critico d’arte tedesco. Stavano facendo un giro, oltremanica e in vari paesi del continente, per rintracciare segni di rinascita dell’artigianato: da Bruxelles intendevano recarsi in Inghilterra, poi in Olanda e da lì in Danimarca, Germania e Austria. Quella mattina Bing e Meier-Graefe avevano visitato a lungo la Kunsthaus, una Maison d’Art allestita a Bruxelles nella precedente casa di Edmond Picard. L’idea che ventilavano era che necessitasse fornire agli sforzi individuali degli artisti e degli artigiani un sostegno commerciale, tale da garantire una maggiore risposta del pubblico. Della casa di van de Velde apprezzavano le pareti appena tappezzate con la carta da parati “Dahlia”, l’effetto armonioso del suo rosso amaranto, del verde e del blu indaco, in sintonia con il colore del legno di cedro dei mobili. Conoscevano van de Velde dai suoi articoli e mostrarono una cartella di ritagli sull’argomento, tuttavia, Bing, stava ben attento a non rivelare che il suo tour europeo potesse farlo decidere a realizzare una Maison d’Art del genere. Lo fece qualche settimana più tardi, quando fu van de Velde a raggiungerlo a Parigi nel suo piccolo studio in rue Vézelay. «Senza ulteriori preamboli – commentava van de Velde – mi informò della decisione di convertire la sua galleria in rue de Provence in una casa per L’Art Nouveau. La visita alla Kunsthaus di Bruxelles, gli aveva fatto una grande impressione e credeva nel futuro di tali imprese. Il suo tour lo aveva convinto che fosse imminente una rinascita dell’artigianato e che gli artisti che aveva visitato nei vari Paesi erano decisi a rompere con l’imitazione degli stili un tempo consueta». Decisero di avviare insieme l’iniziativa, ma dai primi incontri operativi emerse la preoccupazione che la mostra avrebbe provocato critiche e ostilità. La stampa a pagamento avrebbe spinto il pubblico a credere in una operazione antipatriottica, condotta da ribelli, per lo più stranieri, determinati a strappare alla Francia una proprietà culturale inalienabile. Non solo idealmente, ma anche materialmente, suscitando timori che sarebbe stata messa in crisi l’indiscutibile superiorità dell’industria artistica francese.

Mostra di arti applicate Dresda, 1897, sala relax

Henry van de Velde cominciò a pensare di avere accettato piuttosto incautamente l’incarico di Bing. Per una serie di ragioni. Anzitutto era chiaro il fatto di trovarsi in prima linea in una battaglia contro «i mobili e le suppellettili delle dimore in cui si nascondeva la società francese». La seconda ragione nasceva dai tempi di consegna molto stretti, dovendo installare a Parigi tanti arredi e complementi in date stabilite. Difficile oltretutto era ottenere specifici materiali dall’estero. Gli veniva richiesto di realizzare un salotto in legno di limone, una grande sala da pranzo in legno di cedro, una sala fumatori in paddock del Congo, una sala più grande rotonda con mobili e pannelli da parete coordinati. A tutto ciò si aggiungevano apparecchi d’illuminazione, carte da parati, tessuti e tappeti, ideati da altri artisti, ma da comporre in modo armonioso. La terza ragione aveva carattere progettuale: «Per quanto mi riguardava direttamente, ho avuto anche qui il mio problema. Quello che avevo creato fino ad allora era sempre stato destinato a stanze esistenti e a clienti di cui conoscevo gusti ed esigenze. In caso di dubbio, avrei potuto discuterne con loro. Lavorare per clienti sconosciuti e per stanze immaginarie mi risultava estraneo. Questa volta, al contrario, avrei dovuto progettare intere stanze basate su vari mobili tutti ideati da me. Alla fine, mi sono abituato a queste condizioni insolite, ma solo lentamente e con difficoltà, temendo sempre di non essere in grado di consegnare ciò che in quel momento si stava chiarendo nella mia mente con insolita fretta». Tali preoccupazioni furono, comunque, tutte superate; ma quando la presentazione ebbe luogo, van de Velde già a sfogliare il catalogo si accorse del problema maggiore: la mancanza di unità e di contesto, rispetto a quanto Bing e Meier-Graefe immaginavano come Art Nouveau. Van de Velde prese a domandarsi come si fosse mai potuta allestire una mostra senza un programma definito, se non quello della novità fine a sé stessa: «In quale altro modo si sarebbero potute presentare sotto lo stesso termine collettivo le mie creazioni e quelle di Carabin, i vetri di Tiffany, Powell e Köpping, i candelieri di Benson ed Eckmann? Per avere un’idea dei principi del tutto oscuri di Bing, basti ricordare che accanto alle mie stanze, i visitatori potevano ammirare una camera da letto progettata da Maurice Denis, i cui mobili erano altrettanto assurdi quanto la poltrona del famoso scultore Carabin […] Se Bing avesse riconosciuto i principi fondamentali e gli obiettivi morali a cui tendevo con tutte le mie forze, avrebbe sicuramente rifiutato il mio lavoro. L’idea di fondere la morale con il design artistico, di fare ritorno a forme semplici e vere non poteva significare nulla per lui». Insomma, quella di Bing era una Maison d’art nouveau ou de nouveautés artistiques? Esponeva i risultati di una creatività innovativa o semplicemente una serie di nuovi pezzi d’arte?

Laboratorio della ‘Société van de Velde’ a Ixelles, nel 1899, sulla destra l’architetto mentre esamina un disegno di progetto

Queste osservazioni non erano peregrine: coglievano quantomeno il desiderio di Bing di scoprire una “nuova eleganza” più orientata al virtuosismo pittorico di Boldini o Gandara, alle fantasie orafe di Lalique. Differente era invece l’impronta di van de Velde e il suo percorso futuro lo dimostrerà compiutamente. Poche settimane dopo l’apertura della scandalosa mostra in rue de Provence, una delegazione guidata dal direttore generale dei musei di Dresda, Woldemar von Seidlitz, visitò la galleria di Bing e chiese di reinstallate nel Palazzo delle Esposizioni di Dresda le quattro stanze realizzate dal designer belga, in occasione dell’Esposizione Internazionale d’Arte del 1897. Inoltre, si chiedeva di realizzare una grande “sala relax” per i visitatori. Dopo appena tre settimane dall’inaugurazione dell’Esposizione, van de Velde divenne talmente famoso in tutta la Germania da essere sommerso di incarichi progettuali. Il crescente numero di commesse tedesche superò rapidamente, per importanza e valore monetario, le commesse belghe. Per converso, si profilarono all’orizzonte problemi organizzativi ed economici che avrebbero portato a cambiamenti radicali. Il più importante fu sicuramente la nascita della Société van de Velde, per fare fronte al lavoro esecutivo. Il barone Eberhard von Bodenhausen – del comitato editoriale di Pan, la rivista di cui Meier-Graefe era direttore – e il pittore berlinese Curt Herrmann, decisero di investire i propri capitali, consentendo di allestire nel sobborgo di Ixelles a Bruxelles moderni laboratori per la produzione di mobili, lampadari e altri arredi. La nuova attività e le relazioni strette con varie Maison d’Art di Parigi, Berlino e L’Aia, permisero a van de Velde di esporre e vendere i propri prodotti e di accettare numerose commissioni di arredi, ma anche di tessuti, gioielli e copertine di libri. Prova ne sia che la direzione della Secessione di Monaco gli mise a disposizione due sale da arredare completamente. Questo dette all’osannato artista l’opportunità di avere il suo primo contatto con amici d’arte nel Sud della Germania. Una opportunità eccezionale, perché all’epoca Monaco, come s’è detto, era un centro artistico molto apprezzato in tutta Europa. Né Dresda, né Düsseldorf, per non parlare di Berlino, potevano competere con Monaco.

Annuncio della ‘Société van de Velde’ in ‘Arte decorativa’, 1898

Il segreto di van de Velde era la continua meticolosità: «Per avere un’idea della risposta che aveva generato la mia partecipazione al dipartimento di arti e mestieri della Secessione del 1898, mi sono mescolato alla folla nell’Hofbräuhaus dopo l’apertura. Mi resi conto di aver combattuto una battaglia, un’altra battaglia dopo le battaglie di Parigi e Dresda. Il pubblico aveva ricevuto uno shock». Tuttavia, a Monaco le parole taglienti che aveva usato Edmond de Goncourt non furono affatto pronunciate, non ci fu alcuna rivolta come a Parigi, anzi non ci fu proprio nessuna reazione improvvisa. Ciò che faceva piuttosto impressione era l’apatia dei visitatori, ai quali senz’altro piaceva parlare d’arte, ma senza provare emozioni. Ne discutevano in birreria. «A Monaco la gente amava l’arte come la birra», ironizzava l’architetto. Davanti ad un boccale s’intrattenevano conversazioni piacevoli con rinomati pittori o scultori, con drammaturghi, attori, cantanti o compositori. Letteratura e poesia, invece, erano di casa nei caffè.

Elisabeth Förster-Nietzsche, sulla scrivania copertine di libri di Henry van de Velde

Alla luce dei fatti, si può dire che finalmente van de Velde aveva quadrato il cerchio della sua professione. Se a Parigi l’intellighenzia lo snobbava, in Germania il suo lavoro di designer divenne noto attraverso articoli su periodici d’arredamento come Innen-Dekoration, rivista illustrata di arti e mestieri per la decorazione d’interni. Nel 1899 si lasciò “rapire” dalla Germania e decise di stabilirsi a Weimar, in una casa in Cranachstrasse, nella zona residenziale di Silberblick, a poche centinaia di metri dalla villa di Elisabeth Förster-Nietzsche, sorella del suo filosofo più amato. «Ricordo gli ultimi tre anni del XIX secolo come un periodo di eterna felicità, come una sola primavera o un’estate luminosa, con aiuole meravigliosamente fiorite, che mia moglie accudiva con amore, quando non si dedicava alla nostra piccola Nele o ad altri lavoretti di famiglia. La vedo ancora nei suoi bellissimi vestiti da giardino fatti di rari tessuti esotici, che lei stessa aveva realizzato con i miei disegni ideati per lei».

Maria Sèthe, moglie di Henry van de Velde, con la loro piccola Nele nel giardino della casa Bloemenwerf

Maria arredò anche il nuovo appartamento con i piccoli mobili trasferiti da casa Bloemenwerf. Van de Velde, invece, su mandato del giovane Granduca Wilhelm Ernst, come consulente artistico si dedicò a infondere la “cultura del prodotto” alle imprese artigiane e industriali del Paese. Continuò anche il suo lavoro educativo, alla Scuola di Arti applicate granducale sassone (Grossherzoglich-Sächsische Kunstgewerbeschule Weimar) da lui stesso fondata nel 1908 e inizialmente sostenuta dal Granduca per poi passare allo Stato. «Ho chiamato questo istituto “Seminario di arti e mestieri” perché ero convinto di poter raccogliere e distribuire lì i semi, che poi sarebbero germogliati».

Scuola d’Arte di Weimar, 1904, progettata da Henry van de Velde

Van de Velde fu il direttore della Scuola fino alla chiusura, nel 1915, anno in cui pur in ottimi rapporti dovette lasciare la Germania per via della guerra, in quanto belga. Suggerì che l’architetto Walter Gropius gli succedesse. Torneremo a parlarne, perché dopo il 1919 la Scuola di Arti e Mestieri si fuse con l’Accademia d’Arte di Weimar, per dare vita al celebrato Bauhaus. In qualche modo si concretizzavano le parole con cui si era chiuso il primo numero de L’art décoratif del 1898, interamente dedicato alla sua figura e alla sua opera: «Seguiranno altri atelier di tessitura, ricamo e altre industrie domestiche, dove la macchina prenderà la sua indispensabile parte al lavoro. Il senso meccanico penetra oggi in tutte le opere di Van de Velde e garantisce che nelle sue mani l’arte non rimarrà, come avviene oggi, a beneficio di un piccolo numero di persone di buon gusto, ma che penetrerà fra la moltitudine, diffondendo verità e bellezza. Allora si realizzerà l’ideale sociale di Van de Velde, davanti al quale, secondo le sue stesse parole, un uomo vale tanto di più se il suo lavoro porta frutti o benefici a tanti altri di più».

Henry van de Velde nel 1904

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

La casa di Giacomo Balla? È un’opera d’arte totale

Per la prima volta è finalmente possibile visitare l’abitazione romana dell’artista, rimasta chiusa dal 1994 dopo la scomparsa delle due figlie. Le visite, per gruppi di 8 persone, si svolgeranno nei weekend dal 25 giugno al 21 novembre.

RIVISTA STUDIO

La casa di Giacomo Balla? È un’opera d’arte totale

A Giacomo Balla interessava esprimere il movimento, la luce e la velocità, mentre lo affascinavano molto meno il progresso industriale, la violenza e la guerra, al contrario di gran parte dei suoi compagni futuristi. Una visione dell’arte tutta personale, che possiamo comprendere meglio visitando la sua casa, da giugno aperta al pubblico per la prima volta.



THE CONVERSATION

La sezione aurea potrebbe davvero essere nata in Africa?

Il design rimane una professione in gran parte bianca, con i neri ancora ampiamente sotto-rappresentati. Questo potrebbe essere attribuito al fatto che i principi prevalenti del design, fino a qualche anno fa, sembravano essere vicini alle tradizioni occidentali, con presunte origini nell’antica Grecia e nelle scuole tedesche, russe e olandesi, considerate come i modelli del settore. Una “estetica nera” sembrava improbabile. Ma cosa succederebbe a scoprire che un’estetica africana è profondamente radicata nel design occidentale? Non da oggi, ma da sempre!



AEON

Il Ratto di Europa di Tiziano (circa 1559-62). 
Per gentile concessione dell’Isabella Stewart Gardner Museum, Boston

Dovremmo
censurare l’arte?

Abbattere dipinti sessisti o monumenti razzisti solleva tanti problemi quanti ne risolve. C’è un modo migliore per combattere l’odio? Non è un discorso semplice. In verità, la censura è sempre piena di problemi, in generale, per non parlare poi della censura artistica, che è molto più complessa.  Quindi abbiamo bisogno di trovare nuovi modi per segnalare la nostra inquietudine, il nostro disgusto e l’indignazione per l’arte che perpetua l’ingiustizia sociale. Scopriremo come fare? Leggiamo.



LITERARY HUB

Perché così tanti romanzieri scrivono di scrittori?

David Laskin si sofferma su di un inflessibile paradosso letterario. Fare di uno scrittore il protagonista del proprio romanzo. Perché? Semplice: c’è qualcosa di irresistibile nel vedere uno scrittore esaltato, deriso, punito, perplesso, frustrato, insultato e vendicato sulla pagina.

“Intorno al mondo” è il titolo che abbiamo pensato per caratterizzare alcune nuove pagine di Experiences. Riguarderanno temi sui quali vale riflettere e che possiamo trovare navigando i migliori siti web del globo, sulle riviste culturali e sui quotidiani internazionali. Saranno fonti autorevoli, selezionate, interessanti e originali. Tali fonti permetteranno di osservare aspetti differenti dall’usuale, oppure fonti che porteranno l’attenzione su questioni che già conoscevamo e che avevamo trascurato, argomenti che sentivamo comunque vicini alla nostra sensibilità. Tutto vero. Noi di Experiences, per onestà intellettuale, vorremmo però fare di più. Cercheremo anche di sorprenderci in prima persona (e al contempo sorprendere chi condivide le nostre idee), scoprendo realtà oggettive che non conoscevamo per niente e che faremo in modo di comprendere. Anche se potrebbero sconvolgere il nostro abituale modo di pensare.

IMMAGINE DI APERTURA: Foto di OpenClipart-Vectors e fevzizirhlioglu da Pixabay

Seguiamo troppe notizie: un problema che riguarda lettori e media

Il rischio di sovraesposizione a un flusso di notizie continuo esiste già da prima che la diffusione del Covid 19 condizionasse in modo radicale la vita delle persone. Tuttavia la tendenza a cercare compulsivamente informazioni per rimanere costantemente aggiornati sui fatti è un fenomeno che ci riguarda sempre più da vicino. Il Post ci spiega perché. 

IL POST

Seguiamo troppe notizie: un problema che riguarda lettori e media

Alcuni esperti e psicologi statunitensi hanno cominciato a parlare di doomscrolling per definire la pratica di scorrere ininterrottamente le notizie – perlopiù drammatiche e deprimenti – sugli smartphone o sui computer, occupando parti della giornata che prima della pandemia erano destinate ad altre attività… 



THE GUARDIAN

A caccia di libri tra le rovine: come i bibliotecari ribelli della Siria hanno trovato speranza

In una città assediata dal regime di Assad, un piccolo gruppo di rivoluzionari ha trovato una nuova missione: costruire una biblioteca con i libri salvati dalle macerie. Per chi è bloccato in città, i libri hanno offerto una fuga fantasiosa dagli orrori della guerra.



MINIMA & MORALIA

L’intelligenza di Minari

Minari è un film drammatico americano del 2020, scritto e diretto da Lee Isaac Chung. Rappresenta una versione semi-autobiografica dell’educazione infantile dello stesso Chung. La trama segue una famiglia di immigrati sudcoreani che si trasferisce dalla California all’Arkansas, in un loro nuovo appezzamento di terreno agricolo, che il capofamiglia spera di coltivare, producendo ortaggi coreani da vendere nei supermercati di Dallas. Cosa significa Minari? “Il minari è qualcosa di meraviglioso. È magico, va nel kimchi, nella minestra, nello stufato. È una specie di prezzemolo che cresce dappertutto ed è per tutti. Poveri e ricchi possono mangiarlo”. Lo spiega così, ai nipotini, Soon-ja, la stramba nonna coreana del film Minari.



LITERARY HUB

SWISHER SWEETS

di LAURA NEWMAN

Un titolo sarcastico? Swisher Sweets è uno dei produttori di sigari più famosi al mondo. Ma non è di questo che parla la storia, se è vero che la Newman ha fondato il “Comitato per l’eroina”, un gruppo che produce e gestisce spot pubblicitari per educare i genitori sulle droghe a cui i loro figli hanno maggiori probabilità di essere esposti. La storia che leggerete è stata finalista al Virginia Woolf Award for Short Fiction di LitMag, ed è estratta dall’ultima raccolta di racconti di Laura Newman The Franklin Avenue Rookery for Wayward Babies , su persone comuni che lottano contro eventi straordinari. 

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Che cos’è la biodiversità e perché dovremmo preoccuparcene

Quando si parla di cambiamenti climatici, disuguaglianze sociali, crisi sanitaria e distribuzione delle risorse, grandi dibattiti scientifici e sociali di questo secolo, si conclude spesso con: “…e poi c’è anche il problema della biodiversità”, senza specificare esattamente quale sia il problema, e soprattutto cosa sia la biodiversità…

IL TASCABILE

Che cos’è la biodiversità e perché dovremmo preoccuparcene

A scuola impariamo che la biodiversità è il numero delle specie in una data area. La nostra impostazione culturale ci porta a pensare che col termine “specie” si intendono prevalentemente quelle animali, e per animali si intendono i mammiferi di taglia medio–grande, quelli che vediamo negli zoo. Se chiedessimo a un amico di elencare le specie presenti nella savana africana, è estremamente probabile che risponderebbe “zebre, leoni, giraffe”, e non verrebbe neanche sfiorato dall’idea di menzionare gli alberi, l’erba, i licheni, gli insetti o i nematodi parassiti che albergano dentro zebre, leoni e giraffe.



THE NEW YORKER

Perché i film amano i libri per bambini?

Si potrebbe pensare che ogni nuovo film per bambini sia stato realizzato con riferimento ai testi classici, invece emergono ancora, incessantemente, sempre nuovi adattamenti. L’anno scorso abbiamo preso visione di una nuova versione del racconto “Il giardino segreto”, così come l’interpretazione opportunamente sinistra di Matteo Garrone su “Pinocchio”. Ma ci sono tante altre storie riadattate.



LOS ANGELES TIMES

Lezioni di mamme e nonne in tre nuovi libri sulla cucina cinese

Negli ultimi due mesi sono stati pubblicati tre fantastici libri di cucina che contestualizzano cosa significa cucinare cibi cinesi, ma da una prospettiva diversa, quella di una seconda generazione. Presi insieme, questi libri, forniscono un’istantanea di come gli autori descrivano in dettaglio l’assimilazione nella cultura occidentale pur mantenendo i collegamenti con le culture e le tradizioni delle generazioni passate.



LITERARY HUB

“TIARA”

di BOLU BABALOLA

Il racconto è tratto dalla raccolta di Bolu Babalola, Love in Color , una rivisitazione della storia e della mitologia. Babalola è uno scrittore di libri e sceneggiature. Scrive soprattutto storie di donne dinamiche con voci distinte che amano e sono amate con audacia.

“Intorno al mondo” è il titolo che abbiamo pensato per caratterizzare alcune nuove pagine di Experiences. Riguarderanno temi sui quali vale riflettere e che possiamo trovare navigando i migliori siti web del globo, sulle riviste culturali e sui quotidiani internazionali. Saranno fonti autorevoli, selezionate, interessanti e originali. Tali fonti permetteranno di osservare aspetti differenti dall’usuale, oppure fonti che porteranno l’attenzione su questioni che già conoscevamo e che avevamo trascurato, argomenti che sentivamo comunque vicini alla nostra sensibilità. Tutto vero. Noi di Experiences, per onestà intellettuale, vorremmo però fare di più. Cercheremo anche di sorprenderci in prima persona (e al contempo sorprendere chi condivide le nostre idee), scoprendo realtà oggettive che non conoscevamo per niente e che faremo in modo di comprendere. Anche se potrebbero sconvolgere il nostro abituale modo di pensare.

IMMAGINE DI APERTURA: Foto di OpenClipart-Vectors e fevzizirhlioglu da Pixabay

Henry van de Velde – Ogni teoria che sosteneva diventava per lui una missione

di Sergio Bertolami

23 – Primi passi verso arti applicate ed ornamento.

Chi pensa sinceramente che le grandi opere raffigurate sui libri di storia dell’arte siano state senza contraccolpi o reazioni, non ha idea della realtà dei fatti. Persino l’arte floreale ebbe i suoi sussulti. Bing e il suo Salon dell’Art Nouveau, ad esempio, per quanto si possa pensare il contrario, furono derisi. La mostra di inaugurazione fu considerata uno scandalo. L’apertura avvenne negli ultimi giorni di dicembre del 1895. Fece scalpore, non solo sui giornali che recensirono l’avvenimento, ma anche tra la moltitudine elegante che affollò le sale espositive. Era presente la crema della società parigina: personaggi famosi dell’Académie Française, artisti ed eminenti studiosi, esteti e critici d’arte. Da subito si levò un borbottio generale di ostilità e indignazione. All’esterno del negozio si formarono gruppi di protesta che attorniavano le personalità più famose: Edmond de Goncourt che esprimeva il suo disgusto, Auguste Rodin che lo sosteneva, pronunciando imprecazioni contro Meier-Graefe colpevole di avere convinto il raffinato mercante a rifiutare la tradizione francese per dare spazio ad un orribile internazionalismo. «Il tuo van de Velde – esclamò eccitato fra gli applausi della folla rivolgendosi a Bing – il tuo van de Velde è un barbaro!». Lo abbiamo incontrato di sfuggita parecchie volte, Henry van de Velde, in queste pagine sull’arte del Novecento. All’epoca degli eventi contava 32 anni e fu proprio lui a raccontarli nel libro uscito postumo in cui narra la storia della sua vita (Geschichte meines Lebens, 1962). «Credo che si debba essere autodidatti per produrre forme come un “barbaro”. Bisogna attingere a fonti che non siano state contaminate dagli stili successivi al Rinascimento italiano in Francia, Paesi Bassi e altre nazioni civilizzate, o dall’insegnamento accademico ufficiale». Idee chiarissime, in linea con i tempi, per contrastare le espressioni concitate di Rodin. Barbaro van de Velde? Ma lo conosceva bene, Rodin? Conosceva questo colto pittore che amava leggere libri o romanzi sociologici di tendenza sociale: le opere di Zola, che gli rivelavano la miseria degli operai e dei contadini; le opere di Nietzsche, come Zarathustra che a suo dire lo «nutriva meglio del cibo vero». In quelle pagine stava cercando la sua nuova strada artistica. Da studente, diceva di avere dipinto con la naturalezza di un «uccello che canta», e usava quest’espressione del suo amico Camille Pissarro. Poi sentì di doversi liberare di quanto appreso prima all’Accademia di Anversa, poi nello studio Verlat e con Carolus-Duran. Doveva scoprire il vero significato dell’impressionismo, e delle correnti che da questo sembravano prendere avvio.

Henry van de Velde nel 1897

Al quarto salone dei Vingt (nel 1887), era rimasto profondamente scosso dalla Dimanche de la grande Jatte di Seurat. «Ci è voluto del tempo perché il pubblico e i critici specializzati riconoscessero che il neoimpressionismo era una rottura». La nuova corrente scaturiva dalla Société des Indépendants nel mettere in pratica la Teoria scientifica dei colori di Chevreul e Rood. Paul Signac spiegava la teoria in D’eugène Delacroix au néo-impressionnisme. Van de Velde non dimenticherà mai in vita sua lo “shock” che gli avevano provocato le prime impressioni dell’innovativa tecnica pittorica divisionista. Seurat ci lavorava fino a tarda notte con uno sforzo sovrumano. Fu nell’autunno del 1888 che van de Velde conobbe Rodin e Georges Lemmen, nominati insieme a lui quali nuovi membri dei Vingt. All’epoca, Madeleine Maus, coscienziosa cronista della storia dei Vingt, commentava: «Van de Velde ama essere attivo, scrivere, parlare, convincere. Un tono serio, inquietante e caldo gli torna utile. È un teorico per natura, e questo tratto particolare del suo essere fa sì che ogni teoria che sostiene diventi una missione per lui». Da quando era entrato nel gruppo dei Vingt poteva partecipare alle serate che Edmond Picard teneva nei mesi invernali nella sua casa di Boulevard de la Toison d’Or a Bruxelles. Serate vivaci e brillanti. Qui, come mai prima d’allora, fra gli ospiti si potevano incontrare famosi professionisti, i principali pittori e scultori, gli scrittori più moderni, l’élite dei politici belgi. «James Ensor, il più chiacchierato e il più talentuoso dei Vingt – annotava van de Velde – è stato visto parlare con il ministro delle Belle Arti, Le Jeune».

Lettera di Octave Maus che annuncia la nomina di Van Velde a membro dei Vingt

Leggeva libri e riviste, che si ammucchiavano nella sua stanza. Più che la pittura in senso stretto, van de Velde ricercava una nuova tecnica, un carattere artistico che lo facesse godere delle gioie che solo il colore e la linea gli davano. «La calligrafia e la tecnica delle xilografie giapponesi, rivelazione per noi giovani artisti in quegli anni, mi sembravano offrire i presupposti per ritrarre in modo semplice i più poveri tra i poveri. Ma i pochi tentativi di xilografia che feci all’epoca erano ovviamente molto lontani dai capolavori di Hiroshige o di Utamaro. E anche con la mia esperienza con i colori secchi e “piatti”, posizionati uno accanto all’altro e uno sopra l’altro, non ho raggiunto il mio obiettivo. Con il minimo ritocco, i colori inevitabilmente si sgretolavano. C’era un solo modo per continuare: sostituire il colore con stoffe colorate, cioè con stoffe tagliate di diversi colori». Dopo il 1891 i primi prodotti esotici comparvero nelle vetrine dei negozi della Compagnie Japonaise di Bruxelles, che l’azienda Liberty di Londra aveva esportato dall’Inghilterra nel continente. La folla si accalcava sul marciapiede, davanti alle vetrine, per ammirare mobili ricoperti di lacca verde vivo o rosso, ceramiche smaglianti, vetri iridescenti. «Godevamo di queste cose come una specie di primavera che irrompeva nelle nostre vite, nella noia grigia dei nostri soggiorni con i loro mobili pesanti e logori che soffocavano ogni serenità, con tutti gli stupidi oggetti impolverati che vi si aggiravano furtivamente». Parallelamente, l’associazione dei Vingt presentava al Salon i primi artisti interessati alle arti applicate: il pubblicitario Jules Chéret con i suoi manifesti, l’illustratore Walter Crane con i suoi libri disegnati per i bambini, il ceramista Willy Finch con i suoi piatti decorati. Erano considerati come dei disertori, che voltavano le spalle alle “arti”. Poteva sussistere ancora una distinzione tra belle arti e arte applicata?

Théo van Rysselberghe, Maria Sèthe all’Harmonium, 1891, Museo Reale di Belle Arti di Anversa

Van de Velde trascorse l’inverno del 1892/93 impegnato in un lavoro intenso, quasi monastico. Aveva elaborato un bozzetto e aveva deciso i dettagli dei tessuti e dei fili di seta con i quali realizzarlo. Per la verità era più un arazzo che una broderie (un ricamo). Dall’esperienza comprese di non potere esprimere la sua visione artistica senza ricorrere all’abilità di un artigiano. Trovò in sua zia una ricamatrice esperta, quanto riluttante. L’anziana signora non poteva capire le teorie scientifiche di Chevreul e le leggi dei colori complementari. «Durante le lunghe settimane di lavoro sull’arazzo, la mia mente vagava in lungo e in largo e mi chiedevo dove mi avrebbe condotto il destino». Il lavoro fu presentato al decimo salone dei Vingt del 1893, l’ultimo realizzato da quella famosa associazione. Conclusa l’esposizione, i membri  e i loro amici si riunirono in banchetto prima di sciogliersi. «Era l’unico modo per liberarsi dalle forze frenanti che erano emerse fra loro», commentò van de Velde. Ma un altro evento contribuì alla trasformazione della professione del giovane artista: l’incontro con Maria Sèthe che presto sarebbe diventata sua moglie. A lei, più che ai suoi amici pittori, riusciva a spiegare il dibattito interiore sul suo essere artista controcorrente, a delineare le grandi figure di John Ruskin e William Morris, a parlare delle opere degli anarchici Bakunin, Kropotkin ed Elisée Reclus. Pur di propugnare «il ritorno della bellezza sulla terra e l’alba di un’era di giustizia sociale e dignità umana», si sentiva pronto a sopportare ogni sacrificio, ogni povertà, se la lotta lo avesse richiesto. Avvertì di avere una “Missione Artistica” da perseguire. Sulla rivista di Bruxelles L’Art Moderne esponeva le sue critiche in difesa delle arti e dei mestieri dall’ingiustificato disprezzo. Maria Sèthe, a Londra, dove soggiornò per vari mesi, raccolse per lui una consistente documentazione sulla rinascita dell’artigianato e sui risultati delle attività di Ruskin e Morris. «Ero particolarmente interessato a campioni di tessuti e carte da parati, cataloghi e riproduzioni di ogni genere di oggetti provenienti dal negozio di Liberty, dalla boutique di William Morris, e dalle varie mostre delle Arts and Crafts Guilds». Le letture di riviste d’arte nelle Biblioteca Nazionale di Bruxelles e di Anversa si fecero più frequenti. Col sostegno del presidente della sezione artistica del consiglio comunale di Anversa, de Winter, componente del consiglio dell’Accademia, nell’ottobre 1893 iniziò un corso per una ventina di studenti, sempre più interessati alle sue lezioni. Lui in verità le chiamava “conversazioni”. Spiegò loro le teorie di Ruskin e Morris e le creazioni di quest’ultimo nel campo degli arazzi, delle vetrate, della carta da parati e dei tessuti per tappezzeria. Ma con maggiore empatia rispetto ai maestri inglesi, nel corso delle sue lezioni, evidenziava come fosse «sbagliato incolpare la macchina per le bruttezze. Era giusto, piuttosto, denunciare la bassa avidità di denaro degli industriali, che grazie alla macchina sono stati messi in grado di moltiplicare gli orrori precedentemente fatti a mano e di inondare con questi orrori i mercati mondiali […] Al contrario: eravamo dell’opinione che la creazione dei modelli e la scelta dei materiali, nel processo di fabbricazione industriale, dovesse essere affidata agli artisti». Ma presto si rese conto che, per ottenere risultati fruttuosi, sarebbe stato necessario un lavoro pratico, che permettesse di creare nuove forme sulla base di nuovi motivi.

Carta da parati Dahlia, realizzata da Maria e Henry van de Velde intorno al 1894
e utilizzata nel vestibolo (© Nordenfjeldske Kunstindustrimuseum, Trondheim, NKIM Kat. 9297)

Chi non ha mai svolto un lavoro di ricerca non può comprendere, se non larvatamente, l’emozione che si prova a percorrere sentieri solo intimamente avvertiti e via via materializzati come per incanto. Van de Velde provò un’emozione del genere quando, avendo programmato qualcosa di speciale per la sua luna di miele, a maggio del 1894, riuscì ad avere una lettera di presentazione per la vedova di Théo van Gogh, che viveva nella sua casa di Bussum, nell’Olanda Settentrionale, e dove conservava tutti i quadri e i disegni di Vincent che Théo aveva raccolto. Gentilmente, senza molte parole, la signora fece accomodare la coppia di giovani sposi in soffitta. «Tutti i quadri – quasi tutta l’opera di Vincent – erano senza cornice con il lato dipinto del quadro contro le pareti. Cartelle spesse con centinaia di disegni giacevano sui tavoli […] Un’eccitazione indescrivibile e quasi timida ci ha colto, di trovarci, così all’improvviso e così direttamente, davanti alle opere di uno dei più grandi geni della storia della pittura». Van de Velde restituirà, nei lavori al tratto di quegli anni, l’inquietante incanto provato nell’aprire le cartelle dei disegni «ricoperti da un groviglio di linee di gesso o inchiostro cinese». Immagini che il giovane artista si porterà negli occhi, nella casa dei suoceri a Uccle, dove lavorerà ai suoi primi esperimenti di arti applicate, in due grandi stanze appositamente ammobiliate per lui e la moglie, che lo affiancava nella progettazione. Sulle pareti, la prima carta da parati disegnata insieme, col motivo Dahlia. L’architetto Victor Horta, su indicazione di un amico comune, lo andò a trovare alla ricerca di idee per la carta da parati, le tende e i corpi illuminanti da usare per la casa Tassel in Rue de Turin, desideroso di conoscere i prodotti che soddisfacevano le nuove concezioni decorative.

Henry van de Velde, Casa “Bloemenwerf”, Uccle, 1895/96

In quei giorni, van de Velde era attratto da una idea: si era presentata l’opportunità di acquistare un terreno di fronte a quello di sua suocera e già pensava di costruirci la propria abitazione. «Mi sono seduto al mio grande tavolo da lavoro nel nostro studio e ho iniziato a lavorare ai progetti per la casa Bloemenwerf». All’epoca, per i diplomati nelle Accademie di Belle Arti, le leggi non prevedevano studi tecnici specifici per indirizzarsi all’architettura. «A quel tempo non sapevo molto delle esigenze che mi imponeva la costruzione di una abitazione, e non avevo mai pensato a cosa occorresse per arredarla. Mi trovai improvvisamente di fronte a domande che richiedevano decisioni rapide». Il capomastro, al momento di consegnare i preventivi dei lavori, non mancò di sottolineare che la casa progettata da van de Velde sarebbe stata oggetto di severe critiche, che avrebbero potuto mettere a repentaglio la reputazione della sua stessa impresa di costruzione. Nonostante ciò, l’inesperienza tecnica del giovane, la volontà di rompere con l’imitazione degli stili storici e con le mode architettoniche del XIX secolo, furono la vera fortuna di questa villa, considerata già dal suo esordio quale vera e propria pietra miliare dell’Art Nouveau. «Io stesso ero pieno di una passione irresistibile. Non mi è bastato abbozzare la casa, ho disegnato tutto ciò che apparteneva agli arredi e alle decorazioni, tranne gli impianti idraulici, di riscaldamento e altri componenti industriali». L’ideale della Gesamtkunstwerk (l’opera d’arte totale) aveva talmente pervaso l’entusiasta van de Velde da fargli progettare ogni elemento architettonico e ogni pezzo d’arredo. Arrivò a realizzare persino stoviglie e posate, ma dovette aspettare che si trovassero i laboratori per fabbricarli. Gli amici divertiti volevano che disegnasse i gioielli per sua moglie e lui, per tutta risposta, ne ideò persino gli abiti.

Maria Sèthe in cucina (piano terra)
Henry van de Velde davanti al camino della sala da pranzo
Lo studio al primo piano

Nella primavera del 1896 la casa fu terminata e la giovane coppia vi si trasferì. La chiamarono Bloemenwerf (cortile fiorito) in ricordo di una delle belle e umili case di campagna con quel nome che avevano trovato durante la loro luna di miele sui canali tra Utrecht e Amsterdam. Quella casa divenne il paradigma dell’architettura Art Nouveau. È mirabile leggere le parole, espresse con indescrivibile candore, da chi ha ideato questo progetto “rivoluzionario”: «Non ero gravato né da preconcetti né da regole dotte. Ero ingenuo ai problemi e nessuna soluzione mi sembrava troppo audace o troppo sconosciuta. Né il livellamento dei terreni, né le planimetrie, le sezioni o i prospetti, mi hanno mai preoccupato. Quando ho deciso di realizzare i progetti per la nostra casa, non avevo idea dell’architettura. Ero totalmente autodidatta […] Oggi difficilmente sembra credibile che un edificio così semplice, modesto, sensato, come questa casa di campagna, possa suscitare tanto entusiasmo tra il pubblico e tanto stimolo tra gli architetti. Ma forse ciò che era strano era la semplicità, il pudore e la ragione, in un’epoca in cui l’architettura borghese e monumentale rappresentava esattamente il contrario e il nonsenso era diventato il criterio della bellezza. Il compiacimento e l’ostentazione avevano distorto la comprensione delle cose semplici della vita».

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Una passeggiata poetica sulle orme di Charles Baudelaire… E altro ancora

PARIS

Una passeggiata poetica sulle orme di Charles Baudelaire

Figura essenziale della letteratura francese, Charles Baudelaire ha trascorso gran parte della sua vita a Parigi, che è stata fonte di ispirazione e teatro delle sue scappatelle. Il 9 aprile 2021 si è celebrata la ricorrenza del 200° anniversario della sua nascita. Una ulteriore opportunità per seguire le orme dell’autore di “Fleurs du mal”.



ATLAS OBSCURA

La più grande collezione di libri di cucina ebraici del mondo

Roberta Saltzman lavorava presso la Dorot Jewish Division della New York Public Library. Ma la passione per i libri la portava anche nella propria sfera privata. Così ha usato i propri soldi per formare una preziosa collezione, donata alla sua biblioteca poco prima di morire. Nel corso degli anni, ha accumulato soprattutto libri di cucina ebraici. Oggi, con oltre 2.500 esemplari, questa collezione è probabilmente la più grande esistente e attira ricercatori da tutto il mondo.



THE NEW YORK TIMES

Ma c’è davvero un inizio? E porta davvero a un centro?

Nel 1977, Franco Maria Ricci stava lavorando con lo scrittore Jorge Luis Borges su di una serie di libri per FMR, la sua raffinata rivista, quando disse al maestro argentino che aveva in programma di costruire un labirinto. Ai nostri giorni il Labirinto della Masone costituisce uno straordinario parco culturale. Mentre percorreva i viottoli, tra le siepi verdi del più grande dedalo al mondo di bambù, lo scrittore Cosimo Bizzarri ha riflettuto sul concetto di perdersi, come formiche dentro una conchiglia, e ha scoperto che è un’esperienza umana comune.

Intorno al mondo” è il titolo che abbiamo pensato per caratterizzare alcune nuove pagine di Experiences. Riguarderanno temi sui quali vale riflettere e che possiamo trovare navigando i migliori siti web del globo, sulle riviste culturali e sui quotidiani internazionali. Saranno fonti autorevoli, selezionate, interessanti e originali. Tali fonti permetteranno di osservare aspetti differenti dall’usuale, oppure fonti che porteranno l’attenzione su questioni che già conoscevamo e che avevamo trascurato, argomenti che sentivamo comunque vicini alla nostra sensibilità. Tutto vero. Noi di Experiences, per onestà intellettuale, vorremmo però fare di più. Cercheremo anche di sorprenderci in prima persona (e al contempo sorprendere chi condivide le nostre idee), scoprendo realtà oggettive che non conoscevamo per niente e che faremo in modo di comprendere. Anche se potrebbero sconvolgere il nostro abituale modo di pensare.

Cosa può insegnarci l’intelligenza artificiale sul mito del genio umano?

THE ATLANTIC

Cosa può insegnarci l’intelligenza artificiale sul mito del genio umano?

La capacità creativa dell’intelligenza artificiale sta diventando sempre più un punto critico ed esistenziale man mano che gli umani imparano a convivere accanto a macchine intelligenti. La domanda di Elvia Wilk, autrice dell’articolo, è questa: se la letteratura non fosse più appannaggio esclusivo degli esseri umani, se l’intelligenza artificiale potesse scrivere un romanzo, potrebbero essere messe in discussione anche altre funzioni intrinseche al mondo delle lettere?



SAPIENS

Le storie mai raccontate
sulle donne dell’archeologia

È in uso recuperare tra i grandi nomi del passato, quelli che colpiscono di più l’immaginazione per rispolverarli e riproporli ad un nuovo pubblico. Le storie delle pioniere nella scienza archeologica sono state distorte, prediligendo le donne bianche. Il progetto Trowel Blazers mira a ristabilire la realtà dei fatti.



EATER

I marchi Fast Food stanno tornando ai loghi retrò

Chi ci ha fatto caso avrà notato che la grafica si affida a loghi ed immagini retrò. Tirano le corde del cuore ed evocano tempi lontani, in cui la vita era più rassicurante e semplice. Questo perché i clienti vogliono vivere le proprie nostalgie?

Intorno al mondo” è il titolo che abbiamo pensato per caratterizzare alcune nuove pagine di Experiences. Riguarderanno temi sui quali vale riflettere e che possiamo trovare navigando i migliori siti web del globo, sulle riviste culturali e sui quotidiani internazionali. Saranno fonti autorevoli, selezionate, interessanti e originali. Tali fonti permetteranno di osservare aspetti differenti dall’usuale, oppure fonti che porteranno l’attenzione su questioni che già conoscevamo e che avevamo trascurato, argomenti che sentivamo comunque vicini alla nostra sensibilità. Tutto vero. Noi di Experiences, per onestà intellettuale, vorremmo però fare di più. Cercheremo anche di sorprenderci in prima persona (e al contempo sorprendere chi condivide le nostre idee), scoprendo realtà oggettive che non conoscevamo per niente e che faremo in modo di comprendere. Anche se potrebbero sconvolgere il nostro abituale modo di pensare.

Dovremmo essere meno d’accordo con noi stessi… E altro ancora

Sì, è proprio vero che dovremmo essere meno supponenti e ascoltare di più l’opinione degli altri. Lo dimostrano gli esperimenti che riguardano la “saggezza collettiva”. Insieme siamo in grado di risolvere qualsiasi quesito. Anche decidere se e come usare la punteggiatura quando scriviamo una lettera. Scriviamo ancora lettere? Certo che no, perché è ora di pranzare e in tavola sono serviti degli squisiti bastoncini di pesce: così dice la pubblicità. Buona lettura.

IL POST

Dovremmo essere meno d’accordo con noi stessi

Diversi studi sull’intelligenza collettiva dicono che le decisioni migliori derivano dalla considerazione di opinioni eterogenee. Partiamo da un aneddoto e capiremo perché. Riguarda lo studioso di statistica vittoriano Francis Galton, all’epoca ottantacinquenne, il quale nell’autunno del 1906 partecipò a una fiera vicino a Plymouth, in Inghilterra.



LITERARY HUB

I segni di punteggiatura amati (e odiati) da famosi scrittori

“Dogmatizzare sulla punteggiatura è tanto sciocco quanto dogmatizzare su qualsiasi altra forma di comunicazione con il lettore”, ha scritto Henry James. “Tutte queste forme dipendono dal tipo di cosa che si sta facendo e dal tipo di effetto che si intende produrre.” Eppure non tutti gli scrittori hanno un giudizio univoco.



L’improbabile successo dei bastoncini di pesce

I bastoncini di pesce li ricordiamo da sempre sui banchi dei supermercati. Eppure, sono stati prodotti a cominciare dagli anni Cinquanta. Hanno infatti debuttato il 2 ottobre 1953, quando la General Foods li ha immessi sul mercato con l’etichetta Birds Eye. Queste curiosità impanate facevano parte di una serie di cibi “rettangolari”, che includevano bastoncini di pollo, bastoncini di prosciutto, bastoncini di vitello, bastoncini di melanzane e bastoncini di fagioli di Lima essiccati. Solo il bastoncino di pesce è sopravvissuto.

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Edoardo Ripari, Marco Veglia – Antologia di Giosue Carducci

Quest’antologia vuol fissare un’immagine del Carducci diversa dalla paludata icona, lontana dal mondo e dalla storia, di un poeta monumentale, celebrativo, ampolloso. L’architettura ibrida della raccolta è dovuta all’energia culturale di Edoardo Ripari, autore dei commenti ai testi, e si giustifica con lo scopo di di svelare un poeta in cui la latitudine dei registri tematici ed espressivi, l’inclinazione sperimentale, la dottrina storica e letteraria, l’impegno politico e sociale convivevano senza gerarchie, nel segno vivo di una composita personalità.

Se tre tavoli bastavano a Pascoli per governare, non senza vertigini e sofferenze, i territori della propria produzione letteraria, Carducci si aprì invece alla vita, alla natura, alle battaglie quotidiane compiute per il bene e per il progresso dell’umanità. Si capisce dunque la risonanza che egli ebbe sin da Levia Gravia, nel 1868. Chi d’Europa s’era nutrito, rifacendosi alle voci più alte dell’Occidente (da Omero a Victor Hugo) seppe infondere alla struttura colta, ardua, dall’alto senso memoriale ed erudito, delle proprie pagine in prosa e in verso una forza attrattiva ignota ad altri autori italiani. Dalle Rime di San Miniato sino a Rime e ritmi, Carducci espresse una visione dei fatti, degli uomini e delle loro delle idee, restituiti sempre al loro retaggio, in quelle che Dante chiamava “le vie della terra”. Bulgari, croati, serbi, polacchi, non solo tedeschi, inglesi, francesi e spagnoli vollero esprimere nella loro lingua la poesia di Carducci, che era approdato a quella “patria comune” cui né Foscolo né Manzoni, né Leopardi né Pascoli seppero giungere. In quest’antologia di Ripari (il sottoscritto aleggia nei cappelli introduttivi e nella biografia iniziale), coerentemente con la natura italiana e globale della “Dante”, si trovano anche alcune traduzioni. Il Nobel di Carducci, tra l’altro, non si spiega con i retroscena dell’Accademia di Svezia, ma con la storia della fortuna europea del poeta. Componimenti giovanili di inattaccabile perfezione (Candidi soli e riso di tramonti, Passa la nave mia) introducono, sul piano degli affetti (Pianto antico, Sogno d’estate) all’apertura possente di questi ultimi alle vicende italiane (Dopo Aspromonte e poi Meminisse horret), nel segno di quella “bandiera garibaldina” (Per le nozze di mia figlia) esibita e testimoniata dalla poesia carducciana non meno che dall’Eroe dei due mondi, negli ideali politici (A Satana) come pure nella dedizione a un orizzonte spirituale (Giuseppe Mazzini) che aveva segnato i primi decenni dell’unità d’Italia.

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IMMAGINE DI APERTURA – copertina del libro 



Jane Austen – Emma

Orfana di madre, Emma vive con l’anziano padre, un uomo egoista e pedante; lei lo ama teneramente e non si sente di abbandonarlo per un eventuale matrimonio. Emma si affeziona alla giovane e ingenua Harriet e la prende sotto la sua protezione. Alla fine si sposerà con un personaggio un po’ fuori dal coro, un gentiluomo amico di famiglia che è sincero, schietto, affidabile, ha presenza , gesto, stile e la sa capire. Ma Emma scopre di amarlo solo quando Harriet crede di esserne corteggiata. Dovrà liberarsi della sua arroganza e della sua fantasia e compiere un percorso di conoscenza di sé.

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IMMAGINE DI APERTURA – copertina del libro e versione colorata di un ritratto di Jane Austen (dal disegno originale di Cassandra Austen da cui è stata tratta l’incisione Memoir del 1870) Fonte: commons.wikimedia.org