Luca Molinari – Le case che saremo. Abitare dopo il lockdown

Con l’emergenza Covid-19 la casa-mondo è diventata l’esperienza abitativa di miliardi di persone, prendendo il sopravvento sullo spazio pubblico. Che sfide inaugura, per l’architettura e l’urbanistica, questo brusco ritorno al passato? Come rilanciare nuovi modelli futuri? Luca Molinari risponde indicando le soglie che oggi più che mai abitiamo con nostalgia e coraggio: le finestre, i balconi, le porte che fino ad ora sono rimaste la scena fissa del nostro sguardo sul mondo esterno e possono essere lo spazio di partenza per un nuovo progetto urbano ed esistenziale.

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IMMAGINE DI APERTURA – di Gerd Altmann da Pixabay

Gustav Klimt – “Non puoi piacere a tutti con la tua azione e la tua arte”

di Sergio Bertolami

15 – Le polemiche sulle opere di Klimt.

«Come il comitato direttivo non può ignorare, un gruppo di artisti figurativi sta cercando da anni, all’interno dell’Associazione, di trovare riconoscimenti per le proprie concezioni artistiche. Queste concezioni culminano nell’affermazione della necessità di stabilire un rapporto più vivace tra la vita artistica viennese e l’evoluzione dell’arte all’estero e di organizzare il sistema espositivo su una base puramente artistica, libera da caratteristiche di mercato, risvegliando così in circoli più ampi concezioni artistiche più chiare e moderne e, in ultima analisi, stimolando i circoli ufficiali a una maggiore cura dell’arte». Con queste parole Gustav Klimt, il protagonista indiscusso della scena artistica viennese tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, si rivolgeva alla Casa degli artisti (Künstlerhausgenossenschaft) per annunciare ufficialmente la volontà di creare un organismo maggiormente rappresentativo delle nuove istanze. Nasceva la Wiener Sezession e i concetti espressi nella lettera non mancarono di essere ripresi nello Statuto. Gustav Klimt, al tempo trentacinquenne, fu nominato presidente e si avviò a diventare l’astro dell’arte nuova. Le sue affermazioni artistiche, tuttavia, non combaciavano con gli eventi della vita personale. Era appena uscito da una profonda crisi esistenziale che lo aveva portato ad anni di scarsa attività. Causa principale un duplice lutto in famiglia nel giro di qualche mese. Suo padre era morto a luglio del 1892, ed ecco che a dicembre veniva a mancare anche Ernst, uno dei suoi due fratelli minori. Insieme a Ernst e a Franz Matsch, compagno di studi, Gustav Klimt aveva dato vita a un atelier, con sede a Vienna, per la decorazione di pareti e soffitti in edifici privati, come quelli nascenti sulla Ringstrasse, e in edifici pubblici, specialmente teatri. Con il nome di Künstler-Compagnie (la Compagnia degli Artisti) i tre soci operarono per quasi dodici anni, a partire dal 1881. Insieme realizzarono, dal 1886 al 1888, gli incantevoli dipinti per il soffitto della scalinata del Burgtheater. Raffiguravano l’antico teatro di Taormina, il Globe Theatre di Londra e la scena finale del dramma “Romeo e Giulietta” di Shakespeare. Nel 1890 la fama riscossa valse ai tre giovani artisti la Croce d’oro al merito (Goldene Verdienstkreuz), un riconoscimento civile istituito dall’imperatore Francesco Giuseppe I. Per il suo talento, Gustav Klimt era già considerato come il continuatore del grande Hans Makart, che aveva contrassegnato la bella époque come originale e riconosciuto maestro. La morte di Ernst provocò, invece, una grave crisi nella Künstler-Compagnie. Gustav fu colto da una forte depressione, che bloccò in gran parte la sua creatività, al contrario di Franz Matsch, che raccolse i frutti di un successo finanziariamente vantaggioso, tanto da essere elevato a pittore di corte. La crisi di Klimt, però, interessava anche, e soprattutto, il piano espressivo, perché sentiva di dover prendere strade diverse dal classicismo di maniera che i lavori di studio gli permettevano.

Gustav Klimt con Ernst Klimt e Franz Matsch, Il Teatro di Taormina,
dipinto sul soffitto del Burgtheater di Vienna, 1886-1888

Ora, coinvolto nella Secessione viennese, tornava a considerare un nuovo senso della vita. Non poteva di certo immaginare che nel giro di poco tempo le considerazioni scandalizzate intorno ai suoi dipinti di sconcertante realismo lo avrebbero spinto, una volta di più, a cambiare rotta. A documentare le polemiche su Klimt fu il drammaturgo e critico Hermann Bahr. Il suo libro Contro Klimt (Gegen Klimt, Vienna 1903) a detta dell’autore, avrebbe dovuto essere la testimonianza di «un marchio d’infamia da consegnare ai posteri, per far loro sapere di che cosa si fosse capaci in Austria intorno al Millenovecento». Klimt e Bahr, legati da una forte amicizia, condivisero la causa della modernizzazione dell’arte a Vienna, spingendo verso una precisa coscienza di quanto si stesse producendo in altre nazioni europee. «Quando a Parigi, allora, parlavo di Vienna, – ricordava Bahr – la risposta era sempre la stessa: “Là-bas? C’est en Roumanie, n’est-ce pas?” (Vienna? È là, in Romania, o no?); insomma, eravamo una provincia asiatica». Da allora, con la Secessione le cose erano cambiate in meglio.

L’articolo di Hermann Bahr, Secession, sul primo numero di Ver Sacrum (Vienna, gennaio 1898)

Klimt aveva conosciuto Bahr a proposito dell’uscita della rivista ufficiale della Secessione: «Stimatissimo signore! – scriveva il pittore al prestigioso letterato – In nome dell’Unione degli artisti figurativi d’Austria sono qui a ricordarLe la gentilissima promessa, che a suo tempo fece ai nostri rappresentanti, e cioè di scrivere un articolo per Ver Sacrum, l’organo della nostra Unione, che è in procinto di iniziare le sue pubblicazioni; considerando inoltre che il primo numero dovrà essere il più raffinato possibile e che l’Unione considera di vitale importanza inserire l’articolo promesso proprio nel primo numero, mi permetto di chiederLe di comporre questo articolo. Alcuni delegati dell’Unione si prenderanno la libertà di venire a ritirarlo tra qualche giorno». Bahr inviò un suo intervento intitolato “Secessione”, che immancabilmente apparve nelle pagine 8-13 dell’elegante numero iniziale.

Gustav Klimt, Nuda Veritas, 1899,
olio su tela (252×56,2 cm)
Österreichisches Theatermuseum, Vienna

L’opera di cui Hermann Bahr s’innamorò fu, in modo particolare, Nuda veritas (Wahrheit) che Klimt dipinse nel 1898. Una donna dai capelli rossi completamente nuda tiene in mano lo specchio della verità, mentre sopra di lei una citazione di Friedrich Schiller avverte: «Non puoi piacere a tutti con la tua azione e la tua arte. Rendi giustizia a pochi. Accontentare molti è sbagliato». È una figura longilinea e ieratica, vicina all’estetica simbolista e in sintonia perfetta con la donna fatale e peccaminosa di Franz von Stuck. Fra i pochi a sostenere l’opera fu Hermann Bahr, che l’acquistò. Al confine tra Ober-St. Veits zum Lainzer Tiergarten, Bahr si stava facendo costruire da Joseph Maria Olbrich una villa, per sé e sua moglie, simile a una fattoria della Germania meridionale. Pregò, quindi, Olbrich di fare della Nuda veritas il punto focale del suo studio. Nell’ambiente volle soltanto questo quadro, assieme ad altri tre disegni, sempre di Klimt, e a una fotografia dell’artista.

La villa di Hermann Bahr, costruita su progetto di Joseph Maria Olbrich

Nel più tranquillo isolamento, la casa divenne un luogo d’incontro per la Vienna artistica negli anni fra il 1900 e il 1912. I padroni di casa accoglievano ospiti della levatura di Gustav Klimt, Kolo Moser, Otto Wagner, Arthur Schnitzler, Hugo von Hofmannsthal, Richard Beer-Hofmann, e dopo il secondo matrimonio di Bahr nel 1909 – con la cantante d’opera di corte e interprete di Richard Wagner Anna von Mildenburg – Richard Strauss e Gustav Mahler. Nel 1918 Bahr annotò che, nei giorni in cui la stanchezza degli anni si faceva più sentire, per rinfrancarsi gli era sufficiente contemplare quelle opere di Klimt. A lui era riconoscente, perché proprio alla sua sensibilità doveva «le ore più sublimi che un artista mi abbia mai donato in vita mia».

Sistemazione esterna della villa Bahr, su progetto di Joseph Maria Olbrich

Le controversie nei confronti di Klimt, alle quali accennavo, iniziarono a proposito dei dipinti commissionati dal Ministero della Cultura e dell’Istruzione (Ministerium für Kultur und Unterricht), al quale spettava delineare la politica austriaca in ambito religioso, didattico e culturale. Il contratto fu stipulato nel 1898. Klimt e Franz Matsch – fino a cinque anni prima soci dello stesso atelier – avrebbero dovuto decorare il ​​soffitto dell’Aula magna dell’Università di Vienna, nell’edificio di recente costruzione. Era stato scelto il tema del progetto, incentrato sulla Vittoria della luce contro le tenebre. Delle quattro facoltà, Klimt ebbe mandato di rappresentare Filosofia, Medicina e Giurisprudenza. Non Teologia, affidata soltanto a Matsch, insieme alla scena centrale riferita al tema, tutt’oggi presente all’Università di Vienna. Diversamente accadde per i lavori di Klimt. Il primo dei pannelli da ancorare a soffitto, riguardante La Filosofia, s’ispirava alle Porte dell’Inferno di Auguste Rodin. Nonostante fosse stato premiato all’Esposizione Universale di Parigi del 1900 – ottenendo il prestigioso “Grand Prix” come migliore opera straniera – quando fu proposto alla settima mostra della Secessione viennese, sulla stampa vicina al governo furono sollevate aspre polemiche. Erano partite all’interno della stessa Università, provocate da ottantasette docenti, guidati dallo stesso rettore Wilhelm Neumann, i quali firmarono una petizione al ministro dell’Istruzione per chiedere di respingere il dipinto di Klimt. Parte dei firmatari non conosceva neppure l’opera, ma condivideva le aspettative della committenza che avrebbe voluto una rappresentazione solenne ed edificante.

Da principio, Bahr non si espresse, d’alta parte l’anno precedente aveva lasciato Die Zeit, che aveva fondato nel 1894, e quindi non aveva neppure a disposizione le colonne di un giornale di rilievo per intervenire. Quando, però, le discussioni si accrebbero e le critiche si esacerbarono, Bahr si schierò subito a fianco dell’amico. Klimt il 15 marzo dell’anno successivo consegnò anche la seconda delle tre allegorie in contratto, La Medicina, che provocò persino discussioni in parlamento e le dimissioni del ministro in carica. Si gridava all’oltraggio delle istituzioni. Questo clamore inconsulto minacciava i progressi ottenuti finora con la Secessione. In una conferenza alla Bösendorfersaal, Bahr manifestò la sua preoccupazione, non certo per Klimt: «Il consenso non può dargli nulla, il dileggio non può togliergli nulla […] No, qui non si tratta di lui, ma di noi. Non è lui a essere in pericolo, ma noi. A lui non può capitare nulla, siamo noi che rischiamo di diventare lo zimbello di tutta l’Europa […] Nell’ambito delle arti decorative si è addirittura creato uno stile particolare ormai chiamato semplicemente austriaco. Se è così, lo dobbiamo a uno sparuto gruppo di uomini, dodici o al massimo quindici in tutto. Per nessuno di loro restare qui è una necessità; nessuno è legato all’Austria da un qualche interesse materiale, ciascuno di loro può decidere di andarsene anche domani e il giovane arciduca d’Assia, che ha la bell’ambizione di fare della sua piccola Darmstadt una moderna Atene, non potrebbe esserne più contento». L’avvocatura di Stato chiese il sequestro della rivista Ver Sacrum sulla quale comparivano i disegni preparatori per La Medicina, e gli esagitati chiedevano persino la distruzione degli originali. Ancora più scandalo provocò l’ultimo pannello, La Giurisprudenza, realizzato fra il 1903 e il 1907. Una ventina di deputati chiesero espressamente al ministro dell’Istruzione di rimuovere i tre pannelli. Le polemiche non ammorbidirono affatto le posizioni di Klimt, che per tutta risposta rese l’opera ancora più aggressiva rispetto agli schizzi preparatori. Inoltre i contrasti finirono anche per logorare i rapporti fra i due stessi ex soci. Il 24 marzo 1905, in una seduta della Commissione artistica dell’Università, Franz Matsch prese le distanze da Klimt. Fra i due fronti avversi, a questo punto, un accordo non sembrava più possibile. Quando la Commissione decise, infatti, che le tele dipinte per l’aula magna fossero collocate nella Galleria di Stato per l’Arte Moderna (Moderne Staatsgalerie) Klimt rifiutò, offeso dal ripiego suggerito. Al punto in cui si era giunti, forte di quella «mirabile sicurezza dei grandi spiriti», che l’amico Bahr gli attribuiva, il pittore prese una convinta decisione: «Attraverso ripetute allusioni – dichiarò – il ministero mi ha fatto capire che sono diventato motivo d’imbarazzo. Ma per un artista, nel senso più elevato del termine, non c’è niente di più penoso di creare delle opere, e per questo ricevere un compenso, da un committente che non gli offra col cuore e con la ragione il suo pieno appoggio». Non sorprende quindi che il 3 aprile Klimt si sia ritirato dall’incarico, mentre Matsch cercò di terminare i lavori iniziati, ma ci riuscì solo nel caso del tema centrale. Klimt restituì la somma che gli era stata anticipata e pretese di avere indietro i dipinti eseguiti. Questa fu l’ultima commessa pubblica accettata dall’artista, che da questo momento in poi lavorò solo per i privati. Le tre allegorie entrarono a far parte della collezione di August Lederer. Nel 1945, le tele confiscate dai nazisti furono trasferite nel castello di Immendorf, con altre opere d’arte e mobili di pregio. L’ultimo giorno di guerra (8 maggio 1945) sono andate distrutte da un incendio appiccato dalle truppe tedesche in ritirata. Sono scomparsi così dei capolavori destinati a influenzare come pochi l’arte moderna.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Autori Vari – Racconti e immagini. Memoria e testimonianza del vissuto al tempo del Covid-19

Brevi storie di emozioni e sentimenti vissuti al tempo del Covid-19, durante il lockdown della primavera 2020, che mescolano ciò che il tempo e lo spazio interiori dell’isolamento portano con sé: timori e incertezze, sogni e speranze, gli affetti come arma potente di resilienza, momenti, scene di vita quotidiana, incontri speciali, riflessioni, consuetudini cambiate e voglia di normalità. Sono le 187 storie, tra racconti brevi e pensieri-riflessioni, vincitrici e non del contest di scrittura #tiraccontodacasa promosso dall’Associazione Civita sul tema del “restare a casa” allo scopo di “creare memoria” della situazione eccezionale vissuta in quel periodo. Ad accompagnare la narrazione le fotografie vincitrici e quelle giunte alle fasi finali del contest #contestmostriamoci indetto da Civita Mostre e Musei S.p.A. e dedicato al medesimo tema. Ciascuno di noi è circondato di storie: le storie che vive, quelle che ascolta e quelle che racconta tutti i giorni. Ci sono poi le storie che leggiamo, e quelle che vorremmo scrivere più che mai quando siamo obbligati ad abitare lo spazio dell’interno: l’interno delle nostre case, ma anche di noi stessi. Riabitare l’interno per costruire l’esterno, trasformare l’ordinario in (stra)ordinario: è questa la sfida a cui siamo stati chiamati a rispondere, accolta con grande creatività e generosità di condivisione anche dagli autori di queste storie.

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IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Free-Photos da Pixabay 

I Podcast del prof. Luigi Gaudio – Guido Gozzano: “La Signorina Felicita‪”‬

Guido Gozzano: introduzione, lettura e commento della poesia “La Signorina Felicita‪”‬

IL PDF DELL’OPERA
Metro: sestine di endecasillabi che rimano secondo lo schema ABBAAB

Luigi Gaudio è un Dirigente Scolastico dell’Istituto Comprensivo di Belgioioso (PV) e ha insegnato Lettere presso il Liceo Vico di Corsico (MI). Se però cercate di lui sul web troverete anche che è un professore molto seguito dai suoi studenti, fra le mura scolastiche e sui media che le tecnologie informatiche mettono a disposizione. Così potrete scoprire che Luigi Gaudio è anche l’apprezzato webmaster di vari siti, fra i quali troverete www.atuttascuola.it ricchissimo di pagine, per la condivisione in rete di articoli, tesine e lezioni. Non basta, perché ha aperto un canale su YouTube contenente video didattici seguito da più di venticinquemila iscritti. Questo è l’indirizzo: www.youtube.com/luigigaudio. Troverete anche centinaia di podcast istruttivi su svariati argomenti di letteratura, storia, geografia, musica e tanto altro ancora, disponibili su Spreaker, Spotify, iTunes, e vari aggregatori di audio ed Mp3. Noi vorremmo seguirlo, pescando qua e là alcune delle oltre 220 lezioni di letteratura del Novecento, sia italiana che straniera. Siamo sicuri che molti dei lettori di Experiences rimarranno ad ascoltare con grande interesse il professore Gaudio, per conoscere finalmente autori spesso citati, ma sicuramente non tutti letti.

IMMAGINE DI APERTURA di chiplanay da Pixabay 

Con lo “Stile Secessione” in tre mosse Vienna fa scacco all’Europa

di Sergio Bertolami

14 – L’arte nuova della Secessione viennese.

La Wiener Secession fu istituita il 3 aprile del 1897. Il nome di Secessione viennese sintetizza quello ufficiale di Vereinigung bildender Künstler Österreichs (V. b. K. Ö.), ovvero Associazione degli artisti figurativi austriaci. La rivoluzione culturale della Secessione varcò, dunque, i confini tedeschi e si estese in Austria. In quest’epoca a Vienna, capitale dell’impero austro-ungarico, era presente un’impressionante concentrazione di geni. Stavano già dando vita al cambiamento un medico come Sigmund Freud, fondatore della psicoanalisi, scrittori come Robert Musil o Karl Kraus, un filosofo della scienza come Ernst Mach, un compositore come Gustav Mahler, che bene sintetizzava la varietà di popoli ed etnie dell’Impero, quando di sé diceva «Sono un boemo tra gli austriaci, un austriaco tra i tedeschi e un ebreo tra i popoli di tutto il mondo». Pare scontato ripetere che anche qui artisti e architetti – come Gustav Klimt, Kolomon Moser, Otto Wagner, Josef Hoffman, Joseph Maria Olbrich – manifestarono il loro rifiuto contro l’accademismo, il gusto storicista, il naturalismo borghese. Si potrebbe aggiungere che i rapporti tra i giovani artisti e le pubbliche istituzioni s’inasprirono quando Eugen Felix, difensore accanito del classicismo, fu eletto presidente della Künstlerhaus (la Casa degli artisti). Fu allora che Gustav Klimt e un gruppo di altri progressisti lasciarono la Genossenschaft der bildenden Künstler Wiens, la Cooperativa di artisti visivi interna alla Künstlerhaus. Si mossero, come una marea, per riunire intorno a loro simbolisti, modernisti, naturalisti, stilisti. L’affermato maestro Rudolf Alt, ottantacinquenne, fu eletto presidente onorario e Gustav Klimt presidente operativo. Anche molti accademici componevano la schiera: Myslbek, Hellmer, Julian Falat, Hynais. Tra i giovani si distinguevano Engelhart e Moll in particolare, Bernatzik, Bacher, Krämer, Knüpfer, Mayreder, Ottenfeld, Stöhr, Jettel, Delug e tanti altri. Non solo viennesi, perché fra gli oltre quaranta fondatori troviamo i componenti della Nuova Monaco e della Nuova Berlino: Stuck, Marr, Herterich, Dettmann, Kuehl, Dill. E non solo tedeschi, perché fra i “membri corrispondenti stranieri”, troviamo il belga Fernand Khnopff, l’olandese Jan Toorop, lo svizzero Ferdinand Hodler, il tedesco Max Klinger.

Gustav Klimt a 25 anni, in una foto del 1887

Dire che l’interesse centrale della Secessione viennese puntava alla Gesamtkunstwerk può far capire quale fosse l’elemento artistico attraverso cui promuovere il rinnovamento. Gesamtkunstwerk, cioè l’opera d’arte totale, era un termine non del tutto nuovo per l’epoca. Lo aveva usato nel 1827 il filosofo K. F. E. Trahndorff e poi ancora lo aveva inserito nel suo saggio Arte e rivoluzione, del 1849, anche Richard Wagner. Ora, tuttavia, la fusione idealizzata delle varie arti (pittura+scultura+architettura+musica+letteratura) sembrava la via assoluta. Era la risposta, attraverso l’esperienza estetica, alle mille sfaccettature sociali, era il sogno di una unitarietà più teorica che reale. Ma non tutti i partecipanti alla Secessione condivisero la medesima utopia, cosicché la contrapposizione tra gli stilisten (sostenitori dell’unione tra arte e arti applicate) e i naturalisten (solo pittori) divenne presto la causa di una disputa che giunse al culmine nel 1905, quando il gruppo di Klimt lascerà la Secessione, che tuttavia continuerà a operare, ma senza più la giusta spinta innovativa. La storia di queste contese su questioni artistiche, sollevate giorno dopo giorno – attacchi e difese, trattative diplomatiche, accordi e ancora dissensi – mette in luce che l’arte non è fatta (come qualcuno sembra credere) solamente di eventi sociali e recensioni aspre o idilliache. Chi racconta questa storia dal vivo, e in modo dettagliato, è Ludwig Hevesi, critico d’arte ungherese ed anche lui tra i fondatori del movimento. Raccolse in un libro i saggi scritti durante gli anni di lotta e li espose in un ordine così selettivo e cronologico da farne una cronaca completa della Secessione di Vienna. Il libro s’intitola Acht jahre Sezession – Otto anni di Secessione (Vienna, 1906). È bene soffermarsi almeno sui capitoli iniziali, che restituiscono distintamente come l’organizzazione rigorosa del movimento sia stata capace di capovolgere le concezioni stantie che impregnavano la cultura austriaca del tempo, per avviare una innovativa visione dell’arte nell’intera Europa. Hevesi su Altkunst – Neukunst (Vecchia arte – nuova arte, Vienna 1894) aveva già prefigurato e definito per la prima volta il movimento con il termine Neukunst. Termine che presto s’imporrà nei paesi di lingua francese come Art nouveau.

Ludwig Hevesi, Altkunst – Neukunst (Vecchia arte – nuova arte, Vienna 1894)

Scriveva il critico d’arte a favore dei secessionisti: «Era un gruppo di giovani artisti dal sangue forte e moderno, le cui energie hanno portato a far fluire questo movimento, il più radicale di Vienna […] Avrebbe potuto trasformarsi in qualcosa come l’Associazione degli undici a Berlino, con le sue mostre nella galleria Schulte, o una cosiddetta Secessione come a Monaco, Parigi e altre città d’arte». Mettendo in risalto il vero spirito del gruppo, aggiungeva: «Questi coraggiosi giovani viennesi sono allo stesso tempo dei combattenti equilibrati. Non vogliono essere dei frondeurs (ribelli), né Wassergeusen (pirati a fianco dei poveri), e non vogliono intraprendere una guerriglia contro l’Accademia e la Casa degli artisti. Non sono stati solleticati dalla voglia d’ingannare il “vecchio”. Non vogliono infastidire nessuno, nemmeno strimpellare sé stessi, vogliono soltanto provare a portare la decrepita arte austriaca (e non solo viennese) a livello internazionale». Hevesi faceva emergere a chiare lettere l’insoddisfazione dei giovani verso il conservatorismo, non verso l’arte vera, e la loro fermezza nell’attuare le proprie aspirazioni. «Il V. b. K. Ö. è, invece, una società che lotta, perché vuole combattere la confusione nell’arte. Ma non lo farà attraverso polemiche spettacolari, ma attraverso il perseguimento di scopi puramente artistici, educando gli occhi delle masse a comprendere il vivace sviluppo progressivo dell’arte».

Ludwig Hevesi, Acht jahre Sezession – Otto anni di Secessione (Vienna, 1906)

Sostenuto da un numero notevole di patrocinatori, morali e finanziari, il movimento prese avvio e in sole tre mosse fece scacco all’Europa, imponendo il Sezessionstil (lo Stile Secessione) in Austria e non solo. Da ora in poi tutti (ma proprio tutti) lo riconosceranno e ciascuno gli attribuirà un proprio nome: Art nouveau in Francia e Belgio, Nieuwe Kunst nei Paesi Bassi, Jugendstil in Germania, Modern style o Studio Style in Gran Bretagna, Modern in Russia, Arte jóven o più spesso Modernismo in Spagna, Style sapin in Svizzera, Secesja in Polonia, Serbia e Croazia, Liberty in Italia. Ma i nomi non finiscono qui, perché sarà possibile imbattersi in appellativi attinenti ai caratteri formali come Wellen-stil (stile onda) Lilienstil (stile giglio), Schnörkestil (stile spirale) Style coup de fouet (stile colpo di frusta) Paling styl (stile anguilla).

La scritta all’ingresso del Palazzo della Secessione dice: “A ogni tempo la sua arte, all’arte la sua libertà

Quali furono le tre mosse portate con perizia sulla scacchiera dell’arte? In ordine cronologico: prima mossa, edificare una sede per le esposizioni che avrebbe accolto a Vienna protagonisti e movimenti artistici europei; seconda mossa, pubblicare una rivista rivoluzionaria nella grafica e nei contenuti; terza mossa, allestire la prima mostra ufficiale del gruppo come una rassegna internazionale.

Il Palazzo della Secessione a Vienna.

Il Palazzo della Secessione fu il manifesto architettonico della Secessione viennese. La rivista Ver Sacrum fu il manifesto scritto. La mostra fu l’abbrivo del rinnovamento delle arti figurative. Al centro c’era sempre Gustav Klimt. È lui che schizzò il volume di un cubo bianchissimo, partendo dal quale il giovane architetto Joseph Maria Olbrich avrebbe realizzato il progetto del Wiener Lokalnachricht (Messaggio viennese). Un’architettura che esprimeva di per sé stessa il messaggio della nuova arte. «È una parola magica che spezzerà le catene e animerà i morti. Si prospetta un’espansione della città nel campo delle belle arti; Vienna città dell’arte, questa immensa città dovrebbe finalmente diventare una Grande Vienna, una vera Nuova Vienna […] Il focolare, dalla fiamma appena accesa, ovviamente dovrà essere, come a Monaco, un edificio espositivo separato. Una nuova casa d’artista, libera. Da lì si potrà conquistare l’Accademia stessa, sempre come a Monaco, e lì ci si potrà finalmente riunire in una galleria d’arte moderna, un “Musée du Luxembourg” viennese». Sull’area di oltre 1200 mq, approvata dal Comune, la Secessione realizzò un palazzo d’arte di circa 650 mq. Progettato su di un maestoso piano rialzato, con uno spettacolare lucernario a cupola, simile alla chioma di un albero, un perimetro murario senza finestre, in modo tale che le pareti esterne, ricoperte di affreschi e decorazioni, facessero guadagnare a Vienna un nuovo ornamento architettonico. Il motto posto sulla trabeazione dell’ingresso, che affermava “A ogni tempo la sua arte, all’arte la sua libertà” (Der Zeit ihre Kunst / der Kunst ihre Freiheit), fu suggerito proprio da Ludwig Hevesi.

Julius Victor Berger, Giovane donna al mercato Nasch, 1901. Sullo sfondo il Palazzo della Secessione

La rivista Ver Sacrum. Sulla copertina nel primo numero venne riproposta la figura dell’albero. La traduzione dal latino di Ver Sacrum è Primavera sacra e fa riferimento a un antichissimo rito, che nell’antica Roma si faceva in onore degli Dei. Consacrava a loro tutti i nati della nuova primavera: vegetali, animali e persino esseri umani. I neonati non erano sacrificati, ma solo promessi alla divinità. Una volta divenuti adulti, erano banditi dai confini della comunità, con lo scopo di fondare nuove città in nuove terre. Il nome scelto dalla Secessione per la testata della rivista, faceva probabilmente riferimento all’omonima poesia di Ludwig Uhland, nella quale si decantava la “sorgente della consacrazione” romana e si concludeva con la strofa: «Hai sentito ciò che piace a Dio. Vai lì, preparati, obbedisci in silenzio / Sei il seme di un nuovo mondo, questa è la consacrazione che Lui vuole».

Nel dare uno sguardo al primo numero della nuova rivista d’arte, Ludwig Hevesi commentava: «Alfred Roller, che ha ideato una specie di busta, ha fatto un ottimo lavoro per i suoi compagni. Anche la sua immagine simbolica in copertina è piuttosto impressionante: questo forte albero da frutto, le cui radici spezzano le doghe del vaso e lottano tra di loro attraverso la terra creata dal buon Dio». Hevesi sottolineava come l’artista grafico avesse realizzato il proprio lavoro editoriale con una concezione all’avanguardia del layout. Lo si capiva già dal formato quadrato, dalla carta telata della copertina, che la faceva assomigliare proprio ad una busta da lettere con la quale indirizzare un “messaggio”. Lo si capiva dal tono ocra chiaro del fondo, dalla stessa stampa rossa e nera, decisa e vitale, e dai caratteri utilizzati. E all’interno, lo si capiva dai pieni e vuoti di ogni singola pagina che, riproponendo i cosiddetti “blocchi giapponesi”, tanto influenzeranno lo stile bidimensionale della Secessione. Nel panorama della stampa dell’epoca il design di Ver Sacrum divenne un eccellente modello di arte grafica da riprendere e riproporre. Sfogliando le pagine, nell’articolo di presentazione si commentavano le motivazioni dei contenuti. “Perché pubblichiamo una rivista”. Risposta lineare: «Questa rivista dovrebbe […] essere un appello al senso dell’arte delle persone, per stimolare, promuovere e diffondere la vita e l’indipendenza artistica». L’arte doveva essere, dunque, una parte indispensabile della vita; per questo motivo la rivista stessa era concepita come un’opera d’arte totale, attraverso l’interazione fra letteratura, arti visive e musica, i cui temi erano toccati da articoli teorici o esplicativi, corredati da opere d’arte, grafiche originali e decorazioni, disegnate dai membri della Secessione.

Planimetria della Prima mostra della Secessione viennese nei locali della Gartenbaugesellschaft

La prima mostra della Secessione. È su Ver Sacrum che si poterono leggere le idee guida. Non fu certo l’ennesima esposizione che raccoglieva le mediocrità di massa, ma «un’esibizione d’élite di opere d’arte specificamente moderne». Aveva richiesto oltre un anno d’intensa programmazione. Gli organizzatori, da subito, si erano posti l’obiettivo di portare a Vienna per la mostra d’apertura la produzione migliore del panorama artistico internazionale. Il giovane pittore Josef Engelhart rimandò largamente i propri impegni di lavoro per apprestare con grande energia l’evento. Viaggiò in mezza Europa – Inghilterra, Francia, Belgio, Germania – sviluppando contatti diretti con i maggiori artisti e galleristi, così da convincerli ad inviare le proprie opere alla mostra in allestimento.

Per l’occasione Klimt disegnò la copertina del catalogo e il manifesto, ma dovette fare un passo indietro e censurare il disegno proposto. Come molte correnti del tempo, anche la Wiener Secession avvertiva l’ascendente del Simbolismo. Il manifesto raffigurava Teseo che uccide il Minotauro, sotto lo sguardo tutelare della dea Atena. Gli Dei reclamavano che la “consacrata primavera” degli artisti mettesse fine al tradizionalismo. Tuttavia, la nudità esplicita dell’eroe mitologico venne giudicata oscena e Klimt fu costretto a censurarla, ponendo in primo piano una serie di tronchi e rami stilizzati. Un sacrificio, tutto sommato compensato dal trionfo della manifestazione, che, nel giorno inaugurale, poté contare sul sostegno morale rappresentato dalla visita dell’imperatore Francesco Giuseppe e del sindaco Karl Lueger. La rassegna fu aperta a Vienna il 26 marzo 1898 nei locali della Gartenbaugesellschaft, la Società orticola. Il prestigioso palazzo della Secessione non era ancora stato iniziato: superate le pratiche di rito, la costruzione fu avviata dopo appena un mese, il 28 aprile. La prima edizione si chiuse a giugno con risultati più che soddisfacenti. L’esposizione fu visitata da 57.000 persone, furono vendute ben 218 opere e la stampa si mostrò, nella maggior parte dei casi, favorevole. A partire dalla seconda edizione, aperta solo cinque mesi dopo, il 12 novembre, le manifestazioni saranno ospitate nella sede ufficiale appena ultimata. Riguardo all’esposizione iniziale, Hevesi annotava entusiasta: «Non c’è mai stata una mostra come questa a Vienna. Una rassegna che esibisce effettivamente la vita artistica di oggi, il grande sviluppo internazionale dell’arte moderna con una lunga serie dei suoi capolavori più particolari. Non prestiti dei musei, per metà antiquati , ma frutti del presente, raccolti ogni anno nelle città d’arte occidentali, mentre ne leggiamo sui giornali».

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Autori Vari – Ai tempi del virus. Quando la nostra vita non fu più quella

 

Trentasei firme – giornalisti, ma non solo – per provare a raccontare il Covid-19 oltre le cifre e le proiezioni statistiche. Un libro collettivo nato dalla voglia di osservare dalle angolazioni più disparate il virus che ha stravolto le nostre vite, facendo carta straccia di tante facili certezze sulle magnifiche sorti e progressive delle società.  L’umanità sta vivendo una tragedia planetaria. I sogni, o meglio gli incubi, da settimane son fatti in apparenza della stessa materia: la paura della morte, della malattia, lo spettro delle povertà. Così resterà scritto sui libri di Storia. Oltre alla Storia, però, ci sono le storie, mai uguali l’una all’altra. Questo libro racconta storie. Frammenti di fantasia, pensieri, previsioni, esperienze, desideri, fughe dal reale.

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IMMAGINE DI APERTURA – Foto di mohamed Hassan da Pixabay 

René Magritte, Il tradimento delle immagini (Questa non è una pipa), 1929

La Trahison des images (Il tradimento delle immagini) del 1929 è uno dei dipinti più famosi di René Magritte, diventato un’icona della cultura popolare. Fa parte delle collezioni del Los Angeles County Museum of Art (LACMA), acquistato con i fondi forniti dalla Mr. and Mrs. William Preston Harrison Collection. In Europa si può ammirare anche al Museum of Modern Art di Bruxelles. Raffigura una pipa, accompagnata da una didascalia con un carattere corsivo manierato: Ceci n’est pas une pipe, Questa non è una pipa. Se non è una pipa, cos’è? Domanderemmo noi nell’osservare il quadro. In questo consiste il carattere surrealista di Magritte, il quale risponde soavemente: «La famosa pipa! Come me lo rimproveravano le persone! Eppure, potresti riempire la mia pipa? No, è solo una rappresentazione, non è vero? Quindi se avessi scritto sulla mia immagine “Questa è una pipa”, avrei mentito!». Se è per questo la pipa raffigurata non si può neppure prendere in mano. Questo è il tradimento delle immagini, a cui si riferisce l’autore. Esiste una grande differenza tra gli oggetti reali e la loro rappresentazione pittorica. Questa dualità è stata evidenziata dallo stesso Magritte, che ha ribadito ai suoi interlocutori: «Chi oserebbe pretendere che l’immagine di una pipa sia una pipa? Chi potrebbe fumare la pipa del mio quadro? Nessuno. Quindi, non è una pipa». Ai più, non avvezzi alla filosofia, potrebbe sembrare un discorso ozioso e paradossale. «Ma non vedo niente di paradossale in quest’immagine, giacché l’immagine di una pipa non è una pipa, c’è una differenza», ribatte ancora lo stesso Magritte.

Il dipinto, in effetti, è un messaggio che attraverso le immagini serve a Magritte per evidenziare che, se fosse stata dipinta in un modo ancora più realistico la pipa raffigurata non sarebbe comunque una pipa, ma resterebbe sempre l’immagine di una pipa. Solo due anni dopo, nel 1931, Alfred Korzybski, in un incontro a New Orleans, espresse il medesimo concetto attraverso un altro lampante esempio: «La mappa non è il territorio», per dimostrare proprio la differenza tra un oggetto e la rappresentazione dell’oggetto. Questo vale anche per la parola, e aggiungeva: «la parola non è la cosa». L’insegnamento che si può trarre, in modo più profondo, riguarda l’impossibilità di conoscere pienamente la realtà delle cose affidandosi solo alla teoria, per quanto sia espressa nel modo più meticoloso. Anzi, una maggiore definizione delle cose serve unicamente a complicarle, e questo accade anche nel caso contrario, quando si cerca di semplificarle al massimo. Scriveva Paul Valery: «Il semplice è sempre falso, ciò che non lo è, è inutilizzabile». Cosa bisogna fare? Ciascuno dovrà trarre le giuste conclusioni che desidera riguardo alla questione generale della realtà delle cose. Per quanto concerne Magritte, il suo impegno ha interessato una ricerca rappresentata in diverse opere realizzate fra il 1926 al 1966. La serie inizia con La Clef des songes (La chiave dei sogni) e termina con una mise en abyme de La Trahison des images, dove nella nuova opera le pipe diventano due, Les deux mystères (I due misteri).

Storia della serie

Nel 1926 René Magritte aveva iniziato a considerare il rapporto tra la parola e la sua rappresentazione, che ha come punto di partenza una pipa. Il disegno racchiudeva l’idea di pipa, la sua rappresentazione e la frase con la parola pipa.

Nel 1927, La Clé des songes riproduce quattro riquadri, in ognuno dei quali pone la rappresentazione di un oggetto e una parola che lo definisce. Per tre volte su quattro, non esiste alcun collegamento tra l’oggetto e la parola. Solo il quarto oggetto è identificato correttamente.




Nel 1928 Magritte prosegue questa ricerca con The Living Mirror (Lo specchio vivente). Chiazze chiare su fondo scuro, contengono le seguenti parole: personaggio che scoppia di risate, orizzonte, armadio, grida di uccelli. La rappresentazione non esiste più, per “riflettere” la realtà, come uno specchio, l’artista usa soltanto le parole.

Nel 1929 Magritte completò la dimostrazione con La Trahison des images, esattamente il dipinto emblematico della pipa, di cui produsse diverse versioni.

Nel 1930 Magritte riprende anche il tema de La Clé des songes: la tela viene ripartita in sei riquadri, nei quali sono rappresentati degli oggetti erroneamente identificati.

Nel 1966 Magritte compone l’ultimo elaborato della serie: Les deux mystères. Rappresenta un cavalletto su cui è posto il dipinto del 1929 Il tradimento delle immagini, mentre in alto fluttua una seconda pipa. Dovrebbe forse essere il modello della pipa riprodotta nel dipinto? Di sicuro somiglia in quanto a forma, ma non ha colore. Sembra essere una rappresentazione neutra di una pipa, un oggetto tridimensionale privo di sfumature e ombre, mentre la pipa “dipinta nel dipinto” è raffigurata in maniera concreta, con l’evidente intenzione di rendere la percezione più “realistica”. La domanda che l’artista pone è questa: quale è la pipa e quale è soltanto una rappresentazione della pipa? A noi osservatori la risposta.

La dimostrazione di Alfred Korzybski

Forse questo aneddoto ci aiuterà a rispondere meglio al quesito posto da René Magritte. Un giorno, durante una lezione Korzybski s’interruppe per prendere dalla sua borsa un pacchetto di biscotti arrotolato in un foglio bianco. Spiegò di avere bisogno di un attimo di pausa e offrì i biscotti anche agli studenti che lo stavano ascoltando. Alcuni accettarono. «Buoni questi biscotti, vero?», disse Korzybski, mentre ne prendeva ancora un altro. Gli studenti concordarono. Poi il professore liberò il pacchetto di biscotti dalla carta che lo avvolgeva. Sul pacchetto compariva l’immagine di una testa di cane e la scritta “biscotti per cani”. Tutti gli studenti alla vista rimasero sconcertati. Due fra loro si precipitarono in bagno. «Vedete signori e signore?», commentò Korzybski «abbiamo appena dimostrato che le persone non mangiano solo il cibo, ma anche le parole. C’è di più: il sapore del cibo è spesso influenzato dal sapore delle parole». La sua prova puntava a dimostrare come certe problematiche siano spesso il prodotto di una evidente confusione fra la rappresentazione linguistica della realtà e la realtà stessa, ovvero fra quanto è scritto e quanto è vero. Per cui anche Magritte dimostra la necessità di non fermarsi alle sole parole, ma ricercare l’oggettività delle cose.

I Pocast del prof. Luigi Gaudio – Introduzione sui crepuscolar‪i‬

Introduzione sui crepuscolar‪i‬

Luigi Gaudio è un Dirigente Scolastico dell’Istituto Comprensivo di Belgioioso (PV) e ha insegnato Lettere presso il Liceo Vico di Corsico (MI). Se però cercate di lui sul web troverete anche che è un professore molto seguito dai suoi studenti, fra le mura scolastiche e sui media che le tecnologie informatiche mettono a disposizione. Così potrete scoprire che Luigi Gaudio è anche l’apprezzato webmaster di vari siti, fra i quali troverete www.atuttascuola.it ricchissimo di pagine, per la condivisione in rete di articoli, tesine e lezioni. Non basta, perché ha aperto un canale su YouTube contenente video didattici seguito da più di venticinquemila iscritti. Questo è l’indirizzo: www.youtube.com/luigigaudio. Troverete anche centinaia di podcast istruttivi su svariati argomenti di letteratura, storia, geografia, musica e tanto altro ancora, disponibili su Spreaker, Spotify, iTunes, e vari aggregatori di audio ed Mp3. Noi vorremmo seguirlo, pescando qua e là alcune delle oltre 220 lezioni di letteratura del Novecento, sia italiana che straniera. Siamo sicuri che molti dei lettori di Experiences rimarranno ad ascoltare con grande interesse il professore Gaudio, per conoscere finalmente autori spesso citati, ma sicuramente non tutti letti.

IMMAGINE DI APERTURA di chiplanay da Pixabay 

A Berlino ci sono i soldi e la città si espande, mentre la storia di Parigi e Londra è dietro di loro

di Sergio Bertolami

13 – Dal Gruppo degli XI alla Secessione di Berlino.

La Secessione di Monaco sollevava un vento trascinatore nell’intera Germania: appassionava, esaltava, persuadeva. Specialmente le giovani generazioni. Esattamente come era avvenuto un secolo prima con lo Sturm und Drang, contraddistinto dalla esaltazione, nella vita e nell’arte, dell’irrazionale e del sentimento romantico in opposizione all’intellettualismo illuministico e al classicismo delle corti. Non poteva essere altrimenti: persino il Kaiser Guglielmo II manifestava la propria insofferenza, sostenendo che «l’arte che contravviene alle leggi e ai limiti che ho imposto non è arte». L’imperatore non mancava occasione per contribuire ad infuocare gli animi con esternazioni stridenti e fuori luogo. Accadde anche il 18 dicembre 1901, all’inaugurazione del Viale della Vittoria (Siegesallee). Dal 1895 finanziava la sistemazione e l’ampliamento di questo importante boulevard di Berlino. Aveva preteso un progetto magniloquente, con angoli decorati da un centinaio di statue e busti marmorei dal forte impatto retorico. Alla cerimonia d’apertura, ancora una volta, le sue parole suscitarono clamore quando sottolineò che il compito dell’artista era quello di elevare i berlinesi con grandi ideali, non certo insudiciarli con «un’arte da fogna» (Rinnsteinkunst), rendendo «la miseria ancora più orribile di quella che è». Max Liebermann scriveva a Hugo van Habermann il 31 dicembre 1901: «L’imperatore può al massimo rallentare il movimento; se le secessioni – cui appartengono più o meno gli artisti con il talento maggiore – rimangono coese, allora non vi è nulla da temere». Questa spaccatura evidente, in verità, scatenava aspre discussioni sia fra i politici che nell’opinione pubblica. Alla mostra mondiale del 1904 a St. Louis, negli Stati Uniti, sebbene alcuni artisti tedeschi fossero stati espressamente invitati, la rappresentanza ufficiale non previde la partecipazione di alcun aderente alla Secessione. La scelta fu disapprovata apertamente nel corso di un dibattito al Reichstag, il 15 e 16 febbraio di quell’anno. Uno dei membri del parlamento tuonò: «Un grande e moderno movimento internazionale non può essere comandato come un reggimento di guardie». Nel padiglione tedesco di St. Louis, una replica del castello di Charlottenburg, si attestò la breccia profonda in fatto di arte e cultura.

La Siegesallee in una cartolina del 1902. In primo piano è la statua di Alberto I di Brandeburgo 

Molti degli artisti tedeschi che formavano il primo nucleo della Secessione di Berlino, dopotutto volevano soltanto esprimere il loro lato raggiante dell’esistenza, piuttosto che temi storicizzanti e moralmente educativi, ormai tanto retrivi da risultare a volte patetici. Emozionati dai successi dell’impressionismo francese, i secessionisti desideravano mostrare le semplici gioie della vita: una passeggiata in campagna o in riva al mare, una stanza pervasa di luce, l’incontro conviviale in una birreria all’aperto. Luce, colore, attenzione per la natura, erano impressioni spontanee, espresse con una tavolozza leggera e pennellate libere e spedite. Eppure, sembrava che tutto ciò non potesse essere possibile. La misura fu colma quando nel 1898, la giuria della Grande Esposizione d’Arte di Berlino decise di respingere un paesaggio di Walter Leistikow, dimostrando che l’arte innovativa degli artisti emergenti non poteva contare sul favore dell’Accademia. Chi sta seguendo con attenzione questo iter narrativo ricorderà gli antefatti. Nella primavera del 1892, Max Liebermann e Walter Leistikow – rispettivamente presidente e segretario – avevano organizzato una mostra d’arte come Gruppe der Elf (Gruppo degli undici) senza, tuttavia, lasciare l’Associazione degli artisti di Berlino o evitare di presentare i propri lavori al salone annuale, la Grande Esposizione d’Arte. Il Caso Munch, scoppiato al Verein Bildender Künstler nell’inverno dello stesso anno, rese esplicita l’avversione verso un’arte differente e moderna. La risposta fu che nel 1893, il gruppo di artisti si ritirò dal Verein, per fondare la Secessione di Berlino, sulla scia di quella di Monaco. Si ebbero così due organizzazioni parallele: la Grande Esposizione d’arte di Berlino (Großen Berliner Kunstausstellung), e la Libera esposizione d’arte di Berlino 1893 (Freien Berliner Kunstausstellung 1893), quest’ultima con lo scopo di svecchiare le manifestazioni con ridotte esposizioni indipendenti. Convissero per qualche anno, fin quando nel 1898 la giuria della Grande Esposizione d’Arte di Berlino respinse, per l’appunto, il dipinto di Leistikow. Alla testa di 65 artisti, Max Liebermann chiese che al gruppo secessionista fosse accordato uno spazio adeguato di non meno 8 sale, una giuria e un comitato indipendenti. Le condizioni sembrarono eccessive per un gruppo così ridotto e furono respinte. Era giunto il momento di lasciare definitivamente l’Associazione degli artisti di Berlino e consolidare la struttura organizzativa.
All’epoca Liebermann era convinto – così almeno compare sulle sue lettere private – che Parigi e Monaco fossero in crisi e che Berlino potesse svolgere al meglio la sua parte. La Secessione a Berlino gli sembrava inevitabile e all’amico Max Linde confessava: «Berlino ha un enorme vantaggio: Monaco è morta, come dimostrato dalla loro ultima esibizione e dalla mostra qui a Berlino della scuola di Dachau. Lo stesso per Parigi. Qui ci sono i soldi e la città si espande, mentre Parigi e Londra hanno la parte migliore della loro storia dietro di loro».

Prima sede ufficiale della Secessione berlinese nell’edificio di Hans Griesbach e August Dinklage in Kantstrasse 12.  
Fonte: Die Kunst für Alle, Numero 20 del 15 luglio 1899, pagina 314.

 

I problemi immediati furono i medesimi incontrati dai secessionisti di Monaco: gli esigui spazi espositivi e la promozione adeguata delle opere. Nello stesso modo furono risolti. Liebermann si rivolse subito ai mercanti d’arte Bruno e Paul Cassirer, che si unirono al gruppo nel 1899 e acquisirono una carica nel consiglio dell’Associazione, pur senza diritto di voto. Fra i compiti, si assunsero la responsabilità di seguire la costruzione del nuovo edificio per le esposizioni. Il palazzo ufficiale della Secessione di Berlino fu progettato e costruito secondo i piani esecutivi dello studio “Griesebach & Dinklage”. Nel 1889 August Dinklage si era, infatti, dimesso dal suo impiego statale con il proposito di perseguire a Berlino la carriera di architetto libero professionista insieme ad Hans Grisebach. Come si vede, il movimento alimentava le aspirazioni personali e ciascuno offriva al gruppo il proprio contributo. L’edificio, elevato in tempi strettissimi sulla Kantstraße 12 (angolo Fasanenstraße) dalla società edile August Krauss, venne completato il 19 maggio 1899. Senza indugio furono disponibili a fornire gli allestimenti interni l’architetto van de Velde da Bruxelles, mentre a Berlino le società Keller, Reiner e B. Burchardt offrirono alcuni mobili per sedersi e l’azienda N. Ehrenhaus i tappeti. A questo si aggiunga che, in quello stesso anno 1898, i cugini Bruno e Paul Cassirer avevano aperto una galleria d’arte moderna e una casa editrice, al secondo piano di Viktoriastraße n.35. Immancabilmente editarono, perciò, il catalogo della prima mostra secessionista e per tre anni – il tempo che durò il loro sodalizio – misero in luce la rinnovata scena artistica e letteraria tedesca, ma anche le ultime novità della cultura francese, belga, inglese e russa. Nel catalogo ufficiale della prima mostra, nel 1899, troviamo tutte le indicazioni per comprendere il fervore dell’esposizione: 330 fra dipinti e grafiche ed inoltre 50 sculture. Rispetto agli anni successivi, la prima mostra si limitò all’arte nazionale: dei 187 espositori, 46 risiedevano a Berlino e 57 a Monaco. Mancavano del tutto i contributi dall’estero. Problema superato con la seconda mostra, in cui furono esposte opere di Pissarro, Renoir, Segantini e Whistler.

Distribuzione interna della sede ufficiale della Secessione berlinese

La distribuzione interna del palazzo espositivo evidenziava la ripartizione delle sale. Dall’ingesso sotto un arco trionfale si accedeva alla sala delle sculture e da questa, a sinistra, iniziava il percorso di visita alle opere di pittura, suddivise in quattro sale, e nell’ambiente a destra erano presentati i lavori di grafica col titolo “Mostre in bianco e nero”. Il corpo circolare era invece riservato alla Segreteria e rappresentava, a tutti gli effetti, il cuore della manifestazione. Infatti, il catalogo evidenziava, in modo preciso, le modalità di acquisto. «Le opere d’arte contrassegnate con * alla fine del titolo sono in vendita. I prezzi possono essere richiesti alla Segreteria. Tutte le vendite devono essere effettuate esclusivamente dalla stessa; pertanto, la conclusione della contrattazione dovrà segnalarsi alla Segreteria sia da parte dell’acquirente che del venditore. Un terzo del prezzo di acquisto deve essere pagato immediatamente in contanti, il resto depositato in Segreteria prima della fine della mostra. I reclami dopo un acquisto andato a buon fine non possono essere considerati. L’invio delle opere d’arte vendute può avvenire solo dopo la fine della mostra ed è fatto per conto e a rischio dell’acquirente. La Segreteria sarà lieta di fornire informazioni su tutte le richieste». I libri di storia dell’arte non parlano mai, se non di sfuggita, degli aspetti economici, come se gli artisti vivessero nel cielo empireo. Il proposito era chiaramente dichiarato nella prefazione del catalogo dove si leggeva: «Per noi non c’è solo un modo d’intendere ciò che soddisfa l’arte, ma ogni segno ci appare come un’opera d’arte – qualunque arte possa essere espressa – selezionata per la sua motivazione sincera. Sono state sostanzialmente escluse soltanto le opere commerciali di routine e quelle superficiali e dilettantistiche di chi nell’arte vede solo milk pub».

Lovis Corinth, La vita di Walter Leisitkow. Un frammento della storia della cultura a Berlino (edito da Paul Cassirer, Berlino, 1910)

Era stato Leistikow, per primo, a comprendere che occorreva dare vita ad un nuovo spazio espressivo svincolato da dipendenze amministrative e finanziarie rispetto all’ufficialità accademica. La formula vincente fu quella dell’accordo mutualistico nella gestione delle entrate provenienti dalle vendite. Scrisse Lovis Corinth, nel suo libro dedicato a La vita di Walter Leistikow, che l’atelier del pittore divenne la sala dei ricevimenti della Secessione, in cui si poteva incontrare l’intellighenzia della capitale: il nuovo direttore della Galleria Nazionale Tschudi, l’editore Sameul Fischer, i grandi letterati Halbe, Hauptmann e Wolff, e gli ospiti scandinavi: Munch, Ibsen, Strindberg, Zorn e molti altri ancora. «Leistikow era fra tutti il più operoso, quando si trattava di agire per il meglio della Secessione. Sapeva come rivolgersi al Presidente Max Liebermann, era abile nell’interessare i facoltosi, una capacità assai rara, e a convincerli ad investire denaro per l’impresa della Secessione. Egli incoraggiava gli artisti, prendendosi la briga di convincerli a vendere i loro quadri a mecenati suoi amici. Il destino lo aveva baciato in quell’epoca con il massimo della fortuna. I suoi quadri piacevano ovunque; le gallerie li acquistavano. Era rappresentato alla Galleria Nazionale di Berlino, nei musei di Dresda, Lipsia, Magdeburgo e Krefeld. Anche i proprietari di gallerie private comprarono molti dei suoi quadri. Queste gallerie private erano creazioni di ricchi commercianti. Quando l’industria portò a Berlino ricchezze che mai si erano viste, parte di quei profitti fu utilizzata dai fortunati proprietari per fondare iniziative artistiche».

Il consiglio di amministrazione della Secessione di Berlino nella Mostra della Seconda Secessione, 1900.
Da sinistra a destra: Oskar Frenzel, Franz Skarbina, Otto Heinrich Engel, Max Liebermann, Bruno Cassirer.

A partire dal 1901, i pittori Max Slevogt e Lovis Corinth, trasferitisi da Monaco, rafforzarono l’Associazione degli artisti e l’importanza di Berlino come principale città d’arte tedesca. Questo fino al 1911, quando Max Liebermann non presiedette l’esposizione di quell’anno per lasciare spazio alle giovani leve espressioniste. La sua motivazione ufficiale fu questa: «La Secessione di Berlino è ormai così saldamente stabile che altri possono continuare il lavoro e prosperare. Quest’anno è uno dei più decisivi per la storia dello sviluppo della Secessione. In effetti, i fondatori dell’Associazione – Liebermann, Leistikow e Paul Cassirer – hanno consolidato così bene l’edificio, durante il lungo periodo di tempo in cui hanno lavorato insieme, e l’hanno collegato così saldamente nelle singole parti, che la Secessione ha spianato tempeste esterne e confusione interna». In realtà, nonostante i buoni propositi, la motivazione era un’altra. Nel 1910 si era formata la Neue Sezession, costituita da 27 artisti esclusi dalla selezione della XX Secessione berlinese, i quali in alternativa esposero da Maximilian Macht, in Rankestrasse, più un negozio di cornici che una vera galleria d’arte. La Neue Sezession fissò la sede al n.232 del Kurfürstendamm, il grande viale, nel medesimo edificio che ospitava il Graphisches Kabinett di I.B. Neumann, mercante d’arte che si dimostrerà attivo nel divulgare l’avanguardia dadaista. Neppure la Neue Sezession fu esente da controversie e a sua volta subì una spaccatura all’inizio del primo conflitto mondiale. Sono comprensibili mutazioni di un’arte in movimento. A questo punto, dopo tutti gli anni trascorsi dalla Secessione di Berlino del 1898, le istanze erano ovunque conosciute e il movimento, contrario al passatismo, appariva ormai superfluo.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Alli Beltrame, Laura Mazzarelli – Invece di dire… Prova a dire…

 

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IMMAGINE DI APERTURA – Foto di zhanzhan da Pixabay