di Sergio Bertolami
16 – Dopo la Künstler-Compagnie il “periodo d’oro”.
Klimt non amava viaggiare, racconta il suo biografo Christian M. Nebehay. Gli bastava allontanarsi da casa per essere colto da un’eccessiva nostalgia. Adorava, però, l’Italia e ci venne ripetutamente, ma, per esempio, una volta rifiutò un lungo soggiorno a Firenze, proposto dallo scultore Max Klinger, che l’anno precedente aveva acquistato Villa Romana, immersa in 15.000 mq di parco. Su iniziativa del mecenate Harry Graf Kessler, Klinger aveva costituito nel 1903 – insieme ad Alfred Lichtwark , Max Liebermann , Lovis Corinth , Max Slevogt, Walter Leistikow – la Deutsche Künstlerbund, un’associazione di artisti tedeschi, con lo scopo di raggruppare le varie correnti sovranazionali in cui erano sfaccettate le Secessioni, così da promuoverne l’attività. Con i fondi messi a disposizione, fu acquistata questa bella villa neoclassica di 40 stanze, alla periferia di Firenze, per renderla disponibile come residenza ed atelier. Permetteva agli artisti vincitori dell’omonimo Premio Villa Romana (tutt’ora esistente) di soggiornare a Firenze, fruendo altresì di una borsa di studio. Da allora, ogni anno la villa ospitò, fra gli altri, Georg Kolbe (1905), Max Beckmann (1906), Käthe Kollwitz (1906) e Ernst Barlach (1908). Quattro vincitori del Premio l’anno, per un periodo di dieci mesi. Gustav Klimt, nel 1906, nonostante tutto rifiutò. Probabilmente non fu solo la nostalgia a pesare sull’animo dell’artista. Forse lo condizionò anche lo scioglimento della Künstler-Compagnie – lo studio di arti decorative aperto col fratello Ernst e Franz Matsch – e la malattia nervosa che seguì alle violente critiche che sfociarono nel rifiuto dei suoi dipinti allegorici per il soffitto dell’aula magna dell’Università di Vienna. Dipinti giudicati troppo carichi di pessimismo e di simbolismo erotico, per non dire addirittura pornografici. Klimt non parlava molto, ma era solito rispondere alle domande: «Chi vuole sapere di più su di me, cioè sull’artista, l’unico che vale la pena di conoscere, osservi attentamente i miei dipinti per rintracciarvi chi sono e cosa voglio». Tanti putiferi portarono comunque il pittore ad una reazione estrema: non accettare più commissioni pubbliche e lavorare soltanto per una ricca élite di committenti privati. Questa decisione incise sulla sua espressività artistica, perché i successivi dipinti murali furono caratterizzati da un disegno lineare e dall’uso audace di motivi decorativi, piatti nel colore. Il fregio di Beethoven (1902) e i mosaici per la sala da pranzo di palazzo Stoclet a Bruxelles (1905-1909), furono l’espressione diretta di questa nuova tendenza dell’artista.
Incurante delle critiche al suo lavoro per l’Università, Klimt portò a termine in contemporanea anche il Fregio di Beethoven, realizzato per la 14ª mostra della Secessione viennese, che si svolse dal 15 aprile al 27 giugno del 1902. Fu allestita negli spazi espositivi del Palazzo della Secessione, trasformato in un tempio laico dedicato al grande compositore tedesco. Qui ebbe modo di lavorare con Max Klinger, che per il centro della grande sala espositiva aveva effigiato Beethoven, componendo una scultura in marmi policromi, alabastro, bronzo e avorio. Il fregio dipinto da Klimt, che adornava il fondo della sala adiacente, dal momento che era destinato soltanto alla mostra, fu realizzato direttamente sulle pareti. In fatto di allestimenti, l’artista aveva fatto esperienza con la Künstler-Compagnie, avendo decorato tramezzi, soffitti, sipari, con le tecniche artigianali che la tradizione consentiva. Per ottenere gli effetti visivi desiderati, sulla superficie pittorica a fresco, ricoperta da colori alla caseina, inserì frammenti di specchi, vetri policromi, pietre dure, madreperla, e persino chiodi da tappezziere. Stese, perciò, un intonaco su di un cannucciato di due metri d’altezza e ben ventiquattro di lunghezza. Una fortuna, perché dopo la mostra, il dipinto suddiviso in sette pannelli poté essere staccato, per entrare a far parte prima della collezione dell’industriale della birra Carl Reininghaus, quindi dal 1915 in quella di August Lederer, la seconda famiglia più ricca di Vienna, dopo i Rothschild, con un patrimonio accresciuto grazie a distillerie e amido. L’opera di Klimt rileggeva l’ultimo movimento della nona sinfonia di Beethoven e, con una visione simbolista, svolgeva a nastro il tema dell’eterna lotta tra bene e male alla ricerca della felicità. Le tre scene allegoriche rappresentavano il trionfo dell’arte sulle avversità – perché solo le arti conducono in un regno ideale – ma in modo del tutto differente, perché la tridimensionalità della pittura realizzata per i tre dipinti di Filosofia, Medicina e Giurisprudenza, non esisteva più. Klimt l’aveva sostituita con una pittura lineare e bidimensionale, un astratto richiamo all’arte vascolare greca e alla pittura egizia.
Klimt si richiamò al tema del fregio di Beethoven anche per le tre scene dipinte nella sala da pranzo di palazzo Stoclet. Nel 1904 l’architetto Joseph Hoffmann era stato incaricato dal ricco industriale Adolphe Stoclet di erigere l’imponente e sontuoso palazzo dell’Avenue de Tervueren a Bruxelles (dal 2009 inserito nel patrimonio mondiale dell’UNESCO). Stoclet, ingegnere, finanziere, collezionista d’arte, aveva dato a Hoffmann ampio mandato di edificare la propria villa di famiglia. Senza limiti di spesa. Dimostrazione questa, che spesso è l’apertura mentale e la disponibilità economica della committenza a far mettere in luce le qualità degli artefici; anche se vale il caso contrario, perché una ricca committenza (quella illuminata) non si rivolgerebbe mai a dei mediocri. Nel progetto Hoffmann interessò molti artisti e artigiani viennesi, con l’obiettivo di realizzare quella Gesamtkunstwerk, cioè l’opera d’arte totale, tanto teorizzata e divenuta, con questa opportunità unica nel suo genere, finalmente possibile a realizzarsi. Un’opera in cui arti applicate e figurative si fondevano con la spazialità propria dell’architettura vera, connessa al binomio invaso-involucro. Hoffmann eseguì il progetto in accordo con il committente. Alla Wiener Werkstätte fu affidata la progettazione artistica e Fritz Waerndorfer convenne con i soci fondatori dell’importante laboratorio d’arte – Koloman Moser e lo stesso Josef Hoffmann – di affidare a Gustav Klimt, il disegno di un fregio spettacolare che avrebbe decorato la sala da pranzo del palazzo. L’intervento previde l’apporto di molti artigiani e artisti qualificati come Michael Powolny, Franz Metzner, Bertold Löffler. In particolar modo, il laboratorio di mosaico della Wiener Mosaic-Werkstatte, diretto a Leopold Forstner, mise in opera gli esecutivi di Klimt, impegnando specialisti in metallo e oreficeria, ceramica e smalto. È probabile che Klimt abbia redatto nel 1905 il primo progetto, immaginando una scena paradisiaca con viticci d’oro, fiori, uccelli e personaggi. Ma è altrettanto probabile che, nel 1908, l’artista abbia richiesto significative modifiche di progetto prima dell’esecuzione del mosaico definitivo. L’opera realizzata a Vienna fu installata a Bruxelles nel 1911 alla presenza di Klimt. Il fregio si trova nella grande sala da pranzo di 6×12 metri, quindi un perfetto rapporto dimensionale di uno a due. Qui nulla è lasciato al caso e ancora oggi tutto è conservato com’era allora. Si accede da due porte contrapposte sui lati lunghi, sia dalla hall che dalla sala colazioni. Al centro c’è un tavolo da pranzo allungato e scuro, contornato da rigide sedie rivestite in pelle nera e oro goffrato. Il pavimento è concepito con piastrelle nere, bianche e giallastre, a scacchiera. Un grande tappeto decorato con ornamenti color oro copre l’area sotto il tavolo. Nei due lati lunghi sono disposti i buffet in marmo nero Portovenere e, sopra di questi, sono incastonati i due fregi musivi di Klimt. Ciascuno, alto due metri e lungo sette, è caratterizzato da una rappresentazione figurativa: da un lato una donna sola, dall’altro una coppia stretta in un abbraccio. Sebbene in molte pubblicazioni siano denominate Aspettativa e Realizzazione, lo stesso Gustav Klimt ha definito le due scene come Ballerina e Abbraccio. Il motivo fondamentale del fregio è un grande albero stilizzato con ramificazioni a spirale. Simboli della ciclicità della vita, di una coscienza che si evolve, progredisce, matura, ma riprodotta al contrario di una coscienza che degenera fino a fermarsi.
Nell’agosto 1903, Klimt descriveva, in una lettera indirizzata a una sua amica, il programma delle sue giornate estive che ogni anno trascorreva all’Attersee, l’incantevole specchio d’acqua in Alta Austria: «È molto semplice e piuttosto regolare. Alla mattina presto, in genere alle 6, poco prima o poco dopo, mi alzo; se il tempo è bello, vado nel bosco vicino, lì dipingo un boschetto di faggi (al sole) mescolati a qualche conifera, vado avanti così fino alle 8, poi si fa colazione, e poi si fa un bagno nel lago, con ogni cautela; poi dipingo ancora un po’, un paesaggio lacustre col sole, oppure se il tempo è brutto un paesaggio ripreso dalla finestra della mia camera. A volte al mattino, anziché dipingere, studio i miei libri giapponesi all’aria aperta. Si fa mezzogiorno, dopo mangiato un pisolino o una lettura fino all’ora della merenda, e prima o dopo la merenda un secondo bagno nel lago, non sempre ma spesso. Dopo la merenda nuovamente dipingo (un grande pioppo al tramonto sotto l’infuriare di un temporale); oppure, a volte, faccio una partita a bocce in un posticino nelle vicinanze, ma di rado; cala il tramonto, si cena, e poi a letto presto, e poi di nuovo il giorno dopo giù dal letto di buon’ora. Qualche volta in questo programma riesco a infilare anche una rematina, per rinvigorire un po’ i muscoli». Qualche volta invece riesce ad “infilare” anche qualche viaggio all’estero. In Italia ad esempio. Proprio nella primavera del 1903 Klimt e compie un viaggio a Venezia, Firenze e Ravenna. Visitò due volte Ravenna, nello stesso anno, perché a primavera rimase fortemente colpito dai mosaici bizantini osservati in San Vitale. Rimase impressionato dall’uso semplificato dello spazio bidimensionale, da quegli sfondi dietro maestosi personaggi come Teodora, Giustiniano e la loro corte. Immagini rarefatte, irreali, restituite dalle superfici brillanti e dorate. Ecco perché a dicembre decise di tornare: voleva studiare in modo approfondito la tecnica musiva, e soprattutto le potenzialità espressive dell’oro. Prendono vita, così, alcuni dei capolavori noti a tutti, quando si parla di Klimt. Si identificano col cosiddetto “periodo d’oro”. Si era già servito di questo prezioso materiale in opere precedenti, d’altra parte per un’artista, figlio di un orafo incisore, l’oro è il ricordo dell’infanzia. Aveva adoperato l’oro, ad esempio nelle due versioni dell’Allegoria della musica (1895 e 1898) o in Pallade Athena (1898), in Nuda Veritas (1899) e in Giuditta I meglio noto col titolo di Salomè (1901), e nuovamente nel Fregio di Beethoven (1902). Dopo il viaggio in Italia Klimt, tuttavia, utilizzò l’oro in maniera sistematica, non solo applicato in foglia, ma anche nella struttura compositiva a incastro di tessere preziose, cha tanto ricordano i mosaici di San Marco a Venezia. Hanno lo scopo di separare i personaggi rappresentati da qualsiasi legame con il contesto oggettivo e proiettarli nella dimensione poetica.
Scrive Ludwig Hevesi: «Ero tornato dalla Sicilia solo da quattro giorni e avevo ancora addosso tutta l’ebbrezza dei mosaici […] questo mi venne in mente mentre ero davanti al dipinto di Klimt. Questo mi illuminò con il suo oro […] Uno stile nuovo conquistato combattendo, dopo tutte le orge pittoriche dell’ultimo decennio. Una forma e un colore più solenni e religiosi». In verità, di religioso i ritratti di Klimt hanno poco. Non di certo Pesci d’oro (1901-1902) che, per lo scalpore suscitato, Klimt sarcasticamente pensò di dedicare quelle nudità Ai miei critici. Neppure le due versioni di Giuditta: la prima con la testa di Oloferne (1901) esaltazione della femme fatale, ammaliatrice e vendicativa; la seconda (1909) dove più che la testa del decapitato sono messi in mostra i seni nudi della seduttrice. Non certamente Il bacio (1907-1908) dove i due innamorati sono ricoperti di simboli allusivi al sesso. Né tantomeno in Danae (1907-1908) fecondata nel sonno dalla pioggia d’oro di Zeus. Si capirà che la libertà provocatoria con la quale Klimt trattava i suoi soggetti non poteva che accendere polemiche. Il suo messaggio anticonformista era affidato all’eros, rappresentato da una immagine femminile depositaria della vita e della bellezza. Basti guardare alle Tre età della vita (1905). In primo piano, l’artista raffigurò una delicatissima scena di maternità: la bambina assopita serena tra le braccia della mamma, anche lei con un’espressione di felicità interiore. Ma è la terza figura della nonna, con il corpo marcato dagli anni, a restituire la sensazione del tempo che trascorre. Il dipinto vinse il premio all’Esposizione d’Arte Internazionale di Roma del 1911 e dall’anno successivo è ammirato nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Manco a dirlo, anche questo dipinto destò clamore.
Non fu esente da critiche neppure un altro dipinto mirabile, Il Ritratto di Adele Bloch-Bauer (1907). È oggi uno dei quadri più preziosi al mondo, alla stregua di una moderna Monna Lisa. La donna, figlia di un ricco banchiere e moglie del proprietario di uno zuccherificio, è completamente immersa in uno sfondo decorativo, bidimensionale. Un quadro tutto giocato sul geometrismo, a cominciare dal perfetto formato quadrato della tela. Il contrasto fra eros e thanatos, che ne emana, è espresso simbolisticamente dalle mani intrecciate della protagonista, quasi a tentare di fermare la caducità della vita. Quanti occhi hanno guardato lo splendore giovanile di questa donna? Occhi rappresentati nel tessuto della veste, che si trasforma in uno spettacolare turbinio di forme geometriche, in combinazione fra loro, sullo sfondo dorato, nel quale, ancora una volta, campeggia la spirale dell’albero della vita. Beffarde furono le recensioni di stampa. L’avere impiegato, da parte di Klimt, quella profusione di lamine d’oro e argento, portò a coniare un graffiante calembour: «Mehr Blech als Bloch», come dire “Più lamiera che donna”, gioco di parole tra Blech (foglio di lamiera) e Bloch, il cognome dell’eterea Adele nel dipinto raffigurata.
IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay