di Sergio Bertolami
14 – L’arte nuova della Secessione viennese.
La Wiener Secession fu istituita il 3 aprile del 1897. Il nome di Secessione viennese sintetizza quello ufficiale di Vereinigung bildender Künstler Österreichs (V. b. K. Ö.), ovvero Associazione degli artisti figurativi austriaci. La rivoluzione culturale della Secessione varcò, dunque, i confini tedeschi e si estese in Austria. In quest’epoca a Vienna, capitale dell’impero austro-ungarico, era presente un’impressionante concentrazione di geni. Stavano già dando vita al cambiamento un medico come Sigmund Freud, fondatore della psicoanalisi, scrittori come Robert Musil o Karl Kraus, un filosofo della scienza come Ernst Mach, un compositore come Gustav Mahler, che bene sintetizzava la varietà di popoli ed etnie dell’Impero, quando di sé diceva «Sono un boemo tra gli austriaci, un austriaco tra i tedeschi e un ebreo tra i popoli di tutto il mondo». Pare scontato ripetere che anche qui artisti e architetti – come Gustav Klimt, Kolomon Moser, Otto Wagner, Josef Hoffman, Joseph Maria Olbrich – manifestarono il loro rifiuto contro l’accademismo, il gusto storicista, il naturalismo borghese. Si potrebbe aggiungere che i rapporti tra i giovani artisti e le pubbliche istituzioni s’inasprirono quando Eugen Felix, difensore accanito del classicismo, fu eletto presidente della Künstlerhaus (la Casa degli artisti). Fu allora che Gustav Klimt e un gruppo di altri progressisti lasciarono la Genossenschaft der bildenden Künstler Wiens, la Cooperativa di artisti visivi interna alla Künstlerhaus. Si mossero, come una marea, per riunire intorno a loro simbolisti, modernisti, naturalisti, stilisti. L’affermato maestro Rudolf Alt, ottantacinquenne, fu eletto presidente onorario e Gustav Klimt presidente operativo. Anche molti accademici componevano la schiera: Myslbek, Hellmer, Julian Falat, Hynais. Tra i giovani si distinguevano Engelhart e Moll in particolare, Bernatzik, Bacher, Krämer, Knüpfer, Mayreder, Ottenfeld, Stöhr, Jettel, Delug e tanti altri. Non solo viennesi, perché fra gli oltre quaranta fondatori troviamo i componenti della Nuova Monaco e della Nuova Berlino: Stuck, Marr, Herterich, Dettmann, Kuehl, Dill. E non solo tedeschi, perché fra i “membri corrispondenti stranieri”, troviamo il belga Fernand Khnopff, l’olandese Jan Toorop, lo svizzero Ferdinand Hodler, il tedesco Max Klinger.
Dire che l’interesse centrale della Secessione viennese puntava alla Gesamtkunstwerk può far capire quale fosse l’elemento artistico attraverso cui promuovere il rinnovamento. Gesamtkunstwerk, cioè l’opera d’arte totale, era un termine non del tutto nuovo per l’epoca. Lo aveva usato nel 1827 il filosofo K. F. E. Trahndorff e poi ancora lo aveva inserito nel suo saggio Arte e rivoluzione, del 1849, anche Richard Wagner. Ora, tuttavia, la fusione idealizzata delle varie arti (pittura+scultura+architettura+musica+letteratura) sembrava la via assoluta. Era la risposta, attraverso l’esperienza estetica, alle mille sfaccettature sociali, era il sogno di una unitarietà più teorica che reale. Ma non tutti i partecipanti alla Secessione condivisero la medesima utopia, cosicché la contrapposizione tra gli stilisten (sostenitori dell’unione tra arte e arti applicate) e i naturalisten (solo pittori) divenne presto la causa di una disputa che giunse al culmine nel 1905, quando il gruppo di Klimt lascerà la Secessione, che tuttavia continuerà a operare, ma senza più la giusta spinta innovativa. La storia di queste contese su questioni artistiche, sollevate giorno dopo giorno – attacchi e difese, trattative diplomatiche, accordi e ancora dissensi – mette in luce che l’arte non è fatta (come qualcuno sembra credere) solamente di eventi sociali e recensioni aspre o idilliache. Chi racconta questa storia dal vivo, e in modo dettagliato, è Ludwig Hevesi, critico d’arte ungherese ed anche lui tra i fondatori del movimento. Raccolse in un libro i saggi scritti durante gli anni di lotta e li espose in un ordine così selettivo e cronologico da farne una cronaca completa della Secessione di Vienna. Il libro s’intitola Acht jahre Sezession – Otto anni di Secessione (Vienna, 1906). È bene soffermarsi almeno sui capitoli iniziali, che restituiscono distintamente come l’organizzazione rigorosa del movimento sia stata capace di capovolgere le concezioni stantie che impregnavano la cultura austriaca del tempo, per avviare una innovativa visione dell’arte nell’intera Europa. Hevesi su Altkunst – Neukunst (Vecchia arte – nuova arte, Vienna 1894) aveva già prefigurato e definito per la prima volta il movimento con il termine Neukunst. Termine che presto s’imporrà nei paesi di lingua francese come Art nouveau.
Scriveva il critico d’arte a favore dei secessionisti: «Era un gruppo di giovani artisti dal sangue forte e moderno, le cui energie hanno portato a far fluire questo movimento, il più radicale di Vienna […] Avrebbe potuto trasformarsi in qualcosa come l’Associazione degli undici a Berlino, con le sue mostre nella galleria Schulte, o una cosiddetta Secessione come a Monaco, Parigi e altre città d’arte». Mettendo in risalto il vero spirito del gruppo, aggiungeva: «Questi coraggiosi giovani viennesi sono allo stesso tempo dei combattenti equilibrati. Non vogliono essere dei frondeurs (ribelli), né Wassergeusen (pirati a fianco dei poveri), e non vogliono intraprendere una guerriglia contro l’Accademia e la Casa degli artisti. Non sono stati solleticati dalla voglia d’ingannare il “vecchio”. Non vogliono infastidire nessuno, nemmeno strimpellare sé stessi, vogliono soltanto provare a portare la decrepita arte austriaca (e non solo viennese) a livello internazionale». Hevesi faceva emergere a chiare lettere l’insoddisfazione dei giovani verso il conservatorismo, non verso l’arte vera, e la loro fermezza nell’attuare le proprie aspirazioni. «Il V. b. K. Ö. è, invece, una società che lotta, perché vuole combattere la confusione nell’arte. Ma non lo farà attraverso polemiche spettacolari, ma attraverso il perseguimento di scopi puramente artistici, educando gli occhi delle masse a comprendere il vivace sviluppo progressivo dell’arte».
Sostenuto da un numero notevole di patrocinatori, morali e finanziari, il movimento prese avvio e in sole tre mosse fece scacco all’Europa, imponendo il Sezessionstil (lo Stile Secessione) in Austria e non solo. Da ora in poi tutti (ma proprio tutti) lo riconosceranno e ciascuno gli attribuirà un proprio nome: Art nouveau in Francia e Belgio, Nieuwe Kunst nei Paesi Bassi, Jugendstil in Germania, Modern style o Studio Style in Gran Bretagna, Modern in Russia, Arte jóven o più spesso Modernismo in Spagna, Style sapin in Svizzera, Secesja in Polonia, Serbia e Croazia, Liberty in Italia. Ma i nomi non finiscono qui, perché sarà possibile imbattersi in appellativi attinenti ai caratteri formali come Wellen-stil (stile onda) Lilienstil (stile giglio), Schnörkestil (stile spirale) Style coup de fouet (stile colpo di frusta) Paling styl (stile anguilla).
Quali furono le tre mosse portate con perizia sulla scacchiera dell’arte? In ordine cronologico: prima mossa, edificare una sede per le esposizioni che avrebbe accolto a Vienna protagonisti e movimenti artistici europei; seconda mossa, pubblicare una rivista rivoluzionaria nella grafica e nei contenuti; terza mossa, allestire la prima mostra ufficiale del gruppo come una rassegna internazionale.
Il Palazzo della Secessione fu il manifesto architettonico della Secessione viennese. La rivista Ver Sacrum fu il manifesto scritto. La mostra fu l’abbrivo del rinnovamento delle arti figurative. Al centro c’era sempre Gustav Klimt. È lui che schizzò il volume di un cubo bianchissimo, partendo dal quale il giovane architetto Joseph Maria Olbrich avrebbe realizzato il progetto del Wiener Lokalnachricht (Messaggio viennese). Un’architettura che esprimeva di per sé stessa il messaggio della nuova arte. «È una parola magica che spezzerà le catene e animerà i morti. Si prospetta un’espansione della città nel campo delle belle arti; Vienna città dell’arte, questa immensa città dovrebbe finalmente diventare una Grande Vienna, una vera Nuova Vienna […] Il focolare, dalla fiamma appena accesa, ovviamente dovrà essere, come a Monaco, un edificio espositivo separato. Una nuova casa d’artista, libera. Da lì si potrà conquistare l’Accademia stessa, sempre come a Monaco, e lì ci si potrà finalmente riunire in una galleria d’arte moderna, un “Musée du Luxembourg” viennese». Sull’area di oltre 1200 mq, approvata dal Comune, la Secessione realizzò un palazzo d’arte di circa 650 mq. Progettato su di un maestoso piano rialzato, con uno spettacolare lucernario a cupola, simile alla chioma di un albero, un perimetro murario senza finestre, in modo tale che le pareti esterne, ricoperte di affreschi e decorazioni, facessero guadagnare a Vienna un nuovo ornamento architettonico. Il motto posto sulla trabeazione dell’ingresso, che affermava “A ogni tempo la sua arte, all’arte la sua libertà” (Der Zeit ihre Kunst / der Kunst ihre Freiheit), fu suggerito proprio da Ludwig Hevesi.
La rivista Ver Sacrum. Sulla copertina nel primo numero venne riproposta la figura dell’albero. La traduzione dal latino di Ver Sacrum è Primavera sacra e fa riferimento a un antichissimo rito, che nell’antica Roma si faceva in onore degli Dei. Consacrava a loro tutti i nati della nuova primavera: vegetali, animali e persino esseri umani. I neonati non erano sacrificati, ma solo promessi alla divinità. Una volta divenuti adulti, erano banditi dai confini della comunità, con lo scopo di fondare nuove città in nuove terre. Il nome scelto dalla Secessione per la testata della rivista, faceva probabilmente riferimento all’omonima poesia di Ludwig Uhland, nella quale si decantava la “sorgente della consacrazione” romana e si concludeva con la strofa: «Hai sentito ciò che piace a Dio. Vai lì, preparati, obbedisci in silenzio / Sei il seme di un nuovo mondo, questa è la consacrazione che Lui vuole».
Nel dare uno sguardo al primo numero della nuova rivista d’arte, Ludwig Hevesi commentava: «Alfred Roller, che ha ideato una specie di busta, ha fatto un ottimo lavoro per i suoi compagni. Anche la sua immagine simbolica in copertina è piuttosto impressionante: questo forte albero da frutto, le cui radici spezzano le doghe del vaso e lottano tra di loro attraverso la terra creata dal buon Dio». Hevesi sottolineava come l’artista grafico avesse realizzato il proprio lavoro editoriale con una concezione all’avanguardia del layout. Lo si capiva già dal formato quadrato, dalla carta telata della copertina, che la faceva assomigliare proprio ad una busta da lettere con la quale indirizzare un “messaggio”. Lo si capiva dal tono ocra chiaro del fondo, dalla stessa stampa rossa e nera, decisa e vitale, e dai caratteri utilizzati. E all’interno, lo si capiva dai pieni e vuoti di ogni singola pagina che, riproponendo i cosiddetti “blocchi giapponesi”, tanto influenzeranno lo stile bidimensionale della Secessione. Nel panorama della stampa dell’epoca il design di Ver Sacrum divenne un eccellente modello di arte grafica da riprendere e riproporre. Sfogliando le pagine, nell’articolo di presentazione si commentavano le motivazioni dei contenuti. “Perché pubblichiamo una rivista”. Risposta lineare: «Questa rivista dovrebbe […] essere un appello al senso dell’arte delle persone, per stimolare, promuovere e diffondere la vita e l’indipendenza artistica». L’arte doveva essere, dunque, una parte indispensabile della vita; per questo motivo la rivista stessa era concepita come un’opera d’arte totale, attraverso l’interazione fra letteratura, arti visive e musica, i cui temi erano toccati da articoli teorici o esplicativi, corredati da opere d’arte, grafiche originali e decorazioni, disegnate dai membri della Secessione.
La prima mostra della Secessione. È su Ver Sacrum che si poterono leggere le idee guida. Non fu certo l’ennesima esposizione che raccoglieva le mediocrità di massa, ma «un’esibizione d’élite di opere d’arte specificamente moderne». Aveva richiesto oltre un anno d’intensa programmazione. Gli organizzatori, da subito, si erano posti l’obiettivo di portare a Vienna per la mostra d’apertura la produzione migliore del panorama artistico internazionale. Il giovane pittore Josef Engelhart rimandò largamente i propri impegni di lavoro per apprestare con grande energia l’evento. Viaggiò in mezza Europa – Inghilterra, Francia, Belgio, Germania – sviluppando contatti diretti con i maggiori artisti e galleristi, così da convincerli ad inviare le proprie opere alla mostra in allestimento.
Per l’occasione Klimt disegnò la copertina del catalogo e il manifesto, ma dovette fare un passo indietro e censurare il disegno proposto. Come molte correnti del tempo, anche la Wiener Secession avvertiva l’ascendente del Simbolismo. Il manifesto raffigurava Teseo che uccide il Minotauro, sotto lo sguardo tutelare della dea Atena. Gli Dei reclamavano che la “consacrata primavera” degli artisti mettesse fine al tradizionalismo. Tuttavia, la nudità esplicita dell’eroe mitologico venne giudicata oscena e Klimt fu costretto a censurarla, ponendo in primo piano una serie di tronchi e rami stilizzati. Un sacrificio, tutto sommato compensato dal trionfo della manifestazione, che, nel giorno inaugurale, poté contare sul sostegno morale rappresentato dalla visita dell’imperatore Francesco Giuseppe e del sindaco Karl Lueger. La rassegna fu aperta a Vienna il 26 marzo 1898 nei locali della Gartenbaugesellschaft, la Società orticola. Il prestigioso palazzo della Secessione non era ancora stato iniziato: superate le pratiche di rito, la costruzione fu avviata dopo appena un mese, il 28 aprile. La prima edizione si chiuse a giugno con risultati più che soddisfacenti. L’esposizione fu visitata da 57.000 persone, furono vendute ben 218 opere e la stampa si mostrò, nella maggior parte dei casi, favorevole. A partire dalla seconda edizione, aperta solo cinque mesi dopo, il 12 novembre, le manifestazioni saranno ospitate nella sede ufficiale appena ultimata. Riguardo all’esposizione iniziale, Hevesi annotava entusiasta: «Non c’è mai stata una mostra come questa a Vienna. Una rassegna che esibisce effettivamente la vita artistica di oggi, il grande sviluppo internazionale dell’arte moderna con una lunga serie dei suoi capolavori più particolari. Non prestiti dei musei, per metà antiquati , ma frutti del presente, raccolti ogni anno nelle città d’arte occidentali, mentre ne leggiamo sui giornali».
IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay