Editoria: “Guida operativa alla sostenibilità” di Michele Moretti

Guida operativa alla sostenibilità

N° di pagine: 251
Prezzo copertina flessibile:

14,56

Prezzo Kindle: 9,99
(incluso con Kindle Unlimited)

www.sostenibilitafacile.it

Argomento: “Scopri il mondo della sostenibilità per le PMI con questo libro esaustivo e dettagliato. Esplora i diversi aspetti della sostenibilità aziendale, dalla responsabilità sociale d’impresa alla gestione sostenibile delle risorse, e scopri come possono essere applicati con successo nel contesto delle piccole e medie imprese. Questo libro offre una guida passo passo per comprendere e implementare pratiche sostenibili che possono portare benefici tangibili per la tua azienda, migliorando la reputazione, riducendo i costi e accedendo a nuove opportunità di mercato. Inoltre, il libro fornisce strumenti pratici, template e risorse per aiutarti a integrare la sostenibilità in ogni aspetto della tua azienda, dalla gestione finanziaria alla catena di approvvigionamento e oltre. Non perdere l’opportunità di fare la differenza per il tuo business e per il mondo: scopri oggi come la sostenibilità può trasformare la tua PMI!”

L’autore: Michele Moretti

Laureato in Ingegneria Gestionale con specializzazione in Economia Circolare e Project Manager certificato, sono un libero professionista che guida le aziende nel loro percorso di ottimizzazione ed ESG. Da sempre animato da una profonda passione per l’ottimizzazione e la sostenibilità, ho fondato “Sostenibilità Facile ®”, un blog dedicato a semplificare e rendere accessibile il concetto di sostenibilità aziendale.


Sara Bontempi
Redattrice editoriale 

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Staff Radio Nord Borealis: https://www.radionordborealis.it/ 

Editoria: “Come il volo di una cicogna”, l’ultimo romanzo di Alessandra Angelo-Comneno

La narrazione semplice ma coinvolgente di “Come il volo di una cicogna” tocca corde profonde e ci spinge a riflettere su argomenti come la speranza, la perdita e la forza interiore.

Con questo suo lavoro, la scrittrice Alessandra Angelo-Comneno dimostra ancora una volta la sua straordinaria capacità di esplorare la profondità dell’animo umano.

Ci guida lungo un percorso emotivo, che va dalle profondità del dolore e della sofferenza, ad un bagliore di fiducia e di riscatto.

Sinossi

Ciò che è doloroso può spingere negli abissi e far affondare, ma anche portare a galla, verso la luce, può condurre alla ricerca di qualcosa che rende la vita speciale, può spingere persino a compiere un viaggio fisico e interiore.
Ed è quello che fa Emily dopo aver perso il marito, dopo aver vissuto nel buio per tre anni.
Inizia il suo percorso a ostacoli, affrontando la depressione, una sofferenza insopportabile che soffoca e i fantasmi del suo passato… qualcosa che è accaduto in un altro Paese.
Questo è un romanzo di grande impatto e Alessandra Angelo-Comneno con la sua storia racconta che non basta sopravvivere, bisogna tornare vivere.
Bisogna sperare, affrontare ciò che spesso si nasconde persino a sé stessi, credere nella propria forza e rinascere dalle macerie.
Attraverso la memoria, le sensazioni narrate e i momenti vissuti, la scrittrice è in grado di creare uno scambio simbiotico tra sé e il lettore, ed è capace di coinvolgere emotivamente, fino in fondo.

Biografia Alessandra Angelo-Comneno

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Alessandra Angelo-Comneno nasce a Roma.
La sua passione per le arti figurative la spinge a intraprendere, dopo il primo biennio di liceo classico, gli studi presso il liceo artistico.
Ha lavorato per anni in un grande istituto bancario.
L’indissolubile legame con la sua famiglia e la morte di sua sorella Stefania, la spingono a scrivere il suo primo romanzo: “Sorelle, amiche per sempre”.
Seguiranno poi i romanzi “Il coraggio di una vita” e “Nel buio del passato”.

Il romanzo Come il volo di una cicogna dell’autrice Alessandra Angelo-Comneno è pubblicato dalla Casa Editrice Kimerik per la collana Percorsi.
Disponibile nelle migliori librerie e store online.


Sara Bontempi
Redattrice editoriale 

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Editoria: “Il buio straordinario”. Romanzo di Angelo Molica Franco

UNA BRILLANTE INVESTIGAZIONE LETTERARIA SULLA NASCITA
DELL’IDENTITÀ OMOSESSUALE NEL NOVECENTO

UN VIAGGIO NARRATIVO APPASSIONATO, INTIMO E POP

Angelo Molica Franco
Il buio straordinario

La nascita dell’identità omosessuale nel romanzo del Novecento

Angelo Molica Franco
People Editore
(pp. 230, euro 18)
Uscita in libreria 24 novembre

A inizio Novecento, nella Recherche, il barone di Charlus non lo ammetterà mai. Tantomeno Marcel Proust. Corre quasi tutto il secolo, e Pier Vittorio Tondelli e tutti gli Altri libertini vogliono gridarlo al mondo intero. Del resto, oggi si fa presto a dire “Io sono omosessuale”. Ma come nasce l’identità che si rivendica come propria nel momento in cui si pronuncia quella sentenza di riconoscimento e appartenenza?

Quando, a fine Ottocento, Freud scopre quel magma emotivo sommerso di passioni e istinti chiamato inconscio, in realtà sta sentenziando che il destino dell’essere moderno figlio del progresso sarà la crisi. Nel passaggio, con la rivoluzione industriale, dal mondo rurale al mondo nuovo, l’uomo da un lato spezza infatti le catene dell’imitazione e prosecuzione dei modelli del passato, ma al contempo perde i contorni della propria identità. Ed è in quel preciso momento di crisi della creazione, mentre i villaggi si trasformano in città e il treno mette in comunicazione la civiltà, che i diversi allargano l’orizzonte del proprio paesaggio e comprendono di non essere da soli.

Questa, dunque, è l’intuizione di partenza di Angelo Molica Franco, che cioè l’identità omosessuale moderna – un’idea slegata dai vecchi concetti di illegale pederastia o di peccaminosa sodomia – sia in tutto e per tutto un figlio indesiderato della Rivoluzione industriale. E per osservare da vicino il suo pieno sviluppo lungo tutto il Novecento, in questo incalzante saggio narrativo, l’autore sceglie di investigare nel campo più insidioso, il cuore umanoa partire dal riflettore più pungente della realtà: la letteratura.

Da L’immoralista di André Gide e Maurice di Edward Morgan Forster, passando per Sodoma e Gomorra di Proust e Addio a Berlino di Christopher Isherwood, fino ad arrivare a Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes e Altri libertini di Tondelli, Molica Franco cerca e interpreta nelle pagine dei classici della letteratura omosessuale decennio dopo decennio le parole, i fatti, i costumi e la memoria delle generazioni di omosessuali nel secolo breve.

Ma soprattutto indaga nelle microstorie di protagonisti favolosi, testimoni con la propria esistenza di cosa sia il buio straordinario: non solo i noti Karl Heinrich Ulrichs o Amanda Lear; ma anche nomi obliati come il fotografo Wilhelm von Gloeden, noto per i suoi nudi maschili, o il pioniere dei diritti civili Edward Carpenter; e infine personaggi inediti quali Ferdinand Grimmil fratello omosessuale dei fratelli Grimm e anch’egli fiabista, o la prima drag queen di cui si ha notizia, il nero americano William Dorsey Swann. Questo affinché il gioco di specchi tra Storia e letteratura abbia un suo riscontro nelle vite vissute all’insegna del buio straordinario: un’eredità, un magma emotivo, una memoria collettiva che ogni omosessuale si porta dentro.

Con uno stile personale, l’autore riesce a coinvolgere il lettore in questa indagine finora mai affrontata, senza rinunciare a fuggevoli e luminose istantanee di racconto autobiografico, in modo da affiancare con discrezione i protagonisti del libro mentre abbandonano la colpa del buio, e allo stesso tempo alzare la temperatura della narrazione. Ne viene fuori un viaggio narrativo appassionato, intimo e pop, in grado di aprire squarci di luce su personaggi e opere letterarie del Novecento e naturalmente sulle vite degli scrittori che le hanno create.

Un’investigazione letteraria condotta con una lingua così elegante e appassionata da accendere nel lettore la voglia di tornare a leggere, o leggere per la prima volta, i classici passati in rassegna, come se la lente di osservazione di Molica Franco abbia donato loro un ulteriore spessore di umanità.

L’autore: Angelo Molica Franco

Angelo Molica Franco è giornalista culturale, scrittore e traduttore letterario. Scrive per il Venerdì di Repubblica e per Il Fatto Quotidiano. Il suo ultimo libro è A Parigi con Colette (Perrone, 2018). Suoi racconti e saggi sono apparsi su riviste, quotidiani e raccolte.


Ufficio Stampa
STUDIO ESSECI – Sergio Campagnolo Via San Mattia 16, 35121 Padova
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Editoria: “Umanistili e Una ballerina sulla Luna” di Elisa Rovesta

“Umanistili e Una ballerina sulla Luna”
di Elisa Rovesta

Un libro in cui succede un po’ più di niente

NFC Edizioni 

Elisa Rovesta, talentuosa autrice che ha già fatto ridere e riflettere con il suo stile arguto e ironico, presenta il suo nuovo libro intitolato “Umanistili e Una ballerina sulla luna“, prima parte di una trilogia. Pubblicato da NFC Edizioni, il volume è un vero e proprio viaggio attraverso le situazioni e le atmosfere che tutti noi abbiamo vissuto almeno una volta nella vita: una raccolta di racconti che getta uno sguardo pungente e divertente sulla realtà contemporanea e le stravaganze che la popolano, reinterpretate con l’inconfondibile penna dell’autrice. In questa nuova opera suddivisa in 16 racconti brevi e un racconto lungo, Rovesta ci guida attraverso un turbinio ironico di ritratti umani contemporanei, scovando le perle nascoste nell’ordinario e affrontando le contraddizioni della società moderna. L’autrice si fa narratrice di vicende che, sebbene possano apparire banali o insignificanti, in realtà sono cariche di significato, spesso rivelando le contraddizioni della contemporaneità, riflettendo sulle nostre insicurezze, i vuoti da riempire e le vanità che spesso dominano il nostro comportamento. Dal motivatore personale alla coppia che cena in silenzio in trattoria, dall’appassionata di brand personalizzati all’archetipo del “figo” in versione 2.0, ogni personaggio prende vita nelle pagine del libro, facendoci ridere di noi stessi e dei comportamenti che spesso diamo per scontati. Ma non è solo una raccolta di “caricature” umane: “Umanistili e Una ballerina sulla luna” abbraccia una vasta gamma di temi, dall’autostima ai sogni infrantiai desideri, alle delusioni e alle rivincite. Proprio su questi temi l’autrice presenta a chiusura del libro il romanzo breve “Una ballerina sulla luna” dove una protagonista divisa tra aspettative e delusioni incontra un personaggio fuori dall’ordinario che sovverte le regole.

In questo racconto Elisa cattura l’essenza dei due personaggi dalle tonalità dei “Diari di una schiappa” e di “Bridget Jones“, con un tocco di assurdità e contemporaneità che li rende incredibilmente reali e vicini al lettore. Come dichiara la scrittrice Elisa Rovesta: “Il mio scrivere altro non è che una descrizione senza alcun giudizio, senza alcun parere personale. È semplicemente una osservazione del mondo che ci circonda e che qualcuno mi ha detto che ‘sono stata capace di cogliere e catturare’. I miei personaggi non hanno ruoli specifici. Vivono la loro vita ed entrano in scena senza saperlo. Sono inconsapevoli di essere parti di una storia, ma è proprio questa la loro bellezza“. L’opera di Rovesta utilizza abilmente gli anglicismi, i neologismi e le mode linguistiche del nostro tempo per creare una prospettiva deformante e attuale sui miti e i tipi umani di oggi, dimostrando come la nostra società sia intrisa di paradossi e situazioni irrazionalmente universali. Attraverso la sua scrittura leggera e tagliente, Elisa Rovesta ci costringe a guardare dentro lo specchio delle sue storie, dove spesso ci ritroviamo a riflettere sulla nostra vita, le nostre scelte e i nostri comportamenti.

Elisa Rovesta

Ecco allora sedici brevi racconti e una novella in sedici movimenti che, festa dell’intelligenza, con grazia, con finezza, con vaporosa o pungente ironia, ruotano tutti attorno al filo sottile che collega la maggior parte degli umani in modo più o meno dichiarato, più o meno segreto, più o meno inespresso: quella latente infelicità che nelle nostre opulente e emancipate società d’Occidente è stata e continua a essere il primo fenomeno ‘global’ in assoluto: perdita di sé e conseguenti disagi per ritrovarsi, per riarmonizzare il sé al sé e al resto del mondo” così scrive lo storico dell’arte Gabriello Milantoni a proposito del libro. “Umanistili e Una ballerina sulla luna” è una lettura imperdibile per chiunque voglia sorridere e riflettere sugli aspetti più curiosi della vita moderna. L’autrice dimostra ancora una volta di saper catturare l’attenzione del lettore, offrendo una narrazione che oscilla tra l’ironico e il profondo con una maestria unica. Le parole di Elisa Rovesta ci invitano a guardare oltre le superfici, a esaminare le contraddizioni e le ossessioni che guidano il nostro modo di vivere. “Alla fine, com’è immaginabile, si scopre che il libro racconta di noi, della nostra necessità di apparire, di vedere nei social il fine ultimo, nell’aspetto la chiave per una distratta e superficiale soddisfazione momentanea, la merce come una nuova teleologia, la facciata come difesa per nascondere il nulla e le sue vanità. In Umanistili convivono tranquillamente sia i miti contemporanei che le tipologie di persone incrociate al supermercato o in coda al semaforo” queste le parole dello scrittore Davide Bregola nella recensione pubblicata su Il Giornale. Questo volume è il primo tassello di una trilogia in fase di realizzazione, sapientemente ideata e pensata dall’autrice: nei prossimi mesi infatti si arriverà al secondo episodio con un nuovo libro che catturerà ancora una volta il pubblico grazie all’inconfondibile stile di Elisa. Il libro sarà presentato nel giardino del Grand Hotel di Rimini il 22 settembre alle ore 18.30, in un mix di teatro, canto e musica e letteratura. Durante la serata, moderata da Beatrice Bacchi, l’autrice sarà accompagnata dall’attrice Margherita Governi che reciterà alcuni estratti del libro, dalle esibizioni della ballerina Carlotta Graffigna, di cantanti e musicisti che omaggeranno Lucio Dalla con alcune delle sue indimenticabili canzoni. A introdurre l’evento sarà l’autore e storico dell’arte Gabriello Milantoni. 

Il libro è disponibile presso le principali librerie e online sul sito di NFC Edizioni


INFORMAZIONI UTILI

TITOLO LIBRO: Umanistili e Una ballerina sulla luna
AUTRICE: Elisa Rovesta
EDITO: NFC Edizioni
GENERE: Narrativa
USCITA: Giugno 2023
PREZZO: 20,00 euro
PAGINE: 96
LINGUA: Italiano
ISBN: 9788867263844

CONTATTI ELISA ROVESTA
SITO: https://www.umanistili.it/
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CONTATTI NFC EDIZIONI
SITO: https://nfcedizioni.com/
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18- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: Il Bosforo

18- Il Bosforo

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

Appena saliti a bordo, vediamo come un velo grigio stendersi su Costantinopoli, e su questo velo disegnarsi le montagne della Moravia e dell’Ungheria, e le alpi della bassa Austria. È un rapido cangiamento di scena che si vede sempre salendo sopra un bastimento in cui s’incontrano già i visi e si sentono già gli accenti del paese per cui si parte. Siamo imprigionati in un cerchio di facce tedesche che ci fanno sentire innanzi tempo il freddo e l’uggia del settentrione. I nostri amici ci hanno lasciati: non vediamo più che tre fazzoletti bianchi che sventolano sopra un caicco lontano, in mezzo a un via vai di barconi neri, in faccia alla casa della dogana. Siamo nello stessissimo punto in cui si fermò il nostro bastimento siciliano il giorno dell’arrivo. È una bella sera d’autunno, splendida e tiepida. Costantinopoli non ci è mai parsa così ridente e così grande. Per l’ultima volta cerchiamo di fissarci nella mente i suoi contorni immensi e i suoi colori vaghi di città fatata; e slanciamo lo sguardo per l’ultima volta in fondo a quel meraviglioso Corno d’oro, che ci si nasconderà fra pochi momenti per sempre. I fazzoletti bianchi sono scomparsi. Il bastimento si muove. Tutto pare che si sposti. Scutari viene avanti, Stambul si tira indietro, Galata gira sopra sè stessa, come per vederci partire. Addio al Corno d’oro! Un guizzo del bastimento ci rapisce il sobborgo di Kassim-Pascià, un altro guizzo ci porta via Eyub, un altro, la sesta collina di Stambul; scompare la quinta, si nasconde la quarta, svanisce la terza, sfuma la seconda; non rimane più che la collina del Serraglio, la quale, grazie al cielo, non ci lascerà per un pezzo. Navighiamo già nel bel mezzo del Bosforo, rapidamente. Passa il quartiere di Top-hané, passa il quartiere di Funduclù; fuggono le facciate bianche e cesellate del palazzo di Dolma-Bagcé; e Scutari distende, per l’ultima volta, il suo anfiteatro di colli coperti di giardini e di ville. Addio, Costantinopoli! cara e immensa città, sogno della mia infanzia, sospiro della mia giovinezza, ricordo incancellabile della mia vita! Addio, bella e immortale regina dell’Oriente! Che il tempo muti le tue sorti, senza offendere la tua bellezza, e possano vederti un giorno i miei figli colla stessa ebbrezza d’entusiasmo giovanile colla quale io ti vidi e t’abbandono.

La mestizia dell’addio, però, non durò che pochi momenti, perché un’altra Costantinopoli, più vasta, più bella, più allegra di quella che lasciavo sul Corno d’oro, mi si stendeva dinanzi per la lunghezza di ventisettemila metri, sulle due più belle rive della terra.

Il primo villaggio che si presenta a sinistra, sulla riva europea del Bosforo, è Bescik- Tass; un grosso villaggio turco, o piuttosto un grande sobborgo di Costantinopoli, che si stende ai piedi d’una collina, intorno a un piccolo porto. Dietro gli s’apre una bella valle; l’antica valle degli allori di Stefano, di Bisanzio, che rimonta verso Pera; fra le case s’innalza un gruppo di platani che ombreggiano il sepolcro del famoso corsaro Barbarossa; un gran caffè, stipato di gente, sporge sulle acque, sorretto da una selva di palafitte; il porto è pieno di barche e di caicchi; la riva affollata; la collina coperta di verzura, la valle piena di case e di giardini. Ma non c’è più l’aspetto dei sobborghi di Costantinopoli. C’è già la grazia e la gaiezza tutta propria e indimenticabile dei villaggi del Bosforo. Le forme son più piccine, la verzura più fitta, i colori più arditi. È come una nidiata di casette ridenti, che paiono sospese fra la terra e l’acqua, una cittadina da innamorati e da poeti, destinata a durare quanto una passione od un estro, piantata là per un capriccio, in una bella notte d’estate. Non vi si è ancora fissato lo sguardo, che già è lontana, e ci passa davanti il palazzo di Ceragan, o piuttosto una schiera di palazzi di marmo bianco, semplici e magnifici, decorati di lunghe file di colonne e coronati di terrazze a balaustri, sui quali si drizza una merlatura vivente d’innumerevoli uccelli bianchi del Bosforo, messi in rilievo dal verde vigoroso delle colline della riva. Ma qui comincia il caro tormento di veder fuggire mille bellezze, nel punto che se ne ammira una sola. Mentre noi contempliamo Bescik-Tass e Ceragan, dall’altra parte fugge la riva asiatica, coperta di villaggi deliziosi, che si vorrebbero poter comprare e portar via, come gioielli. Fugge Kuzgundgiuk, tinto di tutti i colori dell’iride, col suo piccolo porto, dove dice la tradizione che approdasse la giovenca Io, dopo aver attraversato il Bosforo, per salvarsi dai tafani di Giunone; passa Istauros, colla sua bella moschea dai due minareti; scompare il palazzo imperiale di Beylerbey, coi suoi tetti conici e piramidali, e le sue mura gialle e grigie, che presenta l’aspetto misterioso e bizzarro di un convento di principesse; e poi il villaggio di Beylerbey, riflesso dalle acque, dietro al quale s’innalza il monte di Bulgurlù; e tutti questi villaggi, raccolti o sparsi ai piedi di piccole colline verdissime, e tuffati in una vegetazione opulenta, che par che tenda a coprirli, sono legati fra loro da ghirlande di ville e di casette e da lunghi filari d’alberi che corrono lungo la riva, o scendono a zig zag dalle alture al mare, a traverso a innumerevoli giardini e orti e piccoli prati, disposti a scacchi e a scaglioni, e coloriti d’infinite sfumature di verde.

Bisogna dunque rassegnarsi a veder tutto di volo, girando continuamente la testa a destra e a sinistra, con una regolarità automatica. Oltrepassato di poco Ceragan, si vede, a sinistra, sulla riva europea, il grande villaggio Orta-Kioi, al di sopra del quale mostra la sua cupola luccicante la moschea della Sultana Validè, madre d’Abdul-Aziz, e sporge i suoi tetti graziosi il palazzo di Riza-Pascià; ai piedi d’una collina, sulla cui cima, in mezzo a una folta vegetazione, s’alzano le muraglie bianche e leggiere del chiosco imperiale della Stella. Orta-Kioi è abitato da molti banchieri armeni, franchi e greci. In quel momento vi approdava il piroscafo di Costantinopoli. Una folla sbarcava, un’altra folla stava aspettando sullo scalo, per imbarcarsi. Erano signore turche, signore europee, ufficiali, frati, eunuchi, zerbinotti, fez, turbanti, cappellini, cappelli a staio, confusi: spettacolo che si vede in tutte le venti stazioni del Bosforo, principalmente la sera. In faccia a Orta-Kioi, sulla riva asiatica, brilla di mille colori, in mezzo a una corona di ville, il villaggio di Cengel, dell’ancora, da una vecchia ancora di ferro che trovò su quella riva Maometto II; e gli si alza alle spalle il chiosco bianco, di trista memoria, da cui Murad IV, roso da un’invidia feroce, ordinava la morte della gente allegra che passava pei campi cantando. Guardando daccapo verso l’Europa, ci troviamo in faccia al bel villaggio e al porto grazioso di Kuru-Cesmé, l’antica Anaplos, dove Medea, sbarcata con Giasone, piantò l’alloro famoso; e voltandoci nuovamente verso l’Asia, vediamo i due villaggi ridenti di Kulleli e di Vani-Kioi, sparsi lungo la riva, a destra e a sinistra d’una smisurata caserma, simile a un palazzo reale, che si specchia nelle acque. Dietro ai due villaggi s’alza una collina coronata da un grande giardino, in mezzo al quale biancheggia, quasi tutto nascosto dagli alberi, il chiosco dove Solimano il Grande visse tre anni, nascosto in una piccola torre, per sottrarsi alle ricerche delle spie e dei carnefici di suo padre Selim. Mentre noi cerchiamo la torre fra gli alberi, il bastimento passa dinanzi ad Arnot-Kioi, il villaggio degli Albanesi, ora abitato da Greci, disteso in forma di mezzaluna, sulla riva europea, intorno a un piccolo seno, pieno di bastimenti a vela. Ma come si può vedere ogni cosa? Un villaggio ci ruba l’altro, una bella moschea ci distrae da un paesaggio gentile, e mentre si guardano i villaggi ed i porti, passano i palazzi dei visir, dei pascià, delle Sultane, dei grandi eunuchi, dei gran signori; case gialle, azzurre e purpuree, che paiono galleggianti sull’acqua, vestite d’edera e di liane, coperte di terrazze colme di fiori, e mezzo nascoste in boschetti di cipressi, d’allori e d’aranci; edifizi sormontati da frontoni corinzi e decorati di colonne di marmo bianco; villette svizzere, casine giapponesi, piccole regge moresche, chioschi turchi, di tre piani, sporgenti l’uno sull’altro, che sospendono sull’azzurro del Bosforo i balconi ingraticolati degli arem, e spingono innanzi i loro piccoli scali a gradinate e i loro giardinetti accarezzati dalla corrente; tutti piccoli edifizi leggeri e passeggieri, che rappresentano appunto la fortuna dei loro abitatori: il trionfo d’una giovinetta, il buon successo d’un intrigo, un’alta carica che sarà perduta domani, una gloria che finirà nell’esilio, una ricchezza che svapora, una grandezza che crolla. Non c’è quasi tratto delle due rive che non sia coperto di case. È una specie di Canal grande d’una smisurata Venezia campestre. Le ville, i chioschi, i palazzi s’alzano l’un dietro l’altro, disposti in modo che tutta la facciata di ciascheduno è visibile, e quei di dietro paiono piantati sul tetto di quei davanti, e in mezzo agli uni e agli altri, e di là dai più lontani, tutto è verde, per tutto s’alzano punte e chiome di querce, di platani, d’aceri, di pioppi, di pini, di fichi, fra cui biancheggiano fontane e scintillano cupolette di turbé e di moschee solitarie.

Voltandoci verso Costantinopoli, vediamo ancora, confusamente, la collina del Serraglio, e la cupola enorme di Santa Sofia, che nereggia sul cielo limpido e dorato. Intanto sparisce Arnot-Kioi, Vani, Kulleli, Cengel, Orta, e tutto è mutato intorno a noi. Par di essere in un vasto lago. Una piccola baia si apre a sinistra, sulla riva europea; un’altra piccola baia a destra, sulla riva asiatica. Sulla riva di sinistra si stende a semicerchio la bella cittadina greca di Bebek, ombreggiata da alberi altissimi, fra i quali sorge una bella moschea antica e il chiosco imperiale d’Humaiun-Habad, dove altre volte i Sultani ricevevano a convegni segreti gli ambasciatori europei. Una parte della città si nasconde nella verzura folta d’una piccola valle; un’altra parte si sparpaglia alle falde d’una collina, coperta di querce, sulla cima della quale è un bosco famoso per un’eco potentissima, che risponde alla pesta d’un cavallo collo scalpitio d’uno squadrone. È un paesaggio grazioso e ridente da incapricciare una regina; ma si dimentica, voltandosi dalla parte opposta. Qui la riva dell’Asia offre una veduta da paradiso terrestre. Sopra un largo promontorio si distende, ad arco sporgente, il villaggio di Kandilli, variopinto come un villaggio olandese, con una moschea bianchissima, e un folto corteo di villette; dietro al quale s’alza la collina florida di Igiadié, sormontata da una torre merlata, che spia gl’incendi sulle due rive. A destra di Kandilli, sboccano sulla baia, a breve distanza l’una dall’altra, due valli: quella del grande e quella del piccolo ruscello celeste, fra le quali si stende la prateria deliziosa delle Acque dolci d’Asia, coperta di sicomori, di querce e di platani, e dominata dal chiosco ricchissimo della madre d’Abdul-Megid, disegnato e scolpito sullo stile del palazzo di Dolma-Bagcé, e circondato di alti giardini, rosseggianti di rose. E di là dal «gran ruscello celeste» si vedono ancora i mille colori del villaggio d’Anaduli-Hissar, steso alle falde d’un’altura, su cui si drizzano le torri snelle del castello di Baiazet-Ilderim, che fronteggia il castello di Maometto II, posto sulla riva europea. Tutto questo bel tratto del Bosforo, in quel momento, era pieno di vita. Nella baia di Europa guizzavano centinaia di barchette; passavano legni a vela e a vapore, diretti al porto di Bebek; i pescatori turchi gettavano le reti dai loro gabbiotti aerei, sostenuti sull’acqua da altissime travi incrociate; un piroscafo di Costantinopoli versava sullo scalo della cittadina europea una folla di signore greche, di Lazzaristi, di allievi della scuola protestante americana, di famigliole cariche d’involti e di vesti; e dalla parte opposta, si vedevano, col cannocchiale, gruppi di signore musulmane, che passeggiavano sotto gli alberi delle Acque dolci, o stavano sedute in crocchio sulla sponda del ruscello celeste, mentre un gran numero di caicchi e di barche a baldacchino, piene di turchi e di turche, andavano e venivano lungo la riva. Pareva una festa. Era un non so che d’arcadico e d’amoroso, che metteva voglia di buttarsi giù dal bastimento, di raggiungere a nuoto una delle due rive, e di piantarsi là, e di dire: – Nasca che nasca, non mi voglio più muovere di qui; voglio vivere e morir qui, in mezzo a questa beatitudine musulmana.

Ma a un tratto lo spettacolo cangia e tutte quelle fantasie pigliano il volo. Il Bosforo si stende diritto dinanzi a noi, e presenta una vaga immagine del Reno; ma d’un Reno ingentilito, e tinto sempre dei colori caldi e pomposi dell’oriente. A sinistra, un cimitero coperto da un bosco di cipressi e di pini, rompe la linea delle case, sino a quel punto non interrotta; e subito appresso, alle falde del piccolo monte roccioso d’Hermaion, s’innalzano le tre grandi torri di Rumili-Hissar, il castello d’Europa, circondate di avanzi di mura merlate e di torri minori, che scendono in una gradinata pittoresca di rovine fin sull’orlo della riva. È il castello famoso che innalzò Maometto II un anno prima della presa di Costantinopoli, malgrado le calde rimostranze di Costantino, i cui ambasciatori, come tutti sanno, furono rimandati indietro minacciati di morte. È quello il punto in cui è più impetuosa la corrente (chiamata perciò «gran corrente» dai Greci e corrente di Satana dai Turchi) ed è pure il tratto più stretto del Bosforo, non distando le due rive che poco più di cinquecento metri. Là fu gettato da Mandocle di Samo il ponte di barche su cui passarono i settecentomila soldati di Dario, e là pure si crede che siano passati i diecimila, ritornando dall’Asia. Ma non rimane più traccia né delle due colonne di Mandocle, nè del trono scavato nella roccia del monte Hermaion, dal quale il re persiano avrebbe assistito al passaggio del suo esercito. Un piccolo villaggio turco sorride segretamente, rannicchiato ai piedi del castello, e la riva asiatica fugge sempre più verde e più allegra. È una successione continua di casette di barcaioli e di giardinieri, di vallette che riboccano di vegetazione, di piccoli seni solitari quasi coperti dai rami giganteschi degli alberi della riva, sotto i quali passano lentamente delle velette bianche di pescatori; di prati fioriti che scendono con un declivio dolcissimo fino all’orlo della riva; di piccole rocce da giardino fasciate d’edera; di piccoli cimiteri che biancheggiano sulla sommità di alti poggi tagliati a picco. Improvvisamente, balza fuori sulla stessa riva asiatica, il bel villaggio di Kanlidgié, tutto vermiglio, posto su due promontori rocciosi, contro i quali si rompono le onde rumorosamente, e ornato d’una bella moschea che slancia i suoi due minareti candidi fuori d’una macchia di cipressi e di pini a ombrello. E qui ricominciano a innalzarsi i giardini, a modo di belvederi, l’uno dietro l’altro, e a spesseggiare le ville, fra le quali splende il palazzo incantevole di quel celebre Fuad-Pascià, diplomatico e poeta, vanitoso, voluttuoso e gentile, che fu chiamato il Lamartine ottomano. Poco più innanzi, sulla riva europea, si mostra il villaggio amenissimo di Balta-Liman, posto all’imboccatura d’una valletta, per cui scende nel porto un piccolo fiume, e dominato da una collina sparsa di ville, fra le quali s’alza l’antico palazzo di Rescid-Pascià; e poi la piccola baia d’Emir-Ghian-Ogli Bagcè, tutta verde di cipressi, in mezzo ai quali brilla d’una bianchezza di neve una moschea solitaria, lambita dalle acque, e sormontata da un grande globo irto di raggi d’oro. Intanto il bastimento s’avvicina ora all’una ora all’altra riva, e allora si vedono mille particolari del grande paesaggio: qui il vestibolo del selamlik d’una ricca casa turca, aperto sulla sponda, in fondo al quale fuma un grosso maggiordomo, coricato sopra un divano; là un eunuco, ritto sull’ultimo gradino della scala esterna d’una villa, che aiuta due turche velate a scendere in un caicco; più oltre un giardinetto circondato di siepi, e quasi interamente coperto da un platano, ai piedi del quale riposa, a gambe incrociate, un vecchio turco dalla barba bianca, che medita sul Corano; famiglie di villeggianti raccolte sulle terrazze; branchi di capre e di pecore che pascolano per i prati alti; cavalieri che galoppano lungo la riva, carovane di cammelli che passano sulla sommità delle colline, disegnando i loro contorni bizzarri sul cielo sereno.

All’improvviso il Bosforo s’allarga, la scena cangia, siamo di nuovo fra due baie, nel mezzo d’un vasto lago. A sinistra è una baia stretta e profonda, intorno alla quale gira la cittadina greca d’Istenia; Sosthenios, dal tempio e dalla statua alata che innalzarono là gli Argonauti, in onore del Genio tutelare che li aveva resi vittoriosi nella lotta contro Amico, re di Bebrice. Grazie a una leggera curva che descrive il bastimento verso l’Europa, vediamo distintamente i caffè e le casette schierate lungo la riva, le piccole ville sparse fra gli olivi e i vigneti, la valle che sbocca nel porto, il torrentello che precipita da un’altura e la famosa fontana moresca di marmo bianco nitidissimo, ombreggiata da un gruppo d’aceri enormi, da cui spenzolano le reti dei pescatori, in mezzo a un va e vieni di donnine greche, che portano le anfore sul capo. In faccia a Istenia, sopra la baia della riva asiatica, fa capolino, fra gli alberi, il villaggio turco di Cibulkú, dove c’era il convento rinomato dei Vigili, che pregavano e cantavano, senza interruzione, il giorno e la notte. Le due rive del Bosforo sono piene, da un mare all’altro, delle memorie di questi cenobiti e anacoreti fanatici del quinto secolo, che erravano per i colli, carichi di croci e di catene, tormentati da cilici e da collari di ferro, o che stavano settimane e mesi, immobili sulla cima d’una colonna o d’un albero, intorno a cui andavano a prostrarsi, a digiunare, a pregare, a percotersi il petto principi, soldati, magistrati e pastori, invocando una benedizione o un consiglio, come una grazia di Dio. Ma è un potere singolare che ha il Bosforo, quello di sviare irresistibilmente dal passato il pensiero del viaggiatore che scorra per le prime volte lungo le sue rive. Tutti i ricordi, tutte le immagini più grandi, più belle o più tristi, che possa fornire la storia o la leggenda di quei luoghi, rimangono offuscate, soverchiate, sto per dire sepolte da quel rigoglio prodigioso di vegetazione, da quello sfolgorio di colori festosi, da quella esuberanza di vita, dalla giovinezza poderosa e superba di quella bella natura tutta sorriso e tutta festa. Bisogna fare uno sforzo per credere che in quelle acque, in mezzo a quella bellezza fatata, abbiano potuto urtarsi furiosamente, ardersi e insanguinarsi, le flotte dei bulgari, dei goti, degli eruli, dei bizantini, dei russi, dei turchi. I castelli medesimi, che coronano le colline, non destano nemmeno un’idea di quel sentimento di terrore poetico, che ispirano in altri luoghi le rovine di quella natura; e paion piuttosto una decorazione artificiale del paesaggio, che monumenti veri di guerra, che un giorno abbiano vomitato la morte. Tutto è come velato da una tinta di languore e di dolcezza che non desta se non pensieri sereni e un desiderio immenso di pace.

Di là da Istenia il Bosforo s’allarga ancora, e il bastimento arriva in pochi minuti in un punto da cui si gode la più stupenda veduta di quante se ne sono offerte sinora ai nostri occhi. Voltandoci verso l’Europa, abbiamo davanti la piccola città greca ed armena di Ieni- Kioi, posta alle falde d’un’alta collina coperta di vigneti e di boschetti di pini, e distesa ad arco sporgente sopra una riva rocciosa, contro cui si rompe la corrente con grande strepito; e un po’ più in là, la bellissima baia di Kalender, piena di barchette, contornata di casette da giardino, e inghirlandata da una vegetazione lussureggiante, sopra la quale sporgono le terrazze aeree d’un chiosco imperiale. Voltandoci indietro, abbiamo davanti la riva asiatica che s’incurva in un grande arco, formando un meraviglioso anfiteatro di colli, di villaggi e di porti. È Indgir-Kioi, il villaggio dei fichi, coronato di giardini; accanto a Indgir-Kioi, Sultanié, che par nascosto in un bosco; dopo Sultanié, il grosso villaggio di Beikos, circondato di orti e di vigneti, e ombreggiato da altissimi noci, il quale si specchia nel più bel golfo del Bosforo, che è l’antico golfo dove il re di Bebrice fu vinto da Polluce, e dov’era l’alloro prodigioso che faceva impazzire chi ne toccava le foglie; e di là da Beikos, lontano, il villaggio di Iali, l’antica Amea, che non par più che un mucchio di fiori gialli e vermigli sopra un grande tappeto verde. Ma questo non è che un abbozzo del grande quadro. Bisogna immaginare le forme indescrivibilmente gentili di quei colli, che si vorrebbero accarezzare colla mano; quegli innumerevoli piccolissimi villaggi senza nome, che paiono messi là dalla mano d’un pittore; quella vegetazione di tutti i climi, quelle architetture di tutti i paesi, quelle gradinate di giardini, quelle cascatelle d’acqua, quelle ombre cupe, quelle moschee luccicanti, quell’azzurro picchiettato di vele bianche e quel cielo rosato dal tramonto.

Ma arrivato là provai anch’io un senso di sazietà, come lo provano quasi tutti, a un certo punto del Bosforo. Stanca quella successione interminabile di linee molli e di colori ridenti. È una monotonia di gentilezza e di grazia in cui il pensiero si addormenta. Si vorrebbe veder sorgere tutt’a un tratto sopra una di quelle rive una roccia smisurata e deforme o stendersi un lunghissimo tratto di spiaggia deserta e triste, sparsa degli avanzi d’un naufragio. E allora, per distrarsi, non c’è che a fissar l’attenzione sulle acque. Il Bosforo pare un porto continuo. Si passa accanto alle corazzate splendide dell’armata ottomana; in mezzo a flotte di bastimenti mercantili di tutti i paesi, dalle vele variopinte e dalle poppe bizzarre, affollate di gente strana; s’incontrano i legni dalle forme antiche dei porti asiatici del Mar Nero, e le piccole corvette eleganti delle Ambasciate; passano, come saette, le barchette a vela dei signori, che volano a gara, sotto gli occhi degli spettatori schierati sulla riva; barche di tutte le forme, piene di gente di tutti i colori, si spiccano o approdano ai mille piccoli scali dei due continenti; i caicchi rimorchiati guizzano in mezzo a lunghe file di barconi carichi di mercanzie; le lance imbandierate dei marinai si incrociano colle zattere dei pescatori, coi caicchi dorati dei Pascià, coi piroscafi di Costantinopoli, pieni di turbanti, di fez e di veli, che attraversano il canale a zig zag per toccare tutte le stazioni. E siccome anche il nostro bastimento va innanzi serpeggiando, così tutto questo spettacolo par che ci giri intorno: i promontori si spostano, le colline cambiano inaspettatamente di forma, i villaggi si nascondono e poi ricompaiono in un nuovo aspetto, e davanti e dietro di noi, ora il Bosforo si chiude come un lago, ora s’apre e lascia vedere una fuga di laghi e di colli lontani; poi, tutt’a un tratto, le colline tornano a congiungersi davanti e di dietro, e si rimane in una conca verde da cui non si capisce come si potrà uscire; ma s’ha appena il tempo di scambiar dieci parole con un vicino, che già la conca è sparita, e si vedono intorno nuove alture, nuove città, nuovi porti.

Si è fra la baia di Terapia, – Pharmacia, dei veleni di Medea –, e la baia di Hunchiar Iskelessi, scalo dei Sultani, dove fu segnato nel 1833 il trattato famoso che chiuse i Dardanelli alle flotte straniere. Qui lo spettacolo del Bosforo è al penultimo grado della sua bellezza. Terapia è la più splendida cittadina che orni le sue rive, dopo Bujukderè, e la valle che si apre dietro la baia di Hunchiar-Iskelessi è la più verde, la più cara, la più poetica valle che si possa ammirare fra il Mar di Marmara e il Mar Nero. Terapia si stende in parte sopra una riva diritta, ai piedi di una grande collina, e parte intorno a un seno profondo, che è il suo porto, pieno di bastimenti e di barche, sul quale sbocca la valletta di Krio-nero, in cui un’altra parte della città s’appiatta fra la verzura. La riva del mare è tutta coperta di caffè pittoreschi, che sporgono sull’acqua, di alberghi signorili, di casette pompose, di gruppi d’alberi altissimi, che ombreggiano piazzette e fontane; di là dai quali s’alzano i palazzi d’estate delle Ambasciate di Francia, d’Italia e di Inghilterra, e sopra questi, un chiosco imperiale; e tutt’intorno, e su per la collina, terrazze su terrazze, giardini su giardini, ville su ville, boschetti sopra boschetti; e gente vestita di vivi colori formicola nei caffè, nel porto, sulle rive, su per i sentieri delle alture, come in una piccola metropoli in festa. Dalla parte dell’Asia, invece, tutto è pace. Il piccolo villaggio di Hunchiar- Iskelessi, soggiorno prediletto dei ricchi armeni di Costantinopoli, dorme fra i platani e i cipressi, intorno al suo piccolo porto, percorso da poche barchette furtive; di là dal villaggio, sulla cima d’una vasta scala di giardini, torreggia, solitario, il chiosco magnifico d’Abdul-Aziz; e di là dal chiosco svolta e si nasconde, in mezzo a uno sfarzo indescrivibile di vegetazione tropicale, la valle favorita dei Padiscià, piena di misteri e di sogni.

Ma tutta questa bellezza non par più nulla, un miglio più innanzi, quando il bastimento è arrivato davanti al golfo di Bujuk-deré. Qui è la maestà e la grazia suprema del Bosforo. Qui chi era già stanco della sua bellezza, ed aveva pronunciato irriverentemente il suo nome, si scopre la fronte, e gli domanda perdono. Si è in mezzo a un vasto lago coronato di meraviglie, che ispira l’idea di mettersi a girare, come i dervis, sulla prora del bastimento, per veder tutte le rive e tutte le colline in un punto. Sulla riva d’Europa, intorno a un golfo profondo, dove va a morire la corrente in molli ondulazioni, alle falde d’una grande collina, sparsa di ville innumerevoli, s’allarga la città di Bujuk- derè, vasta, colorita come un’immensa aiuola di fiori, tutta palazzine, chioschi e villette tuffate in una verzura vivissima, che par che esca dai tetti e dai muri, e colmi le strade e le piazze. La città si stende a destra fino ad un piccolo seno, che è come un golfo nel golfo, intorno a cui gira il villaggio di Kefele-Kioi; e dietro a questo s’apre una larga vallata, tutta verde di praterie, e biancheggiante di case, per la quale si va al grande acquedotto di Mahmud e alla foresta di Belgrado. È la valle in cui, giusta la tradizione, si sarebbe accampato nel 1096 l’esercito della prima crociata; e uno dei sette platani giganteschi, a cui il luogo deve la sua fama, è chiamato il platano di Goffredo di Buglione. Di là da Kefele- Kioi, s’apre un’altra baia, verde di cipressi e bianca di case, e di là dalla baia, si vede ancora Terapia, sparpagliata ai piedi della sua collina verde cupa. Arrivati fin là collo sguardo, ci si volta indietro, verso l’Asia, e si prova un sentimento vivissimo di sorpresa. Si è dinanzi al più alto monte del Bosforo, il monte del Gigante, della forma d’una enorme piramide verde, dov’è il sepolcro famoso, chiamato da tre leggende «letto d’Ercole, fossa d’Amico, tomba di Giosuè giudice degli Ebrei;» custodito ora da due dervis e visitato dai musulmani infermi, che vanno a deporvi i brandelli dei loro vestiti. Il monte spinge le sue falde alberate e fiorite fin sulla riva, dove, fra due promontori verdeggianti, s’apre la bella baia d’Umuryeri, macchiettata di cento colori dalle case d’un villaggio musulmano disperso capricciosamente sulle sue sponde, al quale fanno ala altri branchi di villini e di casette, disseminate, come fiori buttati via, per le praterie e per le alture vicine. Ma lo spettacolo non è tutto in questo cerchio. Diritto in faccia a noi luccica il Mar Nero; e voltandoci verso Costantinopoli, si vede ancora, di là da Terapia, in una lontananza violacea e confusa, la baia di Kalender, Kieni-Kioi, Indgir-Kioi, Sultanié, che paiono, piuttosto che prospetti veri, vedute immaginarie d’un mondo remoto. Il sole tramonta; la riva d’Europa comincia a velarsi di ombre azzurrine e cineree; la riva d’Asia è ancora dorata; le acque lampeggiano; sciami di barchette, cariche di mariti e d’amanti, reduci da Costantinopoli, corrono verso la riva europea, incontrate, arrestate, circuite da altre barchette, cariche di signore e di fanciulli, che vengono dalle ville; dai caffè di Bujukderè ci arrivano suoni interrotti di musiche e di canti; le aquile ruotano sopra la montagna del Gigante, i marki bianchi svolazzano lungo la riva, gli alcioni radono le acque, i delfini guizzano intorno al bastimento, l’aria fresca del Mar Nero ci soffia nel viso. Dove siamo? Dove andiamo? È un momento d’illusione e d’ebbrezza, in cui i ricordi di tutto quello che vediamo da due ore sulle due rive del Bosforo, si confondono nella nostra mente nella immagine d’una sola prodigiosa città, dieci volte più grande di Costantinopoli, abitata da popoli di tutta la terra, privilegiata di tutti i favori di Dio, e abbandonata a una festa perpetua, che ci riempie di tristezza e d’invidia.

Ma questa è l’ultima visione. Il bastimento esce rapidamente fuori del golfo di Buiukderé. Vediamo a sinistra il villaggio di Sariyer, circondato di cimiteri, dinanzi al quale s’apre una piccola baia, formata da quell’antico promontorio di Simas, dove s’innalzava il tempio a Venere meretricia, oggetto d’un culto particolare dei naviganti greci; poi il villaggio di Jeni-Makallé; poi il forte di Teli-Tabia, che fa fronte a un altro piccolo forte posto sulla riva asiatica, ai piedi del monte del Gigante; poi il castello Rumili-Cavak, che segna i suoi contorni severi sul cielo rosato dagli ultimi chiarori del crepuscolo. Sull’altra riva, di fronte a Rumili-Kavak, s’alza un’altra fortezza, la quale corona il promontorio, ove sorgeva il tempio dei dodici Dei, costrutto dall’argivo Frygos, vicino a quello di Giove «distributore dei venti propizi», fondato dai Calcedonesi, e convertito poi da Giustiniano in una chiesa consacrata all’arcangelo Michele. È quello il punto dove il Bosforo si restringe per l’ultima volta, fra l’estremo contrafforte delle montagne di Bitinia e l’estrema punta della catena dell’Hemus; considerato sempre come la prima porta del canale, da difendersi contro le invasioni del Settentrione, e teatro, perciò, di lotte ostinate fra bizantini e barbari, fra veneziani e genovesi. Due castelli genovesi, posti l’uno in faccia all’altro, fra i quali era stesa una catena di ferro che chiudeva il canale, mostrano ancora confusamente, là presso, le loro torri e le loro mura rovinate. Da quel punto il Bosforo va diritto, gradatamente allargandosi, al mare; le due rive sono alte e ripide, come due enormi bastioni, e non mostrano più che qualche gruppo di case meschine, qualche torre solitaria, qualche rovina di monastero, qualche avanzo di moli e d’argini antichi. Dopo un lungo tragitto, vediamo ancora scintillare sulla riva europea i lumi del villaggio di Buiuk- Liman, e dall’altra parte la lanterna d’una fortezza, che domina il promontorio dell’Elefante; poi, a sinistra, la gran massa rocciosa dell’antica Gipopoli, dove sorgeva il palazzo di Fineo, infestato dalle Arpie; e a destra la fortezza del capo Poiraz, che ci appare come una vaga macchia oscura sul cielo grigiastro. Qui le rive sono lontanissime; il canale par già un grande golfo; la notte discende, la brezza marina geme fra i cordami del bastimento, e il tristo mare cimmerium stende dinanzi a noi il suo infinito orizzonte livido e inquieto. Ma il pensiero non si può ancora staccare da quelle rive piene di poesia e di memorie, non più sopraffatte dalla bellezza della natura; e vola, a sinistra, ai piedi dei piccoli Balcani, a cercare la torre d’Ovidio esule, e la muraglia meravigliosa d’Anastasio; e vaga, a destra, per una vasta terra vulcanica, a traverso le foreste infestate dai cinghiali e dagli sciacalli, in mezzo alle capanne d’un popolo selvaggio e malnoto, di cui ci par di vedere le ombre bizzarre affollate sull’alta riva, che c’imprechino un viaggio malavventurato sulle fera litora Ponti. Due punti luminosi rompono per l’ultima volta l’oscurità, come gli occhi ardenti di due ciclopi, messi a guardia dello stretto fatato: l’Anaduli-Fanar, il fanale dell’Asia, a destra; e il Rumili-Fanar a sinistra, ai piedi del quale le Simplegadi favolose ci mostrano ancora vagamente, nell’ombra della riva, i profili tormentati delle loro rocce. Poi i due lidi dell’Europa e dell’Asia non son più che due strisce nere, e poi quocumque adspicias, nihil est nisi pontus et aer, come cantava il povero Ovidio. Ma la vedo ancora, la mia Costantinopoli, dietro a quelle due rive nere scomparse; la vedo più grande e più luminosa ch’io non l’abbia mai veduta dal ponte della Sultana Validé e dalle alture di Scutari; e le parlo e la saluto e l’adoro come l’ultima e la più cara visione della mia giovinezza che tramonta. Ma uno spruzzo improvviso d’acqua salsa m’innaffia il volto e mi butta in terra il cappello; – mi sveglio; – mi guardo intorno; – la prora è deserta, il cielo è nebbioso, un vento rigido d’autunno mi agghiaccia le ossa, il mio buon Yunk, preso dal mal di mare, m’ha lasciato; non sento più che il tintinnio delle lanterne e lo scricchiolio del bastimento che fugge, sballottato dalle onde, nell’oscurità della notte…. Il mio bel sogno orientale è finito.


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

17- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: I Turchi

17- I Turchi

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

Ora, prima di salire sul bastimento austriaco che fuma nel Corno d’oro, in faccia a Galata, pronto a partire per il Mar Nero, mi rimane da esporre modestamente, da povero viaggiatore, alcune osservazioni generali, che rispondano alla domanda: – Che cosa t’è parso dei Turchi? – osservazioni spontanee, liberissime da ogni considerazione degli avvenimenti presenti, e ricavate tali e quali dalle mie memorie di quei giorni. A quella domanda: – Che cosa t’è parso dei Turchi? – mi si ravviva, per prima cosa, l’impressione che produsse in me, così il primo giorno che l’ultimo, l’aspetto esteriore della popolazione maschia di Stambul. Anche non tenendo conto della differenza delle forme fisiche, è un’impressione affatto diversa da quella che produce la gente di qualunque altra città europea. Sembra di vedere un popolo – non so come render meglio la mia idea – nel quale tutti pensino perpetuamente alla medesima cosa. La stessa impressione può produrre, in un abitante dell’Europa meridionale, che osservi superficialmente, gli abitanti delle città nordiche; ma la cosa è molto diversa. Questi hanno la serietà e il raccoglimento di gente affaccendata, che pensi ai fatti propri; i turchi hanno l’aspetto di gente che pensi a qualche cosa remota e indeterminata. Paiono tutti filosofi assorti in un’idea fissa, o sonnambuli, che camminino senza accorgersi del luogo dove sono e delle cose che hanno intorno. Guardano tutti diritto e lontano come chi è abituato a contemplare dei grandi orizzonti, e hanno una vaga espressione di tristezza negli occhi e nella bocca, come chi è abituato a vivere molto chiuso in sé stesso. È in tutti la stessa gravità, la stessa compostezza di modi, lo stesso riserbo del linguaggio, dello sguardo, dei gesti. Paiono tutti signori, educati tutti ad un modo, dal pascià al merciaiolo, e ammantati d’una specie di dignità aristocratica, la quale fa sì che nessuno s’accorgerebbe, a primo aspetto, che ci sia una plebe a Stambul, se non fosse la differenza dei vestimenti. Son quasi tutti visi freddi, che non rivelano affatto l’animo e il pensiero. È rarissimo trovare una di quelle fisonomie chiare, così frequenti tra noi, che sono come lo specchio d’un’indole amorevole o appassionata o bisbetica, e che consentono un giudizio pronto e sicuro dell’uomo. Fra loro ogni viso è un enimma; il loro sguardo interroga, ma non risponde; la loro bocca non tradisce nessun movimento del cuore. Non si può dire quanto pesi sull’animo dello straniero questo mutismo dei volti, questa freddezza, questa uniformità d’atteggiamenti statuari e di sguardi fissi, che non dicono nulla. A volte vien voglia di gridare in mezzo alla folla: – Ma scotetevi una volta! diteci chi siete, che cosa pensate, che cosa vedete dinanzi a voi, per aria, con quegli occhi di vetro! – E la cosa par tanto strana, che si stenta quasi a credere che sia naturale; si dubita, in qualche momento, che sia una finzione convenuta, o l’effetto passeggiero di qualche malattia morale comune a tutti i musulmani di Costantinopoli. Dà nell’occhio alle prime, però, in quella uniformità di modi e d’atteggiamenti, una differenza notevole d’aspetto fra una parte e l’altra della popolazione. I tratti originali della razza turca, che è bella e robusta, non son rimasti inalterati che nel basso popolo, che serba per necessità o per sentimento religioso la sobrietà di vita dei suoi padri. In esso si vedono i corpi asciutti e vigorosi, le teste ben formate, gli occhi vivi, il naso aquilino, le ossa mascellari prominenti, e un che di forte e d’ardito in tutte le forme della persona. I turchi delle alte classi, per contro, in cui è antica la corruzione e maggiore la mescolanza del sangue straniero, hanno per lo più dei corpi grossi d’una molle pinguedine, teste piccine, fronti basse, occhi senza lampo, labbra cadenti. E a questa differenza fisica corrisponde una non meno grande, o forse maggiore differenza morale, che è quella che corre fra il turco vero, schietto, antico, e quell’essere ambiguo, senza colore e senza sapore, che si chiama il turco della riforma. Dal che nasce una grande difficoltà allo studiare quello che si chiama in modo generale il popolo turco; poiché colla parte di esso, che ha serbato intatto il carattere nazionale, o non c’è modo di mescolarsi o non c’è verso d’intendersi; e l’altra parte, colla quale c’è facilità di commercio e d’osservazione, non rappresenta fedelmente né l’indole ne le idee della nazione. Ma né la corruzione né la nuova tinta di civiltà europea ha ancora tolto ai turchi delle classi superiori quel non so che d’austero e di vagamente triste, che si osserva nel popolo basso, e che, non considerato negli individui, ma nella generalità della popolazione, produce un’impressione innegabilmente favorevole. A giudicarne, in fatti, dall’apparenza, la popolazione turca di Costantinopoli parrebbe la più civile e la più onesta dell’Europa. Non si dà caso, nemmeno per le strade più solitarie di Stambul, che uno straniero sia insultato; si possono visitare le moschee, anche durante le preghiere, con assai più sicurezza d’essere rispettati che non potrebbe averne un turco che visitasse le nostre chiese; tra la folla, non s’incontra mai uno sguardo, non dico insolente, ma neanche troppo curioso; rarissime le risse, rarissima la gente del popolo che si scanagli in mezzo alla strada, nessun vocìo di donnacole alle porte, alle finestre, nelle botteghe; nessun’apparenza pubblica di prostituzione, nessun atto indecente; il mercato poco meno dignitoso della moschea; per tutto una gran parsimonia di gesti e di parole; non canti, non risate clamorose, non schiamazzi plebei, non crocchi importuni che impediscano il passo; visi, mani e piedi puliti; rari i cenci, e raramente sudici; punto becerume; e una manifestazione universale e reciproca di rispetto fra tutte le classi sociali. Ma ciò non è che apparenza. Il marcio è nascosto. La corruzione è dissimulata dalla separazione dei due sessi, l’ozio è larvato dalla quiete, la dignità fa da maschera all’orgoglio, la compostezza grave dei visi, che pare indizio di profondi pensieri, nasconde l’inerzia mortale dell’intelletto, e quella che sembra temperanza civile di vita, non è che mancanza di vera vita. La natura, la filosofia, l’intera vita di questo popolo è significata da uno stato particolare dello spirito e del corpo, che si chiama Kief, e che è il supremo dei suoi piaceri. Aver mangiato parcamente, aver bevuto un bicchiere d’acqua di fonte, aver detto le preghiere, sentire la carne quieta e la coscienza tranquilla, e star così, in un punto da cui si veda un vasto orizzonte, seduti all’ombra d’un albero, seguitando collo sguardo i colombi del cimitero sottoposto, i bastimenti lontani, gl’insetti vicini, le nuvole del cielo e il fumo del narghilé, pensando vagamente a Dio, alla morte, alla vanità dei beni della terra e alla dolcezza del riposo eterno d’un’altra vita: ecco il Kief. Star spettatore inoperoso del gran teatro del mondo: ecco la grande aspirazione del turco. A questo lo porta la sua natura antica di pastore contemplativo e lento, la sua religione che lega le braccia all’uomo, rimettendo ogni cosa a Dio, la sua tradizione di soldato dell’islamismo, per il quale non c’è altra azione veramente grande e necessaria che combattere e vincere per la propria fede, e finita la battaglia, ogni dovere è compiuto. Per lui, tutto è fatale; l’uomo non è che uno strumento nelle mani della Provvidenza; è inutile che egli si agiti per dare alle cose umane altro corso da quello che è prescritto nel cielo; la terra è un caravanserai; Dio ha creato l’uomo perchè vi passi, pregando e ammirando le sue opere; lasciamo fare a Dio; lasciamo cadere quello che cade e passare quello che passa; non ci affanniamo per rinnovare, non ci affanniamo per conservare. Così il suo supremo desiderio è la quiete, ed egli si preserva con somma cura da tutte le commozioni che possono turbare l’armonia pacata della sua vita. Quindi né avidità di sapere, né febbre di guadagni, né furore di viaggi, né passioni vaghe e inappagabili d’amore e d’ambizione. La mancanza dei moltissimi bisogni intellettuali e fisici, per soddisfare i quali noi lottiamo con un lavoro continuo, fa sì ch’egli non comprenda nemmeno in noi la ragione di questo lavoro. Egli lo considera come un indizio di aberrazione morbosa del nostro spirito. L’ultimo scopo d’ogni fatica parendogli necessariamente la pace di cui egli gode senza affaticarsi, gli pare altresì che sia più saggio e più utile l’arrivarci per la via breve e piana per cui egli ci arriva. Tutto il grande lavorio di pensieri e di braccia dei popoli europei, gli pare un anfanamento puerile, perché non ne vede gli effetti in una possessione maggiore della sua felicità ideale. Non lavorando, non ha sentimento del valore del tempo; e mancandogli questo sentimento, non può né desiderare né pregiare tutti i trovati dell’ingegno umano che tendono ad accelerare la vita e il cammino dell’umanità. È capace di domandarsi a che cosa giovi una strada ferrata se non conduce a una città dove si possa viver più felici che in quella da cui si parte. La sua fede fatalista, che gli fa parer vano il darsi pensiero dell’avvenire, è cagione pure ch’egli non pregi nessuna cosa se non per quel tanto di godimento sicuro e immediato che gli può procurare. Perciò non gli pare che un sognatore l’europeo che prevede e che prepara, che getta le fondamenta d’un edifizio di cui non vedrà il compimento, che consuma le sue forze, che sacrifica la sua pace ad un fine dubbio e lontano. Perciò giudica la nostra razza una razza frivola, meschina, presuntuosa, imbastardita, di cui il solo pregio è una scienza orgogliosa delle cose terrene, ch’egli disdegna, se non in quanto è costretto a valersene per non rimanerci al di sotto. E ci disprezza. Per me è questo il sentimento dominante che ispiriamo noi europei ai veri turchi che costituiscono ancora la grande maggioranza della nazione; e si potrà negare e fingere di non crederci; ma non si può non sentire da chi sia vissuto poco o molto in mezzo a loro. E questo sentimento di disprezzo deriva da molte cagioni: la prima delle quali è la considerazione d’un fatto significantissimo per essi: che cioè, da più di quattro secoli, benché relativamente scarsi di numero, dominano una gran parte di Europa di fede avversa alla loro, e vi si mantengono malgrado tutto quello che accadde e che accade. La parte minima della nazione vede la cagione di questo fatto nelle gelosie e nelle discordie degli Stati d’Europa; la parte maggiore la vede invece nella superiorità delle proprie forze, e nel nostro avvilimento. Non cade neppur nella mente, infatti, a nessun turco del volgo che un’Europa islamitica avrebbe subito e subirebbe l’affronto d’una conquista cristiana dai Dardanelli al Danubio. Ai vanti della nostra civiltà, essi oppongono il fatto della loro dominazione. Orgogliosi di sangue, fortificati in quest’orgoglio dalla consuetudine dell’impero, abituati a sentirsi dire, in nome di Dio, ch’essi appartengono a una razza conquistatrice, nata alla guerra, non al lavoro, abituati anzi a vivere del lavoro dei vinti, non comprendono nemmeno come i popoli soggetti a loro possano accampare un diritto qualsiasi all’eguaglianza civile. Per loro, posseduti da una fede cieca nel regno sensibile della Provvidenza, la conquista dell’Europa è stata l’adempimento di un decreto di Dio; è Dio che li ha investiti, in segno di predilezione, di questa sovranità terrena; e il fatto ch’essi la conservino, contro tante forze ostili, è una prova incontestabile del loro diritto divino, e nello stesso tempo un argomento luminoso in favore della verità della loro fede. Contro questo loro sentimento si spezzano tutti i ragionamenti di civiltà, di diritto, d’eguaglianza. La civiltà per loro non è che una forza ostile che vuol disarmarli senza combattere, a poco a poco, a tradimento, per abbassarli a paro dei loro soggetti e spogliarli della loro dominazione. Quindi, oltre al disprezzarla come vana, la temono come nemica; e poiché non possono respingerla colla forza, le oppongono la invincibile resistenza della loro inerzia. Trasformarsi, incivilirsi, eguagliarsi ai loro soggetti, essi comprendono che significa doversi mettere a gareggiare con quelli d’ingegno, di studio e di lavoro; acquistare una superiorità nuova; rifare colle forze dello spirito la conquista già fatta colla spada; e a questo s’oppone, oltre il loro interesse materiale di dominatori, il loro disprezzo religioso per gli infedeli, la loro alterezza soldatesca, la loro indolenza fatta seconda natura, l’indole del loro ingegno mancante d’ogni facoltà iniziatrice, e intorpidito nell’immobilità di quelle cinque idee tradizionali, che formano tutto il patrimonio intellettuale della nazione. Essi non vedono, d’altra parte, in quella classe sociale, che accetta, secondo loro, la civiltà europea, e che rappresenta ai loro occhi lo stato in cui l’Europa vorrebbe veder ridotti tutti i figli d’Osmano, non vedono in quei loro fratelli in soprabito e in guanti, che balbettano il francese e non vanno alla moschea, un esempio che possa ragionevolmente convertirli. Come rappresenta la civiltà quella parte della nazione ottomana? Su questo son presso a poco tutti d’accordo. Il nuovo turco non vale il vecchio. Egli ha preso i nostri panni, i nostri comodi, i nostri vizi, le nostre vanità; ma non ha accolto, per ora, né i nostri sentimenti, né le nostre idee; e in questa trasformazione parziale, ha perduto quello che c’era di buono in fondo alla sua natura genuina di Osmano. Il vecchio turco non vede per ora altri frutti dell’incivilimento che una più diffusa peste dicasterica, un’impiegataglia innumerevole, oziosa, inetta, miscredente, rapace, mascherata alla franca, che disprezza tutte le tradizioni nazionali, e una specie di jeunesse dorée, corrotta e sfrontata, che promette di riuscire assai peggiore dei suoi padri. Così vestire e così vivere, giusta il concetto del vero turco, è esser civili; e infatti egli chiama fare, pensare, vivere alla franca, tutti gli usi e tutte le azioni che non solo la sua coscienza di maomettano, ma la coscienza di qualunque uomo onesto condanna. Considera quindi gli «inciviliti», non come musulmani più avanzati degli altri sulla via d’un miglioramento qualsiasi; ma come gente scaduta, traviata, poco meno che apostata e che traditrice della nazione; e diffida delle novità, e le respinge per quanto è in lui, non foss’altro che perché gli vengono da quella parte, in cui egli ne vede tutto giorno gli effetti funesti. Ogni novità europea è per lui un attentato contro il suo carattere e contro i suoi interessi. Il governo è rivoluzionario, il popolo è conservatore; la semenza delle nuove idee casca in un terreno rigido e unito che le rifiuta gli umori per la fecondazione; la mano di chi regge le cose, stringe ed agita l’elsa; ma la lama gira nel manico. Questa è la ragione per cui tutta l’opera riformatrice che si va tentando da cinquant’anni, non ha ancora passato la prima pelle della nazione. Si sono mutati i nomi, sono rimaste le cose. Il poco che fu fatto, fu fatto colla violenza, e a questo il popolo attribuisce l’audacia crescente degl’infedeli, la corruzione che piglia campo nel cuore dell’impero, e tutte le sventure nazionali. Perché mutare le nostre istituzioni, egli si domanda, se son quelle colle quali abbiamo vinto e dominato per secoli? Perché adottar quelle che non ebbero forza di resistere all’urto della nostra spada? L’organesimo, la vita, le tradizioni del popolo turco son quelle d’un esercito vincitore accampato in Europa; esso ne esercita il comando, ne gode i privilegi e gli ozii, e ne sente l’orgoglio; e come tutti gli eserciti, preferisce la disciplina di ferro, che gli concede la prepotenza sui vinti, a una disciplina più mite, ma che incatena il suo arbitrio di vincitore. Ora lo sperare che questo stato di cose, immobile da secoli, possa mutare nel giro di pochi anni, è un sogno. Le avanguardie leggere della civiltà possono procedere quanto vogliono rapidamente; ma il grosso dell’esercito, carico ancora delle pesanti armature medioevali, o non si muove, o non le segue che alla lontana, a lentissimo passo. Non sono che cose di ieri, convien ricordarsi, il dispotismo cieco, i giannizzeri, il serraglio coronato di teste, il sentimento dell’invincibilità degli osmani, il raià considerato e trattato con un essere immondo, gli ambasciatori di Francia vestiti e pasciuti sul limitare della sala del trono, per simboleggiare la vile povertà degl’infedeli al cospetto del Gran Signore. Ma su questo argomento, non c’è, credo, gran disparità di pareri nemmeno fra gli Europei e i Turchi medesimi. La disparità dei giudizii, e quindi la difficoltà per uno straniero di dare un giudizio proprio, è nell’estimazione delle intime qualità individuali del turco; poiché a interrogarne i raià, non si sentono che i vilipendii dell’oppresso contro l’oppressore; a domandarne gli Europei liberi delle colonie, i quali non hanno ragione né di temere né di odiare gli Osmani, non solo, ma hanno mille ragioni di compiacersi dello stato attuale delle cose, non si ottengono in generale che giudizi, forse coscienziosamente, ma certo eccessivamente favorevoli. I più di questi sono concordi nel riconoscere il turco probo, franco, leale, e sinceramente religioso. Ma riguardo al sentimento religioso, la cui conservazione gli potrebbe esser tenuta in conto d’un grande merito, è da notarsi che la religione in cui si mantiene saldo, non s’oppone ad alcune delle sue tendenze e ad alcuno dei suoi interessi; accarezza, anzi, la sua natura sensuale, giustifica la sua inerzia, sancisce la sua dominazione; egli vi si attiene tenacemente, poiché sente che la sua nazionalità è nel suo dogma e il suo destino nella sua fede. Riguardo alla probità, si citano molte prove di fatti individuali dei quali si potrebbero citare esempi innumerevoli anche fra il più corrotto popolo europeo. Ma è da considerarsi, anche a questo riguardo, che non ha poca parte l’ostentazione nella probità che mostra il turco nei suoi commerci coi cristiani, coi quali fa spesso per orgoglio quello che non farebbe per semplice impulso della coscienza, poiché gli ripugna di comparire dappoco in faccia a gente a cui si tiene superiore di razza e di valore morale. Così nascono pure dalla sua stessa condizione di dominatore certe qualità, astrattamente pregevoli, di franchezza, di fierezza, di dignità, che non è ben certo se avrebbe conservate, messo nella condizione di chi gli è soggetto. Non gli si può negare, però, né il sentimento della carità, il quale è il solo balsamo agl’infiniti mali della sua società mal ordinata, benché incoraggi l’indolenza e moltiplichi la miseria; né altri sentimenti che sono indizi di gentilezza d’animo, come la gratitudine ch’egli serba per i più piccoli benefizi, il culto dei morti, la cortesia ospitale, il rispetto degli animali. È bello il suo sentimento dell’eguaglianza di tutte le classi sociali. È innegabile una certa moderazione severa della sua indole, che traspare dagli innumerevoli proverbi pieni di saggezza e di prudenza; una certa semplicità patriarcale, una tendenza vaga alla solitudine e alla malinconia, che esclude la volgarità e la tristizia dell’animo. Senonché tutte queste qualità galleggiano, per così dire, al sommo dell’anima sua, nella quiete non turbata della vita ordinaria; e v’è in fondo, come addormentata, la sua violenta natura asiatica, il suo fanatismo, il suo furore di soldato, la sua ferocia di barbaro, che, stimolati, prorompono, e ne balza fuori un altr’uomo. Il perché è giusta la sentenza che il turco ha un’indole mitissima quando non taglia le teste. Il tartaro è come rannicchiato dentro di lui, e assopito. Il vigore nativo è rimasto intero in lui, quasi custodito dalla indolente mollezza della sua vita, la quale non se ne serve che nelle occasioni supreme. Così gli è rimasto intero il coraggio di cui la cultura dell’intelligenza rallenta la molla, raffinando il sentimento della vita, resa più cara dal concetto e dalla speranza di godimenti maggiori. In lui la passione religiosa e guerriera trova un campo non guasto né da dubbi, né da ribellioni dello spirito, né da cozzi d’idee; una sostanza tutta e istantaneamente infiammabile; un uomo tutto d’un pezzo che scatta, a un tocco, tutto intero; una lama sempre affilata, su cui non è scritto che il nome d’un Dio e d’un Sovrano. La vita sociale ha appena digrossato in lui l’uomo antico della steppa e della capanna. Spiritualmente, egli vive ancora nella città presso a poco come viveva nella tribù, in mezzo alla gente, ma solitario coi suoi pensieri. Non c’è, anzi, fra loro, una vera vita sociale. La vita dei due sessi dà l’immagine di due fiumi paralleli, i quali non confondono le loro acque, se non qua e là per via di comunicazioni sotterranee. Gli uomini si raccolgono fra loro, ma non vivono in intimità di pensiero gli uni cogli altri; si avvicinano, ma non si legano; ciascuno preferisce alla espansione di sé medesimo, quella che un grande poeta definì mirabilmente la vegetazione sorda delle idee. La nostra conversazione, agile e varia, che scherza, discute, insegna, ricrea, il nostro bisogno di dare e di ricevere sentimenti e pensieri, questa estrinsecazione reciproca del nostro essere, in cui l’intelligenza si esercita e il cuore si riscalda, pochissimi tra loro la conoscono. I loro discorsi radono quasi sempre la terra e trattano per lo più di cose materialmente necessarie. L’amore è escluso, la letteratura è privilegio di pochi, la scienza è un mito, la politica si riduce per lo più a una questione di nomi, gli affari non occupano che una piccolissima parte nella vita del maggior numero. Alle discussioni astratte la natura della loro intelligenza si rifiuta. Essi non comprendono bene che quello che vedono e quello che toccano; del che è una prova la loro lingua stessa, la quale difetta ogni volta che c’è da esprimere un’astrazione; per il che i turchi istruiti sono costretti a ricorrere all’arabo e al persiano, o a una lingua europea. Essi non sentono il bisogno, d’altra parte, di forzare la mente a comprendere cose che son fuori dei loro desideri, e quasi della loro vita. Il persiano è più investigatore, l’arabo è più curioso: il turco non ha che una suprema indifferenza per quello che non conosce. E non avendo idee da scambiare, non cerca la compagnia degli europei; e non ama né le loro interminabili e sottili discussioni, né loro stessi. Né ci può esser intera confidenza fra gli uni e gli altri, dacchè l’uno dei due nasconde perpetuamente una parte di sé: i suoi affetti più intimi, la sua casa, i suoi piaceri, e quello che più importa, il vero sentimento che nutre verso l’altro; che è un sentimento invincibile di diffidenza. Il turco tollera l’armeno, sprezza l’ebreo, odia il greco, diffida del franco. Sopporta, in generale, tutti quanti, come un grosso animale che si lascia passeggiare sulla schiena una miriade di mosche, riserbandosi a darci su una codata quando si senta pungere nel vivo. Lascia che tutti facciano, armeggino, rimestino ogni cosa intorno a lui; si vale degli europei che gli possono essere utili; accetta le novazioni materiali di cui riconosce il vantaggio immediato; sta a sentire senza batter palpebra le lezioni di civiltà che gli si danno; muta leggi, fogge e cerimoniali; impara a ripetere correttamente le nostre sentenze filosofiche; si lascia travestire, imbellettare, mascherare; ma dentro è sempre, immutabilmente, invincibilmente lo stesso. Eppure ripugna alla ragione il rassegnarsi a credere che l’azione lenta e continua della civiltà non possa, in un periodo di tempo indeterminato, infondere la scintilla d’una nuova vita in questo gigantesco soldato asiatico, che dorme a traverso ai due continenti, e non si sveglia mai che per brandire la spada. Ma considerando gli sforzi fatti e i frutti ottenuti sinora, questo periodo di tempo appare alla mente tanto lungo, in confronto ai bisogni e alle impazienze dei popoli cristiani d’Oriente, da rendere vana la speranza che la questione intorno a cui s’affanna ora l’Europa si possa risolvere coll’incivilimento progressivo del popolo turco. Questa è l’opinione che mi son formata nel mio breve soggiorno a Costantinopoli. – O in che altro modo si può dunque risolvere la questione? Ah! signori, qui proprio non mi credo obbligato a rispondere, perché non potrei rispondere senz’aver l’aria di dar consigli all’Europa; e a questo si rifiuta inesorabilmente la mia modestia. E poi… l’ho già detto che v’è un bastimento austriaco che fuma sul Corno d’oro, in faccia a Galata, pronto a partire per il Mar Nero; e il lettore lo sa dove deve passare, questo bastimento!


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

16- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: Gli ultimi giorni

16- Gli ultimi giorni

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

A questo punto mi trovo spezzata la catena delle reminiscenze minute e lucide, che permettono le lunghe descrizioni; e non ricordo più che una serie di corse affannose da una riva all’altra del Corno d’oro e dall’Europa all’Asia, dopo le quali, la sera, mi vedevo passare davanti rapidissimamente, come in sogno, città luminose, folle immense, boschi, flotte, colline, e il pensiero della partenza vicina dava a ogni cosa un leggiero colore di tristezza, come se già quelle visioni non fossero più che ricordi d’un paese lontano.

Le moschee

Eppure alcune immagini rimangono immobili in mezzo alla fuga di persone e di cose, a cui mi sembra d’assistere quando penso a quei giorni.
Ricordo la bella mattinata in cui visitai la maggior parte delle moschee imperiali, e pensandoci, mi pare ancora che si faccia intorno a me un immenso vuoto e un silenzio solenne. L’immagine di Santa Sofia non scema affatto la meraviglia che si prova al primo entrare in mezzo a quelle mura titaniche. Anche là, come altrove, la religione dei vincitori s’è appropriata l’arte della religione dei vinti. Quasi tutte le moschee sono imitate dalla Basilica di Giustiniano; hanno la grande cupola, le mezze cupole sottoposte, i cortili, i portici; qualcheduna, la forma della croce greca. Ma l’islamismo ha sparso su ogni cosa il colore e la luce propria, in modo che il complesso di quelle forme note presenta l’apparenza d’un edifizio nuovo, in cui s’intravvedono gli orizzonti d’un mondo sconosciuto e si sente l’aura d’un altro Dio. Sono navate enormi, d’una semplicità austera e grandiosa, bianche in ogni parte, e rischiarate da finestre innumerevoli, che mettono per tutto una luce dolce ed uguale, in cui l’occhio vede ogni cosa, da un’estremità all’altra, e riposa, insieme col pensiero, quasi addormentato in una quiete soave e diffusa, che somiglia a quella d’una valle nevosa, coperta da un cielo bianco. Non si crederebbe d’essere in un luogo chiuso se non si sentisse l’eco sonora del proprio passo. Non v’è nulla che distragga la mente: il pensiero va dritto, a traverso quel vuoto e quella chiarezza, all’oggetto dell’adorazione. Non v’è argomento né di malinconie né di terrori; non vi sono né illusioni, né misteri, né angoli oscuri, in cui brillino vagamente le immagini d’una gerarchia complicata d’esseri sovrumani, che confondono la mente; non v’è che l’idea chiara, netta, abbagliante, formidabile d’un Dio solitario, che predilige la nudità severa dei deserti inondati di luce, e non ammette altro simulacro di sé stesso che il cielo. Tutte le moschee imperiali di Costantinopoli presentano questo medesimo aspetto di grandezza che solleva la mente, e di semplicità che la fissa in un solo pensiero, e differiscono così poco nei particolari, che è difficile il ricordarle a una, a una. La moschea d’Ahmed, enorme, e pure graziosa e leggera, all’esterno, come un edifizio aereo, appoggia la sua cupola sopra quattro smisurati pilastri rotondi di marmo bianco, nel cui seno si potrebbero aprire quattro piccole moschee, ed è la sola di Stambul che abbia la corona gloriosa di sei minareti. La moschea di Solimano, che è, più che un tempio, una città sacra, nella quale lo straniero si smarrisce, è formata da tre navate, e la sua cupola, più alta di quella di Santa Sofia, riposa sopra quattro colonne meravigliose di granito roseo, che fanno pensare ai fusti dei famosi alberi giganteschi della California. La moschea di Maometto è una Santa Sofia bianca ed allegra; quella di Baiazet gode la primazia dell’eleganza delle forme; quella di Osmano è tutta di marmo; quella di Scià-Zadé ha i due più graziosi minareti di Stambul; quella di Ak-Serai è il più gentile modello del rinascimento dell’arte turca; quella di Selim è la più grave, quella di Mahmud la più capricciosa, quella della Sultana Validè la più ornata. Ognuna ha qualche bellezza sua propria o una leggenda o un privilegio. Sultan- Ahmed custodisce lo stendardo del Profeta, Sultan-Baizit è coronata di colombi, Solimaniè vanta le iscrizioni di Karà-hissari, Validè Sultan ha la falsa colonna d’oro che costò la vita al conquistatore della Canea; Sultan-Mehemet vede «undici moschee imperiali chinar la testa intorno a lei, come davanti al manipolo di Giuseppe s’inchinavano i manipoli dei fratelli». In una s’innalzano le colonne del palazzo imperiale e dell’Augusteon di Giustiniano, che portarono le statue di Venere, di Teodora e d’Eudossia; in altre si ritrovano i marmi delle chiese antiche di Calcedonia, colonne delle rovine di Troia, pilastri di templi d’Egitto, vetri preziosi rapiti alle regge persiane, materiali di circhi, di fori, di acquedotti, di basiliche: tutto confuso e svanito nell’immensa bianchezza della religione vincitrice. Dentro differiscono anche meno che nella forma esterna. In fondo v’è un pulpito di marmo; in faccia, la loggia del Sultano chiusa da una grata dorata; accanto al Mihrab, due candelabri enormi che sorreggono torce alte come fusti di palme; e per tutta la navata, lampade innumerevoli formate di grandi globi di vetro, e disposte in una maniera bizzarra, che par più propria a una grande festa di ballo che a una solennità religiosa. Le grandi iscrizioni sacre che girano intorno ai pilastri, alle porte, alle finestre delle cupole, qualche finto fregio dipinto a imitazione del marmo, e i vetri disegnati e coloriti a fiorami, sono i soli ornamenti che risaltino nella nudità bianca di quelle mura monumentali. Tesori di marmo sono profusi nei pavimenti dei vestiboli, nei portici che circondano i cortili, nelle fontane per le abluzioni, nei minareti; ma non alterano il carattere graziosamente sobrio ed austero dell’edifizio, tutto bianco, circondato di verde e coronato di cupole, scintillanti sull’azzurro del cielo. E la moschea non occupa che la parte minore del recinto, il quale abbraccia un labirinto di cortili e di case. E qui ci sono auditori per la lettura del Corano e luoghi di deposito per i tesori dei privati, biblioteche e accademie, scuole di medicina e scuole pei bambini, quartieri per gli studenti e cucine per i poveri, manicomi, infermerie, ricoveri per i viaggiatori, sale da bagno: una piccola città ospitale e benefica, affollata intorno alla mole altissima del tempio, come ai piedi d’una montagna, e ombreggiata da alberi giganteschi. Ma tutte queste immagini si sono oscurate nella mia mente; e non vedo più, in questo punto, che la piccola macchietta nera della mia persona, quasi smarrita, come un atomo, nelle enormi navate, in mezzo a lunghe file di piccolissimi turchi prostrati che pregano; e vo innanzi abbagliato da quella bianchezza, stupito da quella luce strana, sbalordito da quella immensità, strascicando le mie babbucce sdrucite e il mio orgoglio schiacciato di descrittore; e mi par che una moschea si confonda coll’altra, e che mi si stenda d’intorno, in tutte le direzioni, una successione interminabile di pilastri e di volte, e una folla bianca infinita, nella quale il mio sguardo si perde.

Le cisterne

Le reminiscenze d’un altro giorno son tutte oscure e piene di misteri e di fantasmi.
Entro nel cortile d’una casa musulmana, discendo, al lume di una fiaccola, sino all’ultimo gradino di una scala tetra e umida, e mi trovo sotto le volte di Kere-batan Serai, la grande cisterna basilica di Costantino, della quale il volgo di Stambul dice che non si conoscono i confini. Le acque verdastre si perdono sotto le volte nere, rischiarate qua e là da un barlume di luce livida che accresce l’orrore delle tenebre. La fiaccola colora di fuoco gli archi vicini alla porta, fa luccicare i muri sgocciolanti, e rivela confusamente file sterminate di colonne che intercettano lo sguardo da tutte le parti, come i tronchi degli alberi in una fittissima foresta allagata. La fantasia, attratta dalla voluttà del terrore, si slancia per quelle fughe di portici sepolcrali, sorvolando le acque sinistre, e si smarrisce in infiniti giri vertiginosi in mezzo alle colonne innumerevoli, mentre la voce sommessa d’un dracomanno racconta le storie paurose di chi s’avventurò sopra una barca in quel sotterraneo per scoprirne i confini, e tornò indietro molte ore dopo, remando disperatamente, col volto trasfigurato e coi capelli irti, mentre le volte lontane echeggiavano di risate fragorose e di fischi acuti; e d’altri che non tornarono più, che finirono chi sa come, forse impazziti dal terrore, forse morti di fame, forse trascinati da una corrente misteriosa in un abisso sconosciuto, molto lontano da Stambul, Dio solo sa dove. Questa visione lugubre sparisce improvvisamente nella grande luce della piazza dell’At-meidan, e pochi minuti dopo mi trovo daccapo sottoterra, fra le duecento colonne della cisterna asciutta Bin-birdirek, dove cento operai greci filano la seta, cantando con voci acute una canzone guerriera, rischiarati da un raggio di luce pallida che si rompe negl’incrociamenti delle arcate; e sento sopra il mio capo lo strepito confuso d’una carovana che passa. Poi daccapo l’aria aperta e la luce del sole, e poi di nuovo l’oscurità, sotto altre arcate secolari, in mezzo ad altre file di colonne, in una quiete di sepolcro, turbata da un suono fioco di voci lontane; e così fino a sera, un pellegrinaggio misterioso e pensieroso, dopo il quale mi rimane per molto tempo dinanzi agli occhi l’immagine di un vasto lago sotterraneo, in cui sia sprofondata la metropoli dell’impero greco, e in cui Stambul, ridente ed incauta debba un giorno alla sua volta sparire.

Scutari

Tutta questa oscurità svanisce dinanzi all’immagine splendida di Scutari. Andando a Scutari, sopra un piroscafo affollato, discutevamo sempre, il mio amico ed io, se il primato della bellezza appartenesse a quella riva o alle due rive del Corno d’oro. Yunk preferiva Scutari; io, Stambul. Ma Scutari m’innamorava coi suoi improvvisi cangiamenti d’aspetto, coi quali pare che voglia pigliarsi gioco di chi le s’avvicina dal mare. Guardata dal Mar di Marmara, non pare che un grande villaggio disteso sopra una collina. Guardata dal Corno d’oro, presenta già l’aspetto d’una città. Ma quando il piroscafo, girando intorno alla punta più avanzata della riva asiatica, va dritto verso il suo porto, allora la cittadina s’allarga e s’innalza; le colline coperte d’edifizi saltano fuori l’una di dietro all’altra; i sobborghi sbucano dalle valli, le villette si sparpagliano sulle alture; la riva, tutta variopinta di casette, si svolge a perdita d’occhi; una città enorme, pomposa, teatrale, che non si comprende dove potesse stare nascosta, si scopre allo sguardo in pochi momenti come all’alzarsi d’un telone immenso, e fa rimaner là stupefatti come aspettando che torni a sparire. Si scende sopra uno scalo di legno, fra un visibilio di barcaioli, di noleggiatori di cavalli e di dracomanni, e si va su per la via principale che sale dolcemente, serpeggiando, in mezzo a casette rosse e gialle, vestite d’edera e di pampini, fra muri di giardini riboccanti di verzura, sotto alti pergolati, all’ombra di grandi platani che chiudono quasi il passaggio; si passa dinanzi a caffè turchi, ingombri di fannulloni asiatici, che fumano, sdraiati, cogli occhi fissi non si sa dove; s’incontrano branchi di capre, carri pesanti di campagna, tirati da bufali colla testa infiorata, contadini in fez e in turbante, convogli funebri musulmani, e brigatelle di hanum villeggianti, che portano mazzi di fiori e ramoscelli. Par di vedere un’altra Stambul, meno maestosa, ma più gaia e più fresca di quella delle sette colline. È come una grande città villereccia. La campagna l’invade da tutte le parti. Le stradicciole, fiancheggiate da casine da presepio, scendono e salgono per valli e per colline, e si perdono nel verde dei giardini e degli orti. Nelle parti alte della città regna la pace profonda della campagna; nelle parti basse brulica la vita affaccendata delle città di mare; dalle grandi caserme che sorgono qua e là, esce un frastuono confuso di grida, di canti e di tamburi, e migliaia d’uccelletti saltellano, per le viuzze solitarie. Seguitando un convoglio mortuario, usciamo dalla città, ci addentriamo nel cimitero famoso, ci smarriamo in una grande foresta di cipressi altissimi, che si stende da una parte verso il Mar di Marmara e dall’altra verso il Corno d’oro, sopra un vasto terreno montuoso. Le pietre sepolcrali biancheggiano tutt’intorno fin dove arriva lo sguardo, a mucchi, a file sterminate, in mezzo ai cespugli e ai fiori selvatici, in una rete infinita di sentieri, fra i tronchi fittissimi, che lasciano appena vedere l’orizzonte come una lontana striscia luminosa e ondeggiante. Andiamo innanzi, a caso, in mezzo ai cippi dipinti e dorati, ritti e rovesci, fra le cancellate dei sepolcri di famiglia, fra i piccoli mausolei dei pascià, fra le colonnette rozze del volgo, vedendo qua e là mazzi di fiori appassiti e cocuzzoli di crani che spuntano fra la terra smossa, udendo grugare da ogni parte i colombi nascosti nei cipressi; e via via, pare che la foresta si allarghi, che le pietre pullulino, che i sentieri si moltiplichino, che la striscia luminosa dell’orizzonte si allontani, che il regno della morte s’avanzi a passo a passo con noi; e cominciamo a domandarci come n’usciremo, quando sbocchiamo inaspettatamente in un larghissimo viale, che ci conduce nella vasta pianura aperta d’Haidar pascià, dove si raccoglievano gli eserciti musulmani per muovere alle guerre dell’Asia, e di là abbracciamo con uno sguardo il Mar di Marmara, Stambul, l’imboccatura del Corno d’oro, Galata e Pera, tutto velato leggermente dai vapori della mattina e tinto di colori di paradiso, che ci fanno risentire un fremito della meraviglia e della gioia dell’arrivo.

Palazzo di Ceragan

Un’altra mattina ci troviamo in un carrozzone del tramway, in mezzo a due colossali eunuchi neri, incaricati da un aiutante di campo d’Abdul-Aziz di condurci a visitare il palazzo imperiale di Ceragan, posto sulla riva del Bosforo ai piedi del sobborgo di Bescic- Tass. Mi ricordo del sentimento indefinibile, misto di curiosità e di ribrezzo, che provavo guardando colla coda dell’occhio l’eunuco che m’era accanto, il quale mi sorpassava di quasi tutta la testa, e teneva stesa sul ginocchio una mano smisurata; e ogni volta che mi voltavo, sentivo un profumo leggiero di essenza di bergamotto che usciva dai suoi panni lucidi e corretti di cortigiano. Quando il carrozzone si fermò, misi la mano in tasca per prendere il portamonete; ma la mano smisurata dell’eunuco m’afferrò il braccio come una tanaglia di ferro, e i suoi grandi occhi di negro si fissarono nei miei, come per dire: – Cristiano, non mi far questo affronto o ti slogo le ossa. – Si discese dinanzi a una piccola porta arabescata, si percorse un lunghissimo corridoio, dove ci venne incontro un drappello di servitori in livrea, e infilate le babbucce, si salì per una larga scala, che metteva alle sale della reggia. Qui non ci fu bisogno d’evocare i ricordi storici per procurarsi un’illusione di vita. L’aria era ancora calda dell’alito della Corte. I larghissimi divani coperti di velluto e di raso, che si stendevano lungo le pareti, erano proprio quelli su cui, poche settimane prima, si erano sedute le odalische del Gran Signore. Un vago profumo di vita molle e fastosa riempiva ancora l’aria. Si passò per un lungo giro di sale, decorate con uno stile misto di europeo e di moresco, nitidissime e belle d’una certa semplicità superba, che ci faceva abbassare la voce; mentre gli eunuchi, borbottando spiegazioni incomprensibili, ci indicavano ora un angolo, ora una porta, con un gesto circospetto, come se accennassero a un mistero. Le cortine di seta, i tappeti di mille colori, le tavole di musaico, i bei quadri a olio messi a controlume, i begli archi a stalattiti delle porte tramezzate da colonnine arabe, gli altissimi candelabri simili ad alberi di cristallo che tintinnavano rumorosamente al nostro passaggio, si succedevano e si confondevano, appena visti, nella nostra fantasia, tutta intesa a inseguire immagini fuggenti di cadine sorprese. Non mi è rimasta dinanzi agli occhi che la sala da bagno del Sultano, tutta di marmo bianchissimo, scolpito a stalattiti, a fiori penzoli, a frangio e a ricami aerei, d’una delicatezza, da far temere che si stacchino a toccarli colla punta delle dita. La disposizione delle sale mi ricordava vagamente l’Alhambra. Camminavamo in fretta sui tappeti spessissimi, senza far rumore, quasi furtivamente. Di tanto in tanto un eunuco tirava un cordone, una tenda verde s’alzava, e vedevamo, per un’ampia finestra, il Bosforo, l’Asia, mille navi, una gran luce; poi tutto spariva ad un tratto lasciandoci come abbarbagliati da un lampo. Da una finestra vedemmo di sfuggita un piccolo giardino, chiuso da alti muri, lindo, compassato, monacale, che ci rivelò in un momento mille segrete malinconie di belle donne assetate d’amore e di libertà, e disparve improvvisamente dietro la tenda. E le sale non finivano mai, e alla vista d’ogni nuova porta, affrettavamo il passo per affacciarci inaspettati alla nuova sala; ma non si vedeva più nemmeno lo strascico d’una veste, le odalische erano scomparse, un silenzio profondo regnava in ogni parte, il fruscìo che ci faceva voltare indietro curiosamente non era che il fruscìo delle tende pesanti di broccato che ricadevano sulla soglia della porta; e il tintinnìo dei candelabri di cristallo c’indispettiva come se fosse la risata argentina di qualche bella nascosta, che ci schernisse. E infine ci venne in uggia quell’andare e venire senza fine per quella reggia muta, fra quelle ricchezze morte, vedendo riflesse a ogni passo, dai grandi specchi, quelle facce nere d’eunuchi, quel drappello sinistro di servitori pensierosi, e i nostri due visi attoniti di vagabondi; e uscimmo quasi correndo, e provammo un gran piacere nel ritrovarci all’aria libera, fra le case miserabili, in mezzo alla popolaglia cenciosa e vociferante del quartiere di Top-hanè.

Eyub

E la necropoli d’Eyub come dimenticarla? Ci andammo una sera al tramonto, e m’è sempre rimasta nella memoria, così come la vidi, illuminata dagli ultimi raggi del sole. Un caicco leggerissimo ci condusse fino in fondo al Corno d’oro, e salimmo alla «terra santa» degli Osmani per un sentiero ripido, fiancheggiato di sepolcri. In quell’ora gli scalpellini che lavorano il giorno intorno ai cippi, e fanno echeggiare la vasta necropoli dei loro colpi sonori, erano già partiti; il luogo era deserto. Andammo innanzi, circospetti, guardando intorno se apparisse il volto severo d’un iman o d’un dervis, poiché là, meno che in ogni altro luogo sacro, è tollerata la curiosità profana di un giaurro; ma non vedemmo né cappelli conici né turbanti. Arrivammo, con qualche trepidazione, sino a quella misteriosa moschea d’Eyub, della quale avevamo visto mille volte dalle colline dell’altra riva e da tutti i seni del Corno d’oro le cupolone scintillanti e i minareti leggieri. Nel cortile, all’ombra d’un grande platano, s’innalza in forma di chiosco, perpetuamente rischiarato da una corona di lampade, il mausoleo che racchiude il corpo del portastendardo famoso del Profeta, morto coi primi musulmani sotto Bisanzio, e ritrovato otto secoli dopo, sepolto su quella riva, da Maometto il conquistatore. Maometto gli consacrò quella moschea, nella quale vanno i Padiscià a cingere solennemente la spada d’Otmano; poiché è quella la moschea più santa di Costantinopoli, come il cimitero che la circonda è il più sacro dei cimiteri. Intorno alla moschea, all’ombra di grandi alberi, s’innalzano turbè di Sultane, di visir, di grandi della Corte, circondati di fiori, splendidi di marmi e di rabeschi d’oro, e decorati d’iscrizioni pompose. In disparte v’è il tempietto mortuario dei muftì coperto da una cupola ottagona, nel quale riposano i grandi sacerdoti chiusi in enormi catafalchi neri, sormontati da altissimi turbanti di mussolina. È una città di tombe, tutta bianca e ombrosa, e regalmente gentile, che insieme alla tristezza religiosa ispira non so che sentimento di soggezione mondana, come un quartiere aristocratico, muto d’un silenzio superbo. Si passa in mezzo a muri bianchi e a cancellate delicatissime da cui scende a ghirlande e a ciocche la verzura dei giardini funebri, e sporgono i rami delle acacie, delle querce e dei mirti, e per le trine di ferro dorato che chiudono le finestre arcate dei turbe, si vedono dentro, in una luce soave, i mausolei marmorei, tinti dei riflessi verdi degli alberi. In nessun altro luogo di Stambul si spiega così graziosamente l’arte musulmana di illeggiadrire l’immagine della morte e di farvi fissare il pensiero senza terrore. È una necropoli, una reggia, un giardino, un panteon, pieno di malinconia e di grazia, che chiama insieme sulle labbra la preghiera e il sorriso. E da tutte le parti gli si stendono intorno i cimiteri, ombreggiati da cipressi secolari, attraversati da viali serpeggianti, bianchi di miriadi di cippi che par che si precipitino giù per le chine per andarsi a tuffare nelle acque o che si affollino lungo i sentieri per veder passare delle larve. E da mille recessi oscuri, allargando i rami dei cespugli, si vede a destra, confusamente, Stambul lontana, che presenta l’aspetto d’una fuga di città azzurrine, staccate l’una dall’altra; sotto, il Corno d’oro, su cui lampeggia l’ultimo raggio del sole; in faccia, i sobborghi di Sudlugé, di Halidgi-Ogli, di Piri-Pascià, di Hass-kioi, e più lontano il grande quartiere di Kassim e il profilo vago di Galata, perduti in una dolcezza infinita di tinte tremole e morenti, che non paion cosa di questa terra.

Il museo dei Giannizzeri

Tutto questo svanisce, e mi trovo a passeggiare per lunghissimi cameroni nudi, in mezzo a due schiere immobili di figure sinistre, che paiono cadaveri inchiodati alle pareti. Non ricordo d’aver mai provato un senso così vivo di ribrezzo fuorché a Londra, nell’ultima sala del museo Tussaud, dove s’intravvedono nell’oscurità i più orrendi assassini d’Inghilterra. È come un museo di spettri, o piuttosto un sepolcro aperto, in cui si trovano, mummificati, i più famosi personaggi di quella vecchia Turchia splendida, stravagante e feroce, che non esiste più se non nella memoria dei vecchi e nella fantasia dei poeti. Sono centinaia di grandi figure di legno, colorite, vestite dei vecchi costumi, ritte, in atteggiamenti rigidi e superbi, coi visi alti, cogli occhi spalancati, colle mani sull’else, che par che aspettino un cenno per snudare le lame e far sangue, come al buon tempo antico. Prima viene la casa del Padiscià: il grand’eunuco, il gran visir, il muftì, ciambellani e grandi ufficiali, col capo coperto di turbanti d’ogni colore, piramidali, sferici, quadrati, spropositati, prodigiosi, con caffettani di broccato di colori smaglianti, coperti di ricami, con tuniche di seta vermiglia e di seta bianca, strette alla vita da sciarpe di casimir, con vesti dorate, coi petti coperti di lastre d’oro e d’argento, con armi principesche: due lunghe file di spauracchi bizzarri e splendidi, che rivelano in modo ammirabile la natura dell’antica corte ottomana, spudoratamente fastosa e barbaricamente superba. Seguono i paggi che portano le pellicce del Padiscià, il turbante, lo sgabello, la spada. Poi le guardie delle porte e dei giardini, le guardie del Sultano, gli eunuchi bianchi e gli eunuchi neri, con visi di magi e d’idoli, scintillanti, impennacchiati, colle teste coperte di cappelli persiani e di caschi metallici, di berrette purpuree, di turbanti strani, della forma di mezzelune, di coni, di piramidi rovesce; armati di verghe d’acciaio, di pugnalacci e di fruste come un branco d’assassini e di carnefici; e l’uno guarda in aria di disprezzo, un altro digrigna i denti, un terzo caccia fuor dell’orbita due occhi assetati di sangue, un quarto sorride con un’espressione di sarcasmo satanico. E in fine, il corpo dei giannizzeri, col suo santo patrono, Emin babà, scheletrito, vestito d’una tunica bianca, e ufficiali di tutti i gradi simboleggiati dai vari uffici della cucina, e soldati di ogni classe con tutti gli emblemi e tutte le divise di quell’esercito insolente sterminato dalla mitraglia di Mahmud. E qui la bizzarria grottesca e puerile dei vestiari, mista al terrore delle memorie, produce l’impressione d’una pagliacciata feroce. La più sbrigliata fantasia di pittore non riuscirebbe mai a formare una così pazza confusione di vestimenti da re, da sacerdoti, da briganti, da giullari. I «portatori d’acqua», i «preparatori della minestra», i «cuochi superiori», i «capi dei guatteri», i soldati incaricati di servizi speciali, si succedono in lunghe file, colle scope e coi cucchiai nei turbanti, cui sonagli appesi alle tuniche, cogli otri, colle marmitte famose che davano il segnale delle rivolte, coi grandi berretti di pelo, colle larghe stoffe cadenti, come mantelli di negromanti, dalla nuca sui lombi, colle larghe cinture di dischi di metallo cesellato, colle sciabole gigantesche, cogli occhi di granchio, coi busti enormi, coi volti contratti in atteggiamenti di beffa, di minaccia e d’insulto. Ultimi vengono i muti del Serraglio, col cordone di seta alla mano, e i nani e i buffoni, con visi ributtanti di cretini inviperiti, e corone burlesche sul capo. Le grandi vetrine in cui è chiusa tutta questa gente, danno al luogo una cert’aria di museo anatomico, che rende più verosimile l’apparenza cadaverica dei simulacri e fa qualche volta torcere il viso con orrore. Arrivati in fondo, sembra d’esser passati per una sala dell’antico serraglio, in mezzo a tutta la Corte, agghiacciata di terrore da un grido minaccioso del Padiscià; ed uscendo e incontrando sulla piazza dell’Atmeidan i pascià in abito nero e i nizam vestiti modestamente alla zuava, oh come par mite ed amabile la Turchia dei nostri giorni!
E anche di là ritorno irresistibilmente fra le tombe, in mezzo agli innumerevoli turbé imperiali sparsi per la città turca, che rimarranno sempre nella mia memoria come una delle più gentili manifestazioni dell’arte e della filosofia musulmana. Un firmano ci fece aprire, per il primo, il turbè di Mahmud il riformatore, posto poco lontano dall’Atmeidan, in un giardino pieno di rose e di gelsomini. È un bel tempietto esagono, di marmo bianco, coperto di una cupola rivestita di piombo, sostenuto da pilastri ionici e rischiarato da sette finestre chiuse da inferriate dorate, alcune delle quali guardano in una delle vie principali di Stambul. Le pareti interne sono ornate di bassorilievi e decorate di tappeti di seta e di broccato. Nel mezzo sorge il sarcofago coperto di bellissimi scialli persiani; e v’è sopra il fez, emblema della riforma, col pennacchietto scintillante di diamanti, e intorno una graziosa balaustrata, intarsiata di madreperla, che racchiude quattro grandi candelabri d’argento. Lungo le pareti ci sono i sarcofagi di sette sultane. Il pavimento è coperto di stuoie finissime e di tappeti variopinti. Qua e là, sopra ricchi leggii, brillano dei corani preziosi, scritti in caratteri d’oro. In una cassetta d’argento v’è un lungo pezzo di mussolina, arrotolato, tutto coperto di minutissimi caratteri arabi, tracciati dalla mano di Mahmud. Prima di salire al trono, quando viveva prigioniero nell’antico serraglio, egli trascrisse pazientemente su quel pezzo di stoffa una gran parte del Corano, e morendo, ordinò che quel suo ricordo giovanile fosse posto sulla sua tomba. Dall’interno del turbé si vede a traverso le inferriate dorate il verde del giardino e si sente l’odore delle rose; una luce viva rischiara tutto il tempietto; tutti i rumori della città vi risuonano come sotto un portico aperto; le donne e i fanciulli, dalla strada, s’affacciano alle finestre e bisbigliano una preghiera. V’è in tutto questo un che di primitivo e di dolce, che tocca il cuore. Pare che non il cadavere, ma l’anima del Sultano sia chiusa fra quelle pareti, e che veda e senta ancora il suo popolo, che passa e lo saluta. Morendo, egli non ha fatto che cambiare di chiosco; dai chioschi del Serraglio è venuto in quest’altro, non meno ridente, ed è sempre alla luce del sole, in mezzo allo strepito della vita di Stambul, tra i suoi figli, anzi più vicino ad essi, sull’orlo della via, sotto gli occhi di tutti, e mostra ancora al popolo il suo pennacchietto scintillante come quando andava alla moschea, pieno di vita e di gloria, a pregare per la prosperità dell’Impero. E così son quasi tutti gli altri turbé, quello d’Ahmed, quello di Bajazet, che appoggia la testa sopra un mattone composto colla polvere raccolta dai suoi abiti e dalle sue babbucce; quello di Solimano, quello di Mustafà e di Selim III, quello d’Abdul-Hamid, quello della sultana Rosellana. Son tempietti sostenuti da pilastri di marmo bianco e di porfido, luccicanti d’ambra e di madreperla; in alcuni dei quali scende l’acqua piovana, per un’apertura della cupola, a bagnare i fiori e le erbe intorno ai sarcofagi, coperti di velluti e di trine; e dalle volte pendono uova di struzzo e lampade dorate che rischiarano le tombe dei principi, disposte a corona intorno al sepolcro paterno, con su i fazzoletti che servirono a strozzarli bambini o giovinetti; forse per indurre nei fedeli, colla pietà delle vittime, il sentimento della necessità fatale di quei delitti. E ricordo, che a furia di vedere immagini di quelle morti, cominciavo a sentire in me come un principio di asservimento del pensiero e del cuore alla iniqua ragione di Stato che le sanciva; come a furia di trovare a ogni passo, nelle moschee, nelle fontane, nei turbé, in mille immagini, ricordato e glorificato il nome d’un uomo, una potenza assoluta e suprema, qualche cosa, dentro di me, cominciava a sottomettersi; come a furia di errare all’ombra dei cimiteri e di fissare il pensiero nei sepolcri, cominciavo a considerare sotto un nuovo aspetto, quasi sereno, la morte; a provare un sentimento più queto e più noncurante della vita; a abbandonarmi a non so che filosofia odiosa, a un vagare indefinito del pensiero, a uno stato nuovo dell’animo, in cui mi pareva che il meglio fosse passare il tempo placidamente sognando e lasciare che quello che è scritto si compia. E provavo un sentimento improvvido di uggia e d’avversione quando in mezzo a quelle fantasie serene e quiete, mi s’affacciava l’immagine delle nostre città affaticate, delle nostre chiese oscure, dei nostri cimiteri murati e deserti.

I dervis

E anche i dervis mi passano dinanzi, fra le immagini di quegli ultimi giorni; e sono i dervis Mevlevi (il più famoso dei trentadue ordini) che hanno un notissimo tekké in via di Pera. Ci andai preparato a vedere dei volti luminosi di santi, rapiti da allucinazioni paradisiache. Ma ci ebbi una gran delusione. Ahimè! anche nei dervis la fiamma della fede «lambe l’arido stame». La famosa danza divina non mi parve che una fredda rappresentazione teatrale. Sono curiosi a vedersi, senza dubbio, quando entrano nella moschea circolare, l’un dietro l’altro, ravvolti in un grande mantello bruno, col capo basso, colle braccia nascoste, accompagnati da una musica barbara, monotona e dolcissima, che somiglia al gemito del vento fra i cipressi del cimitero di Scutari, e fa sognare a occhi aperti; e quando girano intorno, e s’inchinano a due a due dinanzi al Mirab, con un movimento maestoso e languido che fa nascere un dubbio improvviso sul loro sesso. Così è pure una bella scena quando buttano in terra il mantello con un gesto vivace, e appariscono tutti vestiti di bianco, colla lunga gonnella di lana, e allargando le braccia in atto amoroso e rovesciando la testa, si abbandonano l’un dopo l’altro ai giri, come se fossero slanciati da una mano invisibile; e quando girano tutti insieme nel mezzo della moschea, equidistanti fra loro, senza scostarsi d’un filo dal proprio posto, come automi sur un perno, bianchi, leggeri, rapidissimi, colla gonnella gonfia e ondeggiante, e cogli occhi socchiusi; e quando si precipitano tutti insieme, come atterrati da una apparizione sovrumana, soffocando contro il pavimento il grido tonante di Allah; e quando ricominciano a inchinarsi e a baciarsi le mani e a girare intorno, rasente il muro, con un passo grazioso tra l’andatura e la danza. Ma le estasi, i rapimenti, i volti trasfigurati, che tanti viaggiatori videro e descrissero, io non li vidi. Non vidi che dei ballerini agilissimi e infaticabili che facevano il loro mestiere colla massima indifferenza. Vidi anzi delle risa represse; scopersi un giovane dervis che non pareva punto scontento d’esser guardato fisso da una signora inglese affacciata a una tribuna in faccia a lui; e ne colsi sul fatto parecchi che, nell’atto di baciar le mani ai compagni, tiravano a morderli di nascosto, e questi li respingevano a pizzicotti. Ah, gl’ipocriti! Quello che mi fece più senso fu il vedere in tutti quegli uomini, e ce n’eran d’ogni età e d’ogni aspetto, una grazia e un’eleganza di mosse e d’atteggiamenti, che potrebbero invidiare molti dei nostri ballerini da salotto; e che è certo un pregio naturale delle razze orientali, dovuto ad una particolare struttura del corpo. E lo notai anche meglio un altro giorno, in cui potei penetrare in una celletta del tekké, e veder da vicino un dervis che si preparava alla funzione. Era un giovane imberbe, alto e snello, di fisonomia femminea. Si stringeva ai fianchi la sottana bianca, guardandosi nello specchio; si voltava verso di noi e sorrideva; si tastava colle mani la vita sottile; si accomodava in fretta, ma con garbo, e con un occhio d’artista, tutte le parti del vestimento, come una signora che dia gli ultimi tocchi alla sua acconciatura; e visto di dietro, con quello strascico, presentava infatti il profilo di un bel fusto di ragazza vestita da ballo che domandasse un giudizio allo specchio…. Ed era un frate! Oh, strane cose in vero, come diceva Desdemona a Otello.

Ciamligià

Ma il più bello dei miei ultimi ricordi è sulla cima del monte Ciamligià, che s’alza alle spalle di Scutari. Di là diedi alla città il mio ultimo saluto, e fu l’ultima e la più splendida delle mie grandi visioni di Costantinopoli. Andammo a Scutari allo spuntare del giorno con un tempo nebbioso. La nebbia c’era ancora, quando s’arrivò sulla cima del monte; ma il cielo prometteva una giornata serena. Sotto di noi, tutto era nascosto. Era uno spettacolo singolarissimo. Una immensa tenda grigia orizzontale, che noi dominavamo tutta collo sguardo, copriva Scutari, il Bosforo, il Corno d’oro, tutta Costantinopoli. Non si vedeva assolutamente nulla. La grande città, con tutti i suoi sobborghi e tutti i suoi porti, pareva che fosse sparita. Era come un mare di nebbia da cui non usciva che la cima di Ciamligià, come un’isola. E noi guardavamo quel mare grigio, immaginando di essere due poveri pellegrini, venuti d’in fondo all’Asia Minore, e arrivati là, prima dell’alba, sopra quella gran nebbia, senza sapere che ci fosse sotto la grande metropoli dell’Impero ottomano, e provavamo un gran piacere a seguire colla fantasia il sentimento crescente di stupore e di meraviglia che quei pellegrini avrebbero provato vedendo apparire a poco a poco, al levarsi del sole, sotto quell’immenso velo grigio, la città meravigliosa e inaspettata. E infatti, di là a poco, il velo fittissimo si cominciò a rompere nello stesso tempo in vari punti. Si videro apparire qua e là, su quella vasta superficie grigia, come tanti principii di città, che parevano isolette; un arcipelago di cittadine nuotanti nella nebbia, e sparpagliate a grandi distanze: la cima di Scutari, le sette cime delle colline di Stambul, la sommità di Pera, i sobborghi più alti della riva europea del Bosforo, la cresta di Kassim Pascià, qualcosa di confuso dei più lontani sobborghi del Corno d’Oro, laggiù verso Eyub e Hass- Kioi; venti piccole Costantinopoli, rosate ed aree, irte di innumerevoli punte bianche, verdi e argentine. Poi ciascheduna prese a allargarsi, a allargarsi, come se s’innalzasse lentamente sopra quel mare vaporoso, e veniva su, a galla, da tutte le parti, migliaia di tetti, di cupole, di torri, di minareti, che pareva s’affollassero, o si schierassero in furia, per trovarsi al proprio posto prima di esser sorprese dal sole. Già si vedeva sotto tutta Scutari; in faccia, quasi tutta Stambul; sull’altra riva del Corno d’oro, la parte più alta di tutti i sobborghi che si stendono da Galata alle Acque dolci; e sulla riva europea del Bosforo, Top-hané, Funduclú, Dolma bagcè, Besci-tass, e via, a perdita d’occhi, città accanto a città, gradinate immense di edifizi, e città più lontane che non mostravano che la fronte, suffuse dall’aurora d’un soavissimo rossore di corallo. Ma il Corno d’oro, il Bosforo, il mare erano ancora nascosti. I pellegrini non ci avrebbero capito nulla. Avrebbero potuto immaginare che l’immensa città fosse fabbricata sopra due valli profonde, e perpetuamente nebbiose, di cui l’una entrasse nell’altra, e domandarsi che cosa si potesse nascondere in quei due abissi misteriosi. Ma ecco, in pochi momenti, il grigio delle ultime nebbie si chiarisce – azzurreggia – splende – è acqua – è una rada – uno stretto – un mare – due mari: tutta Costantinopoli è là, immersa in un oceano di luce, d’azzurro e di verde, che par creato da un’ora. Ah! in quel punto, s’ha un bell’avere già contemplato da mille altezze quella bellezza, s’ha un bell’averla scrutata in tutti i suoi particolari, e aver espresso in mille modi lo stupore e l’ammirazione; ma bisogna strepitare e gridare ancora; e pensando che fra pochi giorni tutto sparirà dai nostri occhi, per non esser più che un ricordo confuso, che quel velo di nebbia non si alzerà mai più, che è quello il momento di dare l’ultimo addio a ogni cosa… non so… sembra di dover partire per l’esilio e che l’orizzonte della nostra vita s’oscuri.
Eppure anche a Costantinopoli, negli ultimi giorni, ci colse la noia. La mente affaticata si rifiutava alle nuove impressioni. Passavamo sul ponte senza voltarci. Tutto ci pareva d’un colore. Giravamo senza scopo, sbadigliando, coll’aria di vagabondi sconclusionati. Passavamo ore ed ore dinanzi a un caffè turco, cogli occhi fissi sui ciottoli, o alla finestra dall’albergo a guardare i gatti che vagavano sui tetti delle case dirimpetto. Eravamo sazii d’Oriente; cominciavamo a sentire un bisogno prepotente di raccoglimento e di lavoro. Poi piovve per due giorni: Costantinopoli si convertì in un immenso pantano e diventò tutta grigia. E quello fu il colpo di grazia. Ci pigliò l’umor nero, dicevamo corna della città, eravamo diventati insolenti, sfrontati, pieni di pretese e di boria europea. Chi ce l’avesse detto il giorno dell’arrivo! E a che punto si giunse! Si giunse a far festa il giorno che s’uscì dall’ufficio del Lloyd austriaco con due biglietti d’imbarco per Varna e per il Danubio! Ma c’era un punto nero in quella festa, ed era il dispiacere di doverci separare dai nostri buoni amici di Pera, coi quali passammo tutte quelle ultime sere, affettuosamente. Com’è tristo questo dover sempre dire addio, e spezzar sempre dei legami, e lasciare un briciolo del proprio cuore da per tutto! Non c’è dunque proprio in nessuna parte del mondo una bacchetta fatata con cui io possa un giorno, a una data ora, far ricomparire tutti insieme intorno a una gran tavola imbandita tutti i miei buoni amici sparsi alle quattro plaghe dei venti: te da Costantinopoli, Santoro; te dalle rive dell’Affrica, Selam; te dalle dune dell’Olanda, Ten Brink; te, Segovia, dal Guadalguivir, e te, Saavedra, dal Tago, per gridarvi che vi avrò sempre nel cuore? Ahimè! la bacchetta non si trova, e intanto gli anni passano e le speranze volano via.


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

15- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: L’antico Serraglio

15- L’antico Serraglio

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

Come a Granata prima d’aver visto l’Alhambra, così a Costantinopoli pare che tutto rimanga da vedere fin che non si è penetrati fra le mura dell’antico Serraglio. Mille volte al giorno, da tutti i punti della città e del mare, si vede là quella collina verdissima, piena di segreti e di promesse, che attira sempre gli sguardi come una cosa nuova, che tormenta la fantasia come un enimma, che si caccia in mezzo a tutti i pensieri, a segno che si finisce per andarci prima del giorno fissato, più per liberarsi da un tormento che per cercarvi un piacere.

Non c’è infatti un altro angolo di terra in tutta Europa, di cui il solo nome risvegli nella mente una più strana confusione d’immagini belle o terribili; intorno al quale si sia tanto pensato e scritto e cercato d’indovinare; che abbia dato luogo a tante notizie vaghe e contradditorie; che sia ancora oggetto di tante curiosità inappagabili, di tanti pregiudizi insensati, di tanti racconti meravigliosi. Ora tutti ci penetrano e molti ne escono coll’animo freddo. Ma si può esser sicuri che, anche fra secoli, quando forse la dominazione ottomana non sarà più che una reminiscenza in Europa, e su quella bella collina s’incroceranno le vie popolose d’una città nuova, nessun viaggiatore vi passerà senza riveder col pensiero gli antichi chioschi imperiali, e senza pensare con invidia a noi del secolo diciannovesimo che abbiamo ancora ritrovato in quei luoghi le memorie vive e parlanti della grande reggia ottomana. Chi sa quanti archeologi cercheranno pazientemente le tracce d’una porta o d’un muro nei cortili dei nuovi edifizi e quanti poeti scriveranno dei versi sopra poche macerie sparse sulla riva del mare! O forse anche, fra molti secoli, quelle mura saranno ancora gelosamente custodite, e andranno a visitarle dotti, innamorati ed artisti, e la vita favolosa che vi fu vissuta per quattrocent’anni, si ridesterà e si spanderà in una miriade di volumi e di quadri su tutta la faccia della terra.

Non è la bellezza architettonica che attira su quelle mura la curiosità universale. Il Serraglio non è un grande monumento artistico come l’Alhambra. Il solo cortile dei leoni della reggia araba vale tutti i chioschi e tutte le torri della reggia turca. Il pregio del Serraglio è d’essere un grande monumento storico, che commenta ed illumina quasi tutta la vita della dinastia ottomana; che porta scritta sulle pietre dei suoi muri e sul tronco dei suoi alberi secolari tutta la cronaca più intima e più secreta dell’impero. Non vi manca che quella degli ultimi trent’anni e quella dei due secoli che precedettero la conquista di Costantinopoli. Da Maometto II che ne pose la fondamenta a Abdul-Megid che l’abbandonò per andare ad abitare il palazzo di Dolma-Bagcé, ci vissero venticinque Sultani. Qui la dinastia pose il piede appena conquistata la sua metropoli europea, qui salì all’apice della sua fortuna, qui cominciò la sua decadenza. Era insieme una reggia, una fortezza e un santuario; v’era il cervello dell’impero e il cuore dell’islamismo; era una città nella città, una rocca augusta e magnifica, abitata da un popolo e custodita da un esercito, la quale abbracciava fra le sue mura una varietà infinita d’edifizi, luoghi di delizie e luoghi d’orrore, città e campagna, regge, arsenali, scuole, uffici, moschee; dove si alternavano le feste e le stragi, le cerimonie religiose e gli amori, le solennità diplomatiche e le follie; dove i Sultani nascevano, erano innalzati al trono, deposti, incarcerati, strozzati; dove s’ordiva la trama di tutte le congiure ed echeggiava il grido di tutte le ribellioni; dove affluiva l’oro e il sangue più puro dell’impero; dove girava l’elsa della spada immensa che balenava sul capo di cento popoli; dove per quasi tre secoli tennero fisso lo sguardo l’Europa inquieta, l’Asia diffidente e l’Affrica impaurita, come a un vulcano fumante, che minacciasse la terra.

Questa reggia mostruosa è posta sulla collina più orientale di Stambul, che declina dolcemente verso il mar di Marmara, verso l’imboccatura del Bosforo e verso il Corno d’oro; nello spazio occupato anticamente dall’Acropoli di Bisanzio, da una parte della città e da un’ala dei grandi palazzi degl’imperatori. È la più bella collina di Costantinopoli e il promontorio più favorito dalla natura di tutta la riva europea. Vi convergono, come a un centro, due mari e due stretti; vi mettevano capo le grandi strade militari e commerciali dell’Europa orientale; gli acquedotti degl’imperatori bizantini vi conducevano torrenti d’acqua; le colline della Tracia lo riparano dai venti del settentrione; il mare lo bagna da tre parti; Galata lo prospetta dal lato del porto; Scutari lo guarda dalla parte del Bosforo; e le grandi montagne della Bitinia gli chiudono dinanzi colle loro cime nevose gli orizzonti dell’Asia. È un colle solitario, posto all’estremità della grande metropoli, quasi isolato, fortissimo e bellissimo, che sembra fatto dalla natura per servire di piedestallo a una grande monarchia e per proteggere la vita deliziosa ed arcana d’un principe quasi Dio.

Tutta la collina è circondata, ai piedi, da un alto muro merlato, fiancheggiato da grosse torri. Sulla riva del mar di Marmara e lungo il Corno d’oro, queste mura sono le mura stesse della città; dalla parte di terra, son mura innalzate da Maometto II, le quali separano la collina del Serraglio da quella su cui s’innalza la Moschea di Nuri-Osmaniè, svoltano ad angolo retto vicino alla Sublime Porta, passano dinanzi a Santa Sofia, e descrivendo una grande curva in avanti, vanno a congiungersi con quelle di Stambul sulla riva del mare. Questa è la cinta esterna del Serraglio. Il Serraglio propriamente detto si stende sulla sommità, circondato alla sua volta da alti muri, che formano come un ridotto centrale della gran fortezza della collina.

Ma sarebbe fatica sprecata il descrivere il Serraglio quale è ridotto al presente. La strada ferrata passa a traverso le mura esterne; un grande incendio, nel 1865, distrusse molti edifizi; i giardini sono in gran parte devastati; vi furono innalzati ospedali, caserme e scuole militari; degli edifizi rimasti parecchi vennero cangiati di forma e di uso; e benché i muri principali rimangano, in modo da presentare ancora tutta intera la forma del Serraglio antico, le piccole alterazioni son tante e tali, e l’abbandono in cui è lasciata ogni cosa da circa trent’anni ha mutato in maniera l’aspetto delle parti intatte, che non si potrebbe descrivere il luogo fedelmente senza che ne rimanesse delusa anche la più modesta aspettazione.

Val meglio per chi scrive e per chi legge il rivedere questo Serraglio famoso qual era nei bei tempi della grandezza ottomana.

Allora, chi poteva abbracciare tutta la collina con uno sguardo, o dai merli d’una delle torri più alte, o da un minareto della moschea di Santa Sofia, godeva una veduta meravigliosa. In mezzo all’azzurro vivo del mare, del Bosforo e del porto, dentro al grande semicerchio bianco delle vele della flotta, si vedeva la vasta macchia verde della collina, circondata di mura e di torri, coronate di cannoni e di sentinelle; e in mezzo a questa macchia, ch’era una selva d’alberi enormi, fra i quali biancheggiava un labirinto di sentieri e ridevano i colori di mille aiuole fiorite, si stendeva, sull’alto del colle, il vastissimo rettangolo degli edifizi del serraglio, diviso in tre grandi cortili, o meglio in tre piccole città fabbricate intorno a tre piazze ineguali, da cui s’innalzava una moltitudine confusa di tetti variopinti, di terrazze colme di fiori, di cupole dorate, di minareti bianchi, di cime aeree di chioschi, d’archi di porte monumentali, frammezzati di giardini e di boschetti, e mezzo nascosti dalle fronde. Era una piccola metropoli bianca, scintillante e disordinata, leggera come un accampamento di tende, da cui spirava non so che di voluttuoso, di pastorale e di guerriero; in una parte piena di gente e di vita; in un’altra solitaria e muta come una necropoli; dove tutta scoperta e dorata dal sole; dove inaccessibile ad ogni sguardo umano e immersa in un’ombra perpetua; rallegrata da infiniti zampilli, abbellita da mille contrasti di splendori e d’oscurità e di colori possenti e di sfumature di tinte argentee e azzurrine, riflesse dai marmi dei colonnati e dalle acque dei laghetti, e sorvolata da nuvoli di rondini e di colombi.

Tale era l’aspetto esterno della città imperiale, non vastissima all’occhio di chi la guardava dall’alto; ma così divisa e suddivisa e intricata dentro, che servitori, i quali ci vivevano da cinquant’anni, non riuscivano a racappezzarvisi, e i giannizzeri che l’invadevano per la terza volta ci si smarrivano ancora.

La porta principale era ed è sempre la Bab-Umaiùn, o porta augusta, che dà sulla piccola piazza dove s’innalza la fontana del Sultano Ahmed, dietro alla moschea di Santa Sofia. È una grande porta di marmo bianco e nero, decorata di ricchi arabeschi, sulla quale s’appoggia un alto edifizio, con otto finestre, coperto da un tetto sporgente; e appartiene a quel misto di stile arabo e persiano, da cui si riconoscono quasi tutti i monumenti innalzati dai Turchi nei primi anni dopo la conquista, prima che cominciassero ad imitare l’architettura bizantina. Sopra l’apertura, in una cartella di marmo, si legge ancora l’iscrizione di Maometto II: – Allah conservi in eterno la gloria del suo possessore – Allah consolidi il suo edifizio – Allah fortifichi le sue fondamenta. È la porta dinanzi alla quale veniva ogni mattina il popolo di Stambul a vedere di quali grandi dello Stato o della corte fosse caduta la testa nella notte. Le teste erano appese a un chiodo dentro a due nicchie che si vedono ancora, quasi intatte, a destra e a sinistra dell’entrata; oppure esposte in un bacino d’argento, accanto al quale era affissa l’accusa e la sentenza. Sulla piazza, davanti alla porta, si buttavano i cadaveri dei condannati al capestro; e là s’arrestavano, aspettando l’ordine d’entrare nel primo recinto del Serraglio, i distaccamenti degli eserciti lontani, venuti a portare i trofei delle vittorie; e ammucchiavano sulla soglia augusta armi, bandiere, teschi di capitani e splendide divise insanguinate. La porta era custodita da un grosso drappello di capigì, figli di bey e di pascià, vestiti pomposamente; i quali assistevano dall’alto delle mura e delle finestre alla processione continua della gente che entrava ed usciva, o tenevano indietro colle larghe scimitarre la folla muta dei curiosi, venuti là per veder di sfuggita, per uno spiraglio, un pezzo di cortile, un frammento della seconda porta, un barlume almeno di quella reggia enorme ed arcana, argomento di tanti desideri e di tanti terrori. Passando di là, il musulmano devoto mormorava una preghiera per il suo Sublime Signore; il giovinetto povero e ambizioso, sognava il giorno in cui avrebbe oltrepassato quella soglia per andar a ricevere la coda di cavallo; la fanciulla bella e cenciosa fantasticava, con una vaga speranza, la vita splendida della Cadina; i parenti delle vittime abbassavano il capo, fremendo; e in tutta la piazza regnava un silenzio severo, non turbato che tre volte al giorno dalla voce sonora dei muezzin di Santa Sofia.

Dalla porta Umaium s’entrava nel così detto cortile dei Giannizzeri, che era il primo recinto del Serraglio.

Questo gran cortile c’è ancora, circondato d’edifizi irregolari, lunghissimo, e ombreggiato da vari gruppi d’alberi, fra cui il platano enorme detto dei Giannizzeri, del quale dieci uomini non bastano ad abbracciare il tronco. A sinistra di chi entra, v’è la chiesa di Sant’Irene, fondata da Costantino il Grande, e convertita dai turchi in armeria. Più in là e tutt’intorno v’era l’ospedale del Serraglio, l’edifizio del tesoro pubblico, il magazzino degli aranci, le scuderie imperiali, le cucine, le caserme dei capigì, la zecca, e le case degli alti ufficiali della Corte. Sotto il grande platano ci sono ancora due colonnette di pietra, sulle quali si eseguivano le decapitazioni. Di qui passavano tutti coloro che dovevano andare al divano o dal Padiscià. Era come uno smisurato vestibolo aperto, sempre affollato, nel quale tutto era rimescolio e affaccendamento. Centocinquanta fornai e duecento tra cuochi e sguatteri lavoravano nelle grandi cucine, a preparare il vitto per la famiglia sterminata «che mangiava il pane e il sale del Gran Signore». Dalla parte opposta s’affollavano le guardie ed i servi, finti malati, per farsi ammettere alla vita molle dell’ospedale sontuoso, in cui erano impiegati venti medici e un esercito di schiavi. Lunghe carovane di muli e di cammelli entravano a portar provvigioni alle cucine, o a portar armi d’eserciti vinti nella chiesa di Sant’Irene, dove accanto alla sciabola di Maometto II scintillava la scimitarra di Scanderberg e il bracciale di Tamerlano. I percettori delle imposte passavano, seguiti da schiavi carichi d’oro, diretti alla tesoreria, dove c’erano tante ricchezze, come diceva Sokolli, gran vizir di Solimano il Grande, da costruire delle flotte colle ancore d’argento e coi cordami di seta. Passavano a frotte, condotti dai bei palafrenieri della Bulgaria, i novecento cavalli di Murad IV, che si pascevano a mangiatoie d’argento massiccio. V’era dalla mattina alla sera un formicolio luccicante d’uniformi, in mezzo al quale spiccavano gli alti turbanti bianchi dei giannizzeri, i grandi pennacchi d’airone dei solak, i caschi argentati dei peik, guardie del Sultano, vestite d’una tunica d’oro stretta alla vita da una cintura ingemmata; i zuluftú-baltagì, impiegati al servizio degli ufficiali di camera, colle loro trecce di lana pendenti dal berretto; i kassekì, col loro bastone emblematico in mano; i balta-gì coll’accetta; i valletti del gran visir colla frusta ornata di catenelle d’argento; i bostangì, guardie dei giardini, coi grandi berretti purpurei; e una folla svariata di cento colori e di cento emblemi, d’arcieri, di lancieri, di guardie del tesoro, di guardie coraggiose, di guardie temerarie, d’eunuchi neri e d’eunuchi bianchi, di scudieri e di sciaù, uomini alti e poderosi, d’aspetto altero, improntato della dignità signorile della Corte, che riempivano il cortile di profumi. Un orario minuzioso e severo regolava le faccende di tutti in quell’apparente disordine. Tutti si movevano in quel cortile come gli automi giranti sopra la tavola che rinchiude il meccanismo. Allo spuntare del giorno comparivano i trentadue muezzin della Corte, scelti fra i cantori più dolci di Stambul, ad annunziare l’alba dai minareti delle moschee del Serraglio, e s’incontravano cogli astrologhi e cogli astronomi che scendevano dalle terrazze, dove avevano passato la notte studiando il firmamento dalle terrazze per determinare le ore propizie alle occupazioni del Sultano. Poi il primo medico del Serraglio entrava a chieder notizie della salute del Padiscià; l’ulema istitutore andava a dare all’augusto discepolo il solito insegnamento religioso; il segretario privato a leggergli le suppliche ricevute la sera; i professori di arti e di scienze passavano per recarsi nel terzo cortile a far le lezioni ai paggi imperiali. Ognuno alla sua ora, tutti i personaggi impiegati al servizio dell’augusta persona passavano di là per andare a chieder gli ordini per la giornata. Il bostangi-bascì, generale delle guardie imperiali, governatore del Serraglio e delle ville del Sultano sparse sulle rive del Bosforo e della Propontide, veniva a informarsi se al Gran Signore piacesse di fare una gita sul mare, perché spettava a lui il governo del timone e ai suoi bostangì l’onore dei remi. Venivano a interrogare i capricci del Padiscià il gran maestro delle caccie, accompagnato dal gran falconiere, insieme al capo dei cacciatori dei falconi bianchi, al capo dei cacciatori degli avvoltoi e a quello dei cacciatori degli sparvieri. Veniva l’intendente generale della città, uno stuolo d’intendenti, delle cucine, delle monete, dei foraggi, del tesoro, l’uno dopo l’altro, in un ordine prestabilito, ciascuno coi suoi memoriali, colle sue parole preparate, coi suoi servi distinti da un vestimento speciale. Più tardi, seguiti da un corteo di segretari e di famigliari, passavano i visir della Cupola per recarsi al divano. Passavano personaggi a cavallo, in carrozza, in bussola, e scendevano tutti alla seconda porta, la quale non si poteva oltrepassare che a piedi. Tutta questa gente era riconoscibile, carica per carica, dalla forma dei turbanti, dal taglio delle maniche, dalla qualità delle pellicce, dai colori delle fodere, dagli ornamenti delle selle, dall’avere la barba intera o i baffi soli. Nessuna confusione seguiva in quell’affollamento continuo. Il muftì era bianco; i visir si riconoscevano al verde chiaro, i ciambellani allo scarlatto; l’azzurro carico distingueva i sei primi ufficiali legislativi, il capo degli emiri e i giudici della Mecca, di Medina e di Costantinopoli; i grandi ulema avevano il color violaceo; i muderrì e gli sceicchi indossavano l’azzurro chiaro; il cilestrino chiarissimo segnalava gli sciaù feudatarii e gli agà dei visir; il verde cupo era privilegio degli agà della staffa imperiale e del portatore dello stendardo sacro; gl’impiegati delle scuderie del sultano vestivano il verde pallido; i generali dell’esercito portavano gli stivali rossi, gli ufficiali della Porta, gialli, gli ulema, turchini; e alla scala dei colori corrispondeva una gradazione nella profondità degl’inchini. Il bostangì-bascì, capo della polizia del Serraglio, comandante un esercito di carcerieri e di carnefici, che spandeva il terrore col suono del suo nome e dei suoi passi, attraversava il cortile in mezzo a due schiere di teste chinate a terra. Passava il capo degli Eunuchi, gran maresciallo della Corte interna ed esterna, e si curvavano i caschi, i turbanti, i pennacchi, come spinti giù da cento mani invisibili. Il grande elemosiniere passava fra mille saluti ossequiosi. Tutti coloro che avvicinavano il Sultano, il capo degli staffieri che gli reggeva la staffa, il primo cameriere che portava i suoi sandali, il Silihdar agà che forbiva le sue armi, l’eunuco bianco che lambiva il pavimento colla lingua prima di stendere il tappeto, il paggio che versava al Sultano l’acqua per le abluzioni, quello che gli porgeva l’archibugio nelle cacce, quello che custodiva i suoi turbanti, quello che spolverava i suoi pennacchi ingemmati, quello che aveva cura delle sue vesti di volpe nera, passavano in mezzo a dimostrazioni speciali di curiosità e di rispetto. Un bisbiglio sommesso precedeva e seguiva il passaggio del predicatore della Corte e del gran mastro della guardaroba, che gettava i denari al popolo nelle feste imperiali. Passava saettato da molti sguardi invidiosi il musulmano fortunato che ogni dieci giorni radeva il capo al Sultano dei Sultani. La folla s’apriva con una premura particolare davanti al primo chirurgo incaricato della circoncisione dei principi, davanti al primo oculista che preparava il collirio per le palpebre delle cadine e delle odalische, davanti al gran maestro dei fiori, affaccendato dai capricci di cento belle, che portava sotto il caffettano il suo poetico diploma ornato di rose dorate. Il primo cuoco riceveva i suoi saluti adulatorii. Sorrisi cerimoniosi salutavano il guardiano dei pappagalli e degli usignuoli che potevano varcare le soglie dei chioschi più segreti. Erano migliaia di persone, divise in una gerarchia minutissimamente graduata, governate da un cerimoniale di cinquanta volumi, vestite in mille fogge pittoresche, che sfilavano o circolavano per il vasto cortile, e ad ogni minuto era una folla nuova. Tratto tratto passava rapidamente un messaggero e tutte le teste si voltavano. Era il visir karakulak, messaggere tra il Sultano e il primo ministro, che andava a fare un’imbasciata segreta al Gran Visir; era un capigí che correva al palazzo d’un pascià caduto in sospetto, a portargli l’ordine di presentarsi immediatamente al divano; era il portatore di buone notizie che veniva ad annunziare al Padiscià il fortunato arrivo della grande carovana alla Mecca. Altri messaggeri speciali tra il Sultano e i grandi ufficiali dello Stato, ciascuno distinto con un titolo e riconoscibile a qualche particolarità del vestimento, s’aprivano il passo, correndo, e sparivano per le due porte del cortile. Passavano sciami di caffettieri per recarsi alle cucine della corte, frotte di cacciatori imperiali curvi dal peso dei carnieri dorati; file di facchini carichi di stoffe, preceduti dal Gran Mercante, provveditore del Sultano; drappelli di galeotti condotti dagli schiavi ai lavori più faticosi del Serraglio. Poi cento sguatteri, due volte al giorno, uscivano dalle cucine e portavano all’ombra dei platani, sotto le arcate, lungo i muri, piramidi enormi di riso e montoni interi arrostiti; una turba di guardie e di servitori accorreva, e il grande cortile offriva lo spettacolo festoso del convito d’un esercito. Poco dopo la scena mutava, e si vedeva venir innanzi un’ambasciata straniera in mezzo a due muri d’oro e di seta. Là, come scriveva Solimano il grande allo Scià di Persia, «affluiva tutto l’universo.» Gli ambasciatori di Carlo V vi si trovavano al fianco degli ambasciatori di Francesco I; gl’inviati dell’Ungheria, della Serbia e della Polonia vi entravano accanto ai rappresentanti della repubblica di Genova e di Venezia. Il peskesdgi- bascì, incaricato di ricevere i doni, andava incontro alle carovane straniere sul limitare di Bab-Umaiùn, e venivano innanzi, tra mille spettatori, elefanti che portavano troni d’oro, gazzelle gigantesche, gabbie di leoni, cavalli della Tartaria, e cavalli dei deserti, vestiti di pelli di tigri e carichi di scudi d’orecchie d’elefante; gl’inviati della Persia coi vasi della china; i messi dei Sultani delle Indie con scatole d’oro colme di gemme; gli ambasciatori dei re africani con tappeti di pelo di cammelli strappati dal ventre delle madri e pezzi di stoffa argentata che facevano piegar le schiene di dieci schiavi; gli ambasciatori degli Stati nordici seguiti da drappelli di servi carichi di pellicce e d’armi preziose. Entravano, dopo le guerre fortunate, per esser mostrati al Padiscià, generali carichi di catene e principesse prigioniere, velate, coi loro cortei disarmati e tristi, e stuoli d’eunuchi d’ogni età e d’ogni colore, carpiti come bottino di guerra, o offerti in dono dai principi vinti. E intanto gli ufficiali degli eserciti vincitori s’affollavano alle porte della Tesoreria a deporre i broccati e le sciabole imperlate prese nei saccheggi delle città persiane, l’oro e le gemme tolte ai mammalucchi d’Egitto, le coppe d’oro intopaziate del tesoro dei Cavalieri di Rodi, i torsi delle statue di Diana e d’Apollo rapite alla Grecia e all’Ungheria, e chiavi di città e di castelli; e altri conducevano al secondo cortile i giovanetti e le fanciulle rubate all’isola di Lesbo. Tutte le enormi provvigioni d’ogni natura che venivano al Serraglio dai porti dell’Africa, della Caramania, della Morea, del mar Egeo, passavano o s’arrestavano fra quelle mura, e un esercito di maggiordomi e di segretari erano continuamente affaccendati a registrare, a pagare, a disporre, a fissare udienze, a dare ordinazioni. I mercanti dei bazar di schiave di Brussa e di Trebisonda si trovavano dinanzi alla seconda porta, ad aspettare il turno d’entrata, insieme ai poeti venuti da Bagdad per recitar dei versi al Sultano. I governatori caduti in disgrazia, venuti per comprare la propria salvezza con una coppa piena di monete d’oro, aspettavano accanto ai messi d’un Pascià venuti ad offrire in dono al Gran Signore una bella vergine tredicenne, trovata dopo tre mesi di ricerche sotto a una capanna dell’Anatolia; in mezzo a spie ritornate da tutti i confini dell’Impero, vicino a famiglie stanche arrivate da provincie lontane per chieder giustizia, tra donne e fanciulli dell’infima plebe di Stambul ammessi a presentare le loro querele al divano. E i giorni di divano si vedevano passar di là, fra gli scherni dei curiosi, gli ambasciatori delle provincie ribelli, a cavallo a un asino, colla barba rasa e un berretto di donna sul capo, e i messi insolenti dei principi asiatici col naso spuntato dalle scimitarre dei sciaù; di là gli ufficiali dello Stato che uscivano, inconsapevoli, per portare a un governatore lontano uno scialle prezioso, dono del Gran visir, che nascondeva fra le sue pieghe la loro sentenza di morte; di là i visi radianti degli ambiziosi che avevano ottenuto una satrapìa coll’intrigo e i visi pallidi di quei che avevano sentito nel divano la minaccia sorda d’una disgrazia vicina; di là i portatori di quegli hattiscerif, inesorabili come il destino, che andavano, sulla groppa d’un cavallo, lontano trecento miglia, a portar la rovina e la morte nel palazzo di un viceré; di là i terribili muti della corte mandati a strozzare i prigionieri illustri nei sotterranei delle Sette Torri. E con questi si incontravano gli ulema, i bey, i mollà, gli emiri, che tornavano o si recavano alle udienze col capo basso, cogli occhi a terra, con le mani nascoste nelle grandi maniche; i visir, che tenevano il Corano in tasca per leggere, a un’occorrenza, le orazioni dei morti; il gran visir, despota spiato dal boia, che portava sotto il caffettano il proprio testamento, per essere sempre pronto a morire. E tutti passavano composti, a passo lento, in silenzio, o parlando a bassa voce un linguaggio circospetto e corretto, proprio del Serraglio; e si vedeva un continuo ricambiarsi di sguardi gravi e scrutatori, e un posar delle mani sulla fronte e sul petto, accompagnato da bisbigli interrotti, da un fruscìo discreto di cappe e di babbucce, da un tintinnare sommesso di scimitarre, da non so che di monacale e di triste, che faceva contrasto colla fierezza guerriera dei volti, colla pompa dei colori, collo splendore delle armi. In tutti gli occhi si leggeva un pensiero, su tutte le fronti si vedeva il terrore d’un uomo, che era sopra tutti, che era scopo di tutto, davanti al quale tutto s’inchinava, strisciava, s’annichiliva, e pareva che ogni cosa ne presentasse l’immagine e che in ogni rumore si sentisse il suo nome.

Da questo cortile s’entrava nel secondo per la grande porta Bab-el-selam, o porta della Salute, che è ancora intatta in mezzo a due grosse torri, e non ci si passa, nemmeno ora, senza un firmano. Anticamente due grandi battenti la chiudevano dalla parte del primo cortile e altri due dalla parte del secondo, in modo che ci rimaneva dentro, quando tutto era chiuso, uno stanzone oscuro, dove un uomo poteva essere spacciato segretamente. Là sotto c’erano le celle dei carnefici, le quali, per un andito cieco, comunicavano colla sala del divano. Là andavano ad aspettare la loro sentenza gli alti personaggi caduti in disgrazia, e vi ricevevano sovente, nello stesso punto, la sentenza e la morte. Altre volte il governatore o il visir disgraziato, era chiamato al Serraglio con un pretesto; veniva; passava, senza sospetti, sotto la volta sinistra, entrava nel divano, era ricevuto con un sorriso benevolo o con una severità mite che non minacciava che un castigo lontano, e congedato, tornava a passare tranquillamente sotto la porta. Ma all’improvviso, senza veder nessuno, si sentiva una lama nelle reni o un capestro alla gola, e stramazzava senz’aver tempo a resistere. Al grido del moribondo, cento visi si voltavano per un momento dai due cortili; poi tutti ripigliavano, in silenzio, le loro faccende. La testa era portata in una nicchia di Bab-Umaiùn, il cadavere ai corvi della spiaggia di Santo Stefano, la notizia al Sultano, e tutto era finito. C’è ancora a destra, sotto la volta, la porticina ferrata della prigione in cui si gettavano le vittime, quando veniva disdetto a tempo l’ordine di morte o per prolungare la loro agonia o per cacciarle invece in esilio.

Uscendo di sotto a Bab-el-selam si entra immediatamente nel secondo cortile.

Qui si cominciava a sentir più viva l’aura sacra del Signore «dei due mari e dei due mondi,» e chi vi penetrava per la prima volta, si fermava involontariamente, appena entrato, preso da un sentimento di timore e di venerazione.

Era un vastissimo cortile irregolare, una smisurata sala a cielo aperto, circondata da edifizii graziosi e da cupole argentate e dorate, sparsa di gruppi d’alberi bellissimi, e attraversata da due viali fiancheggiati di cipressi giganteschi. Tutt’intorno girava un bel loggiato, sorretto da delicate colonne di marmo bianco, e coperto da un tetto sporgente rivestito di piombo. A sinistra, entrando, v’era la sala del divano, sormontata da una cupola scintillante; più in là, la sala dei grandi ricevimenti, dinanzi alla quale sei enormi colonne di marmo di Marmara sostenevano un largo tetto a falde, ondulate: basi, capitelli, muri, tetto, porte, archi, tutto cesellato, intarsiato, dipinto, dorato, leggerissimo e gentile come un padiglione di merletti tempestati di gemme, e ombreggiato da un gruppo di platani superbi. Dagli altri lati, v’erano gli archivi, le sale dove si custodivano i vestimenti d’onore, i magazzeni delle tende, la casa del grande Eunuco nero, le cucine della Corte. Qui stava quel grande Intendente, più affaccendato d’un Ministro della Cupola, che aveva ai suoi ordini cinquanta sottintendenti, ai quali obbediva un esercito di cuochi e di confettieri, aiutati, nelle grandi occasioni, da artisti fatti venire d’ogni parte dell’impero. Là si faceva il desinare per i visir i giorni di divano; là si preparavano, in occasione delle circoncisioni e delle nozze principesche, i famosi giardini di pasta dolce, le cicogne, i falchi, le giraffe, i cammelli di zucchero, i montoni arrostiti da cui uscivano stormi d’uccelli; che si portavano poi, in gran pompa, nella piazza dell’Ippodromo; là gl’infiniti dolciumi di mille forme e di mille colori che andavano a sciogliersi nelle innumerevoli boccucce golose dell’arem. Vicino alle cucine formicolavano, nelle grandi feste, gli ottocento operai incaricati di drizzare le tende del Sultano e dell’arem nei giardini del Serraglio o sulle colline del Bosforo; e quando non bastavano più le tende dei vastissimi magazzini, si formavano i padiglioni colle vele della flotta, e con cipressi interi sradicati dai boschetti delle ville imperiali. La casa del grande Eunuco, là vicina, era una piccola reggia, fra la quale e il terzo cortile andava e veniva una processione continua d’eunuchi neri, di schiave e di servi. In questo cortile passavano le Ambasciate per andare dal Sultano. Allora tutto il loggiato era parato di panno vermiglio, i muri luccicavano, il suolo era pulito come il pavimento d’una sala; duecento tra giannizzeri, spahì e silihdar, che formavano la guardia del divano, vestiti e armati come principi, stavano schierati all’ombra dei cipressi e dei platani, e drappelli d’eunuchi bianchi e d’eunuchi neri, lindi e profumati, facevano ala alle porte. Tutto, in questo secondo cortile, annunziava la vicinanza del Gran Signore; le voci suonavano più basse, i movimenti eran più raccolti, non vi si sentiva nè scalpitio di cavalli né rumore di lavoro; i servi e i soldati passavano tacitamente; e una certa quiete di santuario regnava in tutto il recinto, non turbata che dallo strepito improvviso degli uccelli che fuggivano dagli alberi o dall’urto sonoro delle grandi porte di ferro chiuse dai capigì.

Di tutti gli edifizi del cortile non vidi che la sala del divano, la quale è quasi intatta, com’era quando vi si teneva il consiglio supremo dello Stato. È una grande sala a volta, rischiarata dall’alto, da finestrine moresche, e rivestita di marmi ornati di rabeschi d’oro, senz’altra suppellettile che il divano su cui sedevano i membri del Consiglio. Sopra il posto del gran visir c’è ancora la finestrina chiusa da una graticola di legno dorato, dietro alla quale prima Solimano il grande e poi tutti gli altri Padiscià assistevano, non visti, o si credeva che assistessero alle sedute: un corridoio segreto conduceva da quello stanzino nascosto agli appartamenti imperiali del terzo cortile. In questa sala sedeva cinque volte la settimana il gran consesso dei ministri, presieduti dal gran visir. L’apparato era solenne. Il gran visir sedeva in faccia alla porta d’entrata; vicino a lui i visir della Cupola, il capudan- pascià, grande ammiraglio; i due grandi giudici d’Anatolia e di Rumelia, rappresentanti della magistratura delle provincie d’Asia e d’Europa; da una parte i tesorieri dell’impero; dall’altra il nisciandgì, che metteva il suggello del Sultano ai decreti; più in là, a destra e a sinistra, due schiere di ulema e di ciambellani; agli angoli, sciaù, portatori d’ordini, esecutori di supplizi, esercitati a comprendere ogni cenno e ogni sguardo. Era uno spettacolo davanti a cui i più arditi tremavano e i più innocenti interrogavano paurosamente la propria coscienza. Tutta quella gente stava là col volto impassibile, colle braccia incrociate, colle mani nascoste. Una luce vaga, scendendo dalla volta, tingeva d’un color d’oro pallido i turbanti bianchi, le facce gravi, le lunghe barbe immobili, le ricche pellicce, i manichi gemmati dei pugnali. A prima vista il Consiglio presentava l’apparenza morta d’un grande gruppo di statue vestite e dipinte. Le stuoie non lasciavano sentire il passo di chi entrava e di chi usciva, l’aria odorava dei profumi delle pellicce, le pareti marmoree riflettevano il verde degli alberi del cortile; il canto degli uccelli, nei momenti di silenzio, risonava sotto la volta luccicante d’oro; tutto era dolce e grazioso in quel tribunale tremendo. Le voci sonavano una alla volta, tranquille e monotone come il mormorio d’un ruscello, senza che chi accusava o si scolpava, ritto in mezzo alla sala, s’accorgesse da che bocca uscivano. Cento grandi occhi fissi scrutavano il volto d’un solo. Gli sguardi erano studiati, le parole pesate, i pensieri indovinati dai più sfuggevoli movimenti del viso. Le sentenze di morte escavano a parole pacate, dopo lunghi dialoghi sommessi, accolte con un silenzio sepolcrale; oppure scoppiavano improvvisamente, come folgori, e avevano per eco quelle tremende parole che escono dall’anima disperata nei momenti supremi; e allora, a un cenno, le scimitarre spezzavano le vertebre, il sangue spicciava sui tappeti e sui marmi; agà di spahì e di giannizzeri, cadevano crivellati di pugnalate; governatori e kaimacan stramazzavano col laccio al collo e cogli occhi fuori della fronte. Un minuto dopo, i cadaveri erano distesi all’ombra dei platani, coperti da un panno verde; il sangue era lavato, l’aria profumata, i carnefici al posto, e il consesso ripigliava la sua seduta coi volti impassibili, colle mani nascoste, colle voci pacate e monotone, sotto la luce vaga delle finestrine moresche che tingeva d’un colore d’oro pallido i grandi turbanti e le grandi barbe. Ma si scotevano alla loro volta, quei fieri giudici, quando Murad IV o il secondo Selim, scontenti del divano, facevano scricchiolare con un pugno furioso la graticola dorata della segreta imperiale! Dopo un lungo silenzio e un consultarsi a vicenda cogli sguardi smarriti, ripigliavano anche allora la seduta, col volto impassibile e colle voci solenni; ma le mani agghiacciate tremavano per lungo tempo nelle grandi maniche, e le anime si raccomandavano a Dio.

In fondo a questo secondo cortile, che era in certo modo il cortile diplomatico del Serraglio, s’apriva la terza grande porta, fiancheggiata da colonne di marmo e coperta da un gran tetto sporgente, dinanzi alla quale stava di guardia notte e giorno un drappello d’eunuchi bianchi e uno stuolo di capigì, armati di sciabole e di pugnali.

Era questa la famosa Bab-Seadet o porta della Felicità, che conduceva al terzo cortile; la porta sacra che rimase chiusa per quasi quattro secoli ad ogni cristiano, che non si presentasse in nome d’un re o d’un popolo; la porta misteriosa alla quale picchiò invano la curiosità supplichevole di mille viaggiatori potenti ed illustri; la porta da cui uscirono e si sparsero per il mondo tante fole gentili e tante leggende di dolori, tanti fantasmi di bellezza e di piacere, tante rivelazioni vaghe di segreti d’amore e di sangue e un’aura infinita di poesia voluttuosa e terribile; la porta solenne del Santuario del re dei re, che il popolo nominava con un senso segreto di sgomento, come la porta d’un recinto fatato, entrando nel quale una creatura profana dovesse rimaner petrificata o veder cose che il linguaggio umano non avrebbe potuto descrivere; la porta dinanzi a cui, anche ora, il viaggiatore più freddo d’immaginazione e di sentimento si arresta con una certa titubanza e guarda con stupore l’ombra del suo cappello cilindrico che si allunga sui battenti socchiusi.

Eppure anche là, davanti a quella porta solenne, arrivò il flutto muggente delle ribellioni soldatesche. Si può anzi dire che quell’angolo del grande cortile, che è compreso fra la sala del divano e la porta Seadet, è il punto del Serraglio dove il furore dei ribelli commise gli atti più temerari e più sanguinosi. Il Gran Signore governava colla spada e la spada gli dettava la legge. Il despotismo che difendeva gli accessi del Grande Serraglio era lo stesso che ne violava i penetrali. Allora si vedeva su che fragile piedestallo si reggesse il colosso minaccioso, quando gli si ritiravano d’intorno i puntelli delle scimitarre! Orde armate di giannizzeri e di spahì, nel cuore della notte, colle fiaccole nel pugno, rovesciavano a colpi di scure le porte del primo e del secondo cortile, e irrompevano là agitando sulla punta delle lame le suppliche che chiedevano le teste dei visir, e le loro grida di morte risonavano di là dai muri inviolabili, nel recinto sacro dei loro Sovrani, dove tutto era confusione e spavento. Invano dall’alto dei muri si gettavano sacchi di monete d’oro e d’argento; invano il muftì, gli sceicchi, gli ulema, i grandi della Corte, smarriti, ragionavano, pregavano, tentavano dolcemente d’abbassare le braccia convulse dall’ira; invano le Sultane-validè, smorte, mostravano dalle finestre ingraticolate i piccoli figliuoli innocenti. Il mostro dalle mille teste, scatenato e cieco, voleva la sua preda, le vittime vive, le carni da lacerare, il sangue da spargere, i teschi da piantare sulle picche. I Sultani s’affacciavano fra i merli, s’arrischiavano fin sulle barricate della porta, in mezzo agli eunuchi e ai paggi tremanti, armati di pugnali inutili; disputavano le teste a una a una, promettevano, piangevano, chiedevano grazia in nome della propria madre, dei propri figli, del Profeta, della gloria dell’impero, della pace del mondo. Uno scoppio di minacce e d’insulti e un agitare vertiginoso di fiaccole e di scimitarre rispondeva alle loro grida impotenti. E allora dalla porta della Felicità uscivano fuori a uno a uno, brancolando, e cadevano in mezzo alle belve assetate di sangue, i tesorieri, i visir, gli eunuchi, le favorite, i generali, e l’un dopo l’altro cadevano lacerati da cento lame e sformati da cento piedi. Così Murad III gettava Mehemed, il suo falconiere favorito, che era messo in brani sotto i suoi occhi; così Maometto III gettava il Kislaragà Otmano e il capo degli eunuchi bianchi Ghaznéfer, ed era costretto a salutare la soldatesca dinanzi ai due cadaveri insanguinati; così Murad IV gettava, singhiozzando, il gran visir Hafiz, a cui diciassette pugnali squarciavano il petto e le reni; così Selim III gettava tutte le teste del suo divano; e mentre i Padiscià rientravano nelle loro stanze, imprecando, straziati dal dolore e dalla vergogna, le mille fiaccole dei ribelli correvano per le vie di Stambul, rischiarando gli avanzi dei cadaveri, trascinati in trionfo in mezzo alla folla ubriaca.

La porta della Felicità formava, come la Bab-el-Selam, un lungo andito, dal quale si riusciva direttamente nel recinto arcano che racchiudeva il «fratello del sole.»

Qui, per dare un’immagine viva del luogo, bisognerebbe che la mia parola fosse accompagnata da una musica sommessa, piena di sorprese e di capricci. Era una piccola città fatata, un disordine bizzarro d’architetture misteriose e gentili, nascoste in un bosco di cipressi e di platani smisurati, che stendevano i loro rami sui tetti, e coprivano d’ombra un labirinto intricatissimo di giardini pieni di rose e di verbene, di cortiletti circondati di portici, di stradicciuole fiancheggiate da chioschi e da padiglioncini cinesi, di praticelli, di laghetti coronati di mirti, che riflettevano piccole moschee bianchissime e cupolette argentate d’edifizi della forma di tempietti e di chiostri, congiunti da gallerie coperte, sostenute da file di colonne leggere; e tetti di legno intarsiato e dipinto che sporgevano sopra porticine coperte di rabeschi e sopra scalette esterne che conducevano a terrazze munite di balaustri graziosi; e per tutto prospetti oscuri, in cui biancheggiavano fontane di marmo e apparivano tra le fronde archetti e colonnine d’altri chioschi; e da tutti i punti, fra il verde dei pini e dei sicomori, vedute lontane ed immense del mar di Marmara, delle due rive del Bosforo, del porto e di Stambul; e sopra questo paradiso, quel cielo. Era una piccola città sepolta in un mucchio enorme di verzura, costrutta a poco a poco, senza un disegno prefisso, secondo i bisogni o i capricci del momento, pomposa e fragile come un apparato teatrale, tutta nascondigli e bizzarrie gelose e puerili; che vedeva tutto ed era invisibile, che formicolava di gente e pareva solitaria, come se vi regnasse ancora lo spirito pastorale e meditativo degli antichi principi ottomani; un accampamento di pietra, che ricordava ancora, tra il fasto, quello di tela delle tribù erranti della Tartaria; una gran reggia sparpagliata, composta di cento piccole regge nascoste l’una all’altra, da cui spiravano insieme la mestizia della prigione, l’austerità del tempio e la gaiezza della campagna; uno spettacolo pieno d’ostentazione principesca e d’ingenuità barbarica, dinanzi al quale il nuovo venuto si domandava in che secolo vivesse e in che mondo fosse cascato.

Questo era il cuore del Serraglio a cui mettevano tutte le vene della monarchia e da cui partivano tutte le arterie dell’impero.

Il primo edifizio che s’incontrava entrando era quello della sala del Trono, che c’è ancora, e che potei visitare. È un piccolo edifizio quadrato, intorno al quale gira un bel porticato di marmo, e ci s’entra per una ricca porta, fiancheggiata da due belle fontane. La sala è coperta da una volta decorata d’arabeschi dorati, le pareti son rivestite di marmi e di lastrine di porcellana combinate a figure simmetriche, nel mezzo c’è una fontana di marmo, la luce scende da alte finestre chiuse da vetri coloriti, e in fondo c’è il trono della forma d’un grande letto, coperto da un baldacchino frangiato di perle, che s’appoggia su quattro alte e sottili colonne di rame dorato, ornate d’arabeschi e di pietre preziose, e sormontate da quattro palle d’oro, con quattro mezzelune, da cui spenzolano delle code di cavallo, emblema della potenza militare dei Padiscià. Qui il Gran Signore faceva i ricevimenti solenni, in presenza di tutta la Corte; qui venivano buttati ai suoi piedi i fratelli e i nipoti uccisi per rassicurare il suo regno dalle congiure e dai tradimenti. Pensai, appena entrato, ai diciannove fratelli di Maometto III. Essi avevano ricevuto la sentenza di morte, in fondo alle loro prigioni, dai colpi di cannone che annunziavano all’Asia e all’Europa la morte del loro padre. I muti del Serraglio ammucchiarono i loro cadaveri davanti al trono. Ce n’eran di tutte le età, dall’infanzia all’età matura, l’uno sull’altro, cogli occhi fuori dell’orbite, coll’impronta delle mani omicide sul viso e nel collo; le piccole teste bionde dei bambini appoggiate sul petto robusto degli adolescenti, le teste grigie schiacciate contro il pavimento dai piedi dei fratelli decenni; caffettani rozzi di prigionieri e pannolini levati dalle culle, contaminati insieme dal capestro, e confusi fra le membra irrigidite e i volti deformi. Ne videro dei zampilli di sangue quei bei rabeschi d’oro e quelle porcellane luccicanti, qui dove scoppiarono le collere formidabili di Selim II, di Murad IV, di Ahmed I, d’Ibraim, spettatori esultanti delle agonie disperate! Qui ne stramazzavano dei visir, sotto i piedi dei sciaù, spezzandosi il cranio contro il marmo della fontana! Qui ne rotolarono delle teste di governatori portate dalla Siria e dall’Egitto, appese alla sella d’un agà! Chi entrava là colla coscienza malsicura, si voltava sulla soglia a dare un addio al bel cielo e alle belle colline dell’Asia, e chi n’usciva salvo risalutava il sole col sentimento d’un infermo che ritorna alla vita.

Questo padiglione del trono non è il solo che si possa visitare. Uscendo di là, si passa per vari giardini e cortiletti circondati da piccoli edifizi ad archi moreschi, sostenuti da colonnine di marmo. Là i paggi stavano riuniti in un collegio, in cui erano istrutti per occupare poi le alte cariche dell’impero e della corte, e avevano abitazioni sontuose e sale di ricreazione e servi e maestri scelti fra gli uomini più dotti dello Stato. In mezzo a quegli edifizi s’alzava una fila di graziosi chioschi saracineschi, coi peristili aperti, nei quali c’era la biblioteca, e ne rimane uno, ammirabile principalmente per la sua grande porta di bronzo, ornata di rilievi di diaspro e di lapislazzuli, e coperta d’una cesellatura prodigiosa d’arabeschi, di stelle, di fogliami, di figure d’ogni forma, delicatissime e intricatissime, che non sembrano opera umana. Poco lontano dalla biblioteca s’alzava il padiglione del Tesoro imperiale, tutto luccicante di porcellana, dove eran chiuse ricchezze immense, composte in gran parte d’armi conquistate o donate ai Sultani o lasciate per testamento dai Sultani stessi, come ricordi. Il solo Mahmud II, ch’era calligrafo valente, e se ne teneva, ci lasciò il suo calamaio d’oro, tempestato di diamanti. Ora una buona parte di questi tesori passò, cangiata in oro, nelle casse dell’erario. Ma ai bei tempi della monarchia il padiglione era tutto sfolgorante di scimitarre damascate, di cui l’elsa pareva un nodo solo di perle e di gemme; di pistole enormi, con fino a duecento diamanti sull’impugnatura; di pugnali che valevano la rendita d’un anno d’una provincia asiatica; di mazze d’argento massiccio o d’acciaio colla testa formata da un solo pezzo di cristallo faccettato e dorato, frammiste ai pennacchi ingioiellati dei Murad e dei Maometti, alle tazze d’agata in cui avevano spumato i vini di Ungheria nei banchetti imperiali, alle coppe incavate in una sola turchina, ch’eran passate per le regge dei re persiani e di Timur, alle collane ornate di diamanti grossi come noci di Caramania, alle cinture imperlate, alle selle coperte d’oro, ai tappeti scintillanti di gemme, per cui la sala pareva tutta ardente, e offuscava insieme la ragione e la vista.

Poco lontano dal padiglione del Tesoro v’è ancora, in mezzo a un giardino solitario, quella famosa gabbia degli uccelli, in cui, da Maometto IV in poi, si chiudevano i principi del sangue, che facevano ombra al Padiscià; e là rimanevano, sepolti vivi, ad aspettare che le grida dei giannizzeri li chiamassero al trono o che venisse il carnefice a strozzarli. È un edifizio della forma d’un tempietto, di grosse mura, senza finestre, rischiarato dall’alto e chiuso da una piccola porta di ferro, contro la quale si metteva un grosso macigno. Là fu chiuso Abdul-Aziz durante i pochi giorni che trascorsero fra la sua caduta dal trono e la sua morte. Là fece la sua orribile e miseranda fine il Caligola degli Ottomani, Ibrahim, e la sua immagine è la prima che si rizza sulla soglia di quella necropoli di vivi in faccia al visitatore straniero. Gli agà militari l’avevano tirato giù dal trono e strascinato, come un miserabile, alla prigione. Qui era stato chiuso con due delle sue odalische predilette. Dopo le prime furie della disperazione, s’era rassegnato. – Questo – diceva – era scritto sulla mia fronte; era l’ordine di Dio. – Di tutto il suo impero e dell’immenso arem in cui aveva folleggiato per nove anni, non gli rimaneva più che un carcere, due schiave e il Corano; ma si credeva sicuro della vita, e viveva tranquillamente, consolato ancora da un raggio di speranza; che i suoi partigiani delle taverne e delle caserme di Stambul riuscissero a mutare le sue sorti. Ma egli aveva dimenticato la sentenza del Corano: se ci sono due Califfi, uccidetene uno, e il muftì, interrogato dagli agà e dai visir, se n’era ricordato. Il suo ultimo giorno egli stava seduto sopra una stuoia in un angolo della sua tomba e leggeva il Corano alle due schiave, ritte dinanzi a lui, colle braccia incrociate sul petto. Era vestito d’un caffettano nero, stretto intorno alla vita da uno scialle in brandelli; e aveva in capo un berretto di lana rossa. Un raggio di luce pallida, scendendo dalla volta, rischiarava il suo viso smunto e cereo, ma tranquillo. A un tratto udì un rumore cupo e balzò in piedi; la porta era aperta e un gruppo di figure sinistre occupava la soglia. Capì, alzò gli occhi a una tribuna ingraticolata che sporgeva dall’alto d’una parete, e vide traverso ai fori i volti impassibili del muftì, degli agà e dei visir, su cui era scritta la sua sentenza. Il terrore lo invase, e un’onda di parole supplichevoli gli uscì dalla bocca: – Pietà di me! Pietà del Padiscià! Fatemi grazia della vita! Se c’è qualcuno fra voi che abbia mangiato del mio pane, mi soccorra, in nome di Dio! Tu, muftì Abdul-rahim, bada a quello che stai per fare! Vedi se gli uomini son ciechi insensati! Ora te lo dico: Iusuf-pascià m’aveva consigliato a farti morire come traditore, e io non volli, e tu ora vuoi la mia morte! Leggi il Corano come me, leggi la parola di Dio, che condanna l’ingratitudine e l’ingiustizia. Lasciami la vita, Abdul-rahim, la vita! la vita! – Il carnefice, tremante, alzò gli occhi verso la tribuna; ma una voce secca, uscita di mezzo a quei visi immobili come simulacri, rispose: – Kara-alì, eseguisci. – Il carnefice gettò le mani sulle spalle di Ibrahim. Ibrahim gettò un urlo e si rifugiò in un angolo, dietro le due schiave. Allora Kara-alì e gli sciaù accorsero, gettarono a terra le donne, e si precipitarono sul Padiscià; s’intese uno scoppio di maledizioni e di bestemmie, il rumore d’un corpo stramazzato, un grido altissimo che morì in un rantolo sordo, e poi un silenzio profondo. Un piccolo cordoncino di seta aveva slanciato nell’eternità il diciannovesimo Padiscià della dinastia degli Osmani.

Altri edifizi, oltre ai descritti e a quelli dell’arem, erano sparsi qua e là in mezzo ai giardini e ai boschetti. V’erano i bagni di Selim II, che comprendevano trentadue vastissime sale, tutte marmo, oro e pittura; v’erano dei chioschi ottagoni e rotondi, sormontati da cupole e da tetti d’ogni forma, che coprivano salotti rivestiti di madreperla e decorati d’iscrizioni arabe, dove a tutte le finestre spenzolavano gabbie dorate di usignoli e di pappagalli, e i vetri colorati spandevano una dolcissima luce azzurrina o rosea; chioschi in cui i Padiscià andavano a sentir leggere le Mille e una notte dai vecchi dervis; altri in cui eran date solennemente le prime lezioni di lettura ai principini; piccoli chioschi per le meditazioni, padiglioncini per convegni notturni, nidi e prigioni gentili, innalzati e rovesciati da un ghiribizzo, che godevano la vista di Scutari imporporata dal tramonto e dell’Olimpo inargentato dalla luna, e la carezza perpetua dei venticelli del Bosforo, pieni di fragranze, che facevano tremolare le mezzelune d’oro sulla punta delle loro guglie sottili. E infine, nella parte più segreta dell’arem, il tempietto delle reliquie, o camera della nobile veste, imitata dalla sala aurea degl’Imperatori bizantini, e chiusa da una porta argentata; nella quale si conservava il mantello del Profeta, scoperto solennemente, una volta all’anno, in presenza di tutta la Corte, il suo bastone, l’arco chiuso in una guaina d’argento, le reliquie della Kaaba, e il venerato e tremendo stendardo delle guerre sante, ravvolto in quaranta coperte di seta, dal quale sarebbe rimasto acciecato, come da un colpo di fulmine, l’infedele che v’avesse fissato lo sguardo. Tutto quello che aveva di più sacro la razza, di più prezioso l’impero, di più diletto e di più arcano la dinastia, era raccolto là, in quel recinto ombroso e discreto, in quella piccola città occulta, verso la quale pareva che convergesse da tutte le parti la metropoli immensa, come una folla innumerevole che volesse prostrarsi e adorare.

In un angolo di questo terzo recinto, a sinistra di chi entrava, all’ombra di alberi più folti, fra un mormorio più sonante di fontane e un bisbiglio più fitto d’uccelli, s’innalzava l’arem, che era come un quartiere separato della cittadina imperiale, e si componeva di molti piccoli edifizi bianchi coperti da cupolette di piombo, ombreggiati da aranci e da pini a ombrello, separati da giardinetti cinti di muri rivestiti di caprifoglio e d’edera, in mezzo ai quali serpeggiavano sentieri sparsi di minutissime conchiglie combinate a musaico, che si perdevano fra i roseti, gli ebani e i mirti; tutto piccino, chiuso, diviso, suddiviso; i balconi coperti, le finestrine ingraticolate, i loggiati nascosti da tendine color di rosa, i vetri coloriti, le porte ferrate, le stradicciole senza uscita; e in ogni parte una luce crepuscolare dolcissima, una freschezza di foresta, un’aria di mistero e di pace, che faceva sognare. Qui viveva, amava, languiva, serviva, rinnovandosi continuamente, tutta la grande famiglia muliebre del Serraglio. Era un vasto monastero, che aveva per religione il piacere e per Dio il Sultano. C’erano gli appartamenti imperiali. Ci stavano le quattro cadine, amanti titolate del Gran Signore, ciascuna delle quali aveva il suo chiosco, la sua piccola corte, i suoi grandi ufficiali, le sue barchette rivestite di raso, le sue carrozze dorate, i suoi eunuchi, le sue schiave e il suo denaro delle pantofole, ch’era la rendita d’una provincia. Ci abitava la Sultana Madre, col suo corteo innumerevole d’ustà, divise in compagnie di venti o trenta, ciascuna impiegata a un servizio speciale. C’era tutta la famiglia del Padiscià, zie, sorelle, figliuole, nipoti, che formavano una corte nella corte, coi principi bambini e adolescenti. C’erano le ghediclù, di cui le dodici più belle servivano, ciascuna con un titolo e un ufficio speciale, la persona del Sultano; cento sciaghird, o novizie, che facevano il tirocinio per occupare i posti vacanti delle ustà; un formicaio di schiave d’ogni paese, d’ogni colore, d’ogni divisa, scelte fra mille e mille, che empivano quell’enorme gineceo, scompartito come un alveare in cellette innumerevoli, d’un fremito di gioventù poderosa, d’un profumo caldo di voluttà africana ed asiatica, che montava al capo del Nume, e si rispandeva poi, trasfuso nelle sue passioni formidabili, su tutta la faccia dell’impero.

Quante memorie fra gli alberi di quei giardini e le pareti di quei piccoli chiostri bianchi! Quante belle figliuole del Caucaso e dell’Arcipelago, delle montagne dell’Albania e dell’Etiopia, del deserto e del mare, musulmane, nazarene, idolatre, conquistate dai pascià, comprate dai mercanti, regalate dai principi, rubate dai corsari, passarono, come ombre, sotto quelle cupolette argentine! Son questi i muri e le volte che videro folleggiare, col capo incoronato di fiori e la barba scintillante di gemme, il primo Ibraim, il quale faceva rincarare le schiave in tutti i mercati dell’Asia, e decuplicare il prezzo dei profumi dell’Arabia; che assistettero alle furie della sensualità morbosa del terzo Murad, padre di cento figli; che videro Murad IV, decrepito a trentun anno, irrompere barcollando agli amplessi infami; che furono testimoni delle orge e dei deliri del secondo Selim. Per questi sentieri passavano, la notte, ebbri di vino e di lussuria, quei dissoluti feroci, a cui la madre, i visir, i pascià, offrendo schiave su schiave, non facevano che infocare i desideri; e correvano di chiosco in chiosco, cercando la voluttà e non trovando che lo spasimo, fin che la fantasia stravolta li trascinava, rabbiosi, fuor della reggia, a cercare i resti delle bellezze famose fra le mura malinconiche dell’Eschi-Seraï. Qui si celebravano quelle strane feste notturne, in cui sulle cupole, sui tetti e sugli alberi erano disegnate a tratti di fuoco le navi della flotta, e migliaia di vasi di fiori, illuminati da migliaia di fiammelle, riflesse da innumerevoli specchi, presentavano l’immagine d’un vasto giardino ardente, dove centinaia di belle s’affollavano intorno a bazar pieni di tesori, e gli eunuchi sollevavano fra le braccia, spasimando, le schiave seminude, abbandonate al vortice dei balli sfrenati, in mezzo al fumo di mille profumiere, che il vento del Mar Nero spandeva per tutto il serraglio insieme al frastuono d’una musica barbaresca e guerriera.

Risuscitiamo quella vita, in una bella giornata d’aprile, sotto il regno del grande Solimano o del terzo Ahmed. Il cielo è sereno, l’aria piena di fragranze primaverili, i giardini tutti in fiore. Per il labirinto dei sentieri ancora umidi della rugiada, girano, oziando, eunuchi neri vestiti di tuniche dorate, e passano schiave, vestite di stoffe rigate di colori vivissimi, che portano e riportano vassoi e panierini coperti di veli verdi fra i chioschi e le cucine. Le ustà della Validé s’incontrano sotto i piccoli portici moreschi colle gheduclù del Sultano, che passano alteramente, seguite da schiave novizie, cariche della biancheria imperiale. Tutti gli sguardi si voltano da una parte: è uscita per una porticina e sparita su per una scaletta la più giovane delle dodici gheduclù privilegiate, la coppiera, una fanciulla siriana benedetta da Allah, che piacque al Gran Signore, il quale le ha già accordato il titolo di figlia della felicità, e le darà la pelliccia di zibellino, appena essa dia segno d’esser madre. Lontano, all’ombra dei platani, giocano i buffoni del Sultano, vestiti di panni arlecchineschi, e nani deformi col capo coperto da turbanti spropositati. Più in là, dietro una siepe, un eunuco gigantesco, con un cenno impercettibile delle dita e del capo, ordina a cinque muti, esecutori di supplizi, di recarsi da Kislar-agà, che li cerca per un affare segreto. Dei giovinetti, d’una bellezza ambigua, abbigliati con una ricercatezza femminea, s’inseguono, correndo, fra le siepi d’un giardino ombreggiato da un enorme platano. In un’altra parte, un drappello di schiave s’arresta improvvisamente e si divide in due ali, inchinandosi per lasciar passare la Kiaya, grande governatrice dell’arem, la quale restituisce il saluto con un cenno del suo bastoncino ornato di lamine d’argento, che porta a un’estremità il suggello imperiale. Nello stesso punto, la porta d’un chiosco vicino s’apre, e n’esce una cadina, in abito celeste, ravvolta in un fitto velo bianco, seguita dalle sue schiave, la quale va, col permesso della Governatrice, ottenuto il giorno prima, a giocare al palloncino volante con un’altra cadina, e svoltando in un vialetto ombroso, incontra e saluta mollemente una sorella del Sultano, che si reca al bagno colle sue bimbe e colle sue ancelle. In fondo al piccolo viale, davanti al chiosco di un’altra cadina, sotto una graziosa tettoia sorretta da quattro colonnine alte e snelle come fusti di palma, un eunuco aspetta un cenno per far entrare una ebrea, mercantessa di gioielli, che dopo molto intrigare ha ottenuto il diritto d’entrata nell’arem imperiale, dove, coi gioielli, porterà imbasciate segrete di pascià ambiziosi e d’amanti temerarii. All’estremità opposta dell’arem, la hanum incaricata di visitare le nuove schiave, va in cerca della Governatrice, per riferirle che la giovane abissina presentata il giorno avanti, le è parsa degna d’esser ricevuta fra le gheduclù, se non si bada a una piccola escrescenza che ha sulla spalla sinistra. Intanto, in un praticello circondato di mortelle, sotto un alto pergolato, si raccolgono le venti nutrici dei principini nati nell’anno, e un gruppo di schiave suonano il flauto e la chitarra in mezzo a un cerchio saltellante di bambine vestite di velluto cilestrino e di raso vermiglio, a cui la Sultana Validé getta dei dolci dall’alto d’una terrazza. Passano le maestre che vanno a dar lezioni di danza, di musica e di ricamo alle sciaghird; eunuchi che portano grandi piatti pieni di dolci della forma di leoncini e di pappagalli; schiave che reggono fra le braccia grossi vasi di fiori e pesanti tappeti: doni d’una sultana a una cadina, d’una cadina alla Validè, della Validè alle nipoti. La tesoriera dell’arem, accompagnata da tre schiave, arriva con una notizia sul volto: i bastimenti imperiali mandati incontro alle galere veneziane e genovesi, le hanno incrociate a venti miglia dal porto di Sira, e hanno accaparrato tutte le sete e tutti i velluti del carico per l’arem del Padiscià. Arriva di corsa un eunuco ad annunciare a una Sultana trepidante che la circoncisione del bimbo è riuscita a meraviglia, e poco dopo due altri eunuchi sopraggiungono, di cui l’uno porta in un piatto d’argento, alla madre, la parte tagliata dal chirurgo, l’altro, in un piatto d’oro, alla Validè, il coltello insanguinato. È un continuo aprire e chiudere di porte e sollevare e ricascar di cortine, per lasciar passare notizie, imbasciate, regaletti, pettegolezzi. Chi potesse dall’alto penetrar collo sguardo a traverso ai tetti e alle cupole, vedrebbe in una sala una Sultana alla finestra, che guarda melanconicamente, fra le tendine di raso, le montagne azzurre dell’Asia, pensando forse al suo sposo, un bel pascià, governatore d’una provincia lontana, stato strappato alle sue braccia, secondo il costume, dopo sei mesi d’amore, perché non avessero figli; in un’altra saletta, rivestita di marmi e di specchi, una cadina di quindici anni, che aspetta nella giornata una visita del Padiscià, scherza fanciullescamente in mezzo a un gruppo di schiave che la profumano e l’infiorano, magnificando le sue bellezze più segrete con atti servili di meraviglia e di gioia; sultane giovinette che si rincorrono pei giardinetti chiusi, intorno ai bacini luccicanti di pesci dorati, facendo scricchiolare le conchiglie dei sentieri sotto le loro babbucce di raso bianco; altre, pallide, sedute in fondo a stanzine oscure, in atto di meditare vendette; salotti tappezzati di broccato, dove bimbi condannati a morte nascendo, si ravvoltolano sui cuscini di raso rigati d’oro e sotto le tavole di madreperla; belle principesse nude nei bagni di marmo di Paros; gheduclù addormentate sui tappeti; crocchi e viavai di schiave e d’eunuchi per le gallerie coperte, giù per le scalette nascoste, nei vestiboli, per i corridoi semioscuri; e da per tutto volti curiosi dietro le grate, saluti muti ricambiati fra le terrazze e i giardini, cenni furtivi dietro le tende, dialoghetti a monosillabi, fra spiraglio e spiraglio, rotti di tratto in tratto da risate sonore e compresse, seguite da rapide fughe di gonnelle che svaniscono lungo i muri claustrali.

Ma non s’incrociavano soltanto intrighi amorosi e pettegolezzi puerili in quel labirinto di giardini e di tempietti. La politica c’entrava per le commessure di tutte le porte e per i fori di tutte le grate, e la potenza dei begli occhi sugli affari dello Stato non era minore là che nelle regge d’occidente; ché anzi la vita reclusa e monotona cresceva intensità alle gelosie e alle ambizioni. Quelle testoline ingemmate agitavano, da quelle piccole prigioni odorose, la corte, i divani, il serraglio intero. Per mezzo degli eunuchi comunicavano col muftì, coi visir e cogli agà dei giannizzeri. Dagli amministratori dei loro beni, coi quali potevano conferire, a traverso a una tenda o a una grata, sui propri interessi, erano tenute in corrente di tutti i più piccoli avvenimenti della reggia e della metropoli; sapevano i pericoli da cui erano minacciate, imparavano a conoscere gli uomini di Stato di cui avevano a temere o da cui potevano sperare, e ordivano pazientemente le congiure misteriose che precipitavano i nemici e sollevavano i protetti. Tutti i partiti della Corte e dell’Impero avevano là dentro una radice, cento radici, ramificate nei cuori delle validè, delle sorelle del Sultano, delle cadine, delle odalische. Erano questioni e armeggi infiniti per l’educazione dei figli, per il matrimonio delle figliuole, per le dotazioni, per le precedenze nelle feste, per la successione dei principini al trono, per le paci e per le guerre. I capricci delle belle mandavano eserciti di trentamila giannizzeri e di quarantamila spahì a coprir di cadaveri le rive del Danubio, e flotte di cento navi a insanguinare il Mar Nero e l’Arcipelago. A loro ricorrevano, con lettere segrete, i principi d’Europa per assicurare il buon esito dei negoziati. Dalle loro manine bianche uscivano i decreti che davano i governi delle provincie e gli alti gradi dell’esercito. Sono le carezze di Rosellana che fecero stringere il laccio al collo ai gran visir Ahmed e Ibrahim. Sono i baci di Saffié, la bella veneziana, perla e conchiglia del califfato, che mantennero per tanti anni le relazioni amichevoli della Porta e della repubblica di Venezia. Sono le sette cadine di Murad III che governarono l’impero per gli ultimi vent’anni del secolo sedicesimo. È la bella Makpeiker, forma di luna, la cadina dai duemila settecento scialli, che regnò sui due mari e sui due mondi da Ahmed I sino al quarto Maometto. Fu Rebia Gulnuz, l’odalisca dalle cento carrozze d’argento, che resse i divani imperiali nei primi dieci anni della seconda metà del secolo decimosettimo. È Scekerbulì, il pezzettino di zucchero, che faceva viaggiare pei suoi fini, come un automa, fra Stambul e Adrianopoli, il sanguinario Ibrahim.

Che confusione di maneggi, che reticolazione intricata di spionaggi terribili e di ciance puerili ci doveva essere in quella piccola città amorosa e onnipotente! Passando per quei viali, mi pareva di sentire da ogni parte un bisbiglio accelerato di voci femminili, che svolgessero, interrogando e rispondendo, tutta la cronaca intima del serraglio. E doveva essere una cronaca stranamente svariata e intrecciata. Si trattava di sapere quale cadina il Sultano avrebbe condotto nell’estate al suo chiosco delle Acque dolci; che dote sarebbe stata fatta alla terza figliola del Padiscià, che doveva sposare il grande ammiraglio; se era vero che l’erba data alla governatrice Raazgié dal mago Sciugaa avesse fatto concepire la terza cadina infeconda da cinque anni; se era un fatto sicuro che la favorita Giamfeda avesse ottenuto per il governatore d’Anatolia il governo della provincia di Caramania. Di chiosco in chiosco circolava la notizia che, sgravandosi felicemente la prima cadina, il nuovo gran visir, per superare il suo predecessore, le avrebbe regalato una culla d’argento massiccio, tutta tempestata di smeraldi; che la prescelta dal Sultano sarebbe stata la schiava regalata dalla kiaya-harem e non quella regalata dal Pascià d’Adrianopoli; che morendo il grande eunuco bianco ch’era agli estremi, il giovane paggio Mehemet avrebbe comprato col sacrifizio della sua virilità la carica ambita da tanto tempo. Si diceva sottovoce che non si sarebbe più fatto il gran canale dell’Asia Minore proposto dal gran visir Sinau, per non allontanare gli operai occupati ad innalzare il nuovo chiosco per la Sultana Baffo; e che la cadina Saharai, trentacinquenne, piangeva da due giorni e da due notti per timore d’essere relegata al vecchio Serraglio; e che il buffone Ahmed aveva fatto ridere così di cuore il Sultano, che questi l’aveva nominato sul momento agà dei Giannizzeri. E poi scoppiettavano mille chiacchiere sulle prossime feste per il matrimonio d’Otman- pascià colla Sultana Ummetullà, nelle quali un drago di bronzo avrebbe vomitato fuoco nell’At-meidan; sul nuovo vestito della Sultana Validè, tutto di zibellino, di cui ogni bottone era una pietra preziosa del valore di cento scudi d’oro; sul nuovo appannaggio dato alla cadina Kamarigé, luna di bellezza, della rendita della Valachia, e sulla piccola rosa color di sangue scoperta nel collo alla sciamascirusta, custode della biancheria del Sultano, e sui bei capelli biondi inanellati dell’ambasciatore della repubblica di Genova, e sulla meravigliosa lettera scritta di proprio pugno dalla prima moglie dello Scià di Persia in risposta alla sultana Currem, l’allegra. Tutte le voci venute dalla città, tutti gl’incidenti clamorosi delle discussioni del divano, tutti i rumori uditi la notte nel serraglio, erano commentati e passati alla trafila di mille congetture in tutti quei giardinetti, da cento gruppi di testoline circospette e curiose. Là pure passavano di mano in mano e di bocca in bocca i madrigali anonimi dei Padiscià, i versi tristi e liberi di Abdul-Baki l’immortale, e le poesie smaglianti d’Abu-Sud, di cui «ogni parola era un diamante», e i canti ebbri d’oppio e di vino di Fuzuli, e le lascivie canore di Gazali. E tutto cangiava col cangiare dell’indole e della vita dei Padiscià. Ora passava a traverso quel piccolo mondo come una corrente di tenerezza e di malinconia, e allora una certa dignità gentile rialzava tutte le fronti, il furore del lusso si quetava, i modi si correggevano, il linguaggio si purgava, nasceva il gusto delle letture pie, si ostentava il raccoglimento e la devozione religiosa, e le feste medesime, senza essere meno splendide, assumevano l’aspetto di cerimonie liete, ma composte. Ora invece saliva al trono un Padiscià educato dall’infanzia al vizio e alle follie, e allora la dea Voluttà riconquistava il suo impero, i veli cadevano, si tornava a sentire il linguaggio senza sottintesi e la risata clamorosa, si tornavano a vedere le nudità senza pudore; gl’incettatori della bellezza partivano per la Georgia e per la Circassia; le fanciulle affluivano; cento donne si potevano vantare degli amplessi del Gran Signore, i chioschi si popolavano di culle, le casse dell’erario versavano torrenti d’oro, i vini di Cipro e d’Ungheria gorgogliavano sulle mense coperte di fiori, Sodoma alzava la fronte, Lesbo trionfava, i bei volti dai grandi occhi neri impallidivano, e tutto l’arem febbricitava, rabbioso di voluttà, in un’atmosfera carica di profumi e di vizio, fin che una notte si svegliava improvvisamente abbagliato da mille fiaccole, e subiva dalle scimitarre dei Giannizzeri il castigo di Dio.

Venivano le notti tremende anche per quella piccola Babilonia nascosta tra i fiori. La ribellione non rispettava il terzo recinto più di quel che rispettasse gli altri due. La soldatesca atterrava le porte della Felicità e irrompeva nell’arem. Cento eunuchi difendevano invano, a pugnalate, le soglie dei chioschi. I giannizzeri salivano sui tetti, rompevano le cupole, si precipitammo nelle sale a strappare i principi dalle braccia delle madri. Le Validè erano tirate per i piedi fuori dei loro nascondigli, si difendevano a unghiate e a morsi, cadevano riverse sotto le ginocchia dei baltagì e morivano strangolate coi cordoni delle tendine. Le Sultane, rientrando in casa, gettavano grida disperate alla vista delle culle vuote, e voltandosi a interrogare le schiave, n’avevano in risposta un silenzio tremendo, che voleva dire: – Vallo a cercare ai piedi del trono il tuo bambino! – Gli eunuchi, atterriti, venivano ad annunziare alle favorite, svegliate da un tumulto lontano, che le loro teste erano aspettate e che bisognava prepararsi a morire. Le tre cadine del terzo Selim, condannate al capestro ed al sacco, sentivano, nella notte, le grida supreme l’una dell’altra, e spiravano nelle tenebre sotto le mani convulse dei muti. Gelosie mortali e vendette orrende facevano risonare i chioschi di gemiti e di strida che spandevano il terrore in tutto l’arem. La Circassa madre di Mustafà lacerava il viso a Rosellana, le favorite rivali schiaffeggiavano Scekerbulì, la sultana Tarchan vedeva balenare sul capo delle sue creature il pugnale di Maometto IV, la prima cadina del primo Ahmed strozzava colle proprie mani la schiava rivale, e stramazzava alla sua volta, pugnalata in viso, sotto i piedi del Padiscià, urlando di dolore e di rabbia; le cadine gelose s’aspettavano nei corridoi oscuri, si trattavano ad alte grida di «carne venduta» e s’avvinghiavano come tigri straziandosi il collo e le reni colla punta degli stiletti avvelenati. E chi sa quanti eccidi rimasti ignoti, di schiave soffocate nelle fontane, freddate a colpi d’elsa nelle tempie, lacerate dal colbac degli eunuchi, schiacciate fra le porte di ferro dalle braccia d’acciaio di dieci gelose frenetiche! I veli soffocavano i lamenti, i fiori nascondevano il sangue, due ombre si perdevano nel labirinto dei viali oscuri portando una cosa nera; le sentinelle delle torri, sulla riva del Mar di Marmara, sentivano un tonfo nelle acque, e l’arem si ridestava all’alba, come sempre, odoroso e ridente, senza accorgersi che una delle sue mille stanze era vuota.

Tutte queste immagini mi venivano alla mente, girando per quel recinto, e alzando gli occhi alle grate di quei chioschi abbandonati e tristi come sepolcri. Eppure, in mezzo a quelle memorie sinistre, provavo di tratto in tratto un certo batticuore piacevole, una specie di trepidazione voluttuosa d’adolescente, mista di malinconia e di tenerezza, pensando che le scalette per cui salivo e scendevo, avevano sentito il peso di quelle donne bellissime e famose; che i sentieri che calpestavo avevano udito il fruscìo delle loro vesti, che le volte di quei piccoli portici di cui accarezzavo, passando, le colonnine, avevano ripercosso il suono delle loro risa infantili. Mi pareva che qualche cosa di loro ci dovesse ancora essere dietro quei muri, in quell’aria. Avrei voluto cercare, gridare quei nomi memorabili, chiamarle a una a una cento volte, e mi pareva che qualche risposta di voce lontana l’avrei sentita, che qualchecosa di bianco l’avrei visto passare sulle alte terrazze o in fondo ai boschetti solitari. E giravo gli occhi qua e là, e interrogavo le grate e le porte. Quanto avrei dato per sapere dove era stata chiusa la vedova di Alessio Comneno, la più bella delle prigioniere di Lesbo e la più seducente greca del suo secolo, o dov’era stata pugnalata la cara figliuola d’Erizzo, governatore di Negroponte, che preferì la morte all’amplesso brutale di Maometto II! E Currem, la favorita di Solimano, a che finestra si affacciava, coi suoi belli atteggiamenti languidi di persiana, per fissare nel Mar di Marmara i suoi potenti occhi neri, velati dalle lunghissime ciglia di seta? Qui, su questo sentiero, non avrà lasciato molte volte le tracce del suo passo leggiero la bella danzatrice ungherese che levò Saffiè dal cuore di Murad III, scattando come una lama d’acciaio fra le braccia imperiali? E da quest’aiuola non avrà mai strappato un fiore, passando, Kesem, la bella greca, la gelosa feroce, dal viso pallido e malinconico, che vide il regno di sette Sultani? E l’armena gigantesca, che fece impazzir d’amore Ibrahim, non avrà mai immerso il suo enorme braccio bianco nell’acqua di questa fontana? E chi aveva il piede più piccino, la piccola favorita di Maometto IV, di cui due babbucce non facevano la lunghezza d’uno stiletto, o Rebia Gulnuz, la bevanda delle rose di primavera, che aveva i più begli occhi azzurri dell’Arcipelago, e non lasciava traccia del suo passo sulle sabbie bianche del suo giardino? E i capelli più dorati e più morbidi chi li possedeva, Marhfiruz, la favorita dell’astro delle notti, o Miliclia, la giovane odalisca russa, che soggiogò la ferocia del secondo Otmano? E le fanciulle persiane ed arabe che addormentavano colle loro favole Ibrahim? E le quaranta giovinette che bevettero il sangue del terzo Murad? Non ne rimane più nulla, nemmeno una ciocca di capelli, nemmeno il filo d’un velo, nemmeno un segno nelle pareti? E queste fantasie terminavano tutte in una visione dolorosa e spaventevole. Le vedevo passare, a file interminabili, lontano, fra i tronchi fitti degli alberi e sotto i lunghi portici, l’una dietro l’altra, sultane validè, sultane sorelle, cadine, odalische, schiave, fanciulle appena sbocciate, donne trentenni, vecchie coi capelli bianchi, visi timidi di vergini e visi terribili di gelose, dominatrici d’imperi, favorite d’un giorno, trastulli d’un’ora; creature di dieci generazioni e di cento popoli, coi loro bimbi strozzati fra le braccia o per mano; una col laccio al collo, una con un pugnale nel cuore, un’altra grondante d’acqua del Mar di Marmara, splendenti di gemme, coperte di ferite, moribonde di veleno, trasfigurate dalle lunghe agonie del vecchio Serraglio; e passavano mute e leggiere come fantasime, e si perdevano in file interminabili nell’oscurità dei boschetti, lasciando dietro di sè una lunga traccia di fiori appassiti e di gocce di pianto e di sangue; e un’immensa pietà mi stringeva il cuore.

Di là dal terzo recinto, si stende un tratto di terreno piano, tutto coperto d’una vegetazione rigogliosa, e sparso di piccoli edifizi gentili, in mezzo ai quali s’innalza la così detta colonna di Teodosio, di granito grigio, sormontata da un bel capitello corinzio, e sorretta da un largo piedestallo, su cui si leggono ancora le due ultime parole d’una iscrizione latina che diceva: Fortunae reduci ob devictos Gothos. E qui finisce l’altopiano sul quale si distende il grande rettangolo centrale degli edifizi del Serraglio. Di qui fino al capo del Serraglio, e in tutto lo spazio compreso fra il circuito dei tre recinti e le mura esteriori, lungo i fianchi della collina, era tutto un bosco di grandi platani, di cipressi altissimi, di filari di pini, di gruppi d’allori e di terebinti e di pioppi inghirlandati di pampini, che ombreggiavano una successione di giardini pieni di rose e d’elitropie, disposti a scaglioni, e attraversati da larghe gradinate di marmo per le quali si scendeva fino al mare. Lungo le mura, in faccia a Scutari, c’era il nuovo palazzo del Sultano Mahmud, che s’apriva sul mare in una grande porta rivestita di rame dorato. Vicino al Capo del Serraglio, s’innalzava l’arem d’estate, che era un vastissimo edifizio semicircolare, capace di cinquecento donne, con vasti cortili e bagni splendidi e giardini, dove si facevano quelle luminarie fantastiche, che diventarono celebri sotto il nome di feste dei tulipani. Davanti a quest’arem, fuori delle mura, sopra la riva del mare, c’era la batteria famosa del Serraglio, formata di venti cannoni di forme bizzarre, scolpiti e istoriati, ch’erano stati tolti agli eserciti cristiani nelle prime guerre europee. Le mura avevano otto porte, tre dalla parte della città, e cinque dalla parte del mare. Grandi terrazze di marmo s’avanzavano dalle mura sulla riva. Strade sotterranee conducevano dalla reggia alle porte del Mar di Marmara, in modo che i Sultani potevano salvarsi da un assalto imbarcandosi segretamente, e riparando a Scutari o a Top-Hané. Né qui era tutto il Serraglio. Vicino alle mura esterne e per i fianchi della collina s’innalzavano ancora molti chioschi, della forma di piccole moschee, di fortini e di gallerie, da ognuno dei quali, per un sentiero nascosto da alte spalliere di verzura, si riusciva alle porte secondarie del terzo recinto. V’era il chiosco Yali, ora distrutto, che si specchiava nel Corno d’oro. C’è ancora, quasi intatto, il Nuovo chiosco, che è una piccola reggia rotonda, tutta ornata di dorature e di pitture, nella quale i Sultani andavano, sul tramonto, a godere la vista delle mille navi del porto. Vicino all’arem d’estate v’era il chiosco degli Specchi, dove fu segnato il trattato di pace del 1784, con cui la Turchia cedette la Crimea alla Russia, e il chiosco d’Hassan Pascià, tutto splendente d’oro, le cui pareti coperte di specchi rallegravano con un gioco fantastico di riflessi le feste e le orge notturne dei Sultani. Il chiosco del Cannone per le cui finestre si gettavano nel mare i cadaveri, sorgeva vicino alla batteria del Capo del Serraglio. Il chiosco del Mare, in cui teneva i suoi divani segreti la Validè di Maometto IV, pendeva a filo sulle correnti confuse del Mar di Marmara e del Bosforo. Il chiosco delle Rose dominava la spianata in cui facevano gli esercizi i paggi, e dove fu proclamata, nel 1839, la nuova costituzione dell’Impero, col famoso hatti-scerif di Gul-Hané. Dall’altra parte del Serraglio c’era ancora il chiosco delle Riviste, da cui i Sultani vedevano passare, non visti, tutti coloro che andavano al divano; sull’angolo delle mura vicino a Santa Sofia, il chiosco d’Alai, dal quale Maometto IV gittò all’esercito ribelle la sua favorita Meleki, e ventinove ufficiali della Corte, sbranati sotto i suoi occhi; e all’altra estremità delle mura, il chiosco Sepedgiler, vicino al quale i Padiscià davano congedo ai grandi ammiragli che partivano per le guerre lontane. Così la reggia formidabile, dall’alto del colle, dov’erano raccolte e nascoste le sue parti più vitali, si sparpagliava per la china e lungo la riva del mare, coronata di torri, irta di cannoni, inghirlandata di rose; slanciava da tutte le parti le sue barchette dorate, levava al cielo un nuvolo di profumi come un enorme altare, specchiava nelle acque le mille fiammelle delle sue feste, gettava dall’alto delle sue mura oro alla folla e cadaveri alle onde, ieri in balìa d’una schiava, oggi in potere d’un forsennato, domani ludibrio della soldatesca, bella come un’isola fatata e sinistra come un sepolcro di vivi…
La notte è alta; il Mar di Marmara riflette il cielo ardente di stelle; la luna inargenta le cento cupole del Serraglio e imbianca le cime dei cipressi e dei platani, che distendono le loro grandi ombre nei vasti recinti, circondati da innumerevoli finestrine illuminate che si vanno spegnendo a una a una. I chioschi e le moschee risaltano con una bianchezza di neve in mezzo al verde lugubre dei boschetti. Le guglie, le punte dei minareti, le mezzelune aeree, le porte di bronzo, le graticole dorate luccicano fra gli alberi, presentando l’apparenza vaga d’una città d’oro e d’argento. La città imperiale s’addormenta. Le tre grandi porte son state chiuse ora ora, e le chiavi enormi suonano ancora fra le mani dei capigì, sotto le volte degli alti vestiboli. Un drappello di capigì veglia dinanzi alla porta della Salute; trenta eunuchi bianchi custodiscono la porta della Felicità, appiccicati ai muri e immobili come bassorilievi, col volto nell’ombra. Centinaia di sentinelle invisibili, vigilano dalle mura e dalle torri, guardando il mare, il porto, le strade tenebrose di Stambul, e la mole enorme e muta di Santa Sofia. Nelle grandi cucine del primo cortile si vede ancora un saliscendi di lanterne, che rischiarano gli ultimi lavori; poi tutto l’edifizio rimane oscuro. Un lume brilla ancora nelle case del Veznedar agà e del Defterdar effendi. Qualche cosa brulica, nel secondo recinto, dinanzi alla casa del Grand’Eunuco nero. Nel labirinto dell’arem si vanno chiudendo le ultime porte. Gli eunuchi girano per i viali deserti, intorno ai chioschi oscuri, non udendo altro rumore che lo stormire degli alberi agitati dall’aria marina e il mormorio monotono delle fontane. Un’alta pace par che regni su tutta la reggia. Eppure una vita febbrile ribolle ancora fra quelle mura. Da tutto quel popolo di schiave, di soldati, di prigionieri, di servi, i pensieri della notte si levano confusamente, e superate le mura del Serraglio, volano ai quattro angoli del mondo a cercar luoghi cari e madri abbandonate dall’infanzia, e a riandare vicende strane e terribili di tempi lontani. Le preghiere e i lamenti muti s’incrociano per gli anditi e per i boschetti oscuri coi propositi di vendetta e di sangue, e coi desideri insensati delle ambizioni segrete. La grande reggia dorme un sonno torbido, interrotto da riscotimenti improvvisi di diffidenza e di paura. Un bisbiglio diffuso di parole di cento lingue si confonde col suono dei respiri e col mormorio della vegetazione ventilata. A breve distanza, divisi da poche pareti, dorme il paggio che s’è prostituito, l’iman che ha predicato la parola di Dio, il carnefice che ha strozzato un innocente, il principe prigioniero che aspetta la morte, la sultana innamorata che si prepara alle nozze. Creature diseredate d’ogni bene, riposano accanto a ricchezze favolose; la bellezza divina, la deformità derisa, tutti i vizi, tutte le sventure, tutte le prostituzioni dell’anima e della carne, si trovano rinchiuse fra le stesse mura. Le architetture moresche, che s’innalzano sopra gli alberi, profilano nel cielo stellato le loro mille forme bizzarre ed aeree; sui muri si allungano ombre graziose di frange, di festoni e di trine; le fontane illuminate dalla luna schizzano zaffiri e diamanti; e tutti i profumi del giardino volano, portati dall’aria notturna, confusi in una fragranza potente che entra per le grate nelle sale a destar fremiti di piacere e sogni lascivi. È l’ora in cui gli eunuchi, seduti sotto gli alberi, cogli occhi fissi nel lume fioco che traluce dalle finestre dei chioschi, si rodono l’anima e il cuore, tastando colle dita tremanti la punta del pugnale; l’ora in cui la povera giovinetta, rubata e venduta di fresco, dal finestrino alto della sua cella, guarda cogli occhi umidi di lagrime gli orizzonti sereni dell’Asia, rimpiangendo la capanna dov’è nata e la valle dove sono sepolti i suoi padri; l’ora in cui il galeotto incatenato, il muto macchiato di sangue, il nano spregiato, misurano con un tremito di sgomento l’infinita distanza che li separa dall’uomo che è sopra tutti, e interrogano dolorosamente il potere ascoso che tolse all’uno la libertà, all’altro la parola, al terzo la forma umana per dare ogni cosa ad un solo. È l’ora in cui piangono i reietti e in cui tremano i grandi, malsicuri del domani. Le lanterne sparse per gli edifizi multiformi rischiarano fronti pallide di tesorieri curvi sulle carte; teste scarmigliate d’odalische, disperate d’un lungo abbandono, che cercano il sonno invano sui guanciali infocati; visi abbronzati di giannizzeri erculei, addormentati con un sorriso feroce, che tradisce la visione di una strage. I muri sottili sentono aneliti di voluttà e singhiozzi rotti da parole disperate. E mentre in un chiosco spuma il liquore maledetto in mezzo a un cerchio di baccanti seminude; mentre in una sala semioscura, una povera sultana, madre da un istante, nasconde, urlando, il viso nei guanciali, per non vedere un lago di sangue nel quale spira la sua creatura, a cui, per ordine del Padiscià, la levatrice lasciò aperto il tubo ombelicale; mentre le teste dei bey, uccisi al cader della notte, stillano le loro ultime gocce di sangue sui marmi delle nicchie di Bab-Umaiun; nel chiosco più alto del terzo recinto, in una sala tappezzata di damasco vermiglio, sopra un letto di zibellino, in mezzo a un disordine sfarzoso di cuscini imperlati e di coperte di velluto splendenti d’oro, su cui scende la luce vaga d’una lanterna moresca d’argento cesellato, appesa al soffitto di cedro, una bella fanciulla bruna, ravvolta in un grande velo bianco, che pochi anni sono conduceva l’armento a traverso le pianure dell’Arabia Felice, chinata sul viso pallido del terzo Murad, che riposa, sonnecchiando, ai suoi piedi, gli mormora con una voce timida e dolce: – V’era una volta a Damasco un mercante chiamato Abu-Eiub che aveva raccolte molte ricchezze e viveva onorevolmente. E possedeva un figliuolo, ch’era bello e che sapeva molte cose e che si chiamava Schiavo d’amore, e una figliuola bellissima, che aveva per soprannome Forza dei cuori. Ora Abu-Eiub venne a morire e lasciò tutte le sue mercanzie fasciate e legate, e su tutte c’era scritto: Per Bagdad. E Schiavo d’amore domandò alla madre: – Perché c’è scritto per Bagdad su tutte le mercanzie di mio padre? – E la madre rispose: – Figliuol mio…. – Ma il Padiscià s’è addormentato e la schiava abbandona dolcemente il suo capo sopra i guanciali. Tutte le porte dell’arem son chiuse, tutti i lumi son spenti, la luna inargenta le cento cupole, le mezzelune e le finestre dorate luccicano tra gli alberi, le fontane zampillano rumorosamente nell’alto silenzio della notte: tutto il Serraglio riposa.

E così riposa da trent’anni, abbandonato sulla sua collina solitaria; e si possono ripetere per esso i versi del poeta persiano che vennero sulle labbra a Maometto il conquistatore quando pose il piede nel palazzo devastato degl’Imperatori d’Oriente: L’immondo ragno ordisce le sue tele nelle sale dei re, e dalle vette superbe d’Erasciab, il corvo vibra nell’aria il suo canto sinistro.


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

14- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: Le mura

14- Le mura

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

Il giro intorno alle antiche mura di Stambul lo volli far solo, e consiglio ad imitarmi tutti gl’Italiani che andranno a Costantinopoli, perché lo spettacolo delle grandi rovine solitarie non lascia un’impressione veramente profonda e durevole se non in chi è tutto inteso a riceverla, e può seguire liberamente il corso dei suoi pensieri, in silenzio. C’era da fare una passeggiata di circa quindici miglia italiane, a piedi, sotto i raggi del sole, per strade deserte. – Forse – dissi al mio amico – a metà strada mi piglierà la tristezza della solitudine e t’invocherò come un Santo; ma tant’è, voglio andar solo. – Alleggerii il portamonete per il caso che qualche ladro suburbano avesse voluto vederci dentro, gittai qualchecosa «dentro alle bramose canne» per poter dir poi a me stesso: – «taci, maledetto lupo» –; e m’incamminai alle otto della mattina, sotto un bel cielo lavato da una pioggerella della notte, verso il ponte della Sultana Validè.

Il mio disegno era d’uscire da Stambul per la porta del quartiere delle Blacherne, di percorrere la linea delle mura dal Corno d’oro fino al castello delle Sette Torri, e di ritornare lungo la riva del Mar di Marmara, girando così intorno a tutto il grande triangolo della città musulmana.

Passato il ponte, svoltai a destra e m’inoltrai nel vasto quartiere chiamato Istambul-disciaré, o Stambul esterna, che è una lunga striscia di città, compresa fra le mura ed il porto, tutta casupole e magazzini d’oli e di legna, stata distrutta più volte dagli incendi. Fra le viuzze e la riva del Corno d’oro, lungo la quale si stende una fila di piccoli scali e di seni pieni di bastimenti e di barconi, c’è un viavai fitto di facchini, di ciucci e di cammelli, un rimescolio di gente strana e di cose sporche, e un urlìo incomprensibile, che fa pensare a quei porti meravigliosi del mar dell’Indie e del mar della China dove s’incontrano i popoli e le merci dei due emisferi. Le mura che rimangono da questo lato della città, sono alte cinque volte un uomo, merlate, fiancheggiate di cento in cento passi da piccole torri quadrangolari, e in molte parti rovinate; ma sono il tratto meno notevole e per arte e per memorie delle mura di Stambul. Attraversai il quartiere del Fanar, passando sulla riva ingombra di fruttaioli, di pasticcieri, di venditori d’anice e di rosolio, e di cucine esposte all’aria aperta, in mezzo a gruppi di bei marinari greci atteggiati come le statue dei loro Numi antichi; girai intorno al vastissimo ghetto di Balata; percorsi il quartiere silenzioso delle Blacherne, e uscii finalmente di città per la porta chiamata Egri-Kapú, poco lontana dalla riva del Corno d’oro. Tutto questo è presto detto; ma è una camminata di un’ora e mezzo, ora in salita, ora in discesa, intorno a laghi di mota, sopra ciottoli enormi, per vicoli senza fine, sotto volte oscure, a traverso a vasti spazii solitari, senz’altra guida che la punta dei minareti della moschea di Selim. A un certo punto si cominciano a non veder più né facce né abiti di franchi; poi spariscono le casette all’europea; poi il ciottolato, poi le insegne delle botteghe, poi l’indicazione delle strade, poi ogni rumor di lavoro; e più si va innanzi, più i cani guardano torvo, più i monelli turchi fissano con l’occhio ardito, più le donne del volgo si nascondono la faccia con cura, fin che ci si trova in piena barbarie asiatica, e la passeggiata di due ore pare che sia stata un viaggio di due giorni.

Uscendo da Egri-Kapú, voltai a sinistra e vidi improvvisamente un larghissimo tratto delle mura famose che difendono Stambul dalla parte di terra.

Sono passati tre anni da quel momento; ma non posso ricordarmene senza provare un sentimento vivissimo di meraviglia. Non so in quale altro luogo dell’Oriente si trovino così raccolte la grandezza dell’opera umana, la maestà della potenza, la gloria dei secoli, la solennità delle memorie, la mestizia delle rovine, la bellezza della natura. È una vista che ispira insieme ammirazione, venerazione e terrore; uno spettacolo degno d’un canto d’Omero. A primo aspetto, si scoprirebbe il capo e si griderebbe: – Gloria! – come dinanzi a una schiera interminabile di giganteschi eroi mutilati.

La cinta delle mura e delle torri enormi si stende fin dove arriva lo sguardo, salendo e scendendo a seconda delle alture e degli avvallamenti, dove bassissima che par che si sprofondi nella terra, dove alta che par che coroni la sommità d’una montagna; svariata d’infinite forme di rovine, tinta di mille colori severi, dal calcareo fosco quasi nero al giallo caldo quasi dorato, e rivestita d’una vegetazione rigogliosa d’un verde cupo, che s’arrampica su per i muri, ricasca in ghirlande dai merli e dalle feritoie, si rizza in ciuffi alteri sulla cima delle torri, s’ammucchia in piramidi altissime, vien giù quasi a cascatelle dalle cortine, e colma brecce, spaccature e fossati, e si avanza fin sulla via. Sono tre ordini di mura che formano come una gradinata gigantesca di rovine: il muro interno, che è il più alto, fiancheggiato, a brevi distanze eguali, da grossissime torri quadrate; quel di mezzo, rafforzato da piccole torri rotonde; l’esterno senza torri, bassissimo, e difeso da un fosso largo e profondo, anticamente riempito dalle acque del Corno d’oro e del Mar di Marmara, ora coperto d’erba e di cespugli. Tutte queste mura sono ancora, presso a poco, quali erano il giorno dopo la presa di Costantinopoli: perché sono pochissima cosa i ristauri fatti da Maometto e da Bajazet II. Vi si vedono ancora le brecce che v’apersero i cannoni enormi d’Orbano, le tracce dei colpi degli arieti e delle catapulte, gli squarci delle mine, e tutti gl’indizi dei luoghi dove si diedero gli assalti più furiosi e si opposero le resistenze più disperate. Le torri rotonde delle mura di mezzo sono quasi tutte rovinate fino alle fondamenta; le torri delle mura interne, quasi tutte ritte; ma smerlate, scantonate, ridotte in punta alla sommità come tronchi d’alberi enormi acuminati a colpi d’accetta, e screpolate di cima in fondo o incavate alla base come scogli rosi dal mare. Pezzi smisurati di muratura, rotolati giù dalle cortine, ingombrano la piattaforma del muro di mezzo, quella del muro esterno ed il fosso. Piccoli sentieri serpeggiano fra le macerie e le erbacce e si perdono nell’ombra cupa della vegetazione alta, fra i macigni e gli scoscendimenti della terra messa a nudo dai muri precipitati. Ogni tratto di bastione compreso fra due torri è un quadro stupendo di rovine e di verde, pieno di maestà e di grandezza. Tutto è colossale, selvatico, irto, minaccioso, e improntato d’una bellezza pomposa e triste, che impone la riverenza. Par di vedere le rovine d’una catena sterminata di castelli feudali, o i resti d’una di quelle muraglie prodigiose che circondavano i grandi imperi leggendari dell’Asia orientale. La Costantinopoli del secolo decimonono è sparita; si è dinanzi alla città dei Costantini; si respira l’aria del quattrocento; tutti i pensieri corrono al giorno dell’immensa caduta e si rimane per un momento sbalorditi e sgomenti.

La porta per cui ero uscito, chiamata dai turchi Egri-Kapú, era quella famosa porta Caligaria, per la quale fece la sua entrata trionfale Giustiniano, ed entrò poi Alessio Comneno per impadronirsi del trono. Dinanzi v’è un cimitero musulmano. Nei primi giorni dell’assedio era stato messo là quello smisurato cannone d’Orbano, intorno al quale lavoravano quattrocento artiglieri e che cento buoi stentavano a smovere. La porta era difesa da Teodoro di Caristo e da Giovanni Greant, contro l’ala sinistra dell’esercito turco che si stendeva fino al Corno d’oro. Da quel punto fino al Mar di Marmara non c’è più un sobborgo né un gruppo di case. La strada corre diritta fra le mura e la campagna. Non v’è nulla che distragga dalla contemplazione delle rovine. Mi misi in cammino. Andai per un lungo tratto in mezzo a due cimiteri; uno cristiano a sinistra, sotto le mura; un altro maomettano, a destra, vastissimo e ombreggiato da una selva di cipressi. Il sole scottava; la strada si stendeva dinanzi a me bianca e solitaria, e sollevandosi a poco a poco tagliava con una linea retta, sulla sommità dell’altura, il cielo, limpidissimo. Da una parte le torri succedevano alle torri, dall’altra le tombe succedevano alle tombe. Non sentivo che il rumore cadenzato del mio passo e di tratto in tratto il fruscìo di un lucertolone fra i cespugli vicini. Andai così per un lungo tratto, fin che mi trovai impensatamente davanti a una bella porta quadrata, sormontata da un grande arco a tutto sesto e fiancheggiata da due grosse torri ottagone. Era la porta d’Adrianopoli, la Polyandria dei Greci; quella che sostenne nel 625, sotto Eraclio, l’urto formidabile degli Avari, che fu difesa contro Maometto II dai fratelli Paolo e Antonino Troilo Bochiardi, e che divenne poi la porta delle uscite e dell’entrate trionfali degli eserciti musulmani. Né dinanzi né intorno non c’era anima viva. Improvvisamente uscirono di galoppo due cavalieri turchi, mi ravvolsero in un nuvolo di polvere e sparirono per la strada d’Adrianopoli; poi tornò a regnare un silenzio profondo.

Di là, voltando le spalle alle mura, mi avanzai per la strada d’Adrianopoli, discesi nel vallone del Lykus, salii sopra un’altura, e mi trovai dinanzi al vastissimo piano ondulato e arido di Dahud-Pascià, dove tenne il quartier generale Maometto II, durante l’assedio di Costantinopoli. Stetti qualche tempo là immobile, guardando intorno con una mano sugli occhi, come per cercare le tracce dell’accampamento imperiale e rappresentarmi il grande e strano spettacolo che doveva offrire quel luogo sul finire della primavera del 1453. Là proprio rifluiva, come al suo cuore, la vita di tutto l’enorme esercito che stringeva nel suo formidabile amplesso la grande città moribonda. Di là partivano gli ordini fulminei che movevano le braccia di centomila operai, che facevano trascinare per terra duecento galere dalla baia di Besci-tass alla baia di Kassim-Pascià, che spingevano nelle viscere della terra eserciti di minatori armeni, che sguinzagliavano da cento parti i drappelli d’araldi ad annunziar l’ora degli assalti, e facevano, nel tempo che s’impiega a contare le pallottoline d’un tespì, tendere trecentomila archi e sguainare trecentomila scimitarre. Là i messi pallidi di Costantino s’incontravano coi genovesi di Galata venuti a vender l’olio per rinfrescare i cannoni d’Orbano e colle vedette musulmane che spiavano dalla riva del Mar di Marmara se apparissero all’orizzonte le flotte europee a portar gli ultimi soccorsi della cristianità all’ultimo baluardo dei Costantini. Là era un formicolio di cristiani rinnegati, d’avventurieri asiatici, di vecchi sceicchi, di dervis macilenti, laceri e stremati dalle lunghe marcie, che andavano e venivano affannosamente intorno alle tende di quattordicimila giannizzeri, fra schiere interminabili di cavalli bardati, fra lunghissime file di alti cammelli immobili, in mezzo a catapulte e a baliste infrante, a rottami di cannoni scoppiati, a piramidi di palle enormi di granito; incrociandosi con le processioni dei soldati polverosi che portavano a due a due, dalle mura all’aperta campagna, cadaveri sformati e feriti urlanti, a traverso una nuvola perpetua di fumo. In mezzo all’accampamento dei giannizzeri s’alzavano le tende variopinte della Corte, e al di sopra di queste, il padiglione vermiglio di Maometto II. E ogni mattina, allo spuntar del giorno, egli era là, ritto dinanzi all’apertura del suo padiglione, pallido della veglia affannosa della notte, col suo gran turbante ornato d’un pennacchio giallo e il suo lungo caffettano color di sangue, e fissava il suo sguardo d’aquila sull’immensa città che gli si stendeva dinanzi, tormentando con una mano la folta barba nera e coll’altra il manico d’argento del suo pugnale ricurvo. Accanto a lui c’era Orbano, l’inventore del cannone prodigioso, che doveva pochi giorni dopo, scoppiando, slanciare le sue ossa sulla spianata dell’Ippodromo; l’ammiraglio Balta-Ogli, già turbato dal presentimento della sconfitta, che fece cadere sul suo capo il bastone d’oro del Gran Signore; il comandante temerario dell’Epepolin, il grande castello mobile, coronato di torri e irto di ferro, che cadde poi incenerito davanti alla porta di San Romano; una corona di legisti e di poeti abbronzati dal sole di cento battaglie; un corteo di pascià colle membra coperte di cicatrici e i caffettani lacerati dalle freccie; una folla di giannizzeri giganteschi colle lame nude nel pugno e di sciaù armati di verghe di acciaio, pronti a far cadere le teste e a lacerare le carni ai ribelli e ai vigliacchi; tutto il fiore di quella sterminata moltitudine asiatica, piena di gioventù, di ferocia e di forza, che stava per rovesciarsi, come un torrente di ferro e di fuoco, sugli avanzi decrepiti dell’Impero bizantino; e tutti, immobili come statue, tinti di rosa dai primi raggi dell’aurora, guardavano all’orizzonte le mille cupole argentee della città promessa dal Profeta, sotto le quali sonavano, in quell’ora, le preghiere e i singhiozzi del popolo codardo. Io vedevo i visi, gli atteggiamenti, i pugnali, le pieghe delle cappe e dei caffettani, e le grandi ombre che s’allungavano sul terreno incavato dalle ruote dei cannoni e delle torri. Ma a un tratto, lasciando cader gli occhi sopra una grossa pietra mezzo affondata nella terra, e leggendovi una rozza iscrizione, quel gran quadro disparve come una visione fantasmagorica, e vidi sparpagliarsi per la pianura brulla una moltitudine allegra di cacciatori di Vincennes, di zuavi e di fantaccini dai calzoni rossi; sentii cantare le canzonette della Provenza e della Normandia; vidi il maresciallo Saint-Arnaud, Canrobert, Forey, Espinasse, Pelissier; riconobbi mille volti e mille colori vivi nella mia memoria e cari al mio cuore fin dall’infanzia… e rilessi con un sentimento inesprimibile di sorpresa e di piacere quella povera iscrizione. La quale diceva: – Eugène Saccard, caporal dans le 22° léger, 16 Juin 1854.

Di là ripassai per il vallone del Lykus e ritornai sulla strada che fiancheggia le mura, sempre solitaria e sempre serpeggiante fra le rovine e i cimiteri. Passai dinanzi all’antica porta militare di Pempti, ora murata; attraversai un’altra volta il Lykus, che entra nella città in quel punto, e arrivai finalmente dinanzi alla porta chiamata del Cannone, dal gran cannone d’Orbano, che v’era appostato davanti; la porta contro cui rivolse il suo ultimo assalto l’esercito di Maometto. Alzando gli occhi alla sommità delle mura, vidi dietro ai merli parecchie orribili facce nere, coi capelli scarmigliati, che mi guardavano in aria di stupore. Seppi poi che s’era annidata là una tribù di zingari, ficcando le sue capanne nelle spaccature delle cortine e delle torri. Qui le tracce della lotta sono veramente gigantesche e superbe: le mura sventrate, crivellate, stritolate; le torri dimezzate ed informi, le piattaforme sepolte sotto monti di ruderi, le feritoie squarciate, il terreno sconvolto, il fosso ingombro di rottami colossali, che sembrano massi di rocce franati da una montagna. La battaglia tremenda sembra stata combattuta il giorno innanzi e le rovine raccontano meglio d’una voce umana l’orribile eccidio di cui furono spettatrici. E fu poco meno che il medesimo dinanzi a tutte le porte, per tutta la lunghezza delle mura. La lotta cominciò allo spuntare del giorno. L’esercito ottomano era diviso in quattro enormi colonne, e preceduto da centomila volontari, che formavano un’immensa avanguardia predestinata alla morte. Tutta questa carne da cannone, questa turba indisciplinata e temeraria di tartari, di caucasei, d’arabi, di negri, guidati dagli sceicchi, eccitati dai dervis, cacciati innanzi a nerbate da un esercito di sciaù, si slanciò per la prima all’assalto, carica di terra e di fascine, formando una sola catena e cacciando un urlo solo dal Mar di Marmara al Corno d’oro. Arrivati sulla sponda del fosso, una grandine di ferro e di pietre li arresta e li macella; cadono a cento a cento, schiacciati dai macigni, crivellati dalle freccie, fulminati dalle palle, arsi dalle vampe delle spingarde, vecchi, fanciulli, schiavi, ladri, pastori, briganti; altre turbe, spinte da turbe più lontane, sottentrano; in poco tempo il fosso e le sponde sono coperte di mucchi di cadaveri, di membra palpitanti, di turbanti insanguinati, d’archi, di scimitarre; su cui altri torrenti d’armati passano muggendo e vanno a frangersi e a insanguinarsi ai piedi delle cortine e delle torri, sotto un rovescio più fitto di giavellotti e di sassi, in una nuvola densa che nasconde le mura, i difensori, i morti, la strada; fin che mille trombe ottomane fanno sentire i loro squilli selvaggi sopra il tumulto della battaglia, e la grande avanguardia dimezzata e sanguinosa retrocede confusamente da tutta la linea delle mura. Allora Maometto II sguinzaglia all’assalto il grosso delle sue forze. Tre grandi eserciti, tre fiumane d’uomini, condotti da cento Pascià, sorvolati da mille stendardi, s’avanzano, s’allargano, coprono le alture, allagano le valli, scendono levando un frastuono spaventoso di trombe, di timballi e di spade, e gettando un grido: – La Ilah illa lah! – che rimbomba come uno scoppio di fulmine dal Corno d’oro alle Sette Torri, spiccano la corsa e vanno a precipitarsi contro le mura come un oceano in tempesta contro una riva di rocce tagliate a picco. Allora comincia la grande battaglia, ossia cento battaglie, alle porte, alle brecce, nei fossi, sulle piattaforme, ai piedi delle cortine, da un capo all’altro dell’enorme baluardo secolare di Costantinopoli. Dieci mila feritoie vomitano la morte sopra duecento mila vite. Dall’alto delle cortine e delle torri ruzzolano i macigni, le travi, le botti piene di terra, le fascine accese. Le scale, cariche d’assalitori, rovinano; i ponti levatoi delle torri di assedio precipitano; le catapulte fiammeggiano. Schiere dietro schiere s’avventano e ricadono, sfolgorate, sulle macerie, sui molti sfracellati, sui moribondi, nel sangue, nell’acqua, sulle armi dei compagni, dentro a un fumo fitto, illuminato qua e là dalle vampe improvvise del fuoco greco, fra i sibili rabbiosi della mitraglia, fra gli scoppi delle mine, fra gli urli dei mutilati, fra i rimbombi formidabili delle diciotto batterie di Maometto, che fulminano la città dalle alture. Di tratto in tratto la battaglia si rallenta come per riprender respiro, e allora sulla larga breccia di porta San Romano, a traverso il fumo diradato, si vede per qualche momento ondeggiare il mantello di porpora di Costantino, scintillare le armature di Giustiniani e di Francesco di Toledo, e agitarsi confusamente le terribili figure dei trecento arcieri genovesi. Poi la mischia si riaccende, il fumo rinasconde le brecce, le scale si riappoggiano alle mura, e ricominciano a cader rovine su rovine e cadaveri su cadaveri alla porta d’Adrianopoli, alla porta Dorata, alla porta di Selymbria, alla porta di Tetarté, alla porta di Pempti, alla porta di Russion, alle Blacherne, all’Heptapyrgion; e turbe armate dietro turbe armate, che par che escano dalla terra, seguitano a irrompere contro le mura, valicano il fosso, superano le prime cortine, cadono, risorgono, s’arrampicano su per le macerie, strisciano sui cadaveri, sotto nuvoli di frecce, sotto tempeste di palle, sotto nembi di fuoco. Finalmente gli assalitori, diradati e sfiniti, cedono, retrocedono, si sparpagliano, e un grido altissimo di vittoria e un coro solenne di canti sacri s’innalza dalle mura. Dall’altura di fronte a San Romano, Maometto II, circondato da quattordicimila giannizzeri, vede, e rimane qualche tempo incerto se debba ritentare l’assalto o rinunziare all’impresa. Ma girato uno sguardo sui suoi formidabili soldati che lo guardano in volto fremendo d’impazienza e d’ira, si rizza superbamente sulle staffe e getta un’altra volta il grido della battaglia. Allora è la vendetta di Dio che si scatena. I giannizzeri rispondono con quattordicimila grida in un grido; le colonne si movono; una turba di dervis si spande per il campo a rianimare i dispersi, i sciaù arrestano i fuggenti, i pascià riformano le schiere, il Sultano, brandendo la sua mazza di ferro, s’avanza tra uno sfolgorio di scimitarre e d’archi, in mezzo a un mare di turbanti e di caschi; sulla porta di San Romano torna a rovesciarsi una grandine di frecce e di palle; Giustiniani, ferito, scompare; gl’italiani, scoraggiati, si scompigliano; il gigantesco giannizzero Hassan d’Olubad sale per il primo sui baluardi; Costantino, combattendo in mezzo agli ultimi suoi valorosi della Morea, è precipitato dai merli, lotta ancora sotto alla porta, stramazza in mezzo ai cadaveri…; l’Impero d’Oriente è caduto. La tradizione dice che un grande albero segnava il luogo dove fu trovato il corpo di Costantino; ma non ne vidi più traccia. Fra quei ruderi, dove corsero rigagnoli di sangue, la terra era tutta bianca di margheritine e di ombrellifere, sulle quali svolazzava un nuvolo di farfalle. Colsi un fiore per ricordo, sotto gli sguardi attoniti degli zingari, e mi rimisi in cammino.

Le mura mi si stendevano sempre dinanzi a perdita d’occhi. Nei luoghi alti nascondevano affatto la città, in modo che chi non l’avesse saputo, non avrebbe pensato mai che dietro quelle rovine solitarie e silenziose, ci potesse essere una vasta metropoli, coronata di grandi monumenti e abitata da un grande popolo. Nei luoghi bassi, invece, apparivano dietro i merli punte inargentate di minareti, sommità di cupole, tetti di chiese greche, vette di cipressi. Qua e là, per uno squarcio delle cortine, vedevo di sfuggita, come per una porta improvvisamente aperta e chiusa, un pezzo di città: gruppi di case che parevano abbandonate, vallette deserte, orti, giardini, e più lontano, sfumati nella chiarezza bianca del mezzogiorno, i contorni fantastici di Stambul. Passai dinanzi alla porta murata di Tetartè, non indicata che da due torri vicinissime. In quel tratto le mura sono meglio conservate. Si vedono dei lunghi pezzi delle cortine di Teodosio II, quasi intatte; delle belle torri del prefetto del Pretorio Antemio e dell’imperatore Ciro Costantino, che portano ancora gloriosamente sul capo invulnerato la loro corona di quindici secoli, e par che sfidino un nuovo assalto. In alcuni punti, sulle piattaforme, ci sono delle capanne di contadini, che danno un risalto inaspettato, colla loro fragile piccolezza, alla salda maestà delle mura, e paiono nidi d’uccelli appesi ai fianchi dirupati d’una montagna. E a destra sempre cimiteri, boschi di cipressi in salita e in discesa, vallette grigie di pietre sepolcrali; qui un convento di dervis, mezzo nascosto da una corona di platani; là un caffè solitario; più in là una fontana ombreggiata da un salice; e di là dai boschetti, sentieri bianchi che si perdono nella campagna alta ed arida, sotto un cielo abbagliante, in cui ruotano degli avvoltoi.

Dopo un altro quarto d’ora di cammino arrivai dinanzi alla porta chiamata Yeni- Mewle-hane, da un famoso convento di dervis che c’è davanti: una porta bassa, nella quale sono incastrate quattro colonne di marmo, e ai cui lati s’innalzano due torri quadrate, ornate d’un’iscrizione di Ciro Costantino, del 447, e d’un’iscrizione di Giustino II e di Sofia, nella quale l’ortografia dei nomi imperiali è sbagliata: saggio curioso della ignoranza barbarica del V secolo. Guardai dentro la porta, sulle mura, intorno al convento, nei cimiteri: non c’era anima nata. Riposai qualche momento appoggiato alle spallette del piccolo ponte che accavalcia il fosso delle mura, e poi ripresi la mia strada.

Io darei il ricordo d’una delle più belle vedute di Costantinopoli per poter trasfondere in chi legge soltanto un’ombra del sentimento profondo e singolarissimo che provavo andando così solo fra quelle due catene interminabili di rovine e di sepolcri, sotto quel sole, in quella solitudine severa, in mezzo a quella immensa pace. Molte volte, nei giorni tristi della mia vita, fantasticando, desiderai di trovarmi fra una carovana di gente misteriosa e muta, che camminasse eternamente, per paesi sconosciuti, verso una meta ignorata. Ebbene, quella strada rispondeva a quel mio desiderio. Avrei voluto che non finisse mai. Ma non m’inspirava mestizia; mi dava invece serenità e ardimento. Quei colori vigorosi della vegetazione, quelle forme ciclopiche delle mura, quelle grandi linee del terreno simili alle onde d’un oceano agitato, quelle solenni memorie d’imperatori, d’eserciti, di lotte titaniche, di popoli scomparsi, di generazioni defunte, accanto a quella città enorme, in quel silenzio mortale, rotto soltanto dal frullo possente delle ali dell’aquile che spiccavano il volo dalla sommità delle torri, mi destavano nella mente un ribollimento di fantasie gigantesche e di desideri smisurati, che mi raddoppiava il sentimento della vita. Avrei voluto esser più alto di due palmi e vestire l’armatura colossale del Grand’Elettore di Sassonia che avevo veduto nell’Armeria di Madrid, e che il mio passo risonasse in quel silenzio come il passo misurato d’un reggimento d’alabardieri del medioevo. Avrei voluto aver la forza d’un Titano per sollevare fra le braccia i ruderi immani di quelle mura superbe. Camminavo colla fronte alta, colle sopracciglia corrugate, colla mano destra serrata, apostrofando a grandi versi sciolti Costantino e Maometto, rapito in una specie d’ebbrezza guerriera, con tutta l’anima nel passato; e mi sentivo tanta giovinezza nella mente e nel sangue, ed ero così beato d’esser solo, e così geloso di quella solitudine piena di vita, che non avrei voluto incontrare nemmeno il più intimo dei miei amici.

Passai dinanzi all’antica porta militare di Trite, oggi chiusa. Le cortine e le torri sfracellate indicano che dinanzi a quel tratto di mura debbono esser stati posti alcuni dei grossi cannoni d’Orbano. Si crede anzi che fosse là una delle tre grandi brecce che Maometto II accennò all’esercito il giorno prima dell’assalto, quando disse: – Voi potrete entrare in Costantinopoli a cavallo per le tre brecce che ho aperte. – Di là riuscii davanti a una porta aperta, fiancheggiata da due torri ottagone, e riconobbi dal piccolo ponte a tre archi d’un bel color d’oro, la porta di Selivri, da cui partiva la grande strada che conduceva alla città di Selybmria, che le diede il nome, cangiato dai Turchi in Selivri. Durante l’assedio di Maometto, difendeva quella porta Maurizio Cattaneo, genovese. La strada conserva ancora alcune pietre del lastricato che vi fece fare Giustiniano. Dinanzi c’è un vasto cimitero e di là dal cimitero il monastero notissimo di Baluklù.

Appena entrato nel cimitero, trovai da me solo il luogo solitario dove sono sepolte le teste del famoso Alì di Tepeleni, pascià di Giannina; dei suoi figli: Velì, governatore di Trihala, Muctar, comandante d’Arlonia, Saalih, comandante di Lepanto; e di suo nipote Mehemet, figlio di Velì, comandante di Delvina. Sono cinque colonnine di pietra, terminate in forma di turbante, che portano tutte la data del 1827, e un’iscrizione semplicissima, fatta da quel povero Solimano dervis, amico d’infanzia d’Alì, che comperò le teste, dopo che furono staccate dai merli del Serraglio, e le seppellì di sua mano. L’iscrizione del cippo d’Alì, che è posto nel mezzo, dice: – Qui giace la testa del famoso Alì-Pascià di Tepeleni, governatore del Sangiaccato di Giannina, il quale, per più di cinquant’anni, s’affaticò per l’indipendenza dell’Albania. – Il che prova che anche sui sepolcri musulmani si scrivono delle pietose menzogne. Mi arrestai qualche momento a contemplare quella poca terra che copriva quel formidabile capo, e mi venivano in mente le domande d’Amleto al teschio di Yorik. Dove sono i tuoi Palicari, leone d’Epiro? Dove sono i tuoi bravi Arnauti e i tuoi palazzi irti di cannoni e il tuo bel chiosco riflesso dal lago di Giannina e i tuoi tesori sepolti nelle rocce e i begli occhi della tua Vasiliki? E pensavo alla bellissima donna vagante per le vie di Costantinopoli, povera e desolata dai ricordi della sua felicità e della sua grandezza, quando sentii un leggero fruscio, e voltandomi, vidi un uomo lungo e stecchito, vestito d’una gran tonaca scura, col capo scoperto, che mi guardava in aria interrogativa. Da un cenno che mi fece, capii che era un monaco greco di Baluklù, che voleva farmi vedere la fontana miracolosa, e m’incamminai con lui verso il monastero. Mi condusse a traverso un cortile silenzioso, aperse una porticina, accese una candela, mi fece scendere con sé per una scaletta, sotto una volta umida e oscura, e fermandosi dinanzi a una specie di cisterna, sulla quale raccolse con una mano la luce della fiammella, mi accennò di guardare i pesci rossi che guizzavano nell’acqua. Mentre guardavo, mi borbottò un discorso incomprensibile che doveva essere la favola famosa del miracolo dei pesci. Mentre i Musulmani davano l’ultimo assalto alle mura di Costantinopoli, un monaco greco, in quel convento, friggeva dei pesci. Improvvisamente s’affacciò alla porta della cucina un altro monaco, tutto atterrito, e gridò: – La città è presa! – Che! – rispose l’altro: – lo crederò quando vedrò i miei pesci saltar fuori della padella. – E i pesci saltarono fuori sull’atto, belli e vivi, mezzi bruni e mezzi rossi perché non erano fritti che da una parte, e furono rimessi religiosamente, come ognuno può pensare, nell’acqua dov’erano stati pigliati e dove guizzano ancora. Finita la sua chiacchierata, il monaco mi gettò sul viso alcune gocce dell’acqua sacra, che gli ricascarono in mano convertite in soldi, e dopo avermi riaccompagnato alla porta, stette un pezzo a guardarmi, mentre m’allontanavo, coi suoi piccoli occhi annoiati e sonnolenti.

E sempre, da una parte, mura dietro mura e torri dietro torri, e dall’altra cimiteri ombrosi, qualche campo verde, qualche vigneto, qualche casa chiusa, e di là, il deserto. Qualche volta, guardando le mura da un luogo basso, mi pareva di vederne l’ultimo profilo; ma fatta una breve salita, le vedevo di nuovo stendersi dinanzi a me senza fine, e a ogni passo saltavano fuori le torri, lontano, l’una dietro l’altra, a due, a tre insieme, come se accorressero sulla strada per veder chi turbava il silenzio di quella solitudine. La vegetazione, in quel tratto, è meravigliosa. Alberi frondosi si rizzano sulle torri, come sopra vasi giganteschi; dai merli spenzolano ciuffi di fiori gialli e di fiori rossi e ghirlande d’edera e di caprifoglio; di sotto ci son mucchi inestricabili di corbezzoli, di lentischi, di ortiche, di pruni, in mezzo a cui sorgono dei platani e dei salici, che coprono d’ombra il fosso e le sponde. Grandi tratti di muro sono completamente coperti dall’edera, che trattiene come una rete i mattoni e i calcinacci staccati, e nasconde le brecce e le feritoie. Il fosso è coltivato a orticelli; sulle sponde pascolano capre e pecore custodite da ragazzi greci, coricati all’ombra degli alberi; dai muri escono stormi d’uccelli; l’aria è piena delle fragranze acute dell’erbe selvatiche; e spira non so che allegrezza primaverile sulle rovine, che paiono inghirlandate e infiorate per il passaggio trionfale d’una Sultana. Tutt’a un tratto mi sentii nel volto un soffio d’aria salina, e alzando gli occhi vidi lontano, dinanzi a me, l’azzurro del Mar di Marmara. Nello stesso punto mi parve che una voce sommessa mi mormorasse nell’orecchio: – Il castello delle Sette Torri – e mi fermai un momento in mezzo alla strada, con un sentimento vago d’inquietudine. Poi ripresi il cammino, passai dinanzi all’antica porta Deleutera, oltrepassai la porta Melandesia, e mi trovai in faccia al castello.

Questo edificio di malaugurio, innalzato da Maometto II sull’antico Cyclobion dei Greci, per difendere la città nel punto in cui le mura che la proteggono dalla parte di terra si congiungono con quelle che la difendono dalla parte del Mar di Marmara, e convertito poi in prigione di Stato, appena le ulteriori conquiste dei Sultani, mettendo al sicuro Stambul dal pericolo d’un assedio, lo ebbero reso inutile come fortezza; non è più ora che uno scheletro di castello, custodito da pochi soldati; una rovina maledetta, piena di memorie dolorose e orribili, che corrono in leggende sinistre per le bocche di tutti i popoli di Costantinopoli, e non veduta dai viaggiatori, per solito, che di sfuggita, dalla prora del bastimento che li porta al Corno d’oro. I Turchi lo chiamano Jedi-Kulé, ed è per loro ciò che la Bastiglia per la Francia e la Torre di Londra per l’Inghilterra: un monumento che ricorda i tempi più nefandi della tirannia dei Sultani.

Le mura della città lo nascondono agli occhi di chi guarda dalla strada, eccetto due delle sette grandi torri che gli diedero il nome, delle quali non ce n’è più intere che quattro. Nel muro esterno rimangono due colonne corinzie, che appartenevano all’antica Porta dorata, per la quale fecero le loro entrate trionfali Narsete ed Eraclio, e che è la stessa, giusta una leggenda comune ai musulmani ed ai greci, per la quale passeranno i Cristiani il giorno che rientreranno vincitori nella città di Costantino. La porta d’entrata è dentro le mura, in una piccola torre quadrata, dinanzi a cui sonnecchia una sentinella in babbucce, la quale acconsente quasi sempre a lasciar entrare nello stesso tempo una moneta in tasca e un viaggiatore nel castello.

Entrai e mi trovai solo in un grande recinto, d’un aspetto lugubre di cimitero e di carcere, che mi fece arrestare il passo. Tutt’intorno s’alzano mura enormi e nere, che formano un pentagono, coronate di grosse torri quadrate e rotonde, altissime e basse, alcune diroccate, altre intere e coperte da alti tetti conici, rivestiti di piombo, e innumerevoli scale in rovina, che conducono ai merli e alle feritoie. Dentro al recinto c’è una vegetazione alta e fitta, dominata da un gruppo di cipressi e di platani, sopra i quali spunta il minareto d’una piccola moschea nascosta; fra le piante più basse, i tetti d’un gruppo di capanne, in cui dormono i soldati; nel mezzo, la tomba d’un visir che fu strangolato nel castello; qua e là i resti deformi d’un antico ridotto; e fra i cespugli e lungo i muri, frammenti di bassorilievi, tronchi di colonne e capitelli affondati nella terra, mezzo coperti dalle erbacce e dall’acqua dei pantani: un disordine bizzarro e triste, pieno di misteri e di minacce, che mette ripugnanza a inoltrarsi. Stetti un po’ incerto guardando intorno, e poi andai innanzi, con circospezione, come per timore di mettere il piede in una pozza di sangue. Le capanne erano chiuse, la moschea chiusa; tutto solitario e quieto, come in una rovina abbandonata. In qualche punto dei muri ci sono ancora tracce di croci greche, frammenti di monogrammi costantiniani, ali spezzate d’aquile romane e resti di fregi dell’antico edifizio bizantino, anneriti dal tempo. Su alcune pietre si vedono incise rozzamente delle iscrizioni greche in caratteri minuti: quasi tutte iscrizioni dei soldati di Costantino, che custodivano la fortezza, sotto il comando del fiorentino Giuliani, il giorno prima della caduta di Costantinopoli; povera gente rassegnata a morire, che invocava Iddio perchè salvasse la loro città dal saccheggio e le loro famiglie dalla schiavitù. Delle due torri poste dietro alla Porta dorata, una è quella in cui venivano chiusi gli ambasciatori degli Stati ch’erano in guerra coi Sultani, e vi si leggono ancora sui muri parecchie iscrizioni latine, delle quali la più recente è degli ambasciatori veneti imprigionati sotto il regno d’Ahmed III, quando scoppiò la guerra della Morea. L’altra è la torre famosa a cui si riferiscono le più lugubri tradizioni del castello: la torre che racchiudeva un labirinto di segrete orrende, sepolcri di vivi, nelle quali i visir e i grandi della Corte aspettavano, pregando nelle tenebre, l’apparizione del carnefice, o impazziti dalla disperazione, lasciavano sulle pareti le tracce sanguinose delle unghie e del cranio. In uno di quei sepolcri c’era il grande mortaio in cui si stritolavano le ossa e le carni agli ulema. A pian terreno v’è lo stanzone rotondo, chiamato prigione di sangue, dove si decapitavano secretamene i condannati, e si buttavano le teste in un pozzo, detto il pozzo di sangue, di cui si vede ancora la bocca nel mezzo del pavimento ineguale, coperta da due lastre di pietra. Sotto c’era la così detta caverna rocciosa, rischiarata da una lanterna appesa alla volta, dove si tagliava la pelle a strisce ai condannati alla tortura, si versava la pece infiammata nelle piaghe aperte dalle verghe e si schiacciavano colle mazze i piedi e le mani, e gli urli orrendi degli agonizzanti non arrivavano che come un lamento fioco agli orecchi dei prigionieri della torre. In un angolo del recinto si vedono ancora le tracce d’un cortile nel quale si troncava la testa, di notte, ai condannati comuni; e là vicino c’era ancora, non è gran tempo, un muro di ossa umane che s’innalzava fin quasi alla piattaforma del castello. Vicino all’entrata c’è la prigione di Otmano II, la prima vittima imperiale dei Giannizzeri. È la stanza dove il povero Sultano diciottenne, a cui la disperazione raddoppiava le forze, resistette furiosamente ai suoi quattro carnefici, fin che una mano spietata e codarda, esercitata a far gli eunuchi, lo afferrò «alle sorgenti della virilità» e gli strappò un altissimo grido, che fu soffocato dal capestro. In tutte le altre torri e in parte delle mura c’era un andirivieni di corridoi tenebrosi, di scalette segrete, di porte basse, chiuse da battenti di ferro o di travi, sotto le quali curvarono la testa per l’ultima volta pascià, principi imperiali, governatori, ciambellani, grandi ufficiali nel fiore della giovinezza e nel colmo della potenza, a cui tutto veniva tolto in un’ora; e il loro capo aveva già rigato di sangue le mura esterne del castello, che le loro spose li aspettavano ancora vestite a festa fra gli splendori degli arem. Passavano per quei corridoi stillanti d’acqua e per quelle scale sepolcrali, di notte, al lume delle lanterne, soldati e carnefici dalle mani sanguinose, e messaggeri del Serraglio che venivano a portare ai condannati a morte, ancora illusi da un barlume di speranza, l’ultimo no dei Sultani, e cadaveri cogli occhi fuor della fronte e coll’orrendo cordone di seta alla gola, portati da sciaù affannati e stanchi dalle lunghe lotte combattute nelle tenebre contro la rabbia della disperazione. Alla estremità opposta di Stambul, sulla collina del Serraglio, v’era il tribunale spaventoso della Corte. Qui era una macchina enorme di supplizio, coronata da sette patiboli di pietra, la quale riceveva dal mare e dalla terra, al lume della luna, le vittime vive, e non restituiva al sole che teschi e cadaveri; e dall’alto delle torri, in cui si moriva, le sentinelle notturne vedevano lontano i chioschi del Serraglio illuminati per le feste imperiali. Ed ora si prova un senso di piacere al veder il castello infame così deformato, come se tutte le vittime risuscitate l’avessero roso e sgretolato colle unghie e coi denti per vendicarsi sulle mura non potendo vendicarsi sugli uomini. Il grande mostro, disarmato e decrepito, sbadiglia colle cento bocche delle sue feritoie e delle sue porte squarciate, ridotto a un vano spauracchio, e una miriade di topi, di bisce e di scorpioni giallognoli, pullulati, come vermi, dal suo corpaccio infracidito, gli brulica nel ventre vuoto e per le reni spezzate, in mezzo a una vegetazione insolente che lo inghirlanda e lo impennacchia per ludibrio. Dopo essermi affacciato a varie porte senza veder altro che una fuga precipitosa di topacci, salii per una scala erbosa sopra una delle cortine del lato occidentale. Di là si domina tutto il castello: un vasto disordine di rovine, di torri, di merli, di scale, dì piatteforme, tutto nerastro o rosso cupo, intorno a un gran mucchio di verde vivo; e di là, altre torri e altri merli innumerevoli delle mura orientali di Stambul; così che a socchiuder gli occhi, par di vedere una sola vastissima fortezza abbandonata, che si disegna sull’azzurro del Mar di Marmara. A sinistra si vede una gran parte di Stambul, tagliata da parecchie lunghissime strade serpeggianti, che fuggono nella direzione dell’antica via trionfale degl’Imperatori Bizantini, la quale dalla Porta Dorata, passando per il foro d’Arcadio e per il foro di Costantino, andava fino alla reggia. Era una veduta immensa e ridente, che mi faceva parer più sinistro il mucchio di rovine malaugurate che avevo ai piedi. Rimasi lungo tempo là, appoggiato a un merlo infocato dal sole, abbagliato da una luce vivissima, guardando sotto quel grande sepolcro scoperchiato con quella curiosità pensierosa e diffidente con cui si guardano i luoghi dove fu commesso di fresco un delitto. Regnava un silenzio profondo. Per i muri correvano delle grosse lucertole, giù nei fossi gracidavano i rospi, sopra le torri roteavano dei corvi, intorno al capo mi ronzava un nuvolo d’insetti venuti su dai pantani delle rovine, e l’aria un po’ agitata mi portava il puzzo d’un cavallo putrefatto, disteso in fondo al fosso esterno della fortezza. Mi prese un senso di schifo e di ribrezzo; eppure mi sentivo inchiodato là, come affascinato, immerso in una specie d’assopimento; e tenendo gli occhi socchiusi, quasi sognando, in quella pace morta del mezzogiorno, mi pareva d’udire, nel ronzio monotono degl’insetti, il tonfo dei teschi gettati nel pozzo, le grida lamentevoli dei moribondi dei sotterranei e la voce del figliuolo minore di Brancovano, che sentendosi sul collo il freddo del capestro, gridava: – Padre mio! Padre mio! – E siccome ero stanco e la luce m’abbagliava, chiusi gli occhi e rimasi un momento assopito; e subito tutte quelle orribili immagini mi si affollarono alla mente con un’evidenza spaventosa. In quel punto fui riscosso da un grido acuto e sonoro, e vidi sotto, sul terrazzo del piccolo minareto, il muezzin della moschea del castello. Quella voce lenta, dolce, solenne, che parlava di Dio, in quel luogo, in quel momento, mi discese nel più profondo dell’anima! Pareva che parlasse in nome di tutti coloro che eran morti là dentro, che dicesse che i loro dolori non erano stati inutili, che le loro ultime lacrime erano state raccolte, che le loro torture avevano avuto un compenso, che essi avevano perdonato, che bisognava perdonare, che si doveva pregare e confidare in Dio, anche quando il mondo ci abbandona, e che tutto è vano sulla terra fuorchè questo sentimento infinito di amore e di pietà… E uscii dal castello, commosso.

Ripresi il mio cammino verso il mare lungo le mura esterne di Stambul. Là vicino c’è la stazione di Adrianopoli e s’incrociano sotto le mura parecchi tronchi di strada ferrata. Mi trovai in mezzo a lunghe file di vagoni logori e polverosi. Non c’era nessuno. Se fossi stato un turco fanatico, nemico delle novità europee, avrei potuto incendiare l’una dopo l’altra quelle baracche, e andarmene tranquillamente senz’essere molestato. Andai innanzi sull’orlo della strada temendo di sentire da un momento all’altro l’olà minaccioso d’un guardiano; ma nessuno mi diede noia, In poco tempo arrivai all’estremità delle mura. Credevo di poter entrare in Stambul per di là: fui deluso. Le mura del lato di terra si congiungono sulla spiaggia con quelle della parte di mare, e non c’è effigie di porta. Allora mi avanzai su per le rovine d’un antico molo e sedetti sopra un macigno, in mezzo all’acqua. Di là non vedevo altro che il Mar di Marmara, i monti dell’Asia, e le alture azzurrine, che parevano lontanissime, di Scutari. La spiaggia era deserta; mi pareva d’esser solo nell’universo. Le onde venivano a rompersi ai miei piedi e mi spruzzavano il volto. Rimasi là un pezzo, pensando a mille cose, vagamente. Vedevo me, solo, uscir dalla porta Caligaria e venir giù lentamente per la strada solitaria, fra i cimiteri e le torri, e seguitavo quell’uomo, come se fosse un altro. Poi mi diedi a cercare Yunk nella città immensa. Poi stetti a osservare le onde che venivano l’una dopo l’altra a distendersi mormorando sulla riva e sparivano l’una dopo l’altra in silenzio; e vedevo in esse l’immagine dei popoli e degli eserciti che eran venuti l’un dopo l’altro a urtarsi contro le mura di Bisanzio: le falangi di Pausania e d’Alcibiade, le legioni di Massimo e di Severo, le torme dei Persiani, le orde degli Avari, e gli Slavi e gli Arabi e i Bulgari e i Crociati, e gli eserciti di Michele Paleologo e di Comneno e quei di Baiazet Ilderim e quelli del secondo Amurat e quelli di Maometto il conquistatore, svaniti l’un dopo l’altro nel silenzio infinito della morte; e provavo la tristezza che stringeva il cuore al Leopardi la sera del dì di festa, quando sentiva morire a poco a poco il canto solitario dell’artigiano, che gli rammentava il suono dei popoli antichi, e pensava che tutto passa come un sogno sopra la terra.

Di là tornai indietro fino alla porta delle Sette Torri ed entrai dentro le mura per percorrere tutta Stambul lungo la riva del Mar di Marmara. Ero già mezzo sgambato; ma nelle lunghe passeggiate, a un certo punto, nasce dalla stanchezza medesima una cocciutaggine animalesca che ravviva le forze. Mi vedo ancora camminare e camminare per quelle strade deserte, sotto quel sole ardente, dominato da non so che sonnolenza fantastica, nella quale mi passavano dinanzi facce d’amici di Torino, episodi di romanzi, vedute di altri paesi e pensieri vaghi sulla vita umana e sull’immortalità dell’anima; e tutto metteva a capo alla tavola rotonda dell’albergo di Bisanzio, scintillante di lumi e di cristalli, che vedevo lontanissima, al di là d’una città cento volte più grande di Stambul, e già coperta dalla notte. Attraverso un sobborgo musulmano, che par disabitato, nel quale spira ancora la tristezza del castello delle Sette Torri, ed entro nel vasto quartiere di Psammatia, abitato da greci e da armeni, e anch’esso deserto. Vado innanzi per una interminabile stradicciuola tortuosa, dalla quale vedo giù a destra, fra casa e casa, le mura merlate della città, che profilano i loro merli neri nell’azzurro vivo del mare. Passo sotto la porta di Psammatia e mi trovo daccapo in un quartiere musulmano, tra finestre ingraticolate, porte chiuse, piccole moschee, giardini nascosti, cisterne erbose, fontane abbandonate. Attraverso lo spazio dov’era l’antico foro boario, vedendo sempre, giù a destra, le mura e le torri, e non incontrando che qualche cane che si ferma per vedermi passare e qualche monello turco, seduto in terra, che mi fissa in volto, pensando un’impertinenza. Qualche finestra s’apre e si chiude improvvisamente, e vedo di sfuggita una mano o il lembo d’una manica di donna. Giro intorno ai vasti giardini di Vlanga che fanno corona all’antico porto di Teodosio; vedo dei vasti spazi colle tracce d’un incendio recente, dei luoghi dove pare che la città finisca nella campagna, dei conventi di dervis, delle chiese greche, delle piazzette misteriose ombreggiate da un grande platano, sotto il quale sonnecchia qualche vecchio col bocchino del narghilè tra le dita. Vado innanzi, mi fermo dinanzi a un piccolo caffè per bere un bicchier d’acqua messo in mostra sulla finestra, chiamo, picchio, nessuno risponde. Esco dal quartiere greco di Jeni-Kapú, entro in un altro quartiere musulmano, rientro un’altra volta fra le casette greche ed armene del quartiere di porta Kum, e m’accompagnano sempre da una parte i merli delle mura e l’azzurro del mare, e non incontro che cani, mendicanti, monelli, e sento sonare in alto la voce dei muezzin che annunziano il tramonto. L’aria si fa oscura; e continuano a succedersi le casette, le moschee malinconiche, i crocicchi deserti, le imboccature dei vicoli; e comincio a sentirmi spossato e a pensare di buttarmi sopra una materassa dinanzi al primo caffè veduto, quando, a una svoltata, mi sorge improvvisamente dinanzi la mole enorme di Santa Sofia. Oh, la cara vista! Le forze mi tornano, i pensieri si rasserenano, affretto il passo, arrivo al porto, passo il ponte, ed ecco dinanzi alla porta illuminata del primo caffè di Galata, Yunk, Rosasco, Santoro, tutta la mia piccola Italia che mi viene incontro col volto sorridente e colle mani tese… e tiro uno dei più lunghi e larghi respiri che abbiano mai tirato i polmoni d’un galantuomo.


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

13- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: Ianghen Var

13- Ianghen Var

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

Stavo appunto fantasticando intorno a questa passeggiata, verso le cinque della mattina, nella mia camera dell’Albergo di Bisanzio, e così tra il sonno e la veglia, vedendo lontano la collina di Superga, cominciavo a dire alla mia hanum viaggiatrice: – «Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno fra due catene non interrotte….» – quando mi comparve dinanzi, col lume in mano, il mio amico Yunk «bianco vestito» e mi domandò con gran meraviglia: – Che cosa accade questa notte a Costantinopoli?

Tesi l’orecchio e sentii un rumore sordo e confuso che veniva dalla strada, un suono di passi affrettati per le scale, un mormorio, un fremito, che pareva di giorno. Mi affacciai alla finestra e vidi giù nell’oscurità un gran correre di gente verso il Corno d’oro. Corsi sul pianerottolo, afferrai un cameriere greco che scendeva le scale a precipizio e gli domandai che cos’era accaduto. Egli si svincolò dicendo: – Ianghen var, per Dio! Non avete sentito il grido? – E poi soggiunse scappando: – Guardate la cima della Torre di Galata. – Tornammo alla finestra e guardando giù verso Galata vedemmo tutta la parte superiore della gran torre illuminata da una luce purpurea vivissima, e una gran nuvola nera che s’alzava dalle case vicine in mezzo a un vortice di scintille e s’allargava rapidamente sopra il cielo stellato.

Subito il nostro pensiero corse ai formidabili incendi di Costantinopoli, e specialmente a quello spaventevole di quattr’anni innanzi; e il nostro primo sentimento fu di terrore e di compassione. Ma immediatamente dopo, – lo confesso e me ne vergogno, – un altro sentimento egoistico e crudele, – la curiosità del pittore e del descrittore, – prese il disopra e, – confesso anche questo, – ci scambiammo un sorriso che il Doré avrebbe potuto cogliere a volo per stamparlo sulla faccia d’uno dei suoi demoni danteschi. Chi ci avesse aperto il petto, in quel momento, non ci avrebbe trovato che un calamaio e una tavolozza.
Ci vestimmo e scendemmo in furia giù per la gran strada di Pera.

Ma la nostra curiosità, per fortuna, fu delusa. Non eravamo ancora arrivati alla torre di Galata che l’incendio era quasi spento. Finivano di bruciare due piccole case; la gente cominciava a ritirarsi; le strade erano allagate dall’acqua delle pompe e ingombre di mobili e di materasse, fra le quali andavano e venivano, nell’oscurità grigia del mattino, uomini e donne in camicia, tremanti dal freddo, levando in cento lingue un vocìo assordante, nel quale non si sentiva più che quel resto di paura che dà sapore alla chiacchiera dopo un grave pericolo svanito. Vedendo che tutto stava per finire, scendemmo verso il ponte per consolarci del nostro dispetto scellerato colla levata del sole.
Qui assistemmo a uno spettacolo che valeva quello d’un incendio.

Il cielo cominciava appena a chiarirsi dietro le colline dell’Asia. Stambul, scossa per poco al primo annunzio dell’incendio, era già rientrata nella quiete solenne della notte. Le rive e il ponte erano deserti; tutto il Corno d’oro dormiva, coperto da una bruma leggerissima e immerso in un silenzio profondo. Non moveva una barca, non volava un uccello, non stormiva un albero, non si sentiva un respiro. Quella interminabile città azzurra, muta e velata, pareva dipinta nell’aria, e sembrava che, gettando un grido, avrebbe dovuto svanire. Costantinopoli non ci s’era mai mostrata in un aspetto così aereo e così misterioso; non ci aveva mai presentato più vivamente l’immagine di quelle città favolose delle storie orientali, che il pellegrino vede sorgere improvvisamente dinanzi a sè, e vi trova, entrando, un popolo immobile, pietrificato, negli infiniti atteggiamenti di una vita affaccendata ed allegra, dalla vendetta improvvisa d’un Re dei geni. Stavamo là appoggiati alle spallette del ponte, contemplando quella scena meravigliosa, senza più pensare all’incendio, quando sentimmo prima un vocìo fioco e confuso di là dal Corno d’oro, come di gente che chiedesse soccorso, e poi uno scoppio di grida altissime: – Allah! Allah! Allah! – che risonarono improvvisamente nel vano enorme e silenzioso della rada, e nello stesso tempo apparve sulla sponda opposta, e si slanciò giù per il ponte, correndo precipitosamente verso di noi, una folla rumorosa e sinistra.
– Tulumbadgi! – gridò uno dei guardiani del ponte. – (I pompieri!)
Noi ci tirammo da una parte.

Un’orda di selvaggi seminudi, col capo scoperto, coi petti irsuti, grondanti di sudore, vecchi, giovani, neri, nani e giganti cappelluti e rapati, facce d’assassini e di ladri, quattro dei quali portavano sulle spalle una piccola pompa e pareva una bara di fanciullo; armati di lunghe aste uncinate, di fasci di corde, d’asce, e di picconi, – ci passarono accanto, urlando e anelando, cogli occhi dilatati, coi capelli sparsi, coi cenci al vento, stretti, impetuosi e biechi, – e gettandoci in viso una tanfata d’odora di belve, disparvero nella strada di Galata, d’onde ci giunsero le loro ultime grida fioche di Allah, e poi fu di nuovo un silenzio profondo.

L’impressione che mi fece quell’apparizione tumultuosa e fulminea in quella quiete arcana della grande città addormentata, non la so esprimere; – so che compresi e vidi in un momento mille scene d’invasioni barbariche, di saccheggi e d’orrori di paesi e di tempi lontani, che fino allora la mia immaginazione si era sforzata inutilmente di rappresentarsi al vivo, e che mi domandai se quella era la città, se quello era proprio il ponte, su cui, di giorno, passavano degli ambasciatori europei, delle signore vestite alla parigina e dei venditori di giornali francesi.

Un minuto dopo, il silenzio solenne del Corno d’oro fu rotto di nuovo da un gridio lontano, e un’altra turba scamiciata e selvaggia ci passò dinanzi, come un turbine, sul ponte ondeggiante e sonante, levando un frastuono confuso di urli, di sbuffi, d’aneliti, di risa soffocate e sinistre, e un’altra volta le grida prolungate e lamentevoli di Allah si perdettero per le strade di Galata, seguite da un silenzio mortale.

Poco dopo passò un’altra turba, e poi una quarta, e poi altre due, e infine passò il pazzo di Pera, nudo dalla testa ai piedi, mezzo morto dal freddo, gettando grida acutissime, inseguito da un branco di monelli turchi, che disparvero con lui e coi pompieri dietro le case della riva franca; e sulla grande città, dorata dai primi raggi dell’aurora, tornò a regnare un altissimo silenzio.

Di lì a poco si levò il sole, comparvero i muezzin sui minareti, si mossero i caicchi, si svegliò il porto, cominciò a passar gente sul ponte e a spandersi intorno il rumore sordo della vita cittadina, e noi ritornammo verso Pera. Ma l’immagine di quella grande città assopita, di quel cielo albeggiante, di quella pace solenne, di quelle orde selvagge, ci rimase così profondamente stampata nella mente, che oggi ancora non ci rivediamo una volta senza ricordarcela, con un misto piacevolissimo di stupore e di paura, come una scena veduta nella Stambul d’altri secoli, o sognata nell’ebbrezza dell’hascisc.

Così non vidi lo spettacolo di un incendio a Costantinopoli; ma se non lo vidi coi miei occhi, conobbi tanti testimoni oculari di quello che distrusse Pera nel 1870, e ne raccolsi notizie così minute, che posso dire d’averlo visto colla mente, e descriverlo forse con non minore evidenza che se ne fossi stato anch’io spettatore.

La prima fiamma s’accese in una piccola casa di via Feridié, in Pera, il giorno cinque di giugno, stagione in cui una buona parte della popolazione agiata di Costantinopoli villeggia sul Bosforo; al tocco dopo mezzogiorno, ora in cui quasi tutti gli abitanti della città, anche europei, stanno chiusi in casa a far la siesta. Nella casa di via Feridié non c’era che una vecchia serva; la famiglia era partita la mattina per la campagna. Appena s’accorse dell’incendio, la vecchia si slanciò nella strada e si mise a correre gridando: – Al fuoco! – Subito accorse gente dalle case intorno, con secchie e con piccole pompe –, perché era già caduta la legge insensata che proibiva di spegnere gli incendii prima che arrivassero gli ufficiali dei Seraschierato –, e, come sempre, si precipitarono tutti verso la fontana più vicina per prender acqua. Le fontane di Pera, a cui i portatori d’acqua vanno ad attingere, a certe ore, per le famiglie del quartiere, vengono tutte chiuse a chiave dopo la distribuzione, e l’impiegato che le ha in custodia non può più aprirle senza il permesso dell’autorità. In quel momento appunto v’era accanto alla fontana una guardia turca della municipalità di Pera, che aveva la chiave in tasca, e stava là spettatrice impassibile dell’incendio. La folla affannata lo circonda e gl’intima di aprire. Egli rifiuta dicendo che non ha l’ordine. Gli si stringono addosso, lo minacciano, lo afferrano: egli resiste, si dibatte, grida che non leveranno la chiave che dal suo cadavere. Intanto le fiamme avvolgono tutta la casa e cominciano ad attaccarsi alle case vicine. La notizia dell’incendio si propaga di quartiere in quartiere. Dalla sommità della torre di Galata e di quella del Seraschiere, i guardiani hanno visto il fumo e messo fuori le grandi ceste purpuree, segnale degl’incendi di giorno. Tutte le guardie di città corrono per le strade battendo i loro lunghi bastoni sul ciottolato e mettendo il grido sinistro: – Ianghen var! – C’è il fuoco! – a cui rispondono con rulli cupi e precipitosi i mille tamburi delle caserme. Il cannone di Top-hané annunzia il pericolo alla immensa città con tre colpi che risuonano dal mar di Marmara al mar Nero. Il Seraschierato, il serraglio, le ambasciate, tutta Pera e tutta Galata sono sottosopra; e pochi minuti dopo arrivano a spron battuto in via Feridié il ministro della guerra, un nuvolo di ufficiali, un esercito di pompieri, e cominciano precipitosamente il lavoro. Ma come accade quasi sempre, quel primo tentativo riuscì inutile. Le strade strettissime non concedevano libertà di movimenti; le pompe non servivano, l’acqua era insufficiente e lontana; i pompieri, mal disciplinati, come sempre, e piuttosto intesi a crescere che a scemare la confusione, per pescare nel torbido; e per di più scarseggiavano i facchini per il trasporto delle robe, essendone andato un gran numero, quel giorno, alla festa nazionale armena che si celebra a Beicos. È a notarsi, inoltre, che le case di legno erano allora in assai maggior numero che non siano ora, e che anche le case di pietra e di mattoni avevano, come quelle di legno, dei tetti sottili, difesi da radissime tegole, e perciò facilissimi ad accendersi. E non v’era nemmeno il vantaggio che presenta, in simili occasioni, la popolazione musulmana, la quale, fatalista ed apatica com’è in faccia alla sventura, non si atterrisce gran fatto all’aspetto d’un incendio, e se non aiuta abbastanza a spegnere, non intralcia almeno l’opera degli altri con la propria forsennatezza. Quella era popolazione quasi tutta cristiana e perdette immediatamente la testa. L’incendio non abbracciava ancora che poche case, che già in tutte le strade d’intorno era un tramestio indescrivibile, un precipitar di mobili dalle finestre, un tumulto di pianti e di grida, uno sgomento, un ingombro, contro cui non potevano né le minacce, né la forza, né le armi. Un’ora era appena trascorsa dall’apparire delle prime fiamme, e già tutta la strada Feridié era accesa, e gli ufficiali e i pompieri indietreggiavano rapidamente da tutte le parti, lasciando qua e là morti e feriti, e la speranza di soffocar l’incendio sul nascere era perduta. Per maggior disgrazia tirava quel giorno un vento fortissimo che abbatteva le fiamme delle case ardenti sopra i tetti delle case vicine, in larghe vampe orizzontali, che parevano tende ondeggianti, in modo che il fuoco penetrava in tutte le case dal tetto, come rovesciatovi sopra da un vulcano. L’accensione era così rapida, che le famiglie raccolte nelle case, sicure d’essere ancora in tempo a portar via una parte dei loro averi, si sentivano tutt’a un tratto crepitare il tetto sul capo, e appena riuscivano a metter in salvo la vita. Le case s’accendevano l’una dopo l’altra come se fossero state intonacate di pece, e subito, dalle innumerevoli finestrine prorompevano le fiamme lunghe, diritte, mobilissime, come serpenti smaniosi di preda, che si curvavano fino a lambire la strada quasi per cercar vittime umane. L’incendio non correva, volava, e prima di avvolgere, copriva, come un mare di fuoco. Dalla via Feridiè irruppe furiosamente nella via di Tarla- Bascì, di qui tornò indietro e invase come un torrente la via di Misc, poi infiammò come una foresta secca il quartiere Aga-Dgiami, poi la via Sakes-Agatsce, poi quella di Kalindgi- Kuluk, e poi di strada in strada, coprì di fuoco tutta la china di Yeni-Sceir, e s’incrociò col turbine di fiamme che veniva giù strepitando e muggendo per la gran strada di Pera. Non c’erano soltanto mille incendi da spegnere, mille nemici sparsi da combattere; erano come le insidie e i colpi di mano inaspettati d’un grande esercito, che pareva fosse guidato astutamente da una volontà unica, per cogliere nella rete la città intera, e non lasciar scampo a nessuno. Erano tanti torrenti di lava che si riunivano e s’incrociavano, precipitando e spandendosi in laghi di fuoco con una rapidità che preveniva tutti i soccorsi. In capo a tre ore metà di Pera era in fiamme. Una miriade di colonne di fumo vermiglio, sulfureo, bianco, nero, fuggivano rapidissimamente rasente i tetti e s’allungavano a perdita d’occhi lungo le colline, ottenebrando e tingendo di colori sinistri i vasti sobborghi del Corno d’oro; per tutto era un turbinio furioso di cenere e di scintille; e il vento sbatteva contro le case ancora intatte dei bassi quartieri una vera grandine di braci e di tizzi, che spazzavano le strade come scariche di mitraglia. Le strade dei quartieri accesi non erano più che grandi fornaci, sopra alcune delle quali le fiamme formavano come un fitto padiglione, e là precipitavano e saltellavano con un fracasso orrendo i pini del mar Nero delle travature dei tetti, i travicelli sottili dei ciardak, i balconi vetrati, i minareti di legno delle piccole moschee, che pareva rovinassero spezzati da un terremoto. Per le strade ancora accessibili, si vedevano passare, come spettri, illuminati da bagliori d’inferno, lancieri a cavallo, ventre a terra, che portavano in tutte le direzioni gli ordini del Seraschierato; ufficiali del Serraglio, col capo scoperto e la divisa abbruciacchiata; cavalli sciolti di soldati caduti; frotte di facchini carichi di masserizie, sciami di cani ululanti, turbe di fuggiaschi che inciampavano e stramazzavano urlando giù per le chine, tra i feriti, i cadaveri e le macerie, e sparivano tra il fumo e le fiamme, come legioni di dannati. Per un momento, fu visto immobile dinanzi all’imboccatura d’una strada accesa del quartier Aga-Dgiami, il Sultano Abdul-Aziz, a cavallo, circondato dal suo corteo, pallido come un cadavere, cogli occhi dilatati e fissi nelle fiamme, come se ripetesse tra sé le parole memorabili di Selim I: – Ecco il soffio ardente delle mie vittime! Io lo sento, che distruggerà la città, il mio serraglio e me pure! – E poi disparve in un nuvolo di cenere, trascinato dai suoi cortigiani. Tutto l’esercito di Costantinopoli e tutta l’innumerevole turba dei pompieri era in moto, a frotte, a lunghissime catene, a semicerchi immensi che abbracciavano interi quartieri, sorvegliati e diretti da visir, da ufficiali di corte, da pascià, da ulema; in alcuni punti, per tagliar la strada alle fiamme, fervevano battaglie disperate; case dietro case, in pochi minuti, cadevano sotto le scuri; i tetti formicolavano di gente ardita che affrontava il fuoco a bruciapelo, e cadevano a capofitto nei crateri aperti sotto i loro piedi, e altri vi succedevano, come in una mischia, ostinati, gettando grida selvagge, e agitando i fez abbruciacchiati in mezzo al fumo color di foco. Ma l’incendio s’avanzava vittorioso in mezzo ai mille getti d’acqua, sorpassando a grandi salti piazze, giardini, grandi edifici di pietra, piccoli cimiteri, e faceva da tutte le parti retrocedere pompieri, soldati e cittadini, come un esercito in rotta, flagellandoli alle spalle con una pioggia di carboni roventi. Si compievano, anche in quell’orrenda confusione, dei belli atti di coraggio e di umanità. Si videro in molti punti, fra le rovine ardenti delle case, sventolare i veli bianchi delle Suore di Carità, curve sui moribondi; dei turchi che si slanciarono tra le fiamme e ricomparvero poco dopo sollevando sulle braccia scorticate dei bambini cristiani; altri musulmani che, dinanzi a una casa infiammata, immobili, colle braccia incrociate in mezzo a una famiglia cristiana in preda alla disperazione, offrivano freddamente cento lire turche a chi salvasse un ragazzo europeo rimasto nel fuoco; alcuni che raccoglievano in drappelli, per le strade, i bimbi smarriti, e li legavano colle bende del turbante, per restituirli poi ai parenti; altri che aprivano le loro case ai fuggitivi seminudi; più d’uno, che, per dar un esempio di coraggio e di disprezzo dei beni terreni, mentre la propria casa bruciava, stava seduto nella via sopra un tappeto, fumando tranquillamente il narghilè, e si faceva in là, con suprema indifferenza, man mano che le fiamme s’avvicinavano. Ma il coraggio e la freddezza d’animo non valevano più oramai contro quella tempesta di fuoco. A momenti, pareva che, scemando un poco il vento, l’incendio rimettesse della sua furia; ma subito il vento ricominciava a soffiare con maggior veemenza, e le fiamme, che s’erano appena risollevate, tornavano a curvarsi con impeto e a vibrare come frecce le loro punte diritte e implacabili, levando uno strepito cupo e precipitoso, rotto dagli scoppi improvvisi delle farmacie piene di petrolio, dalle detonazioni del gas sparso per le case, di cui i tubi disfatti mandavano fuori rigagnoli di piombo fuso; dai tetti che rovinavano d’un colpo come schiacciati da una valanga; dal crepitìo dei giardini di cipressi che si contorcevano e s’infiammavano a un tratto, sciogliendosi in una pioggia di resina ardente; dai gruppi di vecchie case di legno, che s’accendevano scoppiettando come fuochi d’artifizio, e sprigionavano fasci enormi di fiamme bianche in cui parevano che soffiassero mantici di cento officine. Era uno stritolamento, un rovinio, una distruzione rabbiosa, che pareva prodotta nello stesso tempo da un incendio, da un’inondazione, da una convulsione della terra e dalla rapina d’un esercito. Nessuno aveva mai né visto né sognato un simile orrore. La popolazione pareva impazzita. Per le strade di Pera era un rimescolamento vertiginoso e un urlio forsennato come sul ponte d’un bastimento nel momento del naufragio. In mezzo ai mobili rotolati, sotto al balenio delle spade degli ufficiali, fra gli urti e le bastonate dei facchini e dei portatori d’acqua, in mezzo ai cavalli dei Pascià e alle frotte dei pompieri che passavano di corsa investendo e rovesciando quanto incontravano, famiglie italiane, francesi, greche, armene, poveri e ricchi, donne e fanciulli, smarriti, smemorati, si cercavano brancolando, si chiamavano gridando e piangendo, soffocati dal fumo e accecati dalle scintille; passavano ambasciatori, seguiti da drappelli di servi, carichi di carte e di libri; frati che innalzavano un crocifisso sopra la folla; gruppi di donne turche che portavano fra le braccia gli oggetti più preziosi dell’arem; stuoli di gente curva sotto spoglie di chiese, di teatri, di scuole, di moschee; e a quando a quando, una nuvola enorme di fumo caliginoso, spinta giù da una ventata improvvisa, immergeva tutti nelle tenebre e cresceva lo scompiglio e il terrore. A crescere ancora gli orrori di quel disastro, c’era, come sempre, ma più quel giorno che mai, una miriade di ladri d’ogni paese, sbucati da tutti i covi di Costantinopoli, riuniti a drappelli d’intesa fra loro, e vestiti da facchini, da signori o da soldati, i quali entravano nelle case e rubavano a man salva, e correvano poi in frotte a Kassim-Pascià e a Tataola, a depositarvi il bottino; e i soldati li cacciavano, stendendosi in cordoni, e assalendoli a pattuglie, e seguivano lotte, dispersioni e inseguimenti, che aggiungevano sgomento a sgomento. I pompieri, i facchini, i portatori d’acqua, spalleggiati dai loro parenti, stretti in bande brigantesche, sotto gli occhi delle famiglie desolate di cui ardevano le case, interrompevano il lavoro, e mettevano a prezzo d’oro la continuazione. I mobili ammucchiati a traverso le strade strette, difesi dalle famiglie, erano presi d’assalto da torme di predoni, colle armi alla mano, e poi ridifesi, come barricate, dall’assalto di altri predoni. Turbe di fuggitivi, incontrandosi colle loro robe nei varchi angusti, si disputavano ferocemente la precedenza del passaggio, e lasciavano il terreno ingombro di gente soffocata o ferita. Ma già dopo le prime quattr’ore d’incendio, la furia del foco era tale che pochi s’affannavano più per le proprie robe, e a tutti pareva già molto di metter in salvo la vita. Due terzi di Pera ardevano, e le fiamme, correndo sempre più rapidamente in tutte le direzioni, accerchiavano quasi all’improvviso dei vasti spazi prima che la gente, ch’era dentro, se ne avvedesse. Centinaia di sventurati, stretti in folla, si slanciavano su per una stradicciuola tortuosa per cercare uno scampo, e improvvisamente, a una svoltata, si vedevano venir contro un uragano di vampe e di fumo, che li ricacciava indietro, forsennati, a cercare un’altra uscita. Famiglie intere, – ed una, fra queste, di ventidue persone, – erano tutt’a un tratto circondate, asfissiate, arse, carbonizzate. Presi dalla disperazione, si rifugiavano nelle cantine dove rimanevano soffocati, si precipitavano nei pozzi e nelle cisterne, s’impiccavano agli alberi, o dopo aver cercato inutilmente un ricovero nei ripostigli più segreti della casa, smarrita la ragione, uscivano all’aperto e correvano a buttarsi nelle fiamme. Dai luoghi alti di Pera, si vedevano giù per le chine, in mezzo a cerchi di fuoco, famiglie inginocchiate sulle terrazze, colle braccia tese e le mani giunte, che chiedevano al cielo il soccorso che non speravano più dalla terra. Si vedevano venir giù di corsa dalle alture di Pera e sparpagliarsi per Galata, per Top-hanè, per Funduclù, per i bassi cimiteri, stormi di gente pallida e scapigliata, stravolta dal terrore, che cercava ancora dove nascondersi, come se fosse inseguita dal fuoco; fanciulli insanguinati, donne lacere, coi capelli arsi, che stringevano fra le braccia bimbi morti o acciecati; uomini col viso e le braccia scorticate che si scontorcevano per terra fra gli spasimi dell’agonia; vecchi singhiozzanti come bambini, signori ridotti alla miseria che davano del capo nei muri, giovanetti deliranti che andavano a cadere estenuati sulla riva del Corno d’oro, famiglie che portavano cadaveri anneriti, sventurati impazziti dallo spavento che trascinavano seggiole attaccate a uno spago o si serravano sul petto delle bracciate di cocci e di cenci, prorompendo in grida lamentevoli o in risa frenetiche. E intanto, continuavano a salire dai quartieri bassi, dagli arsenali di Ters- hanè e di Top-hanè, dalle caserme, dalle moschee, dai palazzi del Sultano, e correvano come a un assalto, urlando Janghen var e Allah, su per le colline, fra il turbinìo della cenere e delle scintille, sotto una pioggia di caligine ardente, per le strade coperte di tizzoni e di rottami, battaglioni di nizam, bande di ladri, falangi di pompieri, generali, dervis, messi della Corte, famiglie che tornavano indietro a cercare i parenti perduti, predatori ed eroi, la sventura, la carità e il delitto, confusi in una turba spaventevole, che montava rumoreggiando come un mare in tempesta, colorata dai riflessi vermigli dell’immensa fornace. E poco lontano da quell’inferno, rideva, come sempre, la maestà serena di Stambul e la bellezza primaverile della riva asiatica, specchiata dal mar di Marmara e dal Bosforo, coperto di bastimenti immobili; una folla immensa, che faceva nere tutte le rive, assisteva muta e impassibile allo spettacolo spaventoso; i muezzin annunziavano con lente cantilene dai terrazzi dei minareti il tramonto del sole; gli uccelli roteavano allegramente intorno alle moschee delle sette colline; e i vecchi turchi, seduti all’ombra dei platani, sopra le alture verdi di Scutari, mormoravano con voce pacata: – È sonata l’ultima ora per la città dei Sultani. – Il giorno prescritto è venuto. – La sentenza d’Allah si compisce. – Così sia –
Così sia.

L’incendio, per fortuna, non si protrasse nella notte. Alle sette della sera s’accendeva, per ultimo, il palazzo dell’ambasciata d’Inghilterra; dopo di che il vento cessava improvvisamente, e le fiamme morivano, spontaneamente o soffocate, da tutte le parti.
In sei ore due terzi di Pera erano stati distrutti dalle fondamenta, nove mila case incenerite, due mila persone morte.
Dopo l’incendio famoso del 1756, che distrusse ottanta mila case, e spianò due terzi di Stambul, sotto il regno di Otmano III, non s’era più visto un disastro così tremendo; e nessun incendio, dalla presa di Costantinopoli in poi, mieté un così gran numero di vite.

Il giorno seguente Pera offriva un aspetto meno spaventevole, ma non meno triste che durante l’infuriare dell’incendio. Dov’era passato il fuoco, era un deserto, e apparivano le forme nude e sinistre della grande collina; nuovi prospetti, una luce nuova, vastissimi spazi coperti di cenere in mezzo ai quali non rimanevano che le torricine affumicate dei camini, come monumenti funebri; quartieri interi scomparsi come accampamenti di beduini portati via dall’uragano; strade e crocicchi di cui non rimanevano più che le tracce nere e fumanti sulla terra, fra le quali erravano migliaia di sventurati cenciosi e sparuti, che chiedevano l’elemosina in mezzo a un via vai di soldati, di medici, di monache, di sacerdoti d’ogni religione e d’impiegati di tutti i gradi, che distribuivano pane e denaro, e guidavano lunghe file di carri carichi di materasse e di coperte, mandate dal governo per la gente rimasta senza casa. Il governo aveva fatto pure distribuire le tende dei soldati. Le alture di Tataola e il grande cimitero armeno erano coperti d’accampamenti, in cui brulicava una folla immensa. Per tutto si vedevano strati e monti di masserizie su cui sedevano famiglie estenuate e istupidite. Nel vasto cimitero di Galata erano sparsi e accatastati alla rinfusa, come in un bazar messo sottosopra, lungo i sentieri e in mezzo ai sepolcri, divani, letti, cuscini, pianoforti, quadri, libri, carrozze sconquassate, cavalli feriti legati ai cipressi, portantine dorate d’ambasciatori e gabbie di pappagalli degli arem, custoditi da una folla di servi e di facchini neri di caligine e cascanti di sonno. Una poveraglia innumerevole, immonda, non mai veduta, girava per le strade a cercar chiodi e serrature fra le macerie, scansando i soldati e i pompieri addormentati per terra, sfiniti dalle fatiche della notte; si vedeva per tutto gente affaccendata a rizzar baracche sulle rovine delle proprie case, con tende ed assiti; famiglie inginocchiate in mezzo ai muri affumicati di chiese senza tetto, dinanzi ad altari bruciati; gruppi di uomini e di donne che correvano affannosamente, col capo chino, osservando viso per viso lunghe file di cadaveri carbonizzati e sformati, e lì riconoscimenti, grida disperate, scoppi di pianto, gente che stramazzava come fulminata, in mezzo a una processione di lettighe e di bare, a un polverio denso, a un’aria infocata, a un puzzo di carni arse, a nuvoli di scintille che si sollevavano improvvisamente sotto le vanghe e i picconi degli scavatori, e ricadevano sopra una folla fitta, lenta, silenziosa, sbalordita, accorsa da tutte le parti di Costantinopoli, sopra alla quale apparivano le facce pallide e gravi dei Consoli e degli Ambasciatori, che arrestavano i cavalli sui crocicchi, e guardavano intorno sgomentati dall’immensità del disastro.

Eppure anche quell’immenso disastro, come segue sempre nei paesi orientali, fu presto dimenticato. Quattro anni dopo io non ne vidi più traccia, fuorché qualche tratto di terreno sgombro all’estremità di Pera, dinanzi all’altura di Tataola. Dell’incendio si parlava già come d’un avvenimento molto lontano. Per qualche tempo, mentre le ceneri erano ancora calde, i giornali avevano chiesto al governo dei provvedimenti: che riordinasse il corpo dei pompieri, che mutasse le pompe, che si procurasse maggior abbondanza d’acqua, che regolasse la costruzione delle case; ma il governo aveva fatto il sordo e gli europei avevano rimesso il cuore in pace, continuando a vivere alla turca, ossia fidando un po’ nel buon Dio e un po’ nella buona fortuna.

Così, nulla o quasi nulla essendo mutato, si può andar sicuri che quello del 1870 non fu l’ultimo dei grandi incendi dai quali «è scritto» che la città dei Sultani sia ogni tanti anni desolata. Le case di Pera sono ora quasi tutte, è vero, di muratura; ma costrutte la maggior parte malamente, da architetti senza studii e senza esperienza, non invigilati dal Governo, e spesso anche costrutte dal primo venuto, in maniera che molte rovinano prima d’esser terminate, e quelle che rimangono su, non possono opporre alcuna resistenza alle fiamme. L’acqua, specialmente a Pera, è sempre scarsa e soggetta a un monopolio vergognoso; e siccome viene in gran parte dai serbatoi del villaggio di Belgrado, costrutti dai Romani, manca affatto quando non cadono piogge abbondanti in primavera e in autunno; onde chi ha denari deve pagarla a peso d’oro e i poveri bevono fango. I pompieri sono sempre piuttosto una grande banda di malfattori, che un corpo ordinato di operai; banda composta di gente d’ogni paese, dipendenti più di nome che di fatto dal Seraschierato, da cui non ricevono che una razione di pane; inesperti, indisciplinati, ladri, detestati e temuti dalla popolazione quanto il fuoco che non sanno spegnere, e sospetti, non senza fondamento, di desiderare gl’incendi, come occasione di far bottino. Le pompe non scarseggiano, è vero, e i turchi ne vanno alteri come di macchine meravigliose; ma sono ridicole carabattole, che contengono una dozzina di litri d’acqua, e mandano uno zampillo sottilissimo, piuttosto adatto a innaffiare giardini che a spegnere incendi. E sarebbe nondimeno una gran fortuna, se rimanendo questi inconvenienti, fossero cessati gli altri, che sono molto più gravi. Non è credibile, senza dubbio, quello che molti credono ancora, che il Governo, cioè, susciti gl’incendi per allargare le strade, chè il danno e il pericolo sarebbero troppo sproporzionati ai vantaggi; né accade più come per il passato, che il «partito d’opposizione» dia fuoco a un quartiere di Costantinopoli per spaventare il Sultano, né che l’esercito incendi un sobborgo per ottenere un accrescimento di paga. Ma il sospetto, che gl’incendi siano molte volte suscitati da coloro che ne possono trarre guadagno, è sempre vivo, e il fatto provò troppo spesso che non è un sospetto infondato. Per il che la popolazione vive in un’ansietà continua. Teme dei portatori d’acqua, dei facchini, degli architetti, dei mercanti di legna e di calce, e massimamente dei servitori, che sono la peggior genìa di Costantinopoli, legati la maggior parte con ladri, i quali sono alla loro volta ordinati in associazioni e in comitati, da cui altre compagnie occulte comprano la roba rubata e facilitano con vari mezzi il delitto. E la polizia locale mostra con questa gente una fiacchezza, per non chiamarla indulgenza, la quale produce quasi gli effetti della complicità. Non fu mai condannato un incendiario. Raramente i ladri, dopo gl’incendi, sono colti e puniti. È anche più raro che gli oggetti sequestrati dalla polizia siano restituiti ai proprietari. Di più, essendoci a Costantinopoli del canagliume di tutti i paesi, l’azione della giustizia è inceppata in mille modi dai trattati internazionali; i Consolati reclamano a sé i malfattori della propria nazione; i processi durano un secolo; molti delinquenti scappano; il timore del castigo non serve quasi affatto di freno agli scellerati, e il saccheggio negl’incendi è considerato da loro quasi come un privilegio tacitamente riconosciuto dalle autorità, come era altre volte per gli eserciti il mettere a sacco le città espugnate. Per questo la parola «incendio» significa ancora per la popolazione di Costantinopoli «tutte le sventure» e il grido di Janghen var è sempre un grido tremendo, solenne, fatale, al cui suono tutta la città si rimescola fin nel più profondo delle sue viscere, come all’annunzio d’un castigo di Dio. E chi sa quante volte la grande metropoli dovrà ancora essere incenerita e rialzata sulle sue ceneri prima che la civiltà europea abbia piantato la sua bandiera sul palazzo imperiale di Dolma-Bagcé!

Nei tempi andati, quando scoppiava un incendio in Costantinopoli, se il Sultano si trovava in quel momento nell’arem, gli portava l’annunzio del pericolo un’odalisca tutta vestita color di porpora dal turbante alle babbucce, la quale aveva l’ordine di presentarsi a Lui in qualunque luogo egli fosse; fosse anche stato in braccio alla più cara delle sue favorite. Essa non aveva che da presentarsi sulla soglia: il color di fuoco dei suoi panni era l’annunzio muto della sventura. Ebbene, chi crederebbe che fra tante immagini grandiose e terribili che mi si affacciano alla mente quando penso agl’incendi di Costantinopoli, sia la figura di quell’odalisca quella che scuote più vivamente tutte le mie fibre d’artista? Io vorrei essere pittore per dipingere quel quadro, e supplicherò tutti i pittori di dipingerlo, sin che n’abbia trovato uno che s’innamori dell’argomento, e a lui sarò grato per la vita. Egli rappresenterà, in una stanza dell’arem imperiale, tappezzata di raso e rischiarata da una luce soavissima, sopra un largo divano, accanto a una circassa bionda di quindici anni, coperta di perle, Selim I, il Sultano tremendo, che s’è svincolato impetuosamente dalle braccia della sua cadina, e fissa i grand’occhi atterriti sopra l’odalisca purpurea, muta, sinistra, ritta sulla soglia come una statua, la quale, con un volto pallido che rivela la venerazione e il terrore, sembra voler dire: – Re dei Re, Allà ti chiama e il tuo popolo desolato t’aspetta! – e sollevando la cortina della porta, mostra di là da un terrazzo, in una grande lontananza azzurrina, la città enorme che fuma.


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.