Appena saliti a bordo, vediamo come un velo grigio stendersi su Costantinopoli, e su questo velo disegnarsi le montagne della Moravia e dell’Ungheria, e le alpi della bassa Austria. È un rapido cangiamento di scena che si vede sempre salendo sopra un bastimento in cui s’incontrano già i visi e si sentono già gli accenti del paese per cui si parte. Siamo imprigionati in un cerchio di facce tedesche che ci fanno sentire innanzi tempo il freddo e l’uggia del settentrione. I nostri amici ci hanno lasciati: non vediamo più che tre fazzoletti bianchi che sventolano sopra un caicco lontano, in mezzo a un via vai di barconi neri, in faccia alla casa della dogana. Siamo nello stessissimo punto in cui si fermò il nostro bastimento siciliano il giorno dell’arrivo. È una bella sera d’autunno, splendida e tiepida. Costantinopoli non ci è mai parsa così ridente e così grande. Per l’ultima volta cerchiamo di fissarci nella mente i suoi contorni immensi e i suoi colori vaghi di città fatata; e slanciamo lo sguardo per l’ultima volta in fondo a quel meraviglioso Corno d’oro, che ci si nasconderà fra pochi momenti per sempre. I fazzoletti bianchi sono scomparsi. Il bastimento si muove. Tutto pare che si sposti. Scutari viene avanti, Stambul si tira indietro, Galata gira sopra sè stessa, come per vederci partire. Addio al Corno d’oro! Un guizzo del bastimento ci rapisce il sobborgo di Kassim-Pascià, un altro guizzo ci porta via Eyub, un altro, la sesta collina di Stambul; scompare la quinta, si nasconde la quarta, svanisce la terza, sfuma la seconda; non rimane più che la collina del Serraglio, la quale, grazie al cielo, non ci lascerà per un pezzo. Navighiamo già nel bel mezzo del Bosforo, rapidamente. Passa il quartiere di Top-hané, passa il quartiere di Funduclù; fuggono le facciate bianche e cesellate del palazzo di Dolma-Bagcé; e Scutari distende, per l’ultima volta, il suo anfiteatro di colli coperti di giardini e di ville. Addio, Costantinopoli! cara e immensa città, sogno della mia infanzia, sospiro della mia giovinezza, ricordo incancellabile della mia vita! Addio, bella e immortale regina dell’Oriente! Che il tempo muti le tue sorti, senza offendere la tua bellezza, e possano vederti un giorno i miei figli colla stessa ebbrezza d’entusiasmo giovanile colla quale io ti vidi e t’abbandono.
La mestizia dell’addio, però, non durò che pochi momenti, perché un’altra Costantinopoli, più vasta, più bella, più allegra di quella che lasciavo sul Corno d’oro, mi si stendeva dinanzi per la lunghezza di ventisettemila metri, sulle due più belle rive della terra.
Il primo villaggio che si presenta a sinistra, sulla riva europea del Bosforo, è Bescik- Tass; un grosso villaggio turco, o piuttosto un grande sobborgo di Costantinopoli, che si stende ai piedi d’una collina, intorno a un piccolo porto. Dietro gli s’apre una bella valle; l’antica valle degli allori di Stefano, di Bisanzio, che rimonta verso Pera; fra le case s’innalza un gruppo di platani che ombreggiano il sepolcro del famoso corsaro Barbarossa; un gran caffè, stipato di gente, sporge sulle acque, sorretto da una selva di palafitte; il porto è pieno di barche e di caicchi; la riva affollata; la collina coperta di verzura, la valle piena di case e di giardini. Ma non c’è più l’aspetto dei sobborghi di Costantinopoli. C’è già la grazia e la gaiezza tutta propria e indimenticabile dei villaggi del Bosforo. Le forme son più piccine, la verzura più fitta, i colori più arditi. È come una nidiata di casette ridenti, che paiono sospese fra la terra e l’acqua, una cittadina da innamorati e da poeti, destinata a durare quanto una passione od un estro, piantata là per un capriccio, in una bella notte d’estate. Non vi si è ancora fissato lo sguardo, che già è lontana, e ci passa davanti il palazzo di Ceragan, o piuttosto una schiera di palazzi di marmo bianco, semplici e magnifici, decorati di lunghe file di colonne e coronati di terrazze a balaustri, sui quali si drizza una merlatura vivente d’innumerevoli uccelli bianchi del Bosforo, messi in rilievo dal verde vigoroso delle colline della riva. Ma qui comincia il caro tormento di veder fuggire mille bellezze, nel punto che se ne ammira una sola. Mentre noi contempliamo Bescik-Tass e Ceragan, dall’altra parte fugge la riva asiatica, coperta di villaggi deliziosi, che si vorrebbero poter comprare e portar via, come gioielli. Fugge Kuzgundgiuk, tinto di tutti i colori dell’iride, col suo piccolo porto, dove dice la tradizione che approdasse la giovenca Io, dopo aver attraversato il Bosforo, per salvarsi dai tafani di Giunone; passa Istauros, colla sua bella moschea dai due minareti; scompare il palazzo imperiale di Beylerbey, coi suoi tetti conici e piramidali, e le sue mura gialle e grigie, che presenta l’aspetto misterioso e bizzarro di un convento di principesse; e poi il villaggio di Beylerbey, riflesso dalle acque, dietro al quale s’innalza il monte di Bulgurlù; e tutti questi villaggi, raccolti o sparsi ai piedi di piccole colline verdissime, e tuffati in una vegetazione opulenta, che par che tenda a coprirli, sono legati fra loro da ghirlande di ville e di casette e da lunghi filari d’alberi che corrono lungo la riva, o scendono a zig zag dalle alture al mare, a traverso a innumerevoli giardini e orti e piccoli prati, disposti a scacchi e a scaglioni, e coloriti d’infinite sfumature di verde.
Bisogna dunque rassegnarsi a veder tutto di volo, girando continuamente la testa a destra e a sinistra, con una regolarità automatica. Oltrepassato di poco Ceragan, si vede, a sinistra, sulla riva europea, il grande villaggio Orta-Kioi, al di sopra del quale mostra la sua cupola luccicante la moschea della Sultana Validè, madre d’Abdul-Aziz, e sporge i suoi tetti graziosi il palazzo di Riza-Pascià; ai piedi d’una collina, sulla cui cima, in mezzo a una folta vegetazione, s’alzano le muraglie bianche e leggiere del chiosco imperiale della Stella. Orta-Kioi è abitato da molti banchieri armeni, franchi e greci. In quel momento vi approdava il piroscafo di Costantinopoli. Una folla sbarcava, un’altra folla stava aspettando sullo scalo, per imbarcarsi. Erano signore turche, signore europee, ufficiali, frati, eunuchi, zerbinotti, fez, turbanti, cappellini, cappelli a staio, confusi: spettacolo che si vede in tutte le venti stazioni del Bosforo, principalmente la sera. In faccia a Orta-Kioi, sulla riva asiatica, brilla di mille colori, in mezzo a una corona di ville, il villaggio di Cengel, dell’ancora, da una vecchia ancora di ferro che trovò su quella riva Maometto II; e gli si alza alle spalle il chiosco bianco, di trista memoria, da cui Murad IV, roso da un’invidia feroce, ordinava la morte della gente allegra che passava pei campi cantando. Guardando daccapo verso l’Europa, ci troviamo in faccia al bel villaggio e al porto grazioso di Kuru-Cesmé, l’antica Anaplos, dove Medea, sbarcata con Giasone, piantò l’alloro famoso; e voltandoci nuovamente verso l’Asia, vediamo i due villaggi ridenti di Kulleli e di Vani-Kioi, sparsi lungo la riva, a destra e a sinistra d’una smisurata caserma, simile a un palazzo reale, che si specchia nelle acque. Dietro ai due villaggi s’alza una collina coronata da un grande giardino, in mezzo al quale biancheggia, quasi tutto nascosto dagli alberi, il chiosco dove Solimano il Grande visse tre anni, nascosto in una piccola torre, per sottrarsi alle ricerche delle spie e dei carnefici di suo padre Selim. Mentre noi cerchiamo la torre fra gli alberi, il bastimento passa dinanzi ad Arnot-Kioi, il villaggio degli Albanesi, ora abitato da Greci, disteso in forma di mezzaluna, sulla riva europea, intorno a un piccolo seno, pieno di bastimenti a vela. Ma come si può vedere ogni cosa? Un villaggio ci ruba l’altro, una bella moschea ci distrae da un paesaggio gentile, e mentre si guardano i villaggi ed i porti, passano i palazzi dei visir, dei pascià, delle Sultane, dei grandi eunuchi, dei gran signori; case gialle, azzurre e purpuree, che paiono galleggianti sull’acqua, vestite d’edera e di liane, coperte di terrazze colme di fiori, e mezzo nascoste in boschetti di cipressi, d’allori e d’aranci; edifizi sormontati da frontoni corinzi e decorati di colonne di marmo bianco; villette svizzere, casine giapponesi, piccole regge moresche, chioschi turchi, di tre piani, sporgenti l’uno sull’altro, che sospendono sull’azzurro del Bosforo i balconi ingraticolati degli arem, e spingono innanzi i loro piccoli scali a gradinate e i loro giardinetti accarezzati dalla corrente; tutti piccoli edifizi leggeri e passeggieri, che rappresentano appunto la fortuna dei loro abitatori: il trionfo d’una giovinetta, il buon successo d’un intrigo, un’alta carica che sarà perduta domani, una gloria che finirà nell’esilio, una ricchezza che svapora, una grandezza che crolla. Non c’è quasi tratto delle due rive che non sia coperto di case. È una specie di Canal grande d’una smisurata Venezia campestre. Le ville, i chioschi, i palazzi s’alzano l’un dietro l’altro, disposti in modo che tutta la facciata di ciascheduno è visibile, e quei di dietro paiono piantati sul tetto di quei davanti, e in mezzo agli uni e agli altri, e di là dai più lontani, tutto è verde, per tutto s’alzano punte e chiome di querce, di platani, d’aceri, di pioppi, di pini, di fichi, fra cui biancheggiano fontane e scintillano cupolette di turbé e di moschee solitarie.
Voltandoci verso Costantinopoli, vediamo ancora, confusamente, la collina del Serraglio, e la cupola enorme di Santa Sofia, che nereggia sul cielo limpido e dorato. Intanto sparisce Arnot-Kioi, Vani, Kulleli, Cengel, Orta, e tutto è mutato intorno a noi. Par di essere in un vasto lago. Una piccola baia si apre a sinistra, sulla riva europea; un’altra piccola baia a destra, sulla riva asiatica. Sulla riva di sinistra si stende a semicerchio la bella cittadina greca di Bebek, ombreggiata da alberi altissimi, fra i quali sorge una bella moschea antica e il chiosco imperiale d’Humaiun-Habad, dove altre volte i Sultani ricevevano a convegni segreti gli ambasciatori europei. Una parte della città si nasconde nella verzura folta d’una piccola valle; un’altra parte si sparpaglia alle falde d’una collina, coperta di querce, sulla cima della quale è un bosco famoso per un’eco potentissima, che risponde alla pesta d’un cavallo collo scalpitio d’uno squadrone. È un paesaggio grazioso e ridente da incapricciare una regina; ma si dimentica, voltandosi dalla parte opposta. Qui la riva dell’Asia offre una veduta da paradiso terrestre. Sopra un largo promontorio si distende, ad arco sporgente, il villaggio di Kandilli, variopinto come un villaggio olandese, con una moschea bianchissima, e un folto corteo di villette; dietro al quale s’alza la collina florida di Igiadié, sormontata da una torre merlata, che spia gl’incendi sulle due rive. A destra di Kandilli, sboccano sulla baia, a breve distanza l’una dall’altra, due valli: quella del grande e quella del piccolo ruscello celeste, fra le quali si stende la prateria deliziosa delle Acque dolci d’Asia, coperta di sicomori, di querce e di platani, e dominata dal chiosco ricchissimo della madre d’Abdul-Megid, disegnato e scolpito sullo stile del palazzo di Dolma-Bagcé, e circondato di alti giardini, rosseggianti di rose. E di là dal «gran ruscello celeste» si vedono ancora i mille colori del villaggio d’Anaduli-Hissar, steso alle falde d’un’altura, su cui si drizzano le torri snelle del castello di Baiazet-Ilderim, che fronteggia il castello di Maometto II, posto sulla riva europea. Tutto questo bel tratto del Bosforo, in quel momento, era pieno di vita. Nella baia di Europa guizzavano centinaia di barchette; passavano legni a vela e a vapore, diretti al porto di Bebek; i pescatori turchi gettavano le reti dai loro gabbiotti aerei, sostenuti sull’acqua da altissime travi incrociate; un piroscafo di Costantinopoli versava sullo scalo della cittadina europea una folla di signore greche, di Lazzaristi, di allievi della scuola protestante americana, di famigliole cariche d’involti e di vesti; e dalla parte opposta, si vedevano, col cannocchiale, gruppi di signore musulmane, che passeggiavano sotto gli alberi delle Acque dolci, o stavano sedute in crocchio sulla sponda del ruscello celeste, mentre un gran numero di caicchi e di barche a baldacchino, piene di turchi e di turche, andavano e venivano lungo la riva. Pareva una festa. Era un non so che d’arcadico e d’amoroso, che metteva voglia di buttarsi giù dal bastimento, di raggiungere a nuoto una delle due rive, e di piantarsi là, e di dire: – Nasca che nasca, non mi voglio più muovere di qui; voglio vivere e morir qui, in mezzo a questa beatitudine musulmana.
Ma a un tratto lo spettacolo cangia e tutte quelle fantasie pigliano il volo. Il Bosforo si stende diritto dinanzi a noi, e presenta una vaga immagine del Reno; ma d’un Reno ingentilito, e tinto sempre dei colori caldi e pomposi dell’oriente. A sinistra, un cimitero coperto da un bosco di cipressi e di pini, rompe la linea delle case, sino a quel punto non interrotta; e subito appresso, alle falde del piccolo monte roccioso d’Hermaion, s’innalzano le tre grandi torri di Rumili-Hissar, il castello d’Europa, circondate di avanzi di mura merlate e di torri minori, che scendono in una gradinata pittoresca di rovine fin sull’orlo della riva. È il castello famoso che innalzò Maometto II un anno prima della presa di Costantinopoli, malgrado le calde rimostranze di Costantino, i cui ambasciatori, come tutti sanno, furono rimandati indietro minacciati di morte. È quello il punto in cui è più impetuosa la corrente (chiamata perciò «gran corrente» dai Greci e corrente di Satana dai Turchi) ed è pure il tratto più stretto del Bosforo, non distando le due rive che poco più di cinquecento metri. Là fu gettato da Mandocle di Samo il ponte di barche su cui passarono i settecentomila soldati di Dario, e là pure si crede che siano passati i diecimila, ritornando dall’Asia. Ma non rimane più traccia né delle due colonne di Mandocle, nè del trono scavato nella roccia del monte Hermaion, dal quale il re persiano avrebbe assistito al passaggio del suo esercito. Un piccolo villaggio turco sorride segretamente, rannicchiato ai piedi del castello, e la riva asiatica fugge sempre più verde e più allegra. È una successione continua di casette di barcaioli e di giardinieri, di vallette che riboccano di vegetazione, di piccoli seni solitari quasi coperti dai rami giganteschi degli alberi della riva, sotto i quali passano lentamente delle velette bianche di pescatori; di prati fioriti che scendono con un declivio dolcissimo fino all’orlo della riva; di piccole rocce da giardino fasciate d’edera; di piccoli cimiteri che biancheggiano sulla sommità di alti poggi tagliati a picco. Improvvisamente, balza fuori sulla stessa riva asiatica, il bel villaggio di Kanlidgié, tutto vermiglio, posto su due promontori rocciosi, contro i quali si rompono le onde rumorosamente, e ornato d’una bella moschea che slancia i suoi due minareti candidi fuori d’una macchia di cipressi e di pini a ombrello. E qui ricominciano a innalzarsi i giardini, a modo di belvederi, l’uno dietro l’altro, e a spesseggiare le ville, fra le quali splende il palazzo incantevole di quel celebre Fuad-Pascià, diplomatico e poeta, vanitoso, voluttuoso e gentile, che fu chiamato il Lamartine ottomano. Poco più innanzi, sulla riva europea, si mostra il villaggio amenissimo di Balta-Liman, posto all’imboccatura d’una valletta, per cui scende nel porto un piccolo fiume, e dominato da una collina sparsa di ville, fra le quali s’alza l’antico palazzo di Rescid-Pascià; e poi la piccola baia d’Emir-Ghian-Ogli Bagcè, tutta verde di cipressi, in mezzo ai quali brilla d’una bianchezza di neve una moschea solitaria, lambita dalle acque, e sormontata da un grande globo irto di raggi d’oro. Intanto il bastimento s’avvicina ora all’una ora all’altra riva, e allora si vedono mille particolari del grande paesaggio: qui il vestibolo del selamlik d’una ricca casa turca, aperto sulla sponda, in fondo al quale fuma un grosso maggiordomo, coricato sopra un divano; là un eunuco, ritto sull’ultimo gradino della scala esterna d’una villa, che aiuta due turche velate a scendere in un caicco; più oltre un giardinetto circondato di siepi, e quasi interamente coperto da un platano, ai piedi del quale riposa, a gambe incrociate, un vecchio turco dalla barba bianca, che medita sul Corano; famiglie di villeggianti raccolte sulle terrazze; branchi di capre e di pecore che pascolano per i prati alti; cavalieri che galoppano lungo la riva, carovane di cammelli che passano sulla sommità delle colline, disegnando i loro contorni bizzarri sul cielo sereno.
All’improvviso il Bosforo s’allarga, la scena cangia, siamo di nuovo fra due baie, nel mezzo d’un vasto lago. A sinistra è una baia stretta e profonda, intorno alla quale gira la cittadina greca d’Istenia; Sosthenios, dal tempio e dalla statua alata che innalzarono là gli Argonauti, in onore del Genio tutelare che li aveva resi vittoriosi nella lotta contro Amico, re di Bebrice. Grazie a una leggera curva che descrive il bastimento verso l’Europa, vediamo distintamente i caffè e le casette schierate lungo la riva, le piccole ville sparse fra gli olivi e i vigneti, la valle che sbocca nel porto, il torrentello che precipita da un’altura e la famosa fontana moresca di marmo bianco nitidissimo, ombreggiata da un gruppo d’aceri enormi, da cui spenzolano le reti dei pescatori, in mezzo a un va e vieni di donnine greche, che portano le anfore sul capo. In faccia a Istenia, sopra la baia della riva asiatica, fa capolino, fra gli alberi, il villaggio turco di Cibulkú, dove c’era il convento rinomato dei Vigili, che pregavano e cantavano, senza interruzione, il giorno e la notte. Le due rive del Bosforo sono piene, da un mare all’altro, delle memorie di questi cenobiti e anacoreti fanatici del quinto secolo, che erravano per i colli, carichi di croci e di catene, tormentati da cilici e da collari di ferro, o che stavano settimane e mesi, immobili sulla cima d’una colonna o d’un albero, intorno a cui andavano a prostrarsi, a digiunare, a pregare, a percotersi il petto principi, soldati, magistrati e pastori, invocando una benedizione o un consiglio, come una grazia di Dio. Ma è un potere singolare che ha il Bosforo, quello di sviare irresistibilmente dal passato il pensiero del viaggiatore che scorra per le prime volte lungo le sue rive. Tutti i ricordi, tutte le immagini più grandi, più belle o più tristi, che possa fornire la storia o la leggenda di quei luoghi, rimangono offuscate, soverchiate, sto per dire sepolte da quel rigoglio prodigioso di vegetazione, da quello sfolgorio di colori festosi, da quella esuberanza di vita, dalla giovinezza poderosa e superba di quella bella natura tutta sorriso e tutta festa. Bisogna fare uno sforzo per credere che in quelle acque, in mezzo a quella bellezza fatata, abbiano potuto urtarsi furiosamente, ardersi e insanguinarsi, le flotte dei bulgari, dei goti, degli eruli, dei bizantini, dei russi, dei turchi. I castelli medesimi, che coronano le colline, non destano nemmeno un’idea di quel sentimento di terrore poetico, che ispirano in altri luoghi le rovine di quella natura; e paion piuttosto una decorazione artificiale del paesaggio, che monumenti veri di guerra, che un giorno abbiano vomitato la morte. Tutto è come velato da una tinta di languore e di dolcezza che non desta se non pensieri sereni e un desiderio immenso di pace.
Di là da Istenia il Bosforo s’allarga ancora, e il bastimento arriva in pochi minuti in un punto da cui si gode la più stupenda veduta di quante se ne sono offerte sinora ai nostri occhi. Voltandoci verso l’Europa, abbiamo davanti la piccola città greca ed armena di Ieni- Kioi, posta alle falde d’un’alta collina coperta di vigneti e di boschetti di pini, e distesa ad arco sporgente sopra una riva rocciosa, contro cui si rompe la corrente con grande strepito; e un po’ più in là, la bellissima baia di Kalender, piena di barchette, contornata di casette da giardino, e inghirlandata da una vegetazione lussureggiante, sopra la quale sporgono le terrazze aeree d’un chiosco imperiale. Voltandoci indietro, abbiamo davanti la riva asiatica che s’incurva in un grande arco, formando un meraviglioso anfiteatro di colli, di villaggi e di porti. È Indgir-Kioi, il villaggio dei fichi, coronato di giardini; accanto a Indgir-Kioi, Sultanié, che par nascosto in un bosco; dopo Sultanié, il grosso villaggio di Beikos, circondato di orti e di vigneti, e ombreggiato da altissimi noci, il quale si specchia nel più bel golfo del Bosforo, che è l’antico golfo dove il re di Bebrice fu vinto da Polluce, e dov’era l’alloro prodigioso che faceva impazzire chi ne toccava le foglie; e di là da Beikos, lontano, il villaggio di Iali, l’antica Amea, che non par più che un mucchio di fiori gialli e vermigli sopra un grande tappeto verde. Ma questo non è che un abbozzo del grande quadro. Bisogna immaginare le forme indescrivibilmente gentili di quei colli, che si vorrebbero accarezzare colla mano; quegli innumerevoli piccolissimi villaggi senza nome, che paiono messi là dalla mano d’un pittore; quella vegetazione di tutti i climi, quelle architetture di tutti i paesi, quelle gradinate di giardini, quelle cascatelle d’acqua, quelle ombre cupe, quelle moschee luccicanti, quell’azzurro picchiettato di vele bianche e quel cielo rosato dal tramonto.
Ma arrivato là provai anch’io un senso di sazietà, come lo provano quasi tutti, a un certo punto del Bosforo. Stanca quella successione interminabile di linee molli e di colori ridenti. È una monotonia di gentilezza e di grazia in cui il pensiero si addormenta. Si vorrebbe veder sorgere tutt’a un tratto sopra una di quelle rive una roccia smisurata e deforme o stendersi un lunghissimo tratto di spiaggia deserta e triste, sparsa degli avanzi d’un naufragio. E allora, per distrarsi, non c’è che a fissar l’attenzione sulle acque. Il Bosforo pare un porto continuo. Si passa accanto alle corazzate splendide dell’armata ottomana; in mezzo a flotte di bastimenti mercantili di tutti i paesi, dalle vele variopinte e dalle poppe bizzarre, affollate di gente strana; s’incontrano i legni dalle forme antiche dei porti asiatici del Mar Nero, e le piccole corvette eleganti delle Ambasciate; passano, come saette, le barchette a vela dei signori, che volano a gara, sotto gli occhi degli spettatori schierati sulla riva; barche di tutte le forme, piene di gente di tutti i colori, si spiccano o approdano ai mille piccoli scali dei due continenti; i caicchi rimorchiati guizzano in mezzo a lunghe file di barconi carichi di mercanzie; le lance imbandierate dei marinai si incrociano colle zattere dei pescatori, coi caicchi dorati dei Pascià, coi piroscafi di Costantinopoli, pieni di turbanti, di fez e di veli, che attraversano il canale a zig zag per toccare tutte le stazioni. E siccome anche il nostro bastimento va innanzi serpeggiando, così tutto questo spettacolo par che ci giri intorno: i promontori si spostano, le colline cambiano inaspettatamente di forma, i villaggi si nascondono e poi ricompaiono in un nuovo aspetto, e davanti e dietro di noi, ora il Bosforo si chiude come un lago, ora s’apre e lascia vedere una fuga di laghi e di colli lontani; poi, tutt’a un tratto, le colline tornano a congiungersi davanti e di dietro, e si rimane in una conca verde da cui non si capisce come si potrà uscire; ma s’ha appena il tempo di scambiar dieci parole con un vicino, che già la conca è sparita, e si vedono intorno nuove alture, nuove città, nuovi porti.
Si è fra la baia di Terapia, – Pharmacia, dei veleni di Medea –, e la baia di Hunchiar Iskelessi, scalo dei Sultani, dove fu segnato nel 1833 il trattato famoso che chiuse i Dardanelli alle flotte straniere. Qui lo spettacolo del Bosforo è al penultimo grado della sua bellezza. Terapia è la più splendida cittadina che orni le sue rive, dopo Bujukderè, e la valle che si apre dietro la baia di Hunchiar-Iskelessi è la più verde, la più cara, la più poetica valle che si possa ammirare fra il Mar di Marmara e il Mar Nero. Terapia si stende in parte sopra una riva diritta, ai piedi di una grande collina, e parte intorno a un seno profondo, che è il suo porto, pieno di bastimenti e di barche, sul quale sbocca la valletta di Krio-nero, in cui un’altra parte della città s’appiatta fra la verzura. La riva del mare è tutta coperta di caffè pittoreschi, che sporgono sull’acqua, di alberghi signorili, di casette pompose, di gruppi d’alberi altissimi, che ombreggiano piazzette e fontane; di là dai quali s’alzano i palazzi d’estate delle Ambasciate di Francia, d’Italia e di Inghilterra, e sopra questi, un chiosco imperiale; e tutt’intorno, e su per la collina, terrazze su terrazze, giardini su giardini, ville su ville, boschetti sopra boschetti; e gente vestita di vivi colori formicola nei caffè, nel porto, sulle rive, su per i sentieri delle alture, come in una piccola metropoli in festa. Dalla parte dell’Asia, invece, tutto è pace. Il piccolo villaggio di Hunchiar- Iskelessi, soggiorno prediletto dei ricchi armeni di Costantinopoli, dorme fra i platani e i cipressi, intorno al suo piccolo porto, percorso da poche barchette furtive; di là dal villaggio, sulla cima d’una vasta scala di giardini, torreggia, solitario, il chiosco magnifico d’Abdul-Aziz; e di là dal chiosco svolta e si nasconde, in mezzo a uno sfarzo indescrivibile di vegetazione tropicale, la valle favorita dei Padiscià, piena di misteri e di sogni.
Ma tutta questa bellezza non par più nulla, un miglio più innanzi, quando il bastimento è arrivato davanti al golfo di Bujuk-deré. Qui è la maestà e la grazia suprema del Bosforo. Qui chi era già stanco della sua bellezza, ed aveva pronunciato irriverentemente il suo nome, si scopre la fronte, e gli domanda perdono. Si è in mezzo a un vasto lago coronato di meraviglie, che ispira l’idea di mettersi a girare, come i dervis, sulla prora del bastimento, per veder tutte le rive e tutte le colline in un punto. Sulla riva d’Europa, intorno a un golfo profondo, dove va a morire la corrente in molli ondulazioni, alle falde d’una grande collina, sparsa di ville innumerevoli, s’allarga la città di Bujuk- derè, vasta, colorita come un’immensa aiuola di fiori, tutta palazzine, chioschi e villette tuffate in una verzura vivissima, che par che esca dai tetti e dai muri, e colmi le strade e le piazze. La città si stende a destra fino ad un piccolo seno, che è come un golfo nel golfo, intorno a cui gira il villaggio di Kefele-Kioi; e dietro a questo s’apre una larga vallata, tutta verde di praterie, e biancheggiante di case, per la quale si va al grande acquedotto di Mahmud e alla foresta di Belgrado. È la valle in cui, giusta la tradizione, si sarebbe accampato nel 1096 l’esercito della prima crociata; e uno dei sette platani giganteschi, a cui il luogo deve la sua fama, è chiamato il platano di Goffredo di Buglione. Di là da Kefele- Kioi, s’apre un’altra baia, verde di cipressi e bianca di case, e di là dalla baia, si vede ancora Terapia, sparpagliata ai piedi della sua collina verde cupa. Arrivati fin là collo sguardo, ci si volta indietro, verso l’Asia, e si prova un sentimento vivissimo di sorpresa. Si è dinanzi al più alto monte del Bosforo, il monte del Gigante, della forma d’una enorme piramide verde, dov’è il sepolcro famoso, chiamato da tre leggende «letto d’Ercole, fossa d’Amico, tomba di Giosuè giudice degli Ebrei;» custodito ora da due dervis e visitato dai musulmani infermi, che vanno a deporvi i brandelli dei loro vestiti. Il monte spinge le sue falde alberate e fiorite fin sulla riva, dove, fra due promontori verdeggianti, s’apre la bella baia d’Umuryeri, macchiettata di cento colori dalle case d’un villaggio musulmano disperso capricciosamente sulle sue sponde, al quale fanno ala altri branchi di villini e di casette, disseminate, come fiori buttati via, per le praterie e per le alture vicine. Ma lo spettacolo non è tutto in questo cerchio. Diritto in faccia a noi luccica il Mar Nero; e voltandoci verso Costantinopoli, si vede ancora, di là da Terapia, in una lontananza violacea e confusa, la baia di Kalender, Kieni-Kioi, Indgir-Kioi, Sultanié, che paiono, piuttosto che prospetti veri, vedute immaginarie d’un mondo remoto. Il sole tramonta; la riva d’Europa comincia a velarsi di ombre azzurrine e cineree; la riva d’Asia è ancora dorata; le acque lampeggiano; sciami di barchette, cariche di mariti e d’amanti, reduci da Costantinopoli, corrono verso la riva europea, incontrate, arrestate, circuite da altre barchette, cariche di signore e di fanciulli, che vengono dalle ville; dai caffè di Bujukderè ci arrivano suoni interrotti di musiche e di canti; le aquile ruotano sopra la montagna del Gigante, i marki bianchi svolazzano lungo la riva, gli alcioni radono le acque, i delfini guizzano intorno al bastimento, l’aria fresca del Mar Nero ci soffia nel viso. Dove siamo? Dove andiamo? È un momento d’illusione e d’ebbrezza, in cui i ricordi di tutto quello che vediamo da due ore sulle due rive del Bosforo, si confondono nella nostra mente nella immagine d’una sola prodigiosa città, dieci volte più grande di Costantinopoli, abitata da popoli di tutta la terra, privilegiata di tutti i favori di Dio, e abbandonata a una festa perpetua, che ci riempie di tristezza e d’invidia.
Ma questa è l’ultima visione. Il bastimento esce rapidamente fuori del golfo di Buiukderé. Vediamo a sinistra il villaggio di Sariyer, circondato di cimiteri, dinanzi al quale s’apre una piccola baia, formata da quell’antico promontorio di Simas, dove s’innalzava il tempio a Venere meretricia, oggetto d’un culto particolare dei naviganti greci; poi il villaggio di Jeni-Makallé; poi il forte di Teli-Tabia, che fa fronte a un altro piccolo forte posto sulla riva asiatica, ai piedi del monte del Gigante; poi il castello Rumili-Cavak, che segna i suoi contorni severi sul cielo rosato dagli ultimi chiarori del crepuscolo. Sull’altra riva, di fronte a Rumili-Kavak, s’alza un’altra fortezza, la quale corona il promontorio, ove sorgeva il tempio dei dodici Dei, costrutto dall’argivo Frygos, vicino a quello di Giove «distributore dei venti propizi», fondato dai Calcedonesi, e convertito poi da Giustiniano in una chiesa consacrata all’arcangelo Michele. È quello il punto dove il Bosforo si restringe per l’ultima volta, fra l’estremo contrafforte delle montagne di Bitinia e l’estrema punta della catena dell’Hemus; considerato sempre come la prima porta del canale, da difendersi contro le invasioni del Settentrione, e teatro, perciò, di lotte ostinate fra bizantini e barbari, fra veneziani e genovesi. Due castelli genovesi, posti l’uno in faccia all’altro, fra i quali era stesa una catena di ferro che chiudeva il canale, mostrano ancora confusamente, là presso, le loro torri e le loro mura rovinate. Da quel punto il Bosforo va diritto, gradatamente allargandosi, al mare; le due rive sono alte e ripide, come due enormi bastioni, e non mostrano più che qualche gruppo di case meschine, qualche torre solitaria, qualche rovina di monastero, qualche avanzo di moli e d’argini antichi. Dopo un lungo tragitto, vediamo ancora scintillare sulla riva europea i lumi del villaggio di Buiuk- Liman, e dall’altra parte la lanterna d’una fortezza, che domina il promontorio dell’Elefante; poi, a sinistra, la gran massa rocciosa dell’antica Gipopoli, dove sorgeva il palazzo di Fineo, infestato dalle Arpie; e a destra la fortezza del capo Poiraz, che ci appare come una vaga macchia oscura sul cielo grigiastro. Qui le rive sono lontanissime; il canale par già un grande golfo; la notte discende, la brezza marina geme fra i cordami del bastimento, e il tristo mare cimmerium stende dinanzi a noi il suo infinito orizzonte livido e inquieto. Ma il pensiero non si può ancora staccare da quelle rive piene di poesia e di memorie, non più sopraffatte dalla bellezza della natura; e vola, a sinistra, ai piedi dei piccoli Balcani, a cercare la torre d’Ovidio esule, e la muraglia meravigliosa d’Anastasio; e vaga, a destra, per una vasta terra vulcanica, a traverso le foreste infestate dai cinghiali e dagli sciacalli, in mezzo alle capanne d’un popolo selvaggio e malnoto, di cui ci par di vedere le ombre bizzarre affollate sull’alta riva, che c’imprechino un viaggio malavventurato sulle fera litora Ponti. Due punti luminosi rompono per l’ultima volta l’oscurità, come gli occhi ardenti di due ciclopi, messi a guardia dello stretto fatato: l’Anaduli-Fanar, il fanale dell’Asia, a destra; e il Rumili-Fanar a sinistra, ai piedi del quale le Simplegadi favolose ci mostrano ancora vagamente, nell’ombra della riva, i profili tormentati delle loro rocce. Poi i due lidi dell’Europa e dell’Asia non son più che due strisce nere, e poi quocumque adspicias, nihil est nisi pontus et aer, come cantava il povero Ovidio. Ma la vedo ancora, la mia Costantinopoli, dietro a quelle due rive nere scomparse; la vedo più grande e più luminosa ch’io non l’abbia mai veduta dal ponte della Sultana Validé e dalle alture di Scutari; e le parlo e la saluto e l’adoro come l’ultima e la più cara visione della mia giovinezza che tramonta. Ma uno spruzzo improvviso d’acqua salsa m’innaffia il volto e mi butta in terra il cappello; – mi sveglio; – mi guardo intorno; – la prora è deserta, il cielo è nebbioso, un vento rigido d’autunno mi agghiaccia le ossa, il mio buon Yunk, preso dal mal di mare, m’ha lasciato; non sento più che il tintinnio delle lanterne e lo scricchiolio del bastimento che fugge, sballottato dalle onde, nell’oscurità della notte…. Il mio bel sogno orientale è finito.