16- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: Gli ultimi giorni

16- Gli ultimi giorni

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

A questo punto mi trovo spezzata la catena delle reminiscenze minute e lucide, che permettono le lunghe descrizioni; e non ricordo più che una serie di corse affannose da una riva all’altra del Corno d’oro e dall’Europa all’Asia, dopo le quali, la sera, mi vedevo passare davanti rapidissimamente, come in sogno, città luminose, folle immense, boschi, flotte, colline, e il pensiero della partenza vicina dava a ogni cosa un leggiero colore di tristezza, come se già quelle visioni non fossero più che ricordi d’un paese lontano.

Le moschee

Eppure alcune immagini rimangono immobili in mezzo alla fuga di persone e di cose, a cui mi sembra d’assistere quando penso a quei giorni.
Ricordo la bella mattinata in cui visitai la maggior parte delle moschee imperiali, e pensandoci, mi pare ancora che si faccia intorno a me un immenso vuoto e un silenzio solenne. L’immagine di Santa Sofia non scema affatto la meraviglia che si prova al primo entrare in mezzo a quelle mura titaniche. Anche là, come altrove, la religione dei vincitori s’è appropriata l’arte della religione dei vinti. Quasi tutte le moschee sono imitate dalla Basilica di Giustiniano; hanno la grande cupola, le mezze cupole sottoposte, i cortili, i portici; qualcheduna, la forma della croce greca. Ma l’islamismo ha sparso su ogni cosa il colore e la luce propria, in modo che il complesso di quelle forme note presenta l’apparenza d’un edifizio nuovo, in cui s’intravvedono gli orizzonti d’un mondo sconosciuto e si sente l’aura d’un altro Dio. Sono navate enormi, d’una semplicità austera e grandiosa, bianche in ogni parte, e rischiarate da finestre innumerevoli, che mettono per tutto una luce dolce ed uguale, in cui l’occhio vede ogni cosa, da un’estremità all’altra, e riposa, insieme col pensiero, quasi addormentato in una quiete soave e diffusa, che somiglia a quella d’una valle nevosa, coperta da un cielo bianco. Non si crederebbe d’essere in un luogo chiuso se non si sentisse l’eco sonora del proprio passo. Non v’è nulla che distragga la mente: il pensiero va dritto, a traverso quel vuoto e quella chiarezza, all’oggetto dell’adorazione. Non v’è argomento né di malinconie né di terrori; non vi sono né illusioni, né misteri, né angoli oscuri, in cui brillino vagamente le immagini d’una gerarchia complicata d’esseri sovrumani, che confondono la mente; non v’è che l’idea chiara, netta, abbagliante, formidabile d’un Dio solitario, che predilige la nudità severa dei deserti inondati di luce, e non ammette altro simulacro di sé stesso che il cielo. Tutte le moschee imperiali di Costantinopoli presentano questo medesimo aspetto di grandezza che solleva la mente, e di semplicità che la fissa in un solo pensiero, e differiscono così poco nei particolari, che è difficile il ricordarle a una, a una. La moschea d’Ahmed, enorme, e pure graziosa e leggera, all’esterno, come un edifizio aereo, appoggia la sua cupola sopra quattro smisurati pilastri rotondi di marmo bianco, nel cui seno si potrebbero aprire quattro piccole moschee, ed è la sola di Stambul che abbia la corona gloriosa di sei minareti. La moschea di Solimano, che è, più che un tempio, una città sacra, nella quale lo straniero si smarrisce, è formata da tre navate, e la sua cupola, più alta di quella di Santa Sofia, riposa sopra quattro colonne meravigliose di granito roseo, che fanno pensare ai fusti dei famosi alberi giganteschi della California. La moschea di Maometto è una Santa Sofia bianca ed allegra; quella di Baiazet gode la primazia dell’eleganza delle forme; quella di Osmano è tutta di marmo; quella di Scià-Zadé ha i due più graziosi minareti di Stambul; quella di Ak-Serai è il più gentile modello del rinascimento dell’arte turca; quella di Selim è la più grave, quella di Mahmud la più capricciosa, quella della Sultana Validè la più ornata. Ognuna ha qualche bellezza sua propria o una leggenda o un privilegio. Sultan- Ahmed custodisce lo stendardo del Profeta, Sultan-Baizit è coronata di colombi, Solimaniè vanta le iscrizioni di Karà-hissari, Validè Sultan ha la falsa colonna d’oro che costò la vita al conquistatore della Canea; Sultan-Mehemet vede «undici moschee imperiali chinar la testa intorno a lei, come davanti al manipolo di Giuseppe s’inchinavano i manipoli dei fratelli». In una s’innalzano le colonne del palazzo imperiale e dell’Augusteon di Giustiniano, che portarono le statue di Venere, di Teodora e d’Eudossia; in altre si ritrovano i marmi delle chiese antiche di Calcedonia, colonne delle rovine di Troia, pilastri di templi d’Egitto, vetri preziosi rapiti alle regge persiane, materiali di circhi, di fori, di acquedotti, di basiliche: tutto confuso e svanito nell’immensa bianchezza della religione vincitrice. Dentro differiscono anche meno che nella forma esterna. In fondo v’è un pulpito di marmo; in faccia, la loggia del Sultano chiusa da una grata dorata; accanto al Mihrab, due candelabri enormi che sorreggono torce alte come fusti di palme; e per tutta la navata, lampade innumerevoli formate di grandi globi di vetro, e disposte in una maniera bizzarra, che par più propria a una grande festa di ballo che a una solennità religiosa. Le grandi iscrizioni sacre che girano intorno ai pilastri, alle porte, alle finestre delle cupole, qualche finto fregio dipinto a imitazione del marmo, e i vetri disegnati e coloriti a fiorami, sono i soli ornamenti che risaltino nella nudità bianca di quelle mura monumentali. Tesori di marmo sono profusi nei pavimenti dei vestiboli, nei portici che circondano i cortili, nelle fontane per le abluzioni, nei minareti; ma non alterano il carattere graziosamente sobrio ed austero dell’edifizio, tutto bianco, circondato di verde e coronato di cupole, scintillanti sull’azzurro del cielo. E la moschea non occupa che la parte minore del recinto, il quale abbraccia un labirinto di cortili e di case. E qui ci sono auditori per la lettura del Corano e luoghi di deposito per i tesori dei privati, biblioteche e accademie, scuole di medicina e scuole pei bambini, quartieri per gli studenti e cucine per i poveri, manicomi, infermerie, ricoveri per i viaggiatori, sale da bagno: una piccola città ospitale e benefica, affollata intorno alla mole altissima del tempio, come ai piedi d’una montagna, e ombreggiata da alberi giganteschi. Ma tutte queste immagini si sono oscurate nella mia mente; e non vedo più, in questo punto, che la piccola macchietta nera della mia persona, quasi smarrita, come un atomo, nelle enormi navate, in mezzo a lunghe file di piccolissimi turchi prostrati che pregano; e vo innanzi abbagliato da quella bianchezza, stupito da quella luce strana, sbalordito da quella immensità, strascicando le mie babbucce sdrucite e il mio orgoglio schiacciato di descrittore; e mi par che una moschea si confonda coll’altra, e che mi si stenda d’intorno, in tutte le direzioni, una successione interminabile di pilastri e di volte, e una folla bianca infinita, nella quale il mio sguardo si perde.

Le cisterne

Le reminiscenze d’un altro giorno son tutte oscure e piene di misteri e di fantasmi.
Entro nel cortile d’una casa musulmana, discendo, al lume di una fiaccola, sino all’ultimo gradino di una scala tetra e umida, e mi trovo sotto le volte di Kere-batan Serai, la grande cisterna basilica di Costantino, della quale il volgo di Stambul dice che non si conoscono i confini. Le acque verdastre si perdono sotto le volte nere, rischiarate qua e là da un barlume di luce livida che accresce l’orrore delle tenebre. La fiaccola colora di fuoco gli archi vicini alla porta, fa luccicare i muri sgocciolanti, e rivela confusamente file sterminate di colonne che intercettano lo sguardo da tutte le parti, come i tronchi degli alberi in una fittissima foresta allagata. La fantasia, attratta dalla voluttà del terrore, si slancia per quelle fughe di portici sepolcrali, sorvolando le acque sinistre, e si smarrisce in infiniti giri vertiginosi in mezzo alle colonne innumerevoli, mentre la voce sommessa d’un dracomanno racconta le storie paurose di chi s’avventurò sopra una barca in quel sotterraneo per scoprirne i confini, e tornò indietro molte ore dopo, remando disperatamente, col volto trasfigurato e coi capelli irti, mentre le volte lontane echeggiavano di risate fragorose e di fischi acuti; e d’altri che non tornarono più, che finirono chi sa come, forse impazziti dal terrore, forse morti di fame, forse trascinati da una corrente misteriosa in un abisso sconosciuto, molto lontano da Stambul, Dio solo sa dove. Questa visione lugubre sparisce improvvisamente nella grande luce della piazza dell’At-meidan, e pochi minuti dopo mi trovo daccapo sottoterra, fra le duecento colonne della cisterna asciutta Bin-birdirek, dove cento operai greci filano la seta, cantando con voci acute una canzone guerriera, rischiarati da un raggio di luce pallida che si rompe negl’incrociamenti delle arcate; e sento sopra il mio capo lo strepito confuso d’una carovana che passa. Poi daccapo l’aria aperta e la luce del sole, e poi di nuovo l’oscurità, sotto altre arcate secolari, in mezzo ad altre file di colonne, in una quiete di sepolcro, turbata da un suono fioco di voci lontane; e così fino a sera, un pellegrinaggio misterioso e pensieroso, dopo il quale mi rimane per molto tempo dinanzi agli occhi l’immagine di un vasto lago sotterraneo, in cui sia sprofondata la metropoli dell’impero greco, e in cui Stambul, ridente ed incauta debba un giorno alla sua volta sparire.

Scutari

Tutta questa oscurità svanisce dinanzi all’immagine splendida di Scutari. Andando a Scutari, sopra un piroscafo affollato, discutevamo sempre, il mio amico ed io, se il primato della bellezza appartenesse a quella riva o alle due rive del Corno d’oro. Yunk preferiva Scutari; io, Stambul. Ma Scutari m’innamorava coi suoi improvvisi cangiamenti d’aspetto, coi quali pare che voglia pigliarsi gioco di chi le s’avvicina dal mare. Guardata dal Mar di Marmara, non pare che un grande villaggio disteso sopra una collina. Guardata dal Corno d’oro, presenta già l’aspetto d’una città. Ma quando il piroscafo, girando intorno alla punta più avanzata della riva asiatica, va dritto verso il suo porto, allora la cittadina s’allarga e s’innalza; le colline coperte d’edifizi saltano fuori l’una di dietro all’altra; i sobborghi sbucano dalle valli, le villette si sparpagliano sulle alture; la riva, tutta variopinta di casette, si svolge a perdita d’occhi; una città enorme, pomposa, teatrale, che non si comprende dove potesse stare nascosta, si scopre allo sguardo in pochi momenti come all’alzarsi d’un telone immenso, e fa rimaner là stupefatti come aspettando che torni a sparire. Si scende sopra uno scalo di legno, fra un visibilio di barcaioli, di noleggiatori di cavalli e di dracomanni, e si va su per la via principale che sale dolcemente, serpeggiando, in mezzo a casette rosse e gialle, vestite d’edera e di pampini, fra muri di giardini riboccanti di verzura, sotto alti pergolati, all’ombra di grandi platani che chiudono quasi il passaggio; si passa dinanzi a caffè turchi, ingombri di fannulloni asiatici, che fumano, sdraiati, cogli occhi fissi non si sa dove; s’incontrano branchi di capre, carri pesanti di campagna, tirati da bufali colla testa infiorata, contadini in fez e in turbante, convogli funebri musulmani, e brigatelle di hanum villeggianti, che portano mazzi di fiori e ramoscelli. Par di vedere un’altra Stambul, meno maestosa, ma più gaia e più fresca di quella delle sette colline. È come una grande città villereccia. La campagna l’invade da tutte le parti. Le stradicciole, fiancheggiate da casine da presepio, scendono e salgono per valli e per colline, e si perdono nel verde dei giardini e degli orti. Nelle parti alte della città regna la pace profonda della campagna; nelle parti basse brulica la vita affaccendata delle città di mare; dalle grandi caserme che sorgono qua e là, esce un frastuono confuso di grida, di canti e di tamburi, e migliaia d’uccelletti saltellano, per le viuzze solitarie. Seguitando un convoglio mortuario, usciamo dalla città, ci addentriamo nel cimitero famoso, ci smarriamo in una grande foresta di cipressi altissimi, che si stende da una parte verso il Mar di Marmara e dall’altra verso il Corno d’oro, sopra un vasto terreno montuoso. Le pietre sepolcrali biancheggiano tutt’intorno fin dove arriva lo sguardo, a mucchi, a file sterminate, in mezzo ai cespugli e ai fiori selvatici, in una rete infinita di sentieri, fra i tronchi fittissimi, che lasciano appena vedere l’orizzonte come una lontana striscia luminosa e ondeggiante. Andiamo innanzi, a caso, in mezzo ai cippi dipinti e dorati, ritti e rovesci, fra le cancellate dei sepolcri di famiglia, fra i piccoli mausolei dei pascià, fra le colonnette rozze del volgo, vedendo qua e là mazzi di fiori appassiti e cocuzzoli di crani che spuntano fra la terra smossa, udendo grugare da ogni parte i colombi nascosti nei cipressi; e via via, pare che la foresta si allarghi, che le pietre pullulino, che i sentieri si moltiplichino, che la striscia luminosa dell’orizzonte si allontani, che il regno della morte s’avanzi a passo a passo con noi; e cominciamo a domandarci come n’usciremo, quando sbocchiamo inaspettatamente in un larghissimo viale, che ci conduce nella vasta pianura aperta d’Haidar pascià, dove si raccoglievano gli eserciti musulmani per muovere alle guerre dell’Asia, e di là abbracciamo con uno sguardo il Mar di Marmara, Stambul, l’imboccatura del Corno d’oro, Galata e Pera, tutto velato leggermente dai vapori della mattina e tinto di colori di paradiso, che ci fanno risentire un fremito della meraviglia e della gioia dell’arrivo.

Palazzo di Ceragan

Un’altra mattina ci troviamo in un carrozzone del tramway, in mezzo a due colossali eunuchi neri, incaricati da un aiutante di campo d’Abdul-Aziz di condurci a visitare il palazzo imperiale di Ceragan, posto sulla riva del Bosforo ai piedi del sobborgo di Bescic- Tass. Mi ricordo del sentimento indefinibile, misto di curiosità e di ribrezzo, che provavo guardando colla coda dell’occhio l’eunuco che m’era accanto, il quale mi sorpassava di quasi tutta la testa, e teneva stesa sul ginocchio una mano smisurata; e ogni volta che mi voltavo, sentivo un profumo leggiero di essenza di bergamotto che usciva dai suoi panni lucidi e corretti di cortigiano. Quando il carrozzone si fermò, misi la mano in tasca per prendere il portamonete; ma la mano smisurata dell’eunuco m’afferrò il braccio come una tanaglia di ferro, e i suoi grandi occhi di negro si fissarono nei miei, come per dire: – Cristiano, non mi far questo affronto o ti slogo le ossa. – Si discese dinanzi a una piccola porta arabescata, si percorse un lunghissimo corridoio, dove ci venne incontro un drappello di servitori in livrea, e infilate le babbucce, si salì per una larga scala, che metteva alle sale della reggia. Qui non ci fu bisogno d’evocare i ricordi storici per procurarsi un’illusione di vita. L’aria era ancora calda dell’alito della Corte. I larghissimi divani coperti di velluto e di raso, che si stendevano lungo le pareti, erano proprio quelli su cui, poche settimane prima, si erano sedute le odalische del Gran Signore. Un vago profumo di vita molle e fastosa riempiva ancora l’aria. Si passò per un lungo giro di sale, decorate con uno stile misto di europeo e di moresco, nitidissime e belle d’una certa semplicità superba, che ci faceva abbassare la voce; mentre gli eunuchi, borbottando spiegazioni incomprensibili, ci indicavano ora un angolo, ora una porta, con un gesto circospetto, come se accennassero a un mistero. Le cortine di seta, i tappeti di mille colori, le tavole di musaico, i bei quadri a olio messi a controlume, i begli archi a stalattiti delle porte tramezzate da colonnine arabe, gli altissimi candelabri simili ad alberi di cristallo che tintinnavano rumorosamente al nostro passaggio, si succedevano e si confondevano, appena visti, nella nostra fantasia, tutta intesa a inseguire immagini fuggenti di cadine sorprese. Non mi è rimasta dinanzi agli occhi che la sala da bagno del Sultano, tutta di marmo bianchissimo, scolpito a stalattiti, a fiori penzoli, a frangio e a ricami aerei, d’una delicatezza, da far temere che si stacchino a toccarli colla punta delle dita. La disposizione delle sale mi ricordava vagamente l’Alhambra. Camminavamo in fretta sui tappeti spessissimi, senza far rumore, quasi furtivamente. Di tanto in tanto un eunuco tirava un cordone, una tenda verde s’alzava, e vedevamo, per un’ampia finestra, il Bosforo, l’Asia, mille navi, una gran luce; poi tutto spariva ad un tratto lasciandoci come abbarbagliati da un lampo. Da una finestra vedemmo di sfuggita un piccolo giardino, chiuso da alti muri, lindo, compassato, monacale, che ci rivelò in un momento mille segrete malinconie di belle donne assetate d’amore e di libertà, e disparve improvvisamente dietro la tenda. E le sale non finivano mai, e alla vista d’ogni nuova porta, affrettavamo il passo per affacciarci inaspettati alla nuova sala; ma non si vedeva più nemmeno lo strascico d’una veste, le odalische erano scomparse, un silenzio profondo regnava in ogni parte, il fruscìo che ci faceva voltare indietro curiosamente non era che il fruscìo delle tende pesanti di broccato che ricadevano sulla soglia della porta; e il tintinnìo dei candelabri di cristallo c’indispettiva come se fosse la risata argentina di qualche bella nascosta, che ci schernisse. E infine ci venne in uggia quell’andare e venire senza fine per quella reggia muta, fra quelle ricchezze morte, vedendo riflesse a ogni passo, dai grandi specchi, quelle facce nere d’eunuchi, quel drappello sinistro di servitori pensierosi, e i nostri due visi attoniti di vagabondi; e uscimmo quasi correndo, e provammo un gran piacere nel ritrovarci all’aria libera, fra le case miserabili, in mezzo alla popolaglia cenciosa e vociferante del quartiere di Top-hanè.

Eyub

E la necropoli d’Eyub come dimenticarla? Ci andammo una sera al tramonto, e m’è sempre rimasta nella memoria, così come la vidi, illuminata dagli ultimi raggi del sole. Un caicco leggerissimo ci condusse fino in fondo al Corno d’oro, e salimmo alla «terra santa» degli Osmani per un sentiero ripido, fiancheggiato di sepolcri. In quell’ora gli scalpellini che lavorano il giorno intorno ai cippi, e fanno echeggiare la vasta necropoli dei loro colpi sonori, erano già partiti; il luogo era deserto. Andammo innanzi, circospetti, guardando intorno se apparisse il volto severo d’un iman o d’un dervis, poiché là, meno che in ogni altro luogo sacro, è tollerata la curiosità profana di un giaurro; ma non vedemmo né cappelli conici né turbanti. Arrivammo, con qualche trepidazione, sino a quella misteriosa moschea d’Eyub, della quale avevamo visto mille volte dalle colline dell’altra riva e da tutti i seni del Corno d’oro le cupolone scintillanti e i minareti leggieri. Nel cortile, all’ombra d’un grande platano, s’innalza in forma di chiosco, perpetuamente rischiarato da una corona di lampade, il mausoleo che racchiude il corpo del portastendardo famoso del Profeta, morto coi primi musulmani sotto Bisanzio, e ritrovato otto secoli dopo, sepolto su quella riva, da Maometto il conquistatore. Maometto gli consacrò quella moschea, nella quale vanno i Padiscià a cingere solennemente la spada d’Otmano; poiché è quella la moschea più santa di Costantinopoli, come il cimitero che la circonda è il più sacro dei cimiteri. Intorno alla moschea, all’ombra di grandi alberi, s’innalzano turbè di Sultane, di visir, di grandi della Corte, circondati di fiori, splendidi di marmi e di rabeschi d’oro, e decorati d’iscrizioni pompose. In disparte v’è il tempietto mortuario dei muftì coperto da una cupola ottagona, nel quale riposano i grandi sacerdoti chiusi in enormi catafalchi neri, sormontati da altissimi turbanti di mussolina. È una città di tombe, tutta bianca e ombrosa, e regalmente gentile, che insieme alla tristezza religiosa ispira non so che sentimento di soggezione mondana, come un quartiere aristocratico, muto d’un silenzio superbo. Si passa in mezzo a muri bianchi e a cancellate delicatissime da cui scende a ghirlande e a ciocche la verzura dei giardini funebri, e sporgono i rami delle acacie, delle querce e dei mirti, e per le trine di ferro dorato che chiudono le finestre arcate dei turbe, si vedono dentro, in una luce soave, i mausolei marmorei, tinti dei riflessi verdi degli alberi. In nessun altro luogo di Stambul si spiega così graziosamente l’arte musulmana di illeggiadrire l’immagine della morte e di farvi fissare il pensiero senza terrore. È una necropoli, una reggia, un giardino, un panteon, pieno di malinconia e di grazia, che chiama insieme sulle labbra la preghiera e il sorriso. E da tutte le parti gli si stendono intorno i cimiteri, ombreggiati da cipressi secolari, attraversati da viali serpeggianti, bianchi di miriadi di cippi che par che si precipitino giù per le chine per andarsi a tuffare nelle acque o che si affollino lungo i sentieri per veder passare delle larve. E da mille recessi oscuri, allargando i rami dei cespugli, si vede a destra, confusamente, Stambul lontana, che presenta l’aspetto d’una fuga di città azzurrine, staccate l’una dall’altra; sotto, il Corno d’oro, su cui lampeggia l’ultimo raggio del sole; in faccia, i sobborghi di Sudlugé, di Halidgi-Ogli, di Piri-Pascià, di Hass-kioi, e più lontano il grande quartiere di Kassim e il profilo vago di Galata, perduti in una dolcezza infinita di tinte tremole e morenti, che non paion cosa di questa terra.

Il museo dei Giannizzeri

Tutto questo svanisce, e mi trovo a passeggiare per lunghissimi cameroni nudi, in mezzo a due schiere immobili di figure sinistre, che paiono cadaveri inchiodati alle pareti. Non ricordo d’aver mai provato un senso così vivo di ribrezzo fuorché a Londra, nell’ultima sala del museo Tussaud, dove s’intravvedono nell’oscurità i più orrendi assassini d’Inghilterra. È come un museo di spettri, o piuttosto un sepolcro aperto, in cui si trovano, mummificati, i più famosi personaggi di quella vecchia Turchia splendida, stravagante e feroce, che non esiste più se non nella memoria dei vecchi e nella fantasia dei poeti. Sono centinaia di grandi figure di legno, colorite, vestite dei vecchi costumi, ritte, in atteggiamenti rigidi e superbi, coi visi alti, cogli occhi spalancati, colle mani sull’else, che par che aspettino un cenno per snudare le lame e far sangue, come al buon tempo antico. Prima viene la casa del Padiscià: il grand’eunuco, il gran visir, il muftì, ciambellani e grandi ufficiali, col capo coperto di turbanti d’ogni colore, piramidali, sferici, quadrati, spropositati, prodigiosi, con caffettani di broccato di colori smaglianti, coperti di ricami, con tuniche di seta vermiglia e di seta bianca, strette alla vita da sciarpe di casimir, con vesti dorate, coi petti coperti di lastre d’oro e d’argento, con armi principesche: due lunghe file di spauracchi bizzarri e splendidi, che rivelano in modo ammirabile la natura dell’antica corte ottomana, spudoratamente fastosa e barbaricamente superba. Seguono i paggi che portano le pellicce del Padiscià, il turbante, lo sgabello, la spada. Poi le guardie delle porte e dei giardini, le guardie del Sultano, gli eunuchi bianchi e gli eunuchi neri, con visi di magi e d’idoli, scintillanti, impennacchiati, colle teste coperte di cappelli persiani e di caschi metallici, di berrette purpuree, di turbanti strani, della forma di mezzelune, di coni, di piramidi rovesce; armati di verghe d’acciaio, di pugnalacci e di fruste come un branco d’assassini e di carnefici; e l’uno guarda in aria di disprezzo, un altro digrigna i denti, un terzo caccia fuor dell’orbita due occhi assetati di sangue, un quarto sorride con un’espressione di sarcasmo satanico. E in fine, il corpo dei giannizzeri, col suo santo patrono, Emin babà, scheletrito, vestito d’una tunica bianca, e ufficiali di tutti i gradi simboleggiati dai vari uffici della cucina, e soldati di ogni classe con tutti gli emblemi e tutte le divise di quell’esercito insolente sterminato dalla mitraglia di Mahmud. E qui la bizzarria grottesca e puerile dei vestiari, mista al terrore delle memorie, produce l’impressione d’una pagliacciata feroce. La più sbrigliata fantasia di pittore non riuscirebbe mai a formare una così pazza confusione di vestimenti da re, da sacerdoti, da briganti, da giullari. I «portatori d’acqua», i «preparatori della minestra», i «cuochi superiori», i «capi dei guatteri», i soldati incaricati di servizi speciali, si succedono in lunghe file, colle scope e coi cucchiai nei turbanti, cui sonagli appesi alle tuniche, cogli otri, colle marmitte famose che davano il segnale delle rivolte, coi grandi berretti di pelo, colle larghe stoffe cadenti, come mantelli di negromanti, dalla nuca sui lombi, colle larghe cinture di dischi di metallo cesellato, colle sciabole gigantesche, cogli occhi di granchio, coi busti enormi, coi volti contratti in atteggiamenti di beffa, di minaccia e d’insulto. Ultimi vengono i muti del Serraglio, col cordone di seta alla mano, e i nani e i buffoni, con visi ributtanti di cretini inviperiti, e corone burlesche sul capo. Le grandi vetrine in cui è chiusa tutta questa gente, danno al luogo una cert’aria di museo anatomico, che rende più verosimile l’apparenza cadaverica dei simulacri e fa qualche volta torcere il viso con orrore. Arrivati in fondo, sembra d’esser passati per una sala dell’antico serraglio, in mezzo a tutta la Corte, agghiacciata di terrore da un grido minaccioso del Padiscià; ed uscendo e incontrando sulla piazza dell’Atmeidan i pascià in abito nero e i nizam vestiti modestamente alla zuava, oh come par mite ed amabile la Turchia dei nostri giorni!
E anche di là ritorno irresistibilmente fra le tombe, in mezzo agli innumerevoli turbé imperiali sparsi per la città turca, che rimarranno sempre nella mia memoria come una delle più gentili manifestazioni dell’arte e della filosofia musulmana. Un firmano ci fece aprire, per il primo, il turbè di Mahmud il riformatore, posto poco lontano dall’Atmeidan, in un giardino pieno di rose e di gelsomini. È un bel tempietto esagono, di marmo bianco, coperto di una cupola rivestita di piombo, sostenuto da pilastri ionici e rischiarato da sette finestre chiuse da inferriate dorate, alcune delle quali guardano in una delle vie principali di Stambul. Le pareti interne sono ornate di bassorilievi e decorate di tappeti di seta e di broccato. Nel mezzo sorge il sarcofago coperto di bellissimi scialli persiani; e v’è sopra il fez, emblema della riforma, col pennacchietto scintillante di diamanti, e intorno una graziosa balaustrata, intarsiata di madreperla, che racchiude quattro grandi candelabri d’argento. Lungo le pareti ci sono i sarcofagi di sette sultane. Il pavimento è coperto di stuoie finissime e di tappeti variopinti. Qua e là, sopra ricchi leggii, brillano dei corani preziosi, scritti in caratteri d’oro. In una cassetta d’argento v’è un lungo pezzo di mussolina, arrotolato, tutto coperto di minutissimi caratteri arabi, tracciati dalla mano di Mahmud. Prima di salire al trono, quando viveva prigioniero nell’antico serraglio, egli trascrisse pazientemente su quel pezzo di stoffa una gran parte del Corano, e morendo, ordinò che quel suo ricordo giovanile fosse posto sulla sua tomba. Dall’interno del turbé si vede a traverso le inferriate dorate il verde del giardino e si sente l’odore delle rose; una luce viva rischiara tutto il tempietto; tutti i rumori della città vi risuonano come sotto un portico aperto; le donne e i fanciulli, dalla strada, s’affacciano alle finestre e bisbigliano una preghiera. V’è in tutto questo un che di primitivo e di dolce, che tocca il cuore. Pare che non il cadavere, ma l’anima del Sultano sia chiusa fra quelle pareti, e che veda e senta ancora il suo popolo, che passa e lo saluta. Morendo, egli non ha fatto che cambiare di chiosco; dai chioschi del Serraglio è venuto in quest’altro, non meno ridente, ed è sempre alla luce del sole, in mezzo allo strepito della vita di Stambul, tra i suoi figli, anzi più vicino ad essi, sull’orlo della via, sotto gli occhi di tutti, e mostra ancora al popolo il suo pennacchietto scintillante come quando andava alla moschea, pieno di vita e di gloria, a pregare per la prosperità dell’Impero. E così son quasi tutti gli altri turbé, quello d’Ahmed, quello di Bajazet, che appoggia la testa sopra un mattone composto colla polvere raccolta dai suoi abiti e dalle sue babbucce; quello di Solimano, quello di Mustafà e di Selim III, quello d’Abdul-Hamid, quello della sultana Rosellana. Son tempietti sostenuti da pilastri di marmo bianco e di porfido, luccicanti d’ambra e di madreperla; in alcuni dei quali scende l’acqua piovana, per un’apertura della cupola, a bagnare i fiori e le erbe intorno ai sarcofagi, coperti di velluti e di trine; e dalle volte pendono uova di struzzo e lampade dorate che rischiarano le tombe dei principi, disposte a corona intorno al sepolcro paterno, con su i fazzoletti che servirono a strozzarli bambini o giovinetti; forse per indurre nei fedeli, colla pietà delle vittime, il sentimento della necessità fatale di quei delitti. E ricordo, che a furia di vedere immagini di quelle morti, cominciavo a sentire in me come un principio di asservimento del pensiero e del cuore alla iniqua ragione di Stato che le sanciva; come a furia di trovare a ogni passo, nelle moschee, nelle fontane, nei turbé, in mille immagini, ricordato e glorificato il nome d’un uomo, una potenza assoluta e suprema, qualche cosa, dentro di me, cominciava a sottomettersi; come a furia di errare all’ombra dei cimiteri e di fissare il pensiero nei sepolcri, cominciavo a considerare sotto un nuovo aspetto, quasi sereno, la morte; a provare un sentimento più queto e più noncurante della vita; a abbandonarmi a non so che filosofia odiosa, a un vagare indefinito del pensiero, a uno stato nuovo dell’animo, in cui mi pareva che il meglio fosse passare il tempo placidamente sognando e lasciare che quello che è scritto si compia. E provavo un sentimento improvvido di uggia e d’avversione quando in mezzo a quelle fantasie serene e quiete, mi s’affacciava l’immagine delle nostre città affaticate, delle nostre chiese oscure, dei nostri cimiteri murati e deserti.

I dervis

E anche i dervis mi passano dinanzi, fra le immagini di quegli ultimi giorni; e sono i dervis Mevlevi (il più famoso dei trentadue ordini) che hanno un notissimo tekké in via di Pera. Ci andai preparato a vedere dei volti luminosi di santi, rapiti da allucinazioni paradisiache. Ma ci ebbi una gran delusione. Ahimè! anche nei dervis la fiamma della fede «lambe l’arido stame». La famosa danza divina non mi parve che una fredda rappresentazione teatrale. Sono curiosi a vedersi, senza dubbio, quando entrano nella moschea circolare, l’un dietro l’altro, ravvolti in un grande mantello bruno, col capo basso, colle braccia nascoste, accompagnati da una musica barbara, monotona e dolcissima, che somiglia al gemito del vento fra i cipressi del cimitero di Scutari, e fa sognare a occhi aperti; e quando girano intorno, e s’inchinano a due a due dinanzi al Mirab, con un movimento maestoso e languido che fa nascere un dubbio improvviso sul loro sesso. Così è pure una bella scena quando buttano in terra il mantello con un gesto vivace, e appariscono tutti vestiti di bianco, colla lunga gonnella di lana, e allargando le braccia in atto amoroso e rovesciando la testa, si abbandonano l’un dopo l’altro ai giri, come se fossero slanciati da una mano invisibile; e quando girano tutti insieme nel mezzo della moschea, equidistanti fra loro, senza scostarsi d’un filo dal proprio posto, come automi sur un perno, bianchi, leggeri, rapidissimi, colla gonnella gonfia e ondeggiante, e cogli occhi socchiusi; e quando si precipitano tutti insieme, come atterrati da una apparizione sovrumana, soffocando contro il pavimento il grido tonante di Allah; e quando ricominciano a inchinarsi e a baciarsi le mani e a girare intorno, rasente il muro, con un passo grazioso tra l’andatura e la danza. Ma le estasi, i rapimenti, i volti trasfigurati, che tanti viaggiatori videro e descrissero, io non li vidi. Non vidi che dei ballerini agilissimi e infaticabili che facevano il loro mestiere colla massima indifferenza. Vidi anzi delle risa represse; scopersi un giovane dervis che non pareva punto scontento d’esser guardato fisso da una signora inglese affacciata a una tribuna in faccia a lui; e ne colsi sul fatto parecchi che, nell’atto di baciar le mani ai compagni, tiravano a morderli di nascosto, e questi li respingevano a pizzicotti. Ah, gl’ipocriti! Quello che mi fece più senso fu il vedere in tutti quegli uomini, e ce n’eran d’ogni età e d’ogni aspetto, una grazia e un’eleganza di mosse e d’atteggiamenti, che potrebbero invidiare molti dei nostri ballerini da salotto; e che è certo un pregio naturale delle razze orientali, dovuto ad una particolare struttura del corpo. E lo notai anche meglio un altro giorno, in cui potei penetrare in una celletta del tekké, e veder da vicino un dervis che si preparava alla funzione. Era un giovane imberbe, alto e snello, di fisonomia femminea. Si stringeva ai fianchi la sottana bianca, guardandosi nello specchio; si voltava verso di noi e sorrideva; si tastava colle mani la vita sottile; si accomodava in fretta, ma con garbo, e con un occhio d’artista, tutte le parti del vestimento, come una signora che dia gli ultimi tocchi alla sua acconciatura; e visto di dietro, con quello strascico, presentava infatti il profilo di un bel fusto di ragazza vestita da ballo che domandasse un giudizio allo specchio…. Ed era un frate! Oh, strane cose in vero, come diceva Desdemona a Otello.

Ciamligià

Ma il più bello dei miei ultimi ricordi è sulla cima del monte Ciamligià, che s’alza alle spalle di Scutari. Di là diedi alla città il mio ultimo saluto, e fu l’ultima e la più splendida delle mie grandi visioni di Costantinopoli. Andammo a Scutari allo spuntare del giorno con un tempo nebbioso. La nebbia c’era ancora, quando s’arrivò sulla cima del monte; ma il cielo prometteva una giornata serena. Sotto di noi, tutto era nascosto. Era uno spettacolo singolarissimo. Una immensa tenda grigia orizzontale, che noi dominavamo tutta collo sguardo, copriva Scutari, il Bosforo, il Corno d’oro, tutta Costantinopoli. Non si vedeva assolutamente nulla. La grande città, con tutti i suoi sobborghi e tutti i suoi porti, pareva che fosse sparita. Era come un mare di nebbia da cui non usciva che la cima di Ciamligià, come un’isola. E noi guardavamo quel mare grigio, immaginando di essere due poveri pellegrini, venuti d’in fondo all’Asia Minore, e arrivati là, prima dell’alba, sopra quella gran nebbia, senza sapere che ci fosse sotto la grande metropoli dell’Impero ottomano, e provavamo un gran piacere a seguire colla fantasia il sentimento crescente di stupore e di meraviglia che quei pellegrini avrebbero provato vedendo apparire a poco a poco, al levarsi del sole, sotto quell’immenso velo grigio, la città meravigliosa e inaspettata. E infatti, di là a poco, il velo fittissimo si cominciò a rompere nello stesso tempo in vari punti. Si videro apparire qua e là, su quella vasta superficie grigia, come tanti principii di città, che parevano isolette; un arcipelago di cittadine nuotanti nella nebbia, e sparpagliate a grandi distanze: la cima di Scutari, le sette cime delle colline di Stambul, la sommità di Pera, i sobborghi più alti della riva europea del Bosforo, la cresta di Kassim Pascià, qualcosa di confuso dei più lontani sobborghi del Corno d’Oro, laggiù verso Eyub e Hass- Kioi; venti piccole Costantinopoli, rosate ed aree, irte di innumerevoli punte bianche, verdi e argentine. Poi ciascheduna prese a allargarsi, a allargarsi, come se s’innalzasse lentamente sopra quel mare vaporoso, e veniva su, a galla, da tutte le parti, migliaia di tetti, di cupole, di torri, di minareti, che pareva s’affollassero, o si schierassero in furia, per trovarsi al proprio posto prima di esser sorprese dal sole. Già si vedeva sotto tutta Scutari; in faccia, quasi tutta Stambul; sull’altra riva del Corno d’oro, la parte più alta di tutti i sobborghi che si stendono da Galata alle Acque dolci; e sulla riva europea del Bosforo, Top-hané, Funduclú, Dolma bagcè, Besci-tass, e via, a perdita d’occhi, città accanto a città, gradinate immense di edifizi, e città più lontane che non mostravano che la fronte, suffuse dall’aurora d’un soavissimo rossore di corallo. Ma il Corno d’oro, il Bosforo, il mare erano ancora nascosti. I pellegrini non ci avrebbero capito nulla. Avrebbero potuto immaginare che l’immensa città fosse fabbricata sopra due valli profonde, e perpetuamente nebbiose, di cui l’una entrasse nell’altra, e domandarsi che cosa si potesse nascondere in quei due abissi misteriosi. Ma ecco, in pochi momenti, il grigio delle ultime nebbie si chiarisce – azzurreggia – splende – è acqua – è una rada – uno stretto – un mare – due mari: tutta Costantinopoli è là, immersa in un oceano di luce, d’azzurro e di verde, che par creato da un’ora. Ah! in quel punto, s’ha un bell’avere già contemplato da mille altezze quella bellezza, s’ha un bell’averla scrutata in tutti i suoi particolari, e aver espresso in mille modi lo stupore e l’ammirazione; ma bisogna strepitare e gridare ancora; e pensando che fra pochi giorni tutto sparirà dai nostri occhi, per non esser più che un ricordo confuso, che quel velo di nebbia non si alzerà mai più, che è quello il momento di dare l’ultimo addio a ogni cosa… non so… sembra di dover partire per l’esilio e che l’orizzonte della nostra vita s’oscuri.
Eppure anche a Costantinopoli, negli ultimi giorni, ci colse la noia. La mente affaticata si rifiutava alle nuove impressioni. Passavamo sul ponte senza voltarci. Tutto ci pareva d’un colore. Giravamo senza scopo, sbadigliando, coll’aria di vagabondi sconclusionati. Passavamo ore ed ore dinanzi a un caffè turco, cogli occhi fissi sui ciottoli, o alla finestra dall’albergo a guardare i gatti che vagavano sui tetti delle case dirimpetto. Eravamo sazii d’Oriente; cominciavamo a sentire un bisogno prepotente di raccoglimento e di lavoro. Poi piovve per due giorni: Costantinopoli si convertì in un immenso pantano e diventò tutta grigia. E quello fu il colpo di grazia. Ci pigliò l’umor nero, dicevamo corna della città, eravamo diventati insolenti, sfrontati, pieni di pretese e di boria europea. Chi ce l’avesse detto il giorno dell’arrivo! E a che punto si giunse! Si giunse a far festa il giorno che s’uscì dall’ufficio del Lloyd austriaco con due biglietti d’imbarco per Varna e per il Danubio! Ma c’era un punto nero in quella festa, ed era il dispiacere di doverci separare dai nostri buoni amici di Pera, coi quali passammo tutte quelle ultime sere, affettuosamente. Com’è tristo questo dover sempre dire addio, e spezzar sempre dei legami, e lasciare un briciolo del proprio cuore da per tutto! Non c’è dunque proprio in nessuna parte del mondo una bacchetta fatata con cui io possa un giorno, a una data ora, far ricomparire tutti insieme intorno a una gran tavola imbandita tutti i miei buoni amici sparsi alle quattro plaghe dei venti: te da Costantinopoli, Santoro; te dalle rive dell’Affrica, Selam; te dalle dune dell’Olanda, Ten Brink; te, Segovia, dal Guadalguivir, e te, Saavedra, dal Tago, per gridarvi che vi avrò sempre nel cuore? Ahimè! la bacchetta non si trova, e intanto gli anni passano e le speranze volano via.


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

15- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: L’antico Serraglio

15- L’antico Serraglio

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

Come a Granata prima d’aver visto l’Alhambra, così a Costantinopoli pare che tutto rimanga da vedere fin che non si è penetrati fra le mura dell’antico Serraglio. Mille volte al giorno, da tutti i punti della città e del mare, si vede là quella collina verdissima, piena di segreti e di promesse, che attira sempre gli sguardi come una cosa nuova, che tormenta la fantasia come un enimma, che si caccia in mezzo a tutti i pensieri, a segno che si finisce per andarci prima del giorno fissato, più per liberarsi da un tormento che per cercarvi un piacere.

Non c’è infatti un altro angolo di terra in tutta Europa, di cui il solo nome risvegli nella mente una più strana confusione d’immagini belle o terribili; intorno al quale si sia tanto pensato e scritto e cercato d’indovinare; che abbia dato luogo a tante notizie vaghe e contradditorie; che sia ancora oggetto di tante curiosità inappagabili, di tanti pregiudizi insensati, di tanti racconti meravigliosi. Ora tutti ci penetrano e molti ne escono coll’animo freddo. Ma si può esser sicuri che, anche fra secoli, quando forse la dominazione ottomana non sarà più che una reminiscenza in Europa, e su quella bella collina s’incroceranno le vie popolose d’una città nuova, nessun viaggiatore vi passerà senza riveder col pensiero gli antichi chioschi imperiali, e senza pensare con invidia a noi del secolo diciannovesimo che abbiamo ancora ritrovato in quei luoghi le memorie vive e parlanti della grande reggia ottomana. Chi sa quanti archeologi cercheranno pazientemente le tracce d’una porta o d’un muro nei cortili dei nuovi edifizi e quanti poeti scriveranno dei versi sopra poche macerie sparse sulla riva del mare! O forse anche, fra molti secoli, quelle mura saranno ancora gelosamente custodite, e andranno a visitarle dotti, innamorati ed artisti, e la vita favolosa che vi fu vissuta per quattrocent’anni, si ridesterà e si spanderà in una miriade di volumi e di quadri su tutta la faccia della terra.

Non è la bellezza architettonica che attira su quelle mura la curiosità universale. Il Serraglio non è un grande monumento artistico come l’Alhambra. Il solo cortile dei leoni della reggia araba vale tutti i chioschi e tutte le torri della reggia turca. Il pregio del Serraglio è d’essere un grande monumento storico, che commenta ed illumina quasi tutta la vita della dinastia ottomana; che porta scritta sulle pietre dei suoi muri e sul tronco dei suoi alberi secolari tutta la cronaca più intima e più secreta dell’impero. Non vi manca che quella degli ultimi trent’anni e quella dei due secoli che precedettero la conquista di Costantinopoli. Da Maometto II che ne pose la fondamenta a Abdul-Megid che l’abbandonò per andare ad abitare il palazzo di Dolma-Bagcé, ci vissero venticinque Sultani. Qui la dinastia pose il piede appena conquistata la sua metropoli europea, qui salì all’apice della sua fortuna, qui cominciò la sua decadenza. Era insieme una reggia, una fortezza e un santuario; v’era il cervello dell’impero e il cuore dell’islamismo; era una città nella città, una rocca augusta e magnifica, abitata da un popolo e custodita da un esercito, la quale abbracciava fra le sue mura una varietà infinita d’edifizi, luoghi di delizie e luoghi d’orrore, città e campagna, regge, arsenali, scuole, uffici, moschee; dove si alternavano le feste e le stragi, le cerimonie religiose e gli amori, le solennità diplomatiche e le follie; dove i Sultani nascevano, erano innalzati al trono, deposti, incarcerati, strozzati; dove s’ordiva la trama di tutte le congiure ed echeggiava il grido di tutte le ribellioni; dove affluiva l’oro e il sangue più puro dell’impero; dove girava l’elsa della spada immensa che balenava sul capo di cento popoli; dove per quasi tre secoli tennero fisso lo sguardo l’Europa inquieta, l’Asia diffidente e l’Affrica impaurita, come a un vulcano fumante, che minacciasse la terra.

Questa reggia mostruosa è posta sulla collina più orientale di Stambul, che declina dolcemente verso il mar di Marmara, verso l’imboccatura del Bosforo e verso il Corno d’oro; nello spazio occupato anticamente dall’Acropoli di Bisanzio, da una parte della città e da un’ala dei grandi palazzi degl’imperatori. È la più bella collina di Costantinopoli e il promontorio più favorito dalla natura di tutta la riva europea. Vi convergono, come a un centro, due mari e due stretti; vi mettevano capo le grandi strade militari e commerciali dell’Europa orientale; gli acquedotti degl’imperatori bizantini vi conducevano torrenti d’acqua; le colline della Tracia lo riparano dai venti del settentrione; il mare lo bagna da tre parti; Galata lo prospetta dal lato del porto; Scutari lo guarda dalla parte del Bosforo; e le grandi montagne della Bitinia gli chiudono dinanzi colle loro cime nevose gli orizzonti dell’Asia. È un colle solitario, posto all’estremità della grande metropoli, quasi isolato, fortissimo e bellissimo, che sembra fatto dalla natura per servire di piedestallo a una grande monarchia e per proteggere la vita deliziosa ed arcana d’un principe quasi Dio.

Tutta la collina è circondata, ai piedi, da un alto muro merlato, fiancheggiato da grosse torri. Sulla riva del mar di Marmara e lungo il Corno d’oro, queste mura sono le mura stesse della città; dalla parte di terra, son mura innalzate da Maometto II, le quali separano la collina del Serraglio da quella su cui s’innalza la Moschea di Nuri-Osmaniè, svoltano ad angolo retto vicino alla Sublime Porta, passano dinanzi a Santa Sofia, e descrivendo una grande curva in avanti, vanno a congiungersi con quelle di Stambul sulla riva del mare. Questa è la cinta esterna del Serraglio. Il Serraglio propriamente detto si stende sulla sommità, circondato alla sua volta da alti muri, che formano come un ridotto centrale della gran fortezza della collina.

Ma sarebbe fatica sprecata il descrivere il Serraglio quale è ridotto al presente. La strada ferrata passa a traverso le mura esterne; un grande incendio, nel 1865, distrusse molti edifizi; i giardini sono in gran parte devastati; vi furono innalzati ospedali, caserme e scuole militari; degli edifizi rimasti parecchi vennero cangiati di forma e di uso; e benché i muri principali rimangano, in modo da presentare ancora tutta intera la forma del Serraglio antico, le piccole alterazioni son tante e tali, e l’abbandono in cui è lasciata ogni cosa da circa trent’anni ha mutato in maniera l’aspetto delle parti intatte, che non si potrebbe descrivere il luogo fedelmente senza che ne rimanesse delusa anche la più modesta aspettazione.

Val meglio per chi scrive e per chi legge il rivedere questo Serraglio famoso qual era nei bei tempi della grandezza ottomana.

Allora, chi poteva abbracciare tutta la collina con uno sguardo, o dai merli d’una delle torri più alte, o da un minareto della moschea di Santa Sofia, godeva una veduta meravigliosa. In mezzo all’azzurro vivo del mare, del Bosforo e del porto, dentro al grande semicerchio bianco delle vele della flotta, si vedeva la vasta macchia verde della collina, circondata di mura e di torri, coronate di cannoni e di sentinelle; e in mezzo a questa macchia, ch’era una selva d’alberi enormi, fra i quali biancheggiava un labirinto di sentieri e ridevano i colori di mille aiuole fiorite, si stendeva, sull’alto del colle, il vastissimo rettangolo degli edifizi del serraglio, diviso in tre grandi cortili, o meglio in tre piccole città fabbricate intorno a tre piazze ineguali, da cui s’innalzava una moltitudine confusa di tetti variopinti, di terrazze colme di fiori, di cupole dorate, di minareti bianchi, di cime aeree di chioschi, d’archi di porte monumentali, frammezzati di giardini e di boschetti, e mezzo nascosti dalle fronde. Era una piccola metropoli bianca, scintillante e disordinata, leggera come un accampamento di tende, da cui spirava non so che di voluttuoso, di pastorale e di guerriero; in una parte piena di gente e di vita; in un’altra solitaria e muta come una necropoli; dove tutta scoperta e dorata dal sole; dove inaccessibile ad ogni sguardo umano e immersa in un’ombra perpetua; rallegrata da infiniti zampilli, abbellita da mille contrasti di splendori e d’oscurità e di colori possenti e di sfumature di tinte argentee e azzurrine, riflesse dai marmi dei colonnati e dalle acque dei laghetti, e sorvolata da nuvoli di rondini e di colombi.

Tale era l’aspetto esterno della città imperiale, non vastissima all’occhio di chi la guardava dall’alto; ma così divisa e suddivisa e intricata dentro, che servitori, i quali ci vivevano da cinquant’anni, non riuscivano a racappezzarvisi, e i giannizzeri che l’invadevano per la terza volta ci si smarrivano ancora.

La porta principale era ed è sempre la Bab-Umaiùn, o porta augusta, che dà sulla piccola piazza dove s’innalza la fontana del Sultano Ahmed, dietro alla moschea di Santa Sofia. È una grande porta di marmo bianco e nero, decorata di ricchi arabeschi, sulla quale s’appoggia un alto edifizio, con otto finestre, coperto da un tetto sporgente; e appartiene a quel misto di stile arabo e persiano, da cui si riconoscono quasi tutti i monumenti innalzati dai Turchi nei primi anni dopo la conquista, prima che cominciassero ad imitare l’architettura bizantina. Sopra l’apertura, in una cartella di marmo, si legge ancora l’iscrizione di Maometto II: – Allah conservi in eterno la gloria del suo possessore – Allah consolidi il suo edifizio – Allah fortifichi le sue fondamenta. È la porta dinanzi alla quale veniva ogni mattina il popolo di Stambul a vedere di quali grandi dello Stato o della corte fosse caduta la testa nella notte. Le teste erano appese a un chiodo dentro a due nicchie che si vedono ancora, quasi intatte, a destra e a sinistra dell’entrata; oppure esposte in un bacino d’argento, accanto al quale era affissa l’accusa e la sentenza. Sulla piazza, davanti alla porta, si buttavano i cadaveri dei condannati al capestro; e là s’arrestavano, aspettando l’ordine d’entrare nel primo recinto del Serraglio, i distaccamenti degli eserciti lontani, venuti a portare i trofei delle vittorie; e ammucchiavano sulla soglia augusta armi, bandiere, teschi di capitani e splendide divise insanguinate. La porta era custodita da un grosso drappello di capigì, figli di bey e di pascià, vestiti pomposamente; i quali assistevano dall’alto delle mura e delle finestre alla processione continua della gente che entrava ed usciva, o tenevano indietro colle larghe scimitarre la folla muta dei curiosi, venuti là per veder di sfuggita, per uno spiraglio, un pezzo di cortile, un frammento della seconda porta, un barlume almeno di quella reggia enorme ed arcana, argomento di tanti desideri e di tanti terrori. Passando di là, il musulmano devoto mormorava una preghiera per il suo Sublime Signore; il giovinetto povero e ambizioso, sognava il giorno in cui avrebbe oltrepassato quella soglia per andar a ricevere la coda di cavallo; la fanciulla bella e cenciosa fantasticava, con una vaga speranza, la vita splendida della Cadina; i parenti delle vittime abbassavano il capo, fremendo; e in tutta la piazza regnava un silenzio severo, non turbato che tre volte al giorno dalla voce sonora dei muezzin di Santa Sofia.

Dalla porta Umaium s’entrava nel così detto cortile dei Giannizzeri, che era il primo recinto del Serraglio.

Questo gran cortile c’è ancora, circondato d’edifizi irregolari, lunghissimo, e ombreggiato da vari gruppi d’alberi, fra cui il platano enorme detto dei Giannizzeri, del quale dieci uomini non bastano ad abbracciare il tronco. A sinistra di chi entra, v’è la chiesa di Sant’Irene, fondata da Costantino il Grande, e convertita dai turchi in armeria. Più in là e tutt’intorno v’era l’ospedale del Serraglio, l’edifizio del tesoro pubblico, il magazzino degli aranci, le scuderie imperiali, le cucine, le caserme dei capigì, la zecca, e le case degli alti ufficiali della Corte. Sotto il grande platano ci sono ancora due colonnette di pietra, sulle quali si eseguivano le decapitazioni. Di qui passavano tutti coloro che dovevano andare al divano o dal Padiscià. Era come uno smisurato vestibolo aperto, sempre affollato, nel quale tutto era rimescolio e affaccendamento. Centocinquanta fornai e duecento tra cuochi e sguatteri lavoravano nelle grandi cucine, a preparare il vitto per la famiglia sterminata «che mangiava il pane e il sale del Gran Signore». Dalla parte opposta s’affollavano le guardie ed i servi, finti malati, per farsi ammettere alla vita molle dell’ospedale sontuoso, in cui erano impiegati venti medici e un esercito di schiavi. Lunghe carovane di muli e di cammelli entravano a portar provvigioni alle cucine, o a portar armi d’eserciti vinti nella chiesa di Sant’Irene, dove accanto alla sciabola di Maometto II scintillava la scimitarra di Scanderberg e il bracciale di Tamerlano. I percettori delle imposte passavano, seguiti da schiavi carichi d’oro, diretti alla tesoreria, dove c’erano tante ricchezze, come diceva Sokolli, gran vizir di Solimano il Grande, da costruire delle flotte colle ancore d’argento e coi cordami di seta. Passavano a frotte, condotti dai bei palafrenieri della Bulgaria, i novecento cavalli di Murad IV, che si pascevano a mangiatoie d’argento massiccio. V’era dalla mattina alla sera un formicolio luccicante d’uniformi, in mezzo al quale spiccavano gli alti turbanti bianchi dei giannizzeri, i grandi pennacchi d’airone dei solak, i caschi argentati dei peik, guardie del Sultano, vestite d’una tunica d’oro stretta alla vita da una cintura ingemmata; i zuluftú-baltagì, impiegati al servizio degli ufficiali di camera, colle loro trecce di lana pendenti dal berretto; i kassekì, col loro bastone emblematico in mano; i balta-gì coll’accetta; i valletti del gran visir colla frusta ornata di catenelle d’argento; i bostangì, guardie dei giardini, coi grandi berretti purpurei; e una folla svariata di cento colori e di cento emblemi, d’arcieri, di lancieri, di guardie del tesoro, di guardie coraggiose, di guardie temerarie, d’eunuchi neri e d’eunuchi bianchi, di scudieri e di sciaù, uomini alti e poderosi, d’aspetto altero, improntato della dignità signorile della Corte, che riempivano il cortile di profumi. Un orario minuzioso e severo regolava le faccende di tutti in quell’apparente disordine. Tutti si movevano in quel cortile come gli automi giranti sopra la tavola che rinchiude il meccanismo. Allo spuntare del giorno comparivano i trentadue muezzin della Corte, scelti fra i cantori più dolci di Stambul, ad annunziare l’alba dai minareti delle moschee del Serraglio, e s’incontravano cogli astrologhi e cogli astronomi che scendevano dalle terrazze, dove avevano passato la notte studiando il firmamento dalle terrazze per determinare le ore propizie alle occupazioni del Sultano. Poi il primo medico del Serraglio entrava a chieder notizie della salute del Padiscià; l’ulema istitutore andava a dare all’augusto discepolo il solito insegnamento religioso; il segretario privato a leggergli le suppliche ricevute la sera; i professori di arti e di scienze passavano per recarsi nel terzo cortile a far le lezioni ai paggi imperiali. Ognuno alla sua ora, tutti i personaggi impiegati al servizio dell’augusta persona passavano di là per andare a chieder gli ordini per la giornata. Il bostangi-bascì, generale delle guardie imperiali, governatore del Serraglio e delle ville del Sultano sparse sulle rive del Bosforo e della Propontide, veniva a informarsi se al Gran Signore piacesse di fare una gita sul mare, perché spettava a lui il governo del timone e ai suoi bostangì l’onore dei remi. Venivano a interrogare i capricci del Padiscià il gran maestro delle caccie, accompagnato dal gran falconiere, insieme al capo dei cacciatori dei falconi bianchi, al capo dei cacciatori degli avvoltoi e a quello dei cacciatori degli sparvieri. Veniva l’intendente generale della città, uno stuolo d’intendenti, delle cucine, delle monete, dei foraggi, del tesoro, l’uno dopo l’altro, in un ordine prestabilito, ciascuno coi suoi memoriali, colle sue parole preparate, coi suoi servi distinti da un vestimento speciale. Più tardi, seguiti da un corteo di segretari e di famigliari, passavano i visir della Cupola per recarsi al divano. Passavano personaggi a cavallo, in carrozza, in bussola, e scendevano tutti alla seconda porta, la quale non si poteva oltrepassare che a piedi. Tutta questa gente era riconoscibile, carica per carica, dalla forma dei turbanti, dal taglio delle maniche, dalla qualità delle pellicce, dai colori delle fodere, dagli ornamenti delle selle, dall’avere la barba intera o i baffi soli. Nessuna confusione seguiva in quell’affollamento continuo. Il muftì era bianco; i visir si riconoscevano al verde chiaro, i ciambellani allo scarlatto; l’azzurro carico distingueva i sei primi ufficiali legislativi, il capo degli emiri e i giudici della Mecca, di Medina e di Costantinopoli; i grandi ulema avevano il color violaceo; i muderrì e gli sceicchi indossavano l’azzurro chiaro; il cilestrino chiarissimo segnalava gli sciaù feudatarii e gli agà dei visir; il verde cupo era privilegio degli agà della staffa imperiale e del portatore dello stendardo sacro; gl’impiegati delle scuderie del sultano vestivano il verde pallido; i generali dell’esercito portavano gli stivali rossi, gli ufficiali della Porta, gialli, gli ulema, turchini; e alla scala dei colori corrispondeva una gradazione nella profondità degl’inchini. Il bostangì-bascì, capo della polizia del Serraglio, comandante un esercito di carcerieri e di carnefici, che spandeva il terrore col suono del suo nome e dei suoi passi, attraversava il cortile in mezzo a due schiere di teste chinate a terra. Passava il capo degli Eunuchi, gran maresciallo della Corte interna ed esterna, e si curvavano i caschi, i turbanti, i pennacchi, come spinti giù da cento mani invisibili. Il grande elemosiniere passava fra mille saluti ossequiosi. Tutti coloro che avvicinavano il Sultano, il capo degli staffieri che gli reggeva la staffa, il primo cameriere che portava i suoi sandali, il Silihdar agà che forbiva le sue armi, l’eunuco bianco che lambiva il pavimento colla lingua prima di stendere il tappeto, il paggio che versava al Sultano l’acqua per le abluzioni, quello che gli porgeva l’archibugio nelle cacce, quello che custodiva i suoi turbanti, quello che spolverava i suoi pennacchi ingemmati, quello che aveva cura delle sue vesti di volpe nera, passavano in mezzo a dimostrazioni speciali di curiosità e di rispetto. Un bisbiglio sommesso precedeva e seguiva il passaggio del predicatore della Corte e del gran mastro della guardaroba, che gettava i denari al popolo nelle feste imperiali. Passava saettato da molti sguardi invidiosi il musulmano fortunato che ogni dieci giorni radeva il capo al Sultano dei Sultani. La folla s’apriva con una premura particolare davanti al primo chirurgo incaricato della circoncisione dei principi, davanti al primo oculista che preparava il collirio per le palpebre delle cadine e delle odalische, davanti al gran maestro dei fiori, affaccendato dai capricci di cento belle, che portava sotto il caffettano il suo poetico diploma ornato di rose dorate. Il primo cuoco riceveva i suoi saluti adulatorii. Sorrisi cerimoniosi salutavano il guardiano dei pappagalli e degli usignuoli che potevano varcare le soglie dei chioschi più segreti. Erano migliaia di persone, divise in una gerarchia minutissimamente graduata, governate da un cerimoniale di cinquanta volumi, vestite in mille fogge pittoresche, che sfilavano o circolavano per il vasto cortile, e ad ogni minuto era una folla nuova. Tratto tratto passava rapidamente un messaggero e tutte le teste si voltavano. Era il visir karakulak, messaggere tra il Sultano e il primo ministro, che andava a fare un’imbasciata segreta al Gran Visir; era un capigí che correva al palazzo d’un pascià caduto in sospetto, a portargli l’ordine di presentarsi immediatamente al divano; era il portatore di buone notizie che veniva ad annunziare al Padiscià il fortunato arrivo della grande carovana alla Mecca. Altri messaggeri speciali tra il Sultano e i grandi ufficiali dello Stato, ciascuno distinto con un titolo e riconoscibile a qualche particolarità del vestimento, s’aprivano il passo, correndo, e sparivano per le due porte del cortile. Passavano sciami di caffettieri per recarsi alle cucine della corte, frotte di cacciatori imperiali curvi dal peso dei carnieri dorati; file di facchini carichi di stoffe, preceduti dal Gran Mercante, provveditore del Sultano; drappelli di galeotti condotti dagli schiavi ai lavori più faticosi del Serraglio. Poi cento sguatteri, due volte al giorno, uscivano dalle cucine e portavano all’ombra dei platani, sotto le arcate, lungo i muri, piramidi enormi di riso e montoni interi arrostiti; una turba di guardie e di servitori accorreva, e il grande cortile offriva lo spettacolo festoso del convito d’un esercito. Poco dopo la scena mutava, e si vedeva venir innanzi un’ambasciata straniera in mezzo a due muri d’oro e di seta. Là, come scriveva Solimano il grande allo Scià di Persia, «affluiva tutto l’universo.» Gli ambasciatori di Carlo V vi si trovavano al fianco degli ambasciatori di Francesco I; gl’inviati dell’Ungheria, della Serbia e della Polonia vi entravano accanto ai rappresentanti della repubblica di Genova e di Venezia. Il peskesdgi- bascì, incaricato di ricevere i doni, andava incontro alle carovane straniere sul limitare di Bab-Umaiùn, e venivano innanzi, tra mille spettatori, elefanti che portavano troni d’oro, gazzelle gigantesche, gabbie di leoni, cavalli della Tartaria, e cavalli dei deserti, vestiti di pelli di tigri e carichi di scudi d’orecchie d’elefante; gl’inviati della Persia coi vasi della china; i messi dei Sultani delle Indie con scatole d’oro colme di gemme; gli ambasciatori dei re africani con tappeti di pelo di cammelli strappati dal ventre delle madri e pezzi di stoffa argentata che facevano piegar le schiene di dieci schiavi; gli ambasciatori degli Stati nordici seguiti da drappelli di servi carichi di pellicce e d’armi preziose. Entravano, dopo le guerre fortunate, per esser mostrati al Padiscià, generali carichi di catene e principesse prigioniere, velate, coi loro cortei disarmati e tristi, e stuoli d’eunuchi d’ogni età e d’ogni colore, carpiti come bottino di guerra, o offerti in dono dai principi vinti. E intanto gli ufficiali degli eserciti vincitori s’affollavano alle porte della Tesoreria a deporre i broccati e le sciabole imperlate prese nei saccheggi delle città persiane, l’oro e le gemme tolte ai mammalucchi d’Egitto, le coppe d’oro intopaziate del tesoro dei Cavalieri di Rodi, i torsi delle statue di Diana e d’Apollo rapite alla Grecia e all’Ungheria, e chiavi di città e di castelli; e altri conducevano al secondo cortile i giovanetti e le fanciulle rubate all’isola di Lesbo. Tutte le enormi provvigioni d’ogni natura che venivano al Serraglio dai porti dell’Africa, della Caramania, della Morea, del mar Egeo, passavano o s’arrestavano fra quelle mura, e un esercito di maggiordomi e di segretari erano continuamente affaccendati a registrare, a pagare, a disporre, a fissare udienze, a dare ordinazioni. I mercanti dei bazar di schiave di Brussa e di Trebisonda si trovavano dinanzi alla seconda porta, ad aspettare il turno d’entrata, insieme ai poeti venuti da Bagdad per recitar dei versi al Sultano. I governatori caduti in disgrazia, venuti per comprare la propria salvezza con una coppa piena di monete d’oro, aspettavano accanto ai messi d’un Pascià venuti ad offrire in dono al Gran Signore una bella vergine tredicenne, trovata dopo tre mesi di ricerche sotto a una capanna dell’Anatolia; in mezzo a spie ritornate da tutti i confini dell’Impero, vicino a famiglie stanche arrivate da provincie lontane per chieder giustizia, tra donne e fanciulli dell’infima plebe di Stambul ammessi a presentare le loro querele al divano. E i giorni di divano si vedevano passar di là, fra gli scherni dei curiosi, gli ambasciatori delle provincie ribelli, a cavallo a un asino, colla barba rasa e un berretto di donna sul capo, e i messi insolenti dei principi asiatici col naso spuntato dalle scimitarre dei sciaù; di là gli ufficiali dello Stato che uscivano, inconsapevoli, per portare a un governatore lontano uno scialle prezioso, dono del Gran visir, che nascondeva fra le sue pieghe la loro sentenza di morte; di là i visi radianti degli ambiziosi che avevano ottenuto una satrapìa coll’intrigo e i visi pallidi di quei che avevano sentito nel divano la minaccia sorda d’una disgrazia vicina; di là i portatori di quegli hattiscerif, inesorabili come il destino, che andavano, sulla groppa d’un cavallo, lontano trecento miglia, a portar la rovina e la morte nel palazzo di un viceré; di là i terribili muti della corte mandati a strozzare i prigionieri illustri nei sotterranei delle Sette Torri. E con questi si incontravano gli ulema, i bey, i mollà, gli emiri, che tornavano o si recavano alle udienze col capo basso, cogli occhi a terra, con le mani nascoste nelle grandi maniche; i visir, che tenevano il Corano in tasca per leggere, a un’occorrenza, le orazioni dei morti; il gran visir, despota spiato dal boia, che portava sotto il caffettano il proprio testamento, per essere sempre pronto a morire. E tutti passavano composti, a passo lento, in silenzio, o parlando a bassa voce un linguaggio circospetto e corretto, proprio del Serraglio; e si vedeva un continuo ricambiarsi di sguardi gravi e scrutatori, e un posar delle mani sulla fronte e sul petto, accompagnato da bisbigli interrotti, da un fruscìo discreto di cappe e di babbucce, da un tintinnare sommesso di scimitarre, da non so che di monacale e di triste, che faceva contrasto colla fierezza guerriera dei volti, colla pompa dei colori, collo splendore delle armi. In tutti gli occhi si leggeva un pensiero, su tutte le fronti si vedeva il terrore d’un uomo, che era sopra tutti, che era scopo di tutto, davanti al quale tutto s’inchinava, strisciava, s’annichiliva, e pareva che ogni cosa ne presentasse l’immagine e che in ogni rumore si sentisse il suo nome.

Da questo cortile s’entrava nel secondo per la grande porta Bab-el-selam, o porta della Salute, che è ancora intatta in mezzo a due grosse torri, e non ci si passa, nemmeno ora, senza un firmano. Anticamente due grandi battenti la chiudevano dalla parte del primo cortile e altri due dalla parte del secondo, in modo che ci rimaneva dentro, quando tutto era chiuso, uno stanzone oscuro, dove un uomo poteva essere spacciato segretamente. Là sotto c’erano le celle dei carnefici, le quali, per un andito cieco, comunicavano colla sala del divano. Là andavano ad aspettare la loro sentenza gli alti personaggi caduti in disgrazia, e vi ricevevano sovente, nello stesso punto, la sentenza e la morte. Altre volte il governatore o il visir disgraziato, era chiamato al Serraglio con un pretesto; veniva; passava, senza sospetti, sotto la volta sinistra, entrava nel divano, era ricevuto con un sorriso benevolo o con una severità mite che non minacciava che un castigo lontano, e congedato, tornava a passare tranquillamente sotto la porta. Ma all’improvviso, senza veder nessuno, si sentiva una lama nelle reni o un capestro alla gola, e stramazzava senz’aver tempo a resistere. Al grido del moribondo, cento visi si voltavano per un momento dai due cortili; poi tutti ripigliavano, in silenzio, le loro faccende. La testa era portata in una nicchia di Bab-Umaiùn, il cadavere ai corvi della spiaggia di Santo Stefano, la notizia al Sultano, e tutto era finito. C’è ancora a destra, sotto la volta, la porticina ferrata della prigione in cui si gettavano le vittime, quando veniva disdetto a tempo l’ordine di morte o per prolungare la loro agonia o per cacciarle invece in esilio.

Uscendo di sotto a Bab-el-selam si entra immediatamente nel secondo cortile.

Qui si cominciava a sentir più viva l’aura sacra del Signore «dei due mari e dei due mondi,» e chi vi penetrava per la prima volta, si fermava involontariamente, appena entrato, preso da un sentimento di timore e di venerazione.

Era un vastissimo cortile irregolare, una smisurata sala a cielo aperto, circondata da edifizii graziosi e da cupole argentate e dorate, sparsa di gruppi d’alberi bellissimi, e attraversata da due viali fiancheggiati di cipressi giganteschi. Tutt’intorno girava un bel loggiato, sorretto da delicate colonne di marmo bianco, e coperto da un tetto sporgente rivestito di piombo. A sinistra, entrando, v’era la sala del divano, sormontata da una cupola scintillante; più in là, la sala dei grandi ricevimenti, dinanzi alla quale sei enormi colonne di marmo di Marmara sostenevano un largo tetto a falde, ondulate: basi, capitelli, muri, tetto, porte, archi, tutto cesellato, intarsiato, dipinto, dorato, leggerissimo e gentile come un padiglione di merletti tempestati di gemme, e ombreggiato da un gruppo di platani superbi. Dagli altri lati, v’erano gli archivi, le sale dove si custodivano i vestimenti d’onore, i magazzeni delle tende, la casa del grande Eunuco nero, le cucine della Corte. Qui stava quel grande Intendente, più affaccendato d’un Ministro della Cupola, che aveva ai suoi ordini cinquanta sottintendenti, ai quali obbediva un esercito di cuochi e di confettieri, aiutati, nelle grandi occasioni, da artisti fatti venire d’ogni parte dell’impero. Là si faceva il desinare per i visir i giorni di divano; là si preparavano, in occasione delle circoncisioni e delle nozze principesche, i famosi giardini di pasta dolce, le cicogne, i falchi, le giraffe, i cammelli di zucchero, i montoni arrostiti da cui uscivano stormi d’uccelli; che si portavano poi, in gran pompa, nella piazza dell’Ippodromo; là gl’infiniti dolciumi di mille forme e di mille colori che andavano a sciogliersi nelle innumerevoli boccucce golose dell’arem. Vicino alle cucine formicolavano, nelle grandi feste, gli ottocento operai incaricati di drizzare le tende del Sultano e dell’arem nei giardini del Serraglio o sulle colline del Bosforo; e quando non bastavano più le tende dei vastissimi magazzini, si formavano i padiglioni colle vele della flotta, e con cipressi interi sradicati dai boschetti delle ville imperiali. La casa del grande Eunuco, là vicina, era una piccola reggia, fra la quale e il terzo cortile andava e veniva una processione continua d’eunuchi neri, di schiave e di servi. In questo cortile passavano le Ambasciate per andare dal Sultano. Allora tutto il loggiato era parato di panno vermiglio, i muri luccicavano, il suolo era pulito come il pavimento d’una sala; duecento tra giannizzeri, spahì e silihdar, che formavano la guardia del divano, vestiti e armati come principi, stavano schierati all’ombra dei cipressi e dei platani, e drappelli d’eunuchi bianchi e d’eunuchi neri, lindi e profumati, facevano ala alle porte. Tutto, in questo secondo cortile, annunziava la vicinanza del Gran Signore; le voci suonavano più basse, i movimenti eran più raccolti, non vi si sentiva nè scalpitio di cavalli né rumore di lavoro; i servi e i soldati passavano tacitamente; e una certa quiete di santuario regnava in tutto il recinto, non turbata che dallo strepito improvviso degli uccelli che fuggivano dagli alberi o dall’urto sonoro delle grandi porte di ferro chiuse dai capigì.

Di tutti gli edifizi del cortile non vidi che la sala del divano, la quale è quasi intatta, com’era quando vi si teneva il consiglio supremo dello Stato. È una grande sala a volta, rischiarata dall’alto, da finestrine moresche, e rivestita di marmi ornati di rabeschi d’oro, senz’altra suppellettile che il divano su cui sedevano i membri del Consiglio. Sopra il posto del gran visir c’è ancora la finestrina chiusa da una graticola di legno dorato, dietro alla quale prima Solimano il grande e poi tutti gli altri Padiscià assistevano, non visti, o si credeva che assistessero alle sedute: un corridoio segreto conduceva da quello stanzino nascosto agli appartamenti imperiali del terzo cortile. In questa sala sedeva cinque volte la settimana il gran consesso dei ministri, presieduti dal gran visir. L’apparato era solenne. Il gran visir sedeva in faccia alla porta d’entrata; vicino a lui i visir della Cupola, il capudan- pascià, grande ammiraglio; i due grandi giudici d’Anatolia e di Rumelia, rappresentanti della magistratura delle provincie d’Asia e d’Europa; da una parte i tesorieri dell’impero; dall’altra il nisciandgì, che metteva il suggello del Sultano ai decreti; più in là, a destra e a sinistra, due schiere di ulema e di ciambellani; agli angoli, sciaù, portatori d’ordini, esecutori di supplizi, esercitati a comprendere ogni cenno e ogni sguardo. Era uno spettacolo davanti a cui i più arditi tremavano e i più innocenti interrogavano paurosamente la propria coscienza. Tutta quella gente stava là col volto impassibile, colle braccia incrociate, colle mani nascoste. Una luce vaga, scendendo dalla volta, tingeva d’un color d’oro pallido i turbanti bianchi, le facce gravi, le lunghe barbe immobili, le ricche pellicce, i manichi gemmati dei pugnali. A prima vista il Consiglio presentava l’apparenza morta d’un grande gruppo di statue vestite e dipinte. Le stuoie non lasciavano sentire il passo di chi entrava e di chi usciva, l’aria odorava dei profumi delle pellicce, le pareti marmoree riflettevano il verde degli alberi del cortile; il canto degli uccelli, nei momenti di silenzio, risonava sotto la volta luccicante d’oro; tutto era dolce e grazioso in quel tribunale tremendo. Le voci sonavano una alla volta, tranquille e monotone come il mormorio d’un ruscello, senza che chi accusava o si scolpava, ritto in mezzo alla sala, s’accorgesse da che bocca uscivano. Cento grandi occhi fissi scrutavano il volto d’un solo. Gli sguardi erano studiati, le parole pesate, i pensieri indovinati dai più sfuggevoli movimenti del viso. Le sentenze di morte escavano a parole pacate, dopo lunghi dialoghi sommessi, accolte con un silenzio sepolcrale; oppure scoppiavano improvvisamente, come folgori, e avevano per eco quelle tremende parole che escono dall’anima disperata nei momenti supremi; e allora, a un cenno, le scimitarre spezzavano le vertebre, il sangue spicciava sui tappeti e sui marmi; agà di spahì e di giannizzeri, cadevano crivellati di pugnalate; governatori e kaimacan stramazzavano col laccio al collo e cogli occhi fuori della fronte. Un minuto dopo, i cadaveri erano distesi all’ombra dei platani, coperti da un panno verde; il sangue era lavato, l’aria profumata, i carnefici al posto, e il consesso ripigliava la sua seduta coi volti impassibili, colle mani nascoste, colle voci pacate e monotone, sotto la luce vaga delle finestrine moresche che tingeva d’un colore d’oro pallido i grandi turbanti e le grandi barbe. Ma si scotevano alla loro volta, quei fieri giudici, quando Murad IV o il secondo Selim, scontenti del divano, facevano scricchiolare con un pugno furioso la graticola dorata della segreta imperiale! Dopo un lungo silenzio e un consultarsi a vicenda cogli sguardi smarriti, ripigliavano anche allora la seduta, col volto impassibile e colle voci solenni; ma le mani agghiacciate tremavano per lungo tempo nelle grandi maniche, e le anime si raccomandavano a Dio.

In fondo a questo secondo cortile, che era in certo modo il cortile diplomatico del Serraglio, s’apriva la terza grande porta, fiancheggiata da colonne di marmo e coperta da un gran tetto sporgente, dinanzi alla quale stava di guardia notte e giorno un drappello d’eunuchi bianchi e uno stuolo di capigì, armati di sciabole e di pugnali.

Era questa la famosa Bab-Seadet o porta della Felicità, che conduceva al terzo cortile; la porta sacra che rimase chiusa per quasi quattro secoli ad ogni cristiano, che non si presentasse in nome d’un re o d’un popolo; la porta misteriosa alla quale picchiò invano la curiosità supplichevole di mille viaggiatori potenti ed illustri; la porta da cui uscirono e si sparsero per il mondo tante fole gentili e tante leggende di dolori, tanti fantasmi di bellezza e di piacere, tante rivelazioni vaghe di segreti d’amore e di sangue e un’aura infinita di poesia voluttuosa e terribile; la porta solenne del Santuario del re dei re, che il popolo nominava con un senso segreto di sgomento, come la porta d’un recinto fatato, entrando nel quale una creatura profana dovesse rimaner petrificata o veder cose che il linguaggio umano non avrebbe potuto descrivere; la porta dinanzi a cui, anche ora, il viaggiatore più freddo d’immaginazione e di sentimento si arresta con una certa titubanza e guarda con stupore l’ombra del suo cappello cilindrico che si allunga sui battenti socchiusi.

Eppure anche là, davanti a quella porta solenne, arrivò il flutto muggente delle ribellioni soldatesche. Si può anzi dire che quell’angolo del grande cortile, che è compreso fra la sala del divano e la porta Seadet, è il punto del Serraglio dove il furore dei ribelli commise gli atti più temerari e più sanguinosi. Il Gran Signore governava colla spada e la spada gli dettava la legge. Il despotismo che difendeva gli accessi del Grande Serraglio era lo stesso che ne violava i penetrali. Allora si vedeva su che fragile piedestallo si reggesse il colosso minaccioso, quando gli si ritiravano d’intorno i puntelli delle scimitarre! Orde armate di giannizzeri e di spahì, nel cuore della notte, colle fiaccole nel pugno, rovesciavano a colpi di scure le porte del primo e del secondo cortile, e irrompevano là agitando sulla punta delle lame le suppliche che chiedevano le teste dei visir, e le loro grida di morte risonavano di là dai muri inviolabili, nel recinto sacro dei loro Sovrani, dove tutto era confusione e spavento. Invano dall’alto dei muri si gettavano sacchi di monete d’oro e d’argento; invano il muftì, gli sceicchi, gli ulema, i grandi della Corte, smarriti, ragionavano, pregavano, tentavano dolcemente d’abbassare le braccia convulse dall’ira; invano le Sultane-validè, smorte, mostravano dalle finestre ingraticolate i piccoli figliuoli innocenti. Il mostro dalle mille teste, scatenato e cieco, voleva la sua preda, le vittime vive, le carni da lacerare, il sangue da spargere, i teschi da piantare sulle picche. I Sultani s’affacciavano fra i merli, s’arrischiavano fin sulle barricate della porta, in mezzo agli eunuchi e ai paggi tremanti, armati di pugnali inutili; disputavano le teste a una a una, promettevano, piangevano, chiedevano grazia in nome della propria madre, dei propri figli, del Profeta, della gloria dell’impero, della pace del mondo. Uno scoppio di minacce e d’insulti e un agitare vertiginoso di fiaccole e di scimitarre rispondeva alle loro grida impotenti. E allora dalla porta della Felicità uscivano fuori a uno a uno, brancolando, e cadevano in mezzo alle belve assetate di sangue, i tesorieri, i visir, gli eunuchi, le favorite, i generali, e l’un dopo l’altro cadevano lacerati da cento lame e sformati da cento piedi. Così Murad III gettava Mehemed, il suo falconiere favorito, che era messo in brani sotto i suoi occhi; così Maometto III gettava il Kislaragà Otmano e il capo degli eunuchi bianchi Ghaznéfer, ed era costretto a salutare la soldatesca dinanzi ai due cadaveri insanguinati; così Murad IV gettava, singhiozzando, il gran visir Hafiz, a cui diciassette pugnali squarciavano il petto e le reni; così Selim III gettava tutte le teste del suo divano; e mentre i Padiscià rientravano nelle loro stanze, imprecando, straziati dal dolore e dalla vergogna, le mille fiaccole dei ribelli correvano per le vie di Stambul, rischiarando gli avanzi dei cadaveri, trascinati in trionfo in mezzo alla folla ubriaca.

La porta della Felicità formava, come la Bab-el-Selam, un lungo andito, dal quale si riusciva direttamente nel recinto arcano che racchiudeva il «fratello del sole.»

Qui, per dare un’immagine viva del luogo, bisognerebbe che la mia parola fosse accompagnata da una musica sommessa, piena di sorprese e di capricci. Era una piccola città fatata, un disordine bizzarro d’architetture misteriose e gentili, nascoste in un bosco di cipressi e di platani smisurati, che stendevano i loro rami sui tetti, e coprivano d’ombra un labirinto intricatissimo di giardini pieni di rose e di verbene, di cortiletti circondati di portici, di stradicciuole fiancheggiate da chioschi e da padiglioncini cinesi, di praticelli, di laghetti coronati di mirti, che riflettevano piccole moschee bianchissime e cupolette argentate d’edifizi della forma di tempietti e di chiostri, congiunti da gallerie coperte, sostenute da file di colonne leggere; e tetti di legno intarsiato e dipinto che sporgevano sopra porticine coperte di rabeschi e sopra scalette esterne che conducevano a terrazze munite di balaustri graziosi; e per tutto prospetti oscuri, in cui biancheggiavano fontane di marmo e apparivano tra le fronde archetti e colonnine d’altri chioschi; e da tutti i punti, fra il verde dei pini e dei sicomori, vedute lontane ed immense del mar di Marmara, delle due rive del Bosforo, del porto e di Stambul; e sopra questo paradiso, quel cielo. Era una piccola città sepolta in un mucchio enorme di verzura, costrutta a poco a poco, senza un disegno prefisso, secondo i bisogni o i capricci del momento, pomposa e fragile come un apparato teatrale, tutta nascondigli e bizzarrie gelose e puerili; che vedeva tutto ed era invisibile, che formicolava di gente e pareva solitaria, come se vi regnasse ancora lo spirito pastorale e meditativo degli antichi principi ottomani; un accampamento di pietra, che ricordava ancora, tra il fasto, quello di tela delle tribù erranti della Tartaria; una gran reggia sparpagliata, composta di cento piccole regge nascoste l’una all’altra, da cui spiravano insieme la mestizia della prigione, l’austerità del tempio e la gaiezza della campagna; uno spettacolo pieno d’ostentazione principesca e d’ingenuità barbarica, dinanzi al quale il nuovo venuto si domandava in che secolo vivesse e in che mondo fosse cascato.

Questo era il cuore del Serraglio a cui mettevano tutte le vene della monarchia e da cui partivano tutte le arterie dell’impero.

Il primo edifizio che s’incontrava entrando era quello della sala del Trono, che c’è ancora, e che potei visitare. È un piccolo edifizio quadrato, intorno al quale gira un bel porticato di marmo, e ci s’entra per una ricca porta, fiancheggiata da due belle fontane. La sala è coperta da una volta decorata d’arabeschi dorati, le pareti son rivestite di marmi e di lastrine di porcellana combinate a figure simmetriche, nel mezzo c’è una fontana di marmo, la luce scende da alte finestre chiuse da vetri coloriti, e in fondo c’è il trono della forma d’un grande letto, coperto da un baldacchino frangiato di perle, che s’appoggia su quattro alte e sottili colonne di rame dorato, ornate d’arabeschi e di pietre preziose, e sormontate da quattro palle d’oro, con quattro mezzelune, da cui spenzolano delle code di cavallo, emblema della potenza militare dei Padiscià. Qui il Gran Signore faceva i ricevimenti solenni, in presenza di tutta la Corte; qui venivano buttati ai suoi piedi i fratelli e i nipoti uccisi per rassicurare il suo regno dalle congiure e dai tradimenti. Pensai, appena entrato, ai diciannove fratelli di Maometto III. Essi avevano ricevuto la sentenza di morte, in fondo alle loro prigioni, dai colpi di cannone che annunziavano all’Asia e all’Europa la morte del loro padre. I muti del Serraglio ammucchiarono i loro cadaveri davanti al trono. Ce n’eran di tutte le età, dall’infanzia all’età matura, l’uno sull’altro, cogli occhi fuori dell’orbite, coll’impronta delle mani omicide sul viso e nel collo; le piccole teste bionde dei bambini appoggiate sul petto robusto degli adolescenti, le teste grigie schiacciate contro il pavimento dai piedi dei fratelli decenni; caffettani rozzi di prigionieri e pannolini levati dalle culle, contaminati insieme dal capestro, e confusi fra le membra irrigidite e i volti deformi. Ne videro dei zampilli di sangue quei bei rabeschi d’oro e quelle porcellane luccicanti, qui dove scoppiarono le collere formidabili di Selim II, di Murad IV, di Ahmed I, d’Ibraim, spettatori esultanti delle agonie disperate! Qui ne stramazzavano dei visir, sotto i piedi dei sciaù, spezzandosi il cranio contro il marmo della fontana! Qui ne rotolarono delle teste di governatori portate dalla Siria e dall’Egitto, appese alla sella d’un agà! Chi entrava là colla coscienza malsicura, si voltava sulla soglia a dare un addio al bel cielo e alle belle colline dell’Asia, e chi n’usciva salvo risalutava il sole col sentimento d’un infermo che ritorna alla vita.

Questo padiglione del trono non è il solo che si possa visitare. Uscendo di là, si passa per vari giardini e cortiletti circondati da piccoli edifizi ad archi moreschi, sostenuti da colonnine di marmo. Là i paggi stavano riuniti in un collegio, in cui erano istrutti per occupare poi le alte cariche dell’impero e della corte, e avevano abitazioni sontuose e sale di ricreazione e servi e maestri scelti fra gli uomini più dotti dello Stato. In mezzo a quegli edifizi s’alzava una fila di graziosi chioschi saracineschi, coi peristili aperti, nei quali c’era la biblioteca, e ne rimane uno, ammirabile principalmente per la sua grande porta di bronzo, ornata di rilievi di diaspro e di lapislazzuli, e coperta d’una cesellatura prodigiosa d’arabeschi, di stelle, di fogliami, di figure d’ogni forma, delicatissime e intricatissime, che non sembrano opera umana. Poco lontano dalla biblioteca s’alzava il padiglione del Tesoro imperiale, tutto luccicante di porcellana, dove eran chiuse ricchezze immense, composte in gran parte d’armi conquistate o donate ai Sultani o lasciate per testamento dai Sultani stessi, come ricordi. Il solo Mahmud II, ch’era calligrafo valente, e se ne teneva, ci lasciò il suo calamaio d’oro, tempestato di diamanti. Ora una buona parte di questi tesori passò, cangiata in oro, nelle casse dell’erario. Ma ai bei tempi della monarchia il padiglione era tutto sfolgorante di scimitarre damascate, di cui l’elsa pareva un nodo solo di perle e di gemme; di pistole enormi, con fino a duecento diamanti sull’impugnatura; di pugnali che valevano la rendita d’un anno d’una provincia asiatica; di mazze d’argento massiccio o d’acciaio colla testa formata da un solo pezzo di cristallo faccettato e dorato, frammiste ai pennacchi ingioiellati dei Murad e dei Maometti, alle tazze d’agata in cui avevano spumato i vini di Ungheria nei banchetti imperiali, alle coppe incavate in una sola turchina, ch’eran passate per le regge dei re persiani e di Timur, alle collane ornate di diamanti grossi come noci di Caramania, alle cinture imperlate, alle selle coperte d’oro, ai tappeti scintillanti di gemme, per cui la sala pareva tutta ardente, e offuscava insieme la ragione e la vista.

Poco lontano dal padiglione del Tesoro v’è ancora, in mezzo a un giardino solitario, quella famosa gabbia degli uccelli, in cui, da Maometto IV in poi, si chiudevano i principi del sangue, che facevano ombra al Padiscià; e là rimanevano, sepolti vivi, ad aspettare che le grida dei giannizzeri li chiamassero al trono o che venisse il carnefice a strozzarli. È un edifizio della forma d’un tempietto, di grosse mura, senza finestre, rischiarato dall’alto e chiuso da una piccola porta di ferro, contro la quale si metteva un grosso macigno. Là fu chiuso Abdul-Aziz durante i pochi giorni che trascorsero fra la sua caduta dal trono e la sua morte. Là fece la sua orribile e miseranda fine il Caligola degli Ottomani, Ibrahim, e la sua immagine è la prima che si rizza sulla soglia di quella necropoli di vivi in faccia al visitatore straniero. Gli agà militari l’avevano tirato giù dal trono e strascinato, come un miserabile, alla prigione. Qui era stato chiuso con due delle sue odalische predilette. Dopo le prime furie della disperazione, s’era rassegnato. – Questo – diceva – era scritto sulla mia fronte; era l’ordine di Dio. – Di tutto il suo impero e dell’immenso arem in cui aveva folleggiato per nove anni, non gli rimaneva più che un carcere, due schiave e il Corano; ma si credeva sicuro della vita, e viveva tranquillamente, consolato ancora da un raggio di speranza; che i suoi partigiani delle taverne e delle caserme di Stambul riuscissero a mutare le sue sorti. Ma egli aveva dimenticato la sentenza del Corano: se ci sono due Califfi, uccidetene uno, e il muftì, interrogato dagli agà e dai visir, se n’era ricordato. Il suo ultimo giorno egli stava seduto sopra una stuoia in un angolo della sua tomba e leggeva il Corano alle due schiave, ritte dinanzi a lui, colle braccia incrociate sul petto. Era vestito d’un caffettano nero, stretto intorno alla vita da uno scialle in brandelli; e aveva in capo un berretto di lana rossa. Un raggio di luce pallida, scendendo dalla volta, rischiarava il suo viso smunto e cereo, ma tranquillo. A un tratto udì un rumore cupo e balzò in piedi; la porta era aperta e un gruppo di figure sinistre occupava la soglia. Capì, alzò gli occhi a una tribuna ingraticolata che sporgeva dall’alto d’una parete, e vide traverso ai fori i volti impassibili del muftì, degli agà e dei visir, su cui era scritta la sua sentenza. Il terrore lo invase, e un’onda di parole supplichevoli gli uscì dalla bocca: – Pietà di me! Pietà del Padiscià! Fatemi grazia della vita! Se c’è qualcuno fra voi che abbia mangiato del mio pane, mi soccorra, in nome di Dio! Tu, muftì Abdul-rahim, bada a quello che stai per fare! Vedi se gli uomini son ciechi insensati! Ora te lo dico: Iusuf-pascià m’aveva consigliato a farti morire come traditore, e io non volli, e tu ora vuoi la mia morte! Leggi il Corano come me, leggi la parola di Dio, che condanna l’ingratitudine e l’ingiustizia. Lasciami la vita, Abdul-rahim, la vita! la vita! – Il carnefice, tremante, alzò gli occhi verso la tribuna; ma una voce secca, uscita di mezzo a quei visi immobili come simulacri, rispose: – Kara-alì, eseguisci. – Il carnefice gettò le mani sulle spalle di Ibrahim. Ibrahim gettò un urlo e si rifugiò in un angolo, dietro le due schiave. Allora Kara-alì e gli sciaù accorsero, gettarono a terra le donne, e si precipitarono sul Padiscià; s’intese uno scoppio di maledizioni e di bestemmie, il rumore d’un corpo stramazzato, un grido altissimo che morì in un rantolo sordo, e poi un silenzio profondo. Un piccolo cordoncino di seta aveva slanciato nell’eternità il diciannovesimo Padiscià della dinastia degli Osmani.

Altri edifizi, oltre ai descritti e a quelli dell’arem, erano sparsi qua e là in mezzo ai giardini e ai boschetti. V’erano i bagni di Selim II, che comprendevano trentadue vastissime sale, tutte marmo, oro e pittura; v’erano dei chioschi ottagoni e rotondi, sormontati da cupole e da tetti d’ogni forma, che coprivano salotti rivestiti di madreperla e decorati d’iscrizioni arabe, dove a tutte le finestre spenzolavano gabbie dorate di usignoli e di pappagalli, e i vetri colorati spandevano una dolcissima luce azzurrina o rosea; chioschi in cui i Padiscià andavano a sentir leggere le Mille e una notte dai vecchi dervis; altri in cui eran date solennemente le prime lezioni di lettura ai principini; piccoli chioschi per le meditazioni, padiglioncini per convegni notturni, nidi e prigioni gentili, innalzati e rovesciati da un ghiribizzo, che godevano la vista di Scutari imporporata dal tramonto e dell’Olimpo inargentato dalla luna, e la carezza perpetua dei venticelli del Bosforo, pieni di fragranze, che facevano tremolare le mezzelune d’oro sulla punta delle loro guglie sottili. E infine, nella parte più segreta dell’arem, il tempietto delle reliquie, o camera della nobile veste, imitata dalla sala aurea degl’Imperatori bizantini, e chiusa da una porta argentata; nella quale si conservava il mantello del Profeta, scoperto solennemente, una volta all’anno, in presenza di tutta la Corte, il suo bastone, l’arco chiuso in una guaina d’argento, le reliquie della Kaaba, e il venerato e tremendo stendardo delle guerre sante, ravvolto in quaranta coperte di seta, dal quale sarebbe rimasto acciecato, come da un colpo di fulmine, l’infedele che v’avesse fissato lo sguardo. Tutto quello che aveva di più sacro la razza, di più prezioso l’impero, di più diletto e di più arcano la dinastia, era raccolto là, in quel recinto ombroso e discreto, in quella piccola città occulta, verso la quale pareva che convergesse da tutte le parti la metropoli immensa, come una folla innumerevole che volesse prostrarsi e adorare.

In un angolo di questo terzo recinto, a sinistra di chi entrava, all’ombra di alberi più folti, fra un mormorio più sonante di fontane e un bisbiglio più fitto d’uccelli, s’innalzava l’arem, che era come un quartiere separato della cittadina imperiale, e si componeva di molti piccoli edifizi bianchi coperti da cupolette di piombo, ombreggiati da aranci e da pini a ombrello, separati da giardinetti cinti di muri rivestiti di caprifoglio e d’edera, in mezzo ai quali serpeggiavano sentieri sparsi di minutissime conchiglie combinate a musaico, che si perdevano fra i roseti, gli ebani e i mirti; tutto piccino, chiuso, diviso, suddiviso; i balconi coperti, le finestrine ingraticolate, i loggiati nascosti da tendine color di rosa, i vetri coloriti, le porte ferrate, le stradicciole senza uscita; e in ogni parte una luce crepuscolare dolcissima, una freschezza di foresta, un’aria di mistero e di pace, che faceva sognare. Qui viveva, amava, languiva, serviva, rinnovandosi continuamente, tutta la grande famiglia muliebre del Serraglio. Era un vasto monastero, che aveva per religione il piacere e per Dio il Sultano. C’erano gli appartamenti imperiali. Ci stavano le quattro cadine, amanti titolate del Gran Signore, ciascuna delle quali aveva il suo chiosco, la sua piccola corte, i suoi grandi ufficiali, le sue barchette rivestite di raso, le sue carrozze dorate, i suoi eunuchi, le sue schiave e il suo denaro delle pantofole, ch’era la rendita d’una provincia. Ci abitava la Sultana Madre, col suo corteo innumerevole d’ustà, divise in compagnie di venti o trenta, ciascuna impiegata a un servizio speciale. C’era tutta la famiglia del Padiscià, zie, sorelle, figliuole, nipoti, che formavano una corte nella corte, coi principi bambini e adolescenti. C’erano le ghediclù, di cui le dodici più belle servivano, ciascuna con un titolo e un ufficio speciale, la persona del Sultano; cento sciaghird, o novizie, che facevano il tirocinio per occupare i posti vacanti delle ustà; un formicaio di schiave d’ogni paese, d’ogni colore, d’ogni divisa, scelte fra mille e mille, che empivano quell’enorme gineceo, scompartito come un alveare in cellette innumerevoli, d’un fremito di gioventù poderosa, d’un profumo caldo di voluttà africana ed asiatica, che montava al capo del Nume, e si rispandeva poi, trasfuso nelle sue passioni formidabili, su tutta la faccia dell’impero.

Quante memorie fra gli alberi di quei giardini e le pareti di quei piccoli chiostri bianchi! Quante belle figliuole del Caucaso e dell’Arcipelago, delle montagne dell’Albania e dell’Etiopia, del deserto e del mare, musulmane, nazarene, idolatre, conquistate dai pascià, comprate dai mercanti, regalate dai principi, rubate dai corsari, passarono, come ombre, sotto quelle cupolette argentine! Son questi i muri e le volte che videro folleggiare, col capo incoronato di fiori e la barba scintillante di gemme, il primo Ibraim, il quale faceva rincarare le schiave in tutti i mercati dell’Asia, e decuplicare il prezzo dei profumi dell’Arabia; che assistettero alle furie della sensualità morbosa del terzo Murad, padre di cento figli; che videro Murad IV, decrepito a trentun anno, irrompere barcollando agli amplessi infami; che furono testimoni delle orge e dei deliri del secondo Selim. Per questi sentieri passavano, la notte, ebbri di vino e di lussuria, quei dissoluti feroci, a cui la madre, i visir, i pascià, offrendo schiave su schiave, non facevano che infocare i desideri; e correvano di chiosco in chiosco, cercando la voluttà e non trovando che lo spasimo, fin che la fantasia stravolta li trascinava, rabbiosi, fuor della reggia, a cercare i resti delle bellezze famose fra le mura malinconiche dell’Eschi-Seraï. Qui si celebravano quelle strane feste notturne, in cui sulle cupole, sui tetti e sugli alberi erano disegnate a tratti di fuoco le navi della flotta, e migliaia di vasi di fiori, illuminati da migliaia di fiammelle, riflesse da innumerevoli specchi, presentavano l’immagine d’un vasto giardino ardente, dove centinaia di belle s’affollavano intorno a bazar pieni di tesori, e gli eunuchi sollevavano fra le braccia, spasimando, le schiave seminude, abbandonate al vortice dei balli sfrenati, in mezzo al fumo di mille profumiere, che il vento del Mar Nero spandeva per tutto il serraglio insieme al frastuono d’una musica barbaresca e guerriera.

Risuscitiamo quella vita, in una bella giornata d’aprile, sotto il regno del grande Solimano o del terzo Ahmed. Il cielo è sereno, l’aria piena di fragranze primaverili, i giardini tutti in fiore. Per il labirinto dei sentieri ancora umidi della rugiada, girano, oziando, eunuchi neri vestiti di tuniche dorate, e passano schiave, vestite di stoffe rigate di colori vivissimi, che portano e riportano vassoi e panierini coperti di veli verdi fra i chioschi e le cucine. Le ustà della Validé s’incontrano sotto i piccoli portici moreschi colle gheduclù del Sultano, che passano alteramente, seguite da schiave novizie, cariche della biancheria imperiale. Tutti gli sguardi si voltano da una parte: è uscita per una porticina e sparita su per una scaletta la più giovane delle dodici gheduclù privilegiate, la coppiera, una fanciulla siriana benedetta da Allah, che piacque al Gran Signore, il quale le ha già accordato il titolo di figlia della felicità, e le darà la pelliccia di zibellino, appena essa dia segno d’esser madre. Lontano, all’ombra dei platani, giocano i buffoni del Sultano, vestiti di panni arlecchineschi, e nani deformi col capo coperto da turbanti spropositati. Più in là, dietro una siepe, un eunuco gigantesco, con un cenno impercettibile delle dita e del capo, ordina a cinque muti, esecutori di supplizi, di recarsi da Kislar-agà, che li cerca per un affare segreto. Dei giovinetti, d’una bellezza ambigua, abbigliati con una ricercatezza femminea, s’inseguono, correndo, fra le siepi d’un giardino ombreggiato da un enorme platano. In un’altra parte, un drappello di schiave s’arresta improvvisamente e si divide in due ali, inchinandosi per lasciar passare la Kiaya, grande governatrice dell’arem, la quale restituisce il saluto con un cenno del suo bastoncino ornato di lamine d’argento, che porta a un’estremità il suggello imperiale. Nello stesso punto, la porta d’un chiosco vicino s’apre, e n’esce una cadina, in abito celeste, ravvolta in un fitto velo bianco, seguita dalle sue schiave, la quale va, col permesso della Governatrice, ottenuto il giorno prima, a giocare al palloncino volante con un’altra cadina, e svoltando in un vialetto ombroso, incontra e saluta mollemente una sorella del Sultano, che si reca al bagno colle sue bimbe e colle sue ancelle. In fondo al piccolo viale, davanti al chiosco di un’altra cadina, sotto una graziosa tettoia sorretta da quattro colonnine alte e snelle come fusti di palma, un eunuco aspetta un cenno per far entrare una ebrea, mercantessa di gioielli, che dopo molto intrigare ha ottenuto il diritto d’entrata nell’arem imperiale, dove, coi gioielli, porterà imbasciate segrete di pascià ambiziosi e d’amanti temerarii. All’estremità opposta dell’arem, la hanum incaricata di visitare le nuove schiave, va in cerca della Governatrice, per riferirle che la giovane abissina presentata il giorno avanti, le è parsa degna d’esser ricevuta fra le gheduclù, se non si bada a una piccola escrescenza che ha sulla spalla sinistra. Intanto, in un praticello circondato di mortelle, sotto un alto pergolato, si raccolgono le venti nutrici dei principini nati nell’anno, e un gruppo di schiave suonano il flauto e la chitarra in mezzo a un cerchio saltellante di bambine vestite di velluto cilestrino e di raso vermiglio, a cui la Sultana Validé getta dei dolci dall’alto d’una terrazza. Passano le maestre che vanno a dar lezioni di danza, di musica e di ricamo alle sciaghird; eunuchi che portano grandi piatti pieni di dolci della forma di leoncini e di pappagalli; schiave che reggono fra le braccia grossi vasi di fiori e pesanti tappeti: doni d’una sultana a una cadina, d’una cadina alla Validè, della Validè alle nipoti. La tesoriera dell’arem, accompagnata da tre schiave, arriva con una notizia sul volto: i bastimenti imperiali mandati incontro alle galere veneziane e genovesi, le hanno incrociate a venti miglia dal porto di Sira, e hanno accaparrato tutte le sete e tutti i velluti del carico per l’arem del Padiscià. Arriva di corsa un eunuco ad annunciare a una Sultana trepidante che la circoncisione del bimbo è riuscita a meraviglia, e poco dopo due altri eunuchi sopraggiungono, di cui l’uno porta in un piatto d’argento, alla madre, la parte tagliata dal chirurgo, l’altro, in un piatto d’oro, alla Validè, il coltello insanguinato. È un continuo aprire e chiudere di porte e sollevare e ricascar di cortine, per lasciar passare notizie, imbasciate, regaletti, pettegolezzi. Chi potesse dall’alto penetrar collo sguardo a traverso ai tetti e alle cupole, vedrebbe in una sala una Sultana alla finestra, che guarda melanconicamente, fra le tendine di raso, le montagne azzurre dell’Asia, pensando forse al suo sposo, un bel pascià, governatore d’una provincia lontana, stato strappato alle sue braccia, secondo il costume, dopo sei mesi d’amore, perché non avessero figli; in un’altra saletta, rivestita di marmi e di specchi, una cadina di quindici anni, che aspetta nella giornata una visita del Padiscià, scherza fanciullescamente in mezzo a un gruppo di schiave che la profumano e l’infiorano, magnificando le sue bellezze più segrete con atti servili di meraviglia e di gioia; sultane giovinette che si rincorrono pei giardinetti chiusi, intorno ai bacini luccicanti di pesci dorati, facendo scricchiolare le conchiglie dei sentieri sotto le loro babbucce di raso bianco; altre, pallide, sedute in fondo a stanzine oscure, in atto di meditare vendette; salotti tappezzati di broccato, dove bimbi condannati a morte nascendo, si ravvoltolano sui cuscini di raso rigati d’oro e sotto le tavole di madreperla; belle principesse nude nei bagni di marmo di Paros; gheduclù addormentate sui tappeti; crocchi e viavai di schiave e d’eunuchi per le gallerie coperte, giù per le scalette nascoste, nei vestiboli, per i corridoi semioscuri; e da per tutto volti curiosi dietro le grate, saluti muti ricambiati fra le terrazze e i giardini, cenni furtivi dietro le tende, dialoghetti a monosillabi, fra spiraglio e spiraglio, rotti di tratto in tratto da risate sonore e compresse, seguite da rapide fughe di gonnelle che svaniscono lungo i muri claustrali.

Ma non s’incrociavano soltanto intrighi amorosi e pettegolezzi puerili in quel labirinto di giardini e di tempietti. La politica c’entrava per le commessure di tutte le porte e per i fori di tutte le grate, e la potenza dei begli occhi sugli affari dello Stato non era minore là che nelle regge d’occidente; ché anzi la vita reclusa e monotona cresceva intensità alle gelosie e alle ambizioni. Quelle testoline ingemmate agitavano, da quelle piccole prigioni odorose, la corte, i divani, il serraglio intero. Per mezzo degli eunuchi comunicavano col muftì, coi visir e cogli agà dei giannizzeri. Dagli amministratori dei loro beni, coi quali potevano conferire, a traverso a una tenda o a una grata, sui propri interessi, erano tenute in corrente di tutti i più piccoli avvenimenti della reggia e della metropoli; sapevano i pericoli da cui erano minacciate, imparavano a conoscere gli uomini di Stato di cui avevano a temere o da cui potevano sperare, e ordivano pazientemente le congiure misteriose che precipitavano i nemici e sollevavano i protetti. Tutti i partiti della Corte e dell’Impero avevano là dentro una radice, cento radici, ramificate nei cuori delle validè, delle sorelle del Sultano, delle cadine, delle odalische. Erano questioni e armeggi infiniti per l’educazione dei figli, per il matrimonio delle figliuole, per le dotazioni, per le precedenze nelle feste, per la successione dei principini al trono, per le paci e per le guerre. I capricci delle belle mandavano eserciti di trentamila giannizzeri e di quarantamila spahì a coprir di cadaveri le rive del Danubio, e flotte di cento navi a insanguinare il Mar Nero e l’Arcipelago. A loro ricorrevano, con lettere segrete, i principi d’Europa per assicurare il buon esito dei negoziati. Dalle loro manine bianche uscivano i decreti che davano i governi delle provincie e gli alti gradi dell’esercito. Sono le carezze di Rosellana che fecero stringere il laccio al collo ai gran visir Ahmed e Ibrahim. Sono i baci di Saffié, la bella veneziana, perla e conchiglia del califfato, che mantennero per tanti anni le relazioni amichevoli della Porta e della repubblica di Venezia. Sono le sette cadine di Murad III che governarono l’impero per gli ultimi vent’anni del secolo sedicesimo. È la bella Makpeiker, forma di luna, la cadina dai duemila settecento scialli, che regnò sui due mari e sui due mondi da Ahmed I sino al quarto Maometto. Fu Rebia Gulnuz, l’odalisca dalle cento carrozze d’argento, che resse i divani imperiali nei primi dieci anni della seconda metà del secolo decimosettimo. È Scekerbulì, il pezzettino di zucchero, che faceva viaggiare pei suoi fini, come un automa, fra Stambul e Adrianopoli, il sanguinario Ibrahim.

Che confusione di maneggi, che reticolazione intricata di spionaggi terribili e di ciance puerili ci doveva essere in quella piccola città amorosa e onnipotente! Passando per quei viali, mi pareva di sentire da ogni parte un bisbiglio accelerato di voci femminili, che svolgessero, interrogando e rispondendo, tutta la cronaca intima del serraglio. E doveva essere una cronaca stranamente svariata e intrecciata. Si trattava di sapere quale cadina il Sultano avrebbe condotto nell’estate al suo chiosco delle Acque dolci; che dote sarebbe stata fatta alla terza figliola del Padiscià, che doveva sposare il grande ammiraglio; se era vero che l’erba data alla governatrice Raazgié dal mago Sciugaa avesse fatto concepire la terza cadina infeconda da cinque anni; se era un fatto sicuro che la favorita Giamfeda avesse ottenuto per il governatore d’Anatolia il governo della provincia di Caramania. Di chiosco in chiosco circolava la notizia che, sgravandosi felicemente la prima cadina, il nuovo gran visir, per superare il suo predecessore, le avrebbe regalato una culla d’argento massiccio, tutta tempestata di smeraldi; che la prescelta dal Sultano sarebbe stata la schiava regalata dalla kiaya-harem e non quella regalata dal Pascià d’Adrianopoli; che morendo il grande eunuco bianco ch’era agli estremi, il giovane paggio Mehemet avrebbe comprato col sacrifizio della sua virilità la carica ambita da tanto tempo. Si diceva sottovoce che non si sarebbe più fatto il gran canale dell’Asia Minore proposto dal gran visir Sinau, per non allontanare gli operai occupati ad innalzare il nuovo chiosco per la Sultana Baffo; e che la cadina Saharai, trentacinquenne, piangeva da due giorni e da due notti per timore d’essere relegata al vecchio Serraglio; e che il buffone Ahmed aveva fatto ridere così di cuore il Sultano, che questi l’aveva nominato sul momento agà dei Giannizzeri. E poi scoppiettavano mille chiacchiere sulle prossime feste per il matrimonio d’Otman- pascià colla Sultana Ummetullà, nelle quali un drago di bronzo avrebbe vomitato fuoco nell’At-meidan; sul nuovo vestito della Sultana Validè, tutto di zibellino, di cui ogni bottone era una pietra preziosa del valore di cento scudi d’oro; sul nuovo appannaggio dato alla cadina Kamarigé, luna di bellezza, della rendita della Valachia, e sulla piccola rosa color di sangue scoperta nel collo alla sciamascirusta, custode della biancheria del Sultano, e sui bei capelli biondi inanellati dell’ambasciatore della repubblica di Genova, e sulla meravigliosa lettera scritta di proprio pugno dalla prima moglie dello Scià di Persia in risposta alla sultana Currem, l’allegra. Tutte le voci venute dalla città, tutti gl’incidenti clamorosi delle discussioni del divano, tutti i rumori uditi la notte nel serraglio, erano commentati e passati alla trafila di mille congetture in tutti quei giardinetti, da cento gruppi di testoline circospette e curiose. Là pure passavano di mano in mano e di bocca in bocca i madrigali anonimi dei Padiscià, i versi tristi e liberi di Abdul-Baki l’immortale, e le poesie smaglianti d’Abu-Sud, di cui «ogni parola era un diamante», e i canti ebbri d’oppio e di vino di Fuzuli, e le lascivie canore di Gazali. E tutto cangiava col cangiare dell’indole e della vita dei Padiscià. Ora passava a traverso quel piccolo mondo come una corrente di tenerezza e di malinconia, e allora una certa dignità gentile rialzava tutte le fronti, il furore del lusso si quetava, i modi si correggevano, il linguaggio si purgava, nasceva il gusto delle letture pie, si ostentava il raccoglimento e la devozione religiosa, e le feste medesime, senza essere meno splendide, assumevano l’aspetto di cerimonie liete, ma composte. Ora invece saliva al trono un Padiscià educato dall’infanzia al vizio e alle follie, e allora la dea Voluttà riconquistava il suo impero, i veli cadevano, si tornava a sentire il linguaggio senza sottintesi e la risata clamorosa, si tornavano a vedere le nudità senza pudore; gl’incettatori della bellezza partivano per la Georgia e per la Circassia; le fanciulle affluivano; cento donne si potevano vantare degli amplessi del Gran Signore, i chioschi si popolavano di culle, le casse dell’erario versavano torrenti d’oro, i vini di Cipro e d’Ungheria gorgogliavano sulle mense coperte di fiori, Sodoma alzava la fronte, Lesbo trionfava, i bei volti dai grandi occhi neri impallidivano, e tutto l’arem febbricitava, rabbioso di voluttà, in un’atmosfera carica di profumi e di vizio, fin che una notte si svegliava improvvisamente abbagliato da mille fiaccole, e subiva dalle scimitarre dei Giannizzeri il castigo di Dio.

Venivano le notti tremende anche per quella piccola Babilonia nascosta tra i fiori. La ribellione non rispettava il terzo recinto più di quel che rispettasse gli altri due. La soldatesca atterrava le porte della Felicità e irrompeva nell’arem. Cento eunuchi difendevano invano, a pugnalate, le soglie dei chioschi. I giannizzeri salivano sui tetti, rompevano le cupole, si precipitammo nelle sale a strappare i principi dalle braccia delle madri. Le Validè erano tirate per i piedi fuori dei loro nascondigli, si difendevano a unghiate e a morsi, cadevano riverse sotto le ginocchia dei baltagì e morivano strangolate coi cordoni delle tendine. Le Sultane, rientrando in casa, gettavano grida disperate alla vista delle culle vuote, e voltandosi a interrogare le schiave, n’avevano in risposta un silenzio tremendo, che voleva dire: – Vallo a cercare ai piedi del trono il tuo bambino! – Gli eunuchi, atterriti, venivano ad annunziare alle favorite, svegliate da un tumulto lontano, che le loro teste erano aspettate e che bisognava prepararsi a morire. Le tre cadine del terzo Selim, condannate al capestro ed al sacco, sentivano, nella notte, le grida supreme l’una dell’altra, e spiravano nelle tenebre sotto le mani convulse dei muti. Gelosie mortali e vendette orrende facevano risonare i chioschi di gemiti e di strida che spandevano il terrore in tutto l’arem. La Circassa madre di Mustafà lacerava il viso a Rosellana, le favorite rivali schiaffeggiavano Scekerbulì, la sultana Tarchan vedeva balenare sul capo delle sue creature il pugnale di Maometto IV, la prima cadina del primo Ahmed strozzava colle proprie mani la schiava rivale, e stramazzava alla sua volta, pugnalata in viso, sotto i piedi del Padiscià, urlando di dolore e di rabbia; le cadine gelose s’aspettavano nei corridoi oscuri, si trattavano ad alte grida di «carne venduta» e s’avvinghiavano come tigri straziandosi il collo e le reni colla punta degli stiletti avvelenati. E chi sa quanti eccidi rimasti ignoti, di schiave soffocate nelle fontane, freddate a colpi d’elsa nelle tempie, lacerate dal colbac degli eunuchi, schiacciate fra le porte di ferro dalle braccia d’acciaio di dieci gelose frenetiche! I veli soffocavano i lamenti, i fiori nascondevano il sangue, due ombre si perdevano nel labirinto dei viali oscuri portando una cosa nera; le sentinelle delle torri, sulla riva del Mar di Marmara, sentivano un tonfo nelle acque, e l’arem si ridestava all’alba, come sempre, odoroso e ridente, senza accorgersi che una delle sue mille stanze era vuota.

Tutte queste immagini mi venivano alla mente, girando per quel recinto, e alzando gli occhi alle grate di quei chioschi abbandonati e tristi come sepolcri. Eppure, in mezzo a quelle memorie sinistre, provavo di tratto in tratto un certo batticuore piacevole, una specie di trepidazione voluttuosa d’adolescente, mista di malinconia e di tenerezza, pensando che le scalette per cui salivo e scendevo, avevano sentito il peso di quelle donne bellissime e famose; che i sentieri che calpestavo avevano udito il fruscìo delle loro vesti, che le volte di quei piccoli portici di cui accarezzavo, passando, le colonnine, avevano ripercosso il suono delle loro risa infantili. Mi pareva che qualche cosa di loro ci dovesse ancora essere dietro quei muri, in quell’aria. Avrei voluto cercare, gridare quei nomi memorabili, chiamarle a una a una cento volte, e mi pareva che qualche risposta di voce lontana l’avrei sentita, che qualchecosa di bianco l’avrei visto passare sulle alte terrazze o in fondo ai boschetti solitari. E giravo gli occhi qua e là, e interrogavo le grate e le porte. Quanto avrei dato per sapere dove era stata chiusa la vedova di Alessio Comneno, la più bella delle prigioniere di Lesbo e la più seducente greca del suo secolo, o dov’era stata pugnalata la cara figliuola d’Erizzo, governatore di Negroponte, che preferì la morte all’amplesso brutale di Maometto II! E Currem, la favorita di Solimano, a che finestra si affacciava, coi suoi belli atteggiamenti languidi di persiana, per fissare nel Mar di Marmara i suoi potenti occhi neri, velati dalle lunghissime ciglia di seta? Qui, su questo sentiero, non avrà lasciato molte volte le tracce del suo passo leggiero la bella danzatrice ungherese che levò Saffiè dal cuore di Murad III, scattando come una lama d’acciaio fra le braccia imperiali? E da quest’aiuola non avrà mai strappato un fiore, passando, Kesem, la bella greca, la gelosa feroce, dal viso pallido e malinconico, che vide il regno di sette Sultani? E l’armena gigantesca, che fece impazzir d’amore Ibrahim, non avrà mai immerso il suo enorme braccio bianco nell’acqua di questa fontana? E chi aveva il piede più piccino, la piccola favorita di Maometto IV, di cui due babbucce non facevano la lunghezza d’uno stiletto, o Rebia Gulnuz, la bevanda delle rose di primavera, che aveva i più begli occhi azzurri dell’Arcipelago, e non lasciava traccia del suo passo sulle sabbie bianche del suo giardino? E i capelli più dorati e più morbidi chi li possedeva, Marhfiruz, la favorita dell’astro delle notti, o Miliclia, la giovane odalisca russa, che soggiogò la ferocia del secondo Otmano? E le fanciulle persiane ed arabe che addormentavano colle loro favole Ibrahim? E le quaranta giovinette che bevettero il sangue del terzo Murad? Non ne rimane più nulla, nemmeno una ciocca di capelli, nemmeno il filo d’un velo, nemmeno un segno nelle pareti? E queste fantasie terminavano tutte in una visione dolorosa e spaventevole. Le vedevo passare, a file interminabili, lontano, fra i tronchi fitti degli alberi e sotto i lunghi portici, l’una dietro l’altra, sultane validè, sultane sorelle, cadine, odalische, schiave, fanciulle appena sbocciate, donne trentenni, vecchie coi capelli bianchi, visi timidi di vergini e visi terribili di gelose, dominatrici d’imperi, favorite d’un giorno, trastulli d’un’ora; creature di dieci generazioni e di cento popoli, coi loro bimbi strozzati fra le braccia o per mano; una col laccio al collo, una con un pugnale nel cuore, un’altra grondante d’acqua del Mar di Marmara, splendenti di gemme, coperte di ferite, moribonde di veleno, trasfigurate dalle lunghe agonie del vecchio Serraglio; e passavano mute e leggiere come fantasime, e si perdevano in file interminabili nell’oscurità dei boschetti, lasciando dietro di sè una lunga traccia di fiori appassiti e di gocce di pianto e di sangue; e un’immensa pietà mi stringeva il cuore.

Di là dal terzo recinto, si stende un tratto di terreno piano, tutto coperto d’una vegetazione rigogliosa, e sparso di piccoli edifizi gentili, in mezzo ai quali s’innalza la così detta colonna di Teodosio, di granito grigio, sormontata da un bel capitello corinzio, e sorretta da un largo piedestallo, su cui si leggono ancora le due ultime parole d’una iscrizione latina che diceva: Fortunae reduci ob devictos Gothos. E qui finisce l’altopiano sul quale si distende il grande rettangolo centrale degli edifizi del Serraglio. Di qui fino al capo del Serraglio, e in tutto lo spazio compreso fra il circuito dei tre recinti e le mura esteriori, lungo i fianchi della collina, era tutto un bosco di grandi platani, di cipressi altissimi, di filari di pini, di gruppi d’allori e di terebinti e di pioppi inghirlandati di pampini, che ombreggiavano una successione di giardini pieni di rose e d’elitropie, disposti a scaglioni, e attraversati da larghe gradinate di marmo per le quali si scendeva fino al mare. Lungo le mura, in faccia a Scutari, c’era il nuovo palazzo del Sultano Mahmud, che s’apriva sul mare in una grande porta rivestita di rame dorato. Vicino al Capo del Serraglio, s’innalzava l’arem d’estate, che era un vastissimo edifizio semicircolare, capace di cinquecento donne, con vasti cortili e bagni splendidi e giardini, dove si facevano quelle luminarie fantastiche, che diventarono celebri sotto il nome di feste dei tulipani. Davanti a quest’arem, fuori delle mura, sopra la riva del mare, c’era la batteria famosa del Serraglio, formata di venti cannoni di forme bizzarre, scolpiti e istoriati, ch’erano stati tolti agli eserciti cristiani nelle prime guerre europee. Le mura avevano otto porte, tre dalla parte della città, e cinque dalla parte del mare. Grandi terrazze di marmo s’avanzavano dalle mura sulla riva. Strade sotterranee conducevano dalla reggia alle porte del Mar di Marmara, in modo che i Sultani potevano salvarsi da un assalto imbarcandosi segretamente, e riparando a Scutari o a Top-Hané. Né qui era tutto il Serraglio. Vicino alle mura esterne e per i fianchi della collina s’innalzavano ancora molti chioschi, della forma di piccole moschee, di fortini e di gallerie, da ognuno dei quali, per un sentiero nascosto da alte spalliere di verzura, si riusciva alle porte secondarie del terzo recinto. V’era il chiosco Yali, ora distrutto, che si specchiava nel Corno d’oro. C’è ancora, quasi intatto, il Nuovo chiosco, che è una piccola reggia rotonda, tutta ornata di dorature e di pitture, nella quale i Sultani andavano, sul tramonto, a godere la vista delle mille navi del porto. Vicino all’arem d’estate v’era il chiosco degli Specchi, dove fu segnato il trattato di pace del 1784, con cui la Turchia cedette la Crimea alla Russia, e il chiosco d’Hassan Pascià, tutto splendente d’oro, le cui pareti coperte di specchi rallegravano con un gioco fantastico di riflessi le feste e le orge notturne dei Sultani. Il chiosco del Cannone per le cui finestre si gettavano nel mare i cadaveri, sorgeva vicino alla batteria del Capo del Serraglio. Il chiosco del Mare, in cui teneva i suoi divani segreti la Validè di Maometto IV, pendeva a filo sulle correnti confuse del Mar di Marmara e del Bosforo. Il chiosco delle Rose dominava la spianata in cui facevano gli esercizi i paggi, e dove fu proclamata, nel 1839, la nuova costituzione dell’Impero, col famoso hatti-scerif di Gul-Hané. Dall’altra parte del Serraglio c’era ancora il chiosco delle Riviste, da cui i Sultani vedevano passare, non visti, tutti coloro che andavano al divano; sull’angolo delle mura vicino a Santa Sofia, il chiosco d’Alai, dal quale Maometto IV gittò all’esercito ribelle la sua favorita Meleki, e ventinove ufficiali della Corte, sbranati sotto i suoi occhi; e all’altra estremità delle mura, il chiosco Sepedgiler, vicino al quale i Padiscià davano congedo ai grandi ammiragli che partivano per le guerre lontane. Così la reggia formidabile, dall’alto del colle, dov’erano raccolte e nascoste le sue parti più vitali, si sparpagliava per la china e lungo la riva del mare, coronata di torri, irta di cannoni, inghirlandata di rose; slanciava da tutte le parti le sue barchette dorate, levava al cielo un nuvolo di profumi come un enorme altare, specchiava nelle acque le mille fiammelle delle sue feste, gettava dall’alto delle sue mura oro alla folla e cadaveri alle onde, ieri in balìa d’una schiava, oggi in potere d’un forsennato, domani ludibrio della soldatesca, bella come un’isola fatata e sinistra come un sepolcro di vivi…
La notte è alta; il Mar di Marmara riflette il cielo ardente di stelle; la luna inargenta le cento cupole del Serraglio e imbianca le cime dei cipressi e dei platani, che distendono le loro grandi ombre nei vasti recinti, circondati da innumerevoli finestrine illuminate che si vanno spegnendo a una a una. I chioschi e le moschee risaltano con una bianchezza di neve in mezzo al verde lugubre dei boschetti. Le guglie, le punte dei minareti, le mezzelune aeree, le porte di bronzo, le graticole dorate luccicano fra gli alberi, presentando l’apparenza vaga d’una città d’oro e d’argento. La città imperiale s’addormenta. Le tre grandi porte son state chiuse ora ora, e le chiavi enormi suonano ancora fra le mani dei capigì, sotto le volte degli alti vestiboli. Un drappello di capigì veglia dinanzi alla porta della Salute; trenta eunuchi bianchi custodiscono la porta della Felicità, appiccicati ai muri e immobili come bassorilievi, col volto nell’ombra. Centinaia di sentinelle invisibili, vigilano dalle mura e dalle torri, guardando il mare, il porto, le strade tenebrose di Stambul, e la mole enorme e muta di Santa Sofia. Nelle grandi cucine del primo cortile si vede ancora un saliscendi di lanterne, che rischiarano gli ultimi lavori; poi tutto l’edifizio rimane oscuro. Un lume brilla ancora nelle case del Veznedar agà e del Defterdar effendi. Qualche cosa brulica, nel secondo recinto, dinanzi alla casa del Grand’Eunuco nero. Nel labirinto dell’arem si vanno chiudendo le ultime porte. Gli eunuchi girano per i viali deserti, intorno ai chioschi oscuri, non udendo altro rumore che lo stormire degli alberi agitati dall’aria marina e il mormorio monotono delle fontane. Un’alta pace par che regni su tutta la reggia. Eppure una vita febbrile ribolle ancora fra quelle mura. Da tutto quel popolo di schiave, di soldati, di prigionieri, di servi, i pensieri della notte si levano confusamente, e superate le mura del Serraglio, volano ai quattro angoli del mondo a cercar luoghi cari e madri abbandonate dall’infanzia, e a riandare vicende strane e terribili di tempi lontani. Le preghiere e i lamenti muti s’incrociano per gli anditi e per i boschetti oscuri coi propositi di vendetta e di sangue, e coi desideri insensati delle ambizioni segrete. La grande reggia dorme un sonno torbido, interrotto da riscotimenti improvvisi di diffidenza e di paura. Un bisbiglio diffuso di parole di cento lingue si confonde col suono dei respiri e col mormorio della vegetazione ventilata. A breve distanza, divisi da poche pareti, dorme il paggio che s’è prostituito, l’iman che ha predicato la parola di Dio, il carnefice che ha strozzato un innocente, il principe prigioniero che aspetta la morte, la sultana innamorata che si prepara alle nozze. Creature diseredate d’ogni bene, riposano accanto a ricchezze favolose; la bellezza divina, la deformità derisa, tutti i vizi, tutte le sventure, tutte le prostituzioni dell’anima e della carne, si trovano rinchiuse fra le stesse mura. Le architetture moresche, che s’innalzano sopra gli alberi, profilano nel cielo stellato le loro mille forme bizzarre ed aeree; sui muri si allungano ombre graziose di frange, di festoni e di trine; le fontane illuminate dalla luna schizzano zaffiri e diamanti; e tutti i profumi del giardino volano, portati dall’aria notturna, confusi in una fragranza potente che entra per le grate nelle sale a destar fremiti di piacere e sogni lascivi. È l’ora in cui gli eunuchi, seduti sotto gli alberi, cogli occhi fissi nel lume fioco che traluce dalle finestre dei chioschi, si rodono l’anima e il cuore, tastando colle dita tremanti la punta del pugnale; l’ora in cui la povera giovinetta, rubata e venduta di fresco, dal finestrino alto della sua cella, guarda cogli occhi umidi di lagrime gli orizzonti sereni dell’Asia, rimpiangendo la capanna dov’è nata e la valle dove sono sepolti i suoi padri; l’ora in cui il galeotto incatenato, il muto macchiato di sangue, il nano spregiato, misurano con un tremito di sgomento l’infinita distanza che li separa dall’uomo che è sopra tutti, e interrogano dolorosamente il potere ascoso che tolse all’uno la libertà, all’altro la parola, al terzo la forma umana per dare ogni cosa ad un solo. È l’ora in cui piangono i reietti e in cui tremano i grandi, malsicuri del domani. Le lanterne sparse per gli edifizi multiformi rischiarano fronti pallide di tesorieri curvi sulle carte; teste scarmigliate d’odalische, disperate d’un lungo abbandono, che cercano il sonno invano sui guanciali infocati; visi abbronzati di giannizzeri erculei, addormentati con un sorriso feroce, che tradisce la visione di una strage. I muri sottili sentono aneliti di voluttà e singhiozzi rotti da parole disperate. E mentre in un chiosco spuma il liquore maledetto in mezzo a un cerchio di baccanti seminude; mentre in una sala semioscura, una povera sultana, madre da un istante, nasconde, urlando, il viso nei guanciali, per non vedere un lago di sangue nel quale spira la sua creatura, a cui, per ordine del Padiscià, la levatrice lasciò aperto il tubo ombelicale; mentre le teste dei bey, uccisi al cader della notte, stillano le loro ultime gocce di sangue sui marmi delle nicchie di Bab-Umaiun; nel chiosco più alto del terzo recinto, in una sala tappezzata di damasco vermiglio, sopra un letto di zibellino, in mezzo a un disordine sfarzoso di cuscini imperlati e di coperte di velluto splendenti d’oro, su cui scende la luce vaga d’una lanterna moresca d’argento cesellato, appesa al soffitto di cedro, una bella fanciulla bruna, ravvolta in un grande velo bianco, che pochi anni sono conduceva l’armento a traverso le pianure dell’Arabia Felice, chinata sul viso pallido del terzo Murad, che riposa, sonnecchiando, ai suoi piedi, gli mormora con una voce timida e dolce: – V’era una volta a Damasco un mercante chiamato Abu-Eiub che aveva raccolte molte ricchezze e viveva onorevolmente. E possedeva un figliuolo, ch’era bello e che sapeva molte cose e che si chiamava Schiavo d’amore, e una figliuola bellissima, che aveva per soprannome Forza dei cuori. Ora Abu-Eiub venne a morire e lasciò tutte le sue mercanzie fasciate e legate, e su tutte c’era scritto: Per Bagdad. E Schiavo d’amore domandò alla madre: – Perché c’è scritto per Bagdad su tutte le mercanzie di mio padre? – E la madre rispose: – Figliuol mio…. – Ma il Padiscià s’è addormentato e la schiava abbandona dolcemente il suo capo sopra i guanciali. Tutte le porte dell’arem son chiuse, tutti i lumi son spenti, la luna inargenta le cento cupole, le mezzelune e le finestre dorate luccicano tra gli alberi, le fontane zampillano rumorosamente nell’alto silenzio della notte: tutto il Serraglio riposa.

E così riposa da trent’anni, abbandonato sulla sua collina solitaria; e si possono ripetere per esso i versi del poeta persiano che vennero sulle labbra a Maometto il conquistatore quando pose il piede nel palazzo devastato degl’Imperatori d’Oriente: L’immondo ragno ordisce le sue tele nelle sale dei re, e dalle vette superbe d’Erasciab, il corvo vibra nell’aria il suo canto sinistro.


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

14- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: Le mura

14- Le mura

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

Il giro intorno alle antiche mura di Stambul lo volli far solo, e consiglio ad imitarmi tutti gl’Italiani che andranno a Costantinopoli, perché lo spettacolo delle grandi rovine solitarie non lascia un’impressione veramente profonda e durevole se non in chi è tutto inteso a riceverla, e può seguire liberamente il corso dei suoi pensieri, in silenzio. C’era da fare una passeggiata di circa quindici miglia italiane, a piedi, sotto i raggi del sole, per strade deserte. – Forse – dissi al mio amico – a metà strada mi piglierà la tristezza della solitudine e t’invocherò come un Santo; ma tant’è, voglio andar solo. – Alleggerii il portamonete per il caso che qualche ladro suburbano avesse voluto vederci dentro, gittai qualchecosa «dentro alle bramose canne» per poter dir poi a me stesso: – «taci, maledetto lupo» –; e m’incamminai alle otto della mattina, sotto un bel cielo lavato da una pioggerella della notte, verso il ponte della Sultana Validè.

Il mio disegno era d’uscire da Stambul per la porta del quartiere delle Blacherne, di percorrere la linea delle mura dal Corno d’oro fino al castello delle Sette Torri, e di ritornare lungo la riva del Mar di Marmara, girando così intorno a tutto il grande triangolo della città musulmana.

Passato il ponte, svoltai a destra e m’inoltrai nel vasto quartiere chiamato Istambul-disciaré, o Stambul esterna, che è una lunga striscia di città, compresa fra le mura ed il porto, tutta casupole e magazzini d’oli e di legna, stata distrutta più volte dagli incendi. Fra le viuzze e la riva del Corno d’oro, lungo la quale si stende una fila di piccoli scali e di seni pieni di bastimenti e di barconi, c’è un viavai fitto di facchini, di ciucci e di cammelli, un rimescolio di gente strana e di cose sporche, e un urlìo incomprensibile, che fa pensare a quei porti meravigliosi del mar dell’Indie e del mar della China dove s’incontrano i popoli e le merci dei due emisferi. Le mura che rimangono da questo lato della città, sono alte cinque volte un uomo, merlate, fiancheggiate di cento in cento passi da piccole torri quadrangolari, e in molte parti rovinate; ma sono il tratto meno notevole e per arte e per memorie delle mura di Stambul. Attraversai il quartiere del Fanar, passando sulla riva ingombra di fruttaioli, di pasticcieri, di venditori d’anice e di rosolio, e di cucine esposte all’aria aperta, in mezzo a gruppi di bei marinari greci atteggiati come le statue dei loro Numi antichi; girai intorno al vastissimo ghetto di Balata; percorsi il quartiere silenzioso delle Blacherne, e uscii finalmente di città per la porta chiamata Egri-Kapú, poco lontana dalla riva del Corno d’oro. Tutto questo è presto detto; ma è una camminata di un’ora e mezzo, ora in salita, ora in discesa, intorno a laghi di mota, sopra ciottoli enormi, per vicoli senza fine, sotto volte oscure, a traverso a vasti spazii solitari, senz’altra guida che la punta dei minareti della moschea di Selim. A un certo punto si cominciano a non veder più né facce né abiti di franchi; poi spariscono le casette all’europea; poi il ciottolato, poi le insegne delle botteghe, poi l’indicazione delle strade, poi ogni rumor di lavoro; e più si va innanzi, più i cani guardano torvo, più i monelli turchi fissano con l’occhio ardito, più le donne del volgo si nascondono la faccia con cura, fin che ci si trova in piena barbarie asiatica, e la passeggiata di due ore pare che sia stata un viaggio di due giorni.

Uscendo da Egri-Kapú, voltai a sinistra e vidi improvvisamente un larghissimo tratto delle mura famose che difendono Stambul dalla parte di terra.

Sono passati tre anni da quel momento; ma non posso ricordarmene senza provare un sentimento vivissimo di meraviglia. Non so in quale altro luogo dell’Oriente si trovino così raccolte la grandezza dell’opera umana, la maestà della potenza, la gloria dei secoli, la solennità delle memorie, la mestizia delle rovine, la bellezza della natura. È una vista che ispira insieme ammirazione, venerazione e terrore; uno spettacolo degno d’un canto d’Omero. A primo aspetto, si scoprirebbe il capo e si griderebbe: – Gloria! – come dinanzi a una schiera interminabile di giganteschi eroi mutilati.

La cinta delle mura e delle torri enormi si stende fin dove arriva lo sguardo, salendo e scendendo a seconda delle alture e degli avvallamenti, dove bassissima che par che si sprofondi nella terra, dove alta che par che coroni la sommità d’una montagna; svariata d’infinite forme di rovine, tinta di mille colori severi, dal calcareo fosco quasi nero al giallo caldo quasi dorato, e rivestita d’una vegetazione rigogliosa d’un verde cupo, che s’arrampica su per i muri, ricasca in ghirlande dai merli e dalle feritoie, si rizza in ciuffi alteri sulla cima delle torri, s’ammucchia in piramidi altissime, vien giù quasi a cascatelle dalle cortine, e colma brecce, spaccature e fossati, e si avanza fin sulla via. Sono tre ordini di mura che formano come una gradinata gigantesca di rovine: il muro interno, che è il più alto, fiancheggiato, a brevi distanze eguali, da grossissime torri quadrate; quel di mezzo, rafforzato da piccole torri rotonde; l’esterno senza torri, bassissimo, e difeso da un fosso largo e profondo, anticamente riempito dalle acque del Corno d’oro e del Mar di Marmara, ora coperto d’erba e di cespugli. Tutte queste mura sono ancora, presso a poco, quali erano il giorno dopo la presa di Costantinopoli: perché sono pochissima cosa i ristauri fatti da Maometto e da Bajazet II. Vi si vedono ancora le brecce che v’apersero i cannoni enormi d’Orbano, le tracce dei colpi degli arieti e delle catapulte, gli squarci delle mine, e tutti gl’indizi dei luoghi dove si diedero gli assalti più furiosi e si opposero le resistenze più disperate. Le torri rotonde delle mura di mezzo sono quasi tutte rovinate fino alle fondamenta; le torri delle mura interne, quasi tutte ritte; ma smerlate, scantonate, ridotte in punta alla sommità come tronchi d’alberi enormi acuminati a colpi d’accetta, e screpolate di cima in fondo o incavate alla base come scogli rosi dal mare. Pezzi smisurati di muratura, rotolati giù dalle cortine, ingombrano la piattaforma del muro di mezzo, quella del muro esterno ed il fosso. Piccoli sentieri serpeggiano fra le macerie e le erbacce e si perdono nell’ombra cupa della vegetazione alta, fra i macigni e gli scoscendimenti della terra messa a nudo dai muri precipitati. Ogni tratto di bastione compreso fra due torri è un quadro stupendo di rovine e di verde, pieno di maestà e di grandezza. Tutto è colossale, selvatico, irto, minaccioso, e improntato d’una bellezza pomposa e triste, che impone la riverenza. Par di vedere le rovine d’una catena sterminata di castelli feudali, o i resti d’una di quelle muraglie prodigiose che circondavano i grandi imperi leggendari dell’Asia orientale. La Costantinopoli del secolo decimonono è sparita; si è dinanzi alla città dei Costantini; si respira l’aria del quattrocento; tutti i pensieri corrono al giorno dell’immensa caduta e si rimane per un momento sbalorditi e sgomenti.

La porta per cui ero uscito, chiamata dai turchi Egri-Kapú, era quella famosa porta Caligaria, per la quale fece la sua entrata trionfale Giustiniano, ed entrò poi Alessio Comneno per impadronirsi del trono. Dinanzi v’è un cimitero musulmano. Nei primi giorni dell’assedio era stato messo là quello smisurato cannone d’Orbano, intorno al quale lavoravano quattrocento artiglieri e che cento buoi stentavano a smovere. La porta era difesa da Teodoro di Caristo e da Giovanni Greant, contro l’ala sinistra dell’esercito turco che si stendeva fino al Corno d’oro. Da quel punto fino al Mar di Marmara non c’è più un sobborgo né un gruppo di case. La strada corre diritta fra le mura e la campagna. Non v’è nulla che distragga dalla contemplazione delle rovine. Mi misi in cammino. Andai per un lungo tratto in mezzo a due cimiteri; uno cristiano a sinistra, sotto le mura; un altro maomettano, a destra, vastissimo e ombreggiato da una selva di cipressi. Il sole scottava; la strada si stendeva dinanzi a me bianca e solitaria, e sollevandosi a poco a poco tagliava con una linea retta, sulla sommità dell’altura, il cielo, limpidissimo. Da una parte le torri succedevano alle torri, dall’altra le tombe succedevano alle tombe. Non sentivo che il rumore cadenzato del mio passo e di tratto in tratto il fruscìo di un lucertolone fra i cespugli vicini. Andai così per un lungo tratto, fin che mi trovai impensatamente davanti a una bella porta quadrata, sormontata da un grande arco a tutto sesto e fiancheggiata da due grosse torri ottagone. Era la porta d’Adrianopoli, la Polyandria dei Greci; quella che sostenne nel 625, sotto Eraclio, l’urto formidabile degli Avari, che fu difesa contro Maometto II dai fratelli Paolo e Antonino Troilo Bochiardi, e che divenne poi la porta delle uscite e dell’entrate trionfali degli eserciti musulmani. Né dinanzi né intorno non c’era anima viva. Improvvisamente uscirono di galoppo due cavalieri turchi, mi ravvolsero in un nuvolo di polvere e sparirono per la strada d’Adrianopoli; poi tornò a regnare un silenzio profondo.

Di là, voltando le spalle alle mura, mi avanzai per la strada d’Adrianopoli, discesi nel vallone del Lykus, salii sopra un’altura, e mi trovai dinanzi al vastissimo piano ondulato e arido di Dahud-Pascià, dove tenne il quartier generale Maometto II, durante l’assedio di Costantinopoli. Stetti qualche tempo là immobile, guardando intorno con una mano sugli occhi, come per cercare le tracce dell’accampamento imperiale e rappresentarmi il grande e strano spettacolo che doveva offrire quel luogo sul finire della primavera del 1453. Là proprio rifluiva, come al suo cuore, la vita di tutto l’enorme esercito che stringeva nel suo formidabile amplesso la grande città moribonda. Di là partivano gli ordini fulminei che movevano le braccia di centomila operai, che facevano trascinare per terra duecento galere dalla baia di Besci-tass alla baia di Kassim-Pascià, che spingevano nelle viscere della terra eserciti di minatori armeni, che sguinzagliavano da cento parti i drappelli d’araldi ad annunziar l’ora degli assalti, e facevano, nel tempo che s’impiega a contare le pallottoline d’un tespì, tendere trecentomila archi e sguainare trecentomila scimitarre. Là i messi pallidi di Costantino s’incontravano coi genovesi di Galata venuti a vender l’olio per rinfrescare i cannoni d’Orbano e colle vedette musulmane che spiavano dalla riva del Mar di Marmara se apparissero all’orizzonte le flotte europee a portar gli ultimi soccorsi della cristianità all’ultimo baluardo dei Costantini. Là era un formicolio di cristiani rinnegati, d’avventurieri asiatici, di vecchi sceicchi, di dervis macilenti, laceri e stremati dalle lunghe marcie, che andavano e venivano affannosamente intorno alle tende di quattordicimila giannizzeri, fra schiere interminabili di cavalli bardati, fra lunghissime file di alti cammelli immobili, in mezzo a catapulte e a baliste infrante, a rottami di cannoni scoppiati, a piramidi di palle enormi di granito; incrociandosi con le processioni dei soldati polverosi che portavano a due a due, dalle mura all’aperta campagna, cadaveri sformati e feriti urlanti, a traverso una nuvola perpetua di fumo. In mezzo all’accampamento dei giannizzeri s’alzavano le tende variopinte della Corte, e al di sopra di queste, il padiglione vermiglio di Maometto II. E ogni mattina, allo spuntar del giorno, egli era là, ritto dinanzi all’apertura del suo padiglione, pallido della veglia affannosa della notte, col suo gran turbante ornato d’un pennacchio giallo e il suo lungo caffettano color di sangue, e fissava il suo sguardo d’aquila sull’immensa città che gli si stendeva dinanzi, tormentando con una mano la folta barba nera e coll’altra il manico d’argento del suo pugnale ricurvo. Accanto a lui c’era Orbano, l’inventore del cannone prodigioso, che doveva pochi giorni dopo, scoppiando, slanciare le sue ossa sulla spianata dell’Ippodromo; l’ammiraglio Balta-Ogli, già turbato dal presentimento della sconfitta, che fece cadere sul suo capo il bastone d’oro del Gran Signore; il comandante temerario dell’Epepolin, il grande castello mobile, coronato di torri e irto di ferro, che cadde poi incenerito davanti alla porta di San Romano; una corona di legisti e di poeti abbronzati dal sole di cento battaglie; un corteo di pascià colle membra coperte di cicatrici e i caffettani lacerati dalle freccie; una folla di giannizzeri giganteschi colle lame nude nel pugno e di sciaù armati di verghe di acciaio, pronti a far cadere le teste e a lacerare le carni ai ribelli e ai vigliacchi; tutto il fiore di quella sterminata moltitudine asiatica, piena di gioventù, di ferocia e di forza, che stava per rovesciarsi, come un torrente di ferro e di fuoco, sugli avanzi decrepiti dell’Impero bizantino; e tutti, immobili come statue, tinti di rosa dai primi raggi dell’aurora, guardavano all’orizzonte le mille cupole argentee della città promessa dal Profeta, sotto le quali sonavano, in quell’ora, le preghiere e i singhiozzi del popolo codardo. Io vedevo i visi, gli atteggiamenti, i pugnali, le pieghe delle cappe e dei caffettani, e le grandi ombre che s’allungavano sul terreno incavato dalle ruote dei cannoni e delle torri. Ma a un tratto, lasciando cader gli occhi sopra una grossa pietra mezzo affondata nella terra, e leggendovi una rozza iscrizione, quel gran quadro disparve come una visione fantasmagorica, e vidi sparpagliarsi per la pianura brulla una moltitudine allegra di cacciatori di Vincennes, di zuavi e di fantaccini dai calzoni rossi; sentii cantare le canzonette della Provenza e della Normandia; vidi il maresciallo Saint-Arnaud, Canrobert, Forey, Espinasse, Pelissier; riconobbi mille volti e mille colori vivi nella mia memoria e cari al mio cuore fin dall’infanzia… e rilessi con un sentimento inesprimibile di sorpresa e di piacere quella povera iscrizione. La quale diceva: – Eugène Saccard, caporal dans le 22° léger, 16 Juin 1854.

Di là ripassai per il vallone del Lykus e ritornai sulla strada che fiancheggia le mura, sempre solitaria e sempre serpeggiante fra le rovine e i cimiteri. Passai dinanzi all’antica porta militare di Pempti, ora murata; attraversai un’altra volta il Lykus, che entra nella città in quel punto, e arrivai finalmente dinanzi alla porta chiamata del Cannone, dal gran cannone d’Orbano, che v’era appostato davanti; la porta contro cui rivolse il suo ultimo assalto l’esercito di Maometto. Alzando gli occhi alla sommità delle mura, vidi dietro ai merli parecchie orribili facce nere, coi capelli scarmigliati, che mi guardavano in aria di stupore. Seppi poi che s’era annidata là una tribù di zingari, ficcando le sue capanne nelle spaccature delle cortine e delle torri. Qui le tracce della lotta sono veramente gigantesche e superbe: le mura sventrate, crivellate, stritolate; le torri dimezzate ed informi, le piattaforme sepolte sotto monti di ruderi, le feritoie squarciate, il terreno sconvolto, il fosso ingombro di rottami colossali, che sembrano massi di rocce franati da una montagna. La battaglia tremenda sembra stata combattuta il giorno innanzi e le rovine raccontano meglio d’una voce umana l’orribile eccidio di cui furono spettatrici. E fu poco meno che il medesimo dinanzi a tutte le porte, per tutta la lunghezza delle mura. La lotta cominciò allo spuntare del giorno. L’esercito ottomano era diviso in quattro enormi colonne, e preceduto da centomila volontari, che formavano un’immensa avanguardia predestinata alla morte. Tutta questa carne da cannone, questa turba indisciplinata e temeraria di tartari, di caucasei, d’arabi, di negri, guidati dagli sceicchi, eccitati dai dervis, cacciati innanzi a nerbate da un esercito di sciaù, si slanciò per la prima all’assalto, carica di terra e di fascine, formando una sola catena e cacciando un urlo solo dal Mar di Marmara al Corno d’oro. Arrivati sulla sponda del fosso, una grandine di ferro e di pietre li arresta e li macella; cadono a cento a cento, schiacciati dai macigni, crivellati dalle freccie, fulminati dalle palle, arsi dalle vampe delle spingarde, vecchi, fanciulli, schiavi, ladri, pastori, briganti; altre turbe, spinte da turbe più lontane, sottentrano; in poco tempo il fosso e le sponde sono coperte di mucchi di cadaveri, di membra palpitanti, di turbanti insanguinati, d’archi, di scimitarre; su cui altri torrenti d’armati passano muggendo e vanno a frangersi e a insanguinarsi ai piedi delle cortine e delle torri, sotto un rovescio più fitto di giavellotti e di sassi, in una nuvola densa che nasconde le mura, i difensori, i morti, la strada; fin che mille trombe ottomane fanno sentire i loro squilli selvaggi sopra il tumulto della battaglia, e la grande avanguardia dimezzata e sanguinosa retrocede confusamente da tutta la linea delle mura. Allora Maometto II sguinzaglia all’assalto il grosso delle sue forze. Tre grandi eserciti, tre fiumane d’uomini, condotti da cento Pascià, sorvolati da mille stendardi, s’avanzano, s’allargano, coprono le alture, allagano le valli, scendono levando un frastuono spaventoso di trombe, di timballi e di spade, e gettando un grido: – La Ilah illa lah! – che rimbomba come uno scoppio di fulmine dal Corno d’oro alle Sette Torri, spiccano la corsa e vanno a precipitarsi contro le mura come un oceano in tempesta contro una riva di rocce tagliate a picco. Allora comincia la grande battaglia, ossia cento battaglie, alle porte, alle brecce, nei fossi, sulle piattaforme, ai piedi delle cortine, da un capo all’altro dell’enorme baluardo secolare di Costantinopoli. Dieci mila feritoie vomitano la morte sopra duecento mila vite. Dall’alto delle cortine e delle torri ruzzolano i macigni, le travi, le botti piene di terra, le fascine accese. Le scale, cariche d’assalitori, rovinano; i ponti levatoi delle torri di assedio precipitano; le catapulte fiammeggiano. Schiere dietro schiere s’avventano e ricadono, sfolgorate, sulle macerie, sui molti sfracellati, sui moribondi, nel sangue, nell’acqua, sulle armi dei compagni, dentro a un fumo fitto, illuminato qua e là dalle vampe improvvise del fuoco greco, fra i sibili rabbiosi della mitraglia, fra gli scoppi delle mine, fra gli urli dei mutilati, fra i rimbombi formidabili delle diciotto batterie di Maometto, che fulminano la città dalle alture. Di tratto in tratto la battaglia si rallenta come per riprender respiro, e allora sulla larga breccia di porta San Romano, a traverso il fumo diradato, si vede per qualche momento ondeggiare il mantello di porpora di Costantino, scintillare le armature di Giustiniani e di Francesco di Toledo, e agitarsi confusamente le terribili figure dei trecento arcieri genovesi. Poi la mischia si riaccende, il fumo rinasconde le brecce, le scale si riappoggiano alle mura, e ricominciano a cader rovine su rovine e cadaveri su cadaveri alla porta d’Adrianopoli, alla porta Dorata, alla porta di Selymbria, alla porta di Tetarté, alla porta di Pempti, alla porta di Russion, alle Blacherne, all’Heptapyrgion; e turbe armate dietro turbe armate, che par che escano dalla terra, seguitano a irrompere contro le mura, valicano il fosso, superano le prime cortine, cadono, risorgono, s’arrampicano su per le macerie, strisciano sui cadaveri, sotto nuvoli di frecce, sotto tempeste di palle, sotto nembi di fuoco. Finalmente gli assalitori, diradati e sfiniti, cedono, retrocedono, si sparpagliano, e un grido altissimo di vittoria e un coro solenne di canti sacri s’innalza dalle mura. Dall’altura di fronte a San Romano, Maometto II, circondato da quattordicimila giannizzeri, vede, e rimane qualche tempo incerto se debba ritentare l’assalto o rinunziare all’impresa. Ma girato uno sguardo sui suoi formidabili soldati che lo guardano in volto fremendo d’impazienza e d’ira, si rizza superbamente sulle staffe e getta un’altra volta il grido della battaglia. Allora è la vendetta di Dio che si scatena. I giannizzeri rispondono con quattordicimila grida in un grido; le colonne si movono; una turba di dervis si spande per il campo a rianimare i dispersi, i sciaù arrestano i fuggenti, i pascià riformano le schiere, il Sultano, brandendo la sua mazza di ferro, s’avanza tra uno sfolgorio di scimitarre e d’archi, in mezzo a un mare di turbanti e di caschi; sulla porta di San Romano torna a rovesciarsi una grandine di frecce e di palle; Giustiniani, ferito, scompare; gl’italiani, scoraggiati, si scompigliano; il gigantesco giannizzero Hassan d’Olubad sale per il primo sui baluardi; Costantino, combattendo in mezzo agli ultimi suoi valorosi della Morea, è precipitato dai merli, lotta ancora sotto alla porta, stramazza in mezzo ai cadaveri…; l’Impero d’Oriente è caduto. La tradizione dice che un grande albero segnava il luogo dove fu trovato il corpo di Costantino; ma non ne vidi più traccia. Fra quei ruderi, dove corsero rigagnoli di sangue, la terra era tutta bianca di margheritine e di ombrellifere, sulle quali svolazzava un nuvolo di farfalle. Colsi un fiore per ricordo, sotto gli sguardi attoniti degli zingari, e mi rimisi in cammino.

Le mura mi si stendevano sempre dinanzi a perdita d’occhi. Nei luoghi alti nascondevano affatto la città, in modo che chi non l’avesse saputo, non avrebbe pensato mai che dietro quelle rovine solitarie e silenziose, ci potesse essere una vasta metropoli, coronata di grandi monumenti e abitata da un grande popolo. Nei luoghi bassi, invece, apparivano dietro i merli punte inargentate di minareti, sommità di cupole, tetti di chiese greche, vette di cipressi. Qua e là, per uno squarcio delle cortine, vedevo di sfuggita, come per una porta improvvisamente aperta e chiusa, un pezzo di città: gruppi di case che parevano abbandonate, vallette deserte, orti, giardini, e più lontano, sfumati nella chiarezza bianca del mezzogiorno, i contorni fantastici di Stambul. Passai dinanzi alla porta murata di Tetartè, non indicata che da due torri vicinissime. In quel tratto le mura sono meglio conservate. Si vedono dei lunghi pezzi delle cortine di Teodosio II, quasi intatte; delle belle torri del prefetto del Pretorio Antemio e dell’imperatore Ciro Costantino, che portano ancora gloriosamente sul capo invulnerato la loro corona di quindici secoli, e par che sfidino un nuovo assalto. In alcuni punti, sulle piattaforme, ci sono delle capanne di contadini, che danno un risalto inaspettato, colla loro fragile piccolezza, alla salda maestà delle mura, e paiono nidi d’uccelli appesi ai fianchi dirupati d’una montagna. E a destra sempre cimiteri, boschi di cipressi in salita e in discesa, vallette grigie di pietre sepolcrali; qui un convento di dervis, mezzo nascosto da una corona di platani; là un caffè solitario; più in là una fontana ombreggiata da un salice; e di là dai boschetti, sentieri bianchi che si perdono nella campagna alta ed arida, sotto un cielo abbagliante, in cui ruotano degli avvoltoi.

Dopo un altro quarto d’ora di cammino arrivai dinanzi alla porta chiamata Yeni- Mewle-hane, da un famoso convento di dervis che c’è davanti: una porta bassa, nella quale sono incastrate quattro colonne di marmo, e ai cui lati s’innalzano due torri quadrate, ornate d’un’iscrizione di Ciro Costantino, del 447, e d’un’iscrizione di Giustino II e di Sofia, nella quale l’ortografia dei nomi imperiali è sbagliata: saggio curioso della ignoranza barbarica del V secolo. Guardai dentro la porta, sulle mura, intorno al convento, nei cimiteri: non c’era anima nata. Riposai qualche momento appoggiato alle spallette del piccolo ponte che accavalcia il fosso delle mura, e poi ripresi la mia strada.

Io darei il ricordo d’una delle più belle vedute di Costantinopoli per poter trasfondere in chi legge soltanto un’ombra del sentimento profondo e singolarissimo che provavo andando così solo fra quelle due catene interminabili di rovine e di sepolcri, sotto quel sole, in quella solitudine severa, in mezzo a quella immensa pace. Molte volte, nei giorni tristi della mia vita, fantasticando, desiderai di trovarmi fra una carovana di gente misteriosa e muta, che camminasse eternamente, per paesi sconosciuti, verso una meta ignorata. Ebbene, quella strada rispondeva a quel mio desiderio. Avrei voluto che non finisse mai. Ma non m’inspirava mestizia; mi dava invece serenità e ardimento. Quei colori vigorosi della vegetazione, quelle forme ciclopiche delle mura, quelle grandi linee del terreno simili alle onde d’un oceano agitato, quelle solenni memorie d’imperatori, d’eserciti, di lotte titaniche, di popoli scomparsi, di generazioni defunte, accanto a quella città enorme, in quel silenzio mortale, rotto soltanto dal frullo possente delle ali dell’aquile che spiccavano il volo dalla sommità delle torri, mi destavano nella mente un ribollimento di fantasie gigantesche e di desideri smisurati, che mi raddoppiava il sentimento della vita. Avrei voluto esser più alto di due palmi e vestire l’armatura colossale del Grand’Elettore di Sassonia che avevo veduto nell’Armeria di Madrid, e che il mio passo risonasse in quel silenzio come il passo misurato d’un reggimento d’alabardieri del medioevo. Avrei voluto aver la forza d’un Titano per sollevare fra le braccia i ruderi immani di quelle mura superbe. Camminavo colla fronte alta, colle sopracciglia corrugate, colla mano destra serrata, apostrofando a grandi versi sciolti Costantino e Maometto, rapito in una specie d’ebbrezza guerriera, con tutta l’anima nel passato; e mi sentivo tanta giovinezza nella mente e nel sangue, ed ero così beato d’esser solo, e così geloso di quella solitudine piena di vita, che non avrei voluto incontrare nemmeno il più intimo dei miei amici.

Passai dinanzi all’antica porta militare di Trite, oggi chiusa. Le cortine e le torri sfracellate indicano che dinanzi a quel tratto di mura debbono esser stati posti alcuni dei grossi cannoni d’Orbano. Si crede anzi che fosse là una delle tre grandi brecce che Maometto II accennò all’esercito il giorno prima dell’assalto, quando disse: – Voi potrete entrare in Costantinopoli a cavallo per le tre brecce che ho aperte. – Di là riuscii davanti a una porta aperta, fiancheggiata da due torri ottagone, e riconobbi dal piccolo ponte a tre archi d’un bel color d’oro, la porta di Selivri, da cui partiva la grande strada che conduceva alla città di Selybmria, che le diede il nome, cangiato dai Turchi in Selivri. Durante l’assedio di Maometto, difendeva quella porta Maurizio Cattaneo, genovese. La strada conserva ancora alcune pietre del lastricato che vi fece fare Giustiniano. Dinanzi c’è un vasto cimitero e di là dal cimitero il monastero notissimo di Baluklù.

Appena entrato nel cimitero, trovai da me solo il luogo solitario dove sono sepolte le teste del famoso Alì di Tepeleni, pascià di Giannina; dei suoi figli: Velì, governatore di Trihala, Muctar, comandante d’Arlonia, Saalih, comandante di Lepanto; e di suo nipote Mehemet, figlio di Velì, comandante di Delvina. Sono cinque colonnine di pietra, terminate in forma di turbante, che portano tutte la data del 1827, e un’iscrizione semplicissima, fatta da quel povero Solimano dervis, amico d’infanzia d’Alì, che comperò le teste, dopo che furono staccate dai merli del Serraglio, e le seppellì di sua mano. L’iscrizione del cippo d’Alì, che è posto nel mezzo, dice: – Qui giace la testa del famoso Alì-Pascià di Tepeleni, governatore del Sangiaccato di Giannina, il quale, per più di cinquant’anni, s’affaticò per l’indipendenza dell’Albania. – Il che prova che anche sui sepolcri musulmani si scrivono delle pietose menzogne. Mi arrestai qualche momento a contemplare quella poca terra che copriva quel formidabile capo, e mi venivano in mente le domande d’Amleto al teschio di Yorik. Dove sono i tuoi Palicari, leone d’Epiro? Dove sono i tuoi bravi Arnauti e i tuoi palazzi irti di cannoni e il tuo bel chiosco riflesso dal lago di Giannina e i tuoi tesori sepolti nelle rocce e i begli occhi della tua Vasiliki? E pensavo alla bellissima donna vagante per le vie di Costantinopoli, povera e desolata dai ricordi della sua felicità e della sua grandezza, quando sentii un leggero fruscio, e voltandomi, vidi un uomo lungo e stecchito, vestito d’una gran tonaca scura, col capo scoperto, che mi guardava in aria interrogativa. Da un cenno che mi fece, capii che era un monaco greco di Baluklù, che voleva farmi vedere la fontana miracolosa, e m’incamminai con lui verso il monastero. Mi condusse a traverso un cortile silenzioso, aperse una porticina, accese una candela, mi fece scendere con sé per una scaletta, sotto una volta umida e oscura, e fermandosi dinanzi a una specie di cisterna, sulla quale raccolse con una mano la luce della fiammella, mi accennò di guardare i pesci rossi che guizzavano nell’acqua. Mentre guardavo, mi borbottò un discorso incomprensibile che doveva essere la favola famosa del miracolo dei pesci. Mentre i Musulmani davano l’ultimo assalto alle mura di Costantinopoli, un monaco greco, in quel convento, friggeva dei pesci. Improvvisamente s’affacciò alla porta della cucina un altro monaco, tutto atterrito, e gridò: – La città è presa! – Che! – rispose l’altro: – lo crederò quando vedrò i miei pesci saltar fuori della padella. – E i pesci saltarono fuori sull’atto, belli e vivi, mezzi bruni e mezzi rossi perché non erano fritti che da una parte, e furono rimessi religiosamente, come ognuno può pensare, nell’acqua dov’erano stati pigliati e dove guizzano ancora. Finita la sua chiacchierata, il monaco mi gettò sul viso alcune gocce dell’acqua sacra, che gli ricascarono in mano convertite in soldi, e dopo avermi riaccompagnato alla porta, stette un pezzo a guardarmi, mentre m’allontanavo, coi suoi piccoli occhi annoiati e sonnolenti.

E sempre, da una parte, mura dietro mura e torri dietro torri, e dall’altra cimiteri ombrosi, qualche campo verde, qualche vigneto, qualche casa chiusa, e di là, il deserto. Qualche volta, guardando le mura da un luogo basso, mi pareva di vederne l’ultimo profilo; ma fatta una breve salita, le vedevo di nuovo stendersi dinanzi a me senza fine, e a ogni passo saltavano fuori le torri, lontano, l’una dietro l’altra, a due, a tre insieme, come se accorressero sulla strada per veder chi turbava il silenzio di quella solitudine. La vegetazione, in quel tratto, è meravigliosa. Alberi frondosi si rizzano sulle torri, come sopra vasi giganteschi; dai merli spenzolano ciuffi di fiori gialli e di fiori rossi e ghirlande d’edera e di caprifoglio; di sotto ci son mucchi inestricabili di corbezzoli, di lentischi, di ortiche, di pruni, in mezzo a cui sorgono dei platani e dei salici, che coprono d’ombra il fosso e le sponde. Grandi tratti di muro sono completamente coperti dall’edera, che trattiene come una rete i mattoni e i calcinacci staccati, e nasconde le brecce e le feritoie. Il fosso è coltivato a orticelli; sulle sponde pascolano capre e pecore custodite da ragazzi greci, coricati all’ombra degli alberi; dai muri escono stormi d’uccelli; l’aria è piena delle fragranze acute dell’erbe selvatiche; e spira non so che allegrezza primaverile sulle rovine, che paiono inghirlandate e infiorate per il passaggio trionfale d’una Sultana. Tutt’a un tratto mi sentii nel volto un soffio d’aria salina, e alzando gli occhi vidi lontano, dinanzi a me, l’azzurro del Mar di Marmara. Nello stesso punto mi parve che una voce sommessa mi mormorasse nell’orecchio: – Il castello delle Sette Torri – e mi fermai un momento in mezzo alla strada, con un sentimento vago d’inquietudine. Poi ripresi il cammino, passai dinanzi all’antica porta Deleutera, oltrepassai la porta Melandesia, e mi trovai in faccia al castello.

Questo edificio di malaugurio, innalzato da Maometto II sull’antico Cyclobion dei Greci, per difendere la città nel punto in cui le mura che la proteggono dalla parte di terra si congiungono con quelle che la difendono dalla parte del Mar di Marmara, e convertito poi in prigione di Stato, appena le ulteriori conquiste dei Sultani, mettendo al sicuro Stambul dal pericolo d’un assedio, lo ebbero reso inutile come fortezza; non è più ora che uno scheletro di castello, custodito da pochi soldati; una rovina maledetta, piena di memorie dolorose e orribili, che corrono in leggende sinistre per le bocche di tutti i popoli di Costantinopoli, e non veduta dai viaggiatori, per solito, che di sfuggita, dalla prora del bastimento che li porta al Corno d’oro. I Turchi lo chiamano Jedi-Kulé, ed è per loro ciò che la Bastiglia per la Francia e la Torre di Londra per l’Inghilterra: un monumento che ricorda i tempi più nefandi della tirannia dei Sultani.

Le mura della città lo nascondono agli occhi di chi guarda dalla strada, eccetto due delle sette grandi torri che gli diedero il nome, delle quali non ce n’è più intere che quattro. Nel muro esterno rimangono due colonne corinzie, che appartenevano all’antica Porta dorata, per la quale fecero le loro entrate trionfali Narsete ed Eraclio, e che è la stessa, giusta una leggenda comune ai musulmani ed ai greci, per la quale passeranno i Cristiani il giorno che rientreranno vincitori nella città di Costantino. La porta d’entrata è dentro le mura, in una piccola torre quadrata, dinanzi a cui sonnecchia una sentinella in babbucce, la quale acconsente quasi sempre a lasciar entrare nello stesso tempo una moneta in tasca e un viaggiatore nel castello.

Entrai e mi trovai solo in un grande recinto, d’un aspetto lugubre di cimitero e di carcere, che mi fece arrestare il passo. Tutt’intorno s’alzano mura enormi e nere, che formano un pentagono, coronate di grosse torri quadrate e rotonde, altissime e basse, alcune diroccate, altre intere e coperte da alti tetti conici, rivestiti di piombo, e innumerevoli scale in rovina, che conducono ai merli e alle feritoie. Dentro al recinto c’è una vegetazione alta e fitta, dominata da un gruppo di cipressi e di platani, sopra i quali spunta il minareto d’una piccola moschea nascosta; fra le piante più basse, i tetti d’un gruppo di capanne, in cui dormono i soldati; nel mezzo, la tomba d’un visir che fu strangolato nel castello; qua e là i resti deformi d’un antico ridotto; e fra i cespugli e lungo i muri, frammenti di bassorilievi, tronchi di colonne e capitelli affondati nella terra, mezzo coperti dalle erbacce e dall’acqua dei pantani: un disordine bizzarro e triste, pieno di misteri e di minacce, che mette ripugnanza a inoltrarsi. Stetti un po’ incerto guardando intorno, e poi andai innanzi, con circospezione, come per timore di mettere il piede in una pozza di sangue. Le capanne erano chiuse, la moschea chiusa; tutto solitario e quieto, come in una rovina abbandonata. In qualche punto dei muri ci sono ancora tracce di croci greche, frammenti di monogrammi costantiniani, ali spezzate d’aquile romane e resti di fregi dell’antico edifizio bizantino, anneriti dal tempo. Su alcune pietre si vedono incise rozzamente delle iscrizioni greche in caratteri minuti: quasi tutte iscrizioni dei soldati di Costantino, che custodivano la fortezza, sotto il comando del fiorentino Giuliani, il giorno prima della caduta di Costantinopoli; povera gente rassegnata a morire, che invocava Iddio perchè salvasse la loro città dal saccheggio e le loro famiglie dalla schiavitù. Delle due torri poste dietro alla Porta dorata, una è quella in cui venivano chiusi gli ambasciatori degli Stati ch’erano in guerra coi Sultani, e vi si leggono ancora sui muri parecchie iscrizioni latine, delle quali la più recente è degli ambasciatori veneti imprigionati sotto il regno d’Ahmed III, quando scoppiò la guerra della Morea. L’altra è la torre famosa a cui si riferiscono le più lugubri tradizioni del castello: la torre che racchiudeva un labirinto di segrete orrende, sepolcri di vivi, nelle quali i visir e i grandi della Corte aspettavano, pregando nelle tenebre, l’apparizione del carnefice, o impazziti dalla disperazione, lasciavano sulle pareti le tracce sanguinose delle unghie e del cranio. In uno di quei sepolcri c’era il grande mortaio in cui si stritolavano le ossa e le carni agli ulema. A pian terreno v’è lo stanzone rotondo, chiamato prigione di sangue, dove si decapitavano secretamene i condannati, e si buttavano le teste in un pozzo, detto il pozzo di sangue, di cui si vede ancora la bocca nel mezzo del pavimento ineguale, coperta da due lastre di pietra. Sotto c’era la così detta caverna rocciosa, rischiarata da una lanterna appesa alla volta, dove si tagliava la pelle a strisce ai condannati alla tortura, si versava la pece infiammata nelle piaghe aperte dalle verghe e si schiacciavano colle mazze i piedi e le mani, e gli urli orrendi degli agonizzanti non arrivavano che come un lamento fioco agli orecchi dei prigionieri della torre. In un angolo del recinto si vedono ancora le tracce d’un cortile nel quale si troncava la testa, di notte, ai condannati comuni; e là vicino c’era ancora, non è gran tempo, un muro di ossa umane che s’innalzava fin quasi alla piattaforma del castello. Vicino all’entrata c’è la prigione di Otmano II, la prima vittima imperiale dei Giannizzeri. È la stanza dove il povero Sultano diciottenne, a cui la disperazione raddoppiava le forze, resistette furiosamente ai suoi quattro carnefici, fin che una mano spietata e codarda, esercitata a far gli eunuchi, lo afferrò «alle sorgenti della virilità» e gli strappò un altissimo grido, che fu soffocato dal capestro. In tutte le altre torri e in parte delle mura c’era un andirivieni di corridoi tenebrosi, di scalette segrete, di porte basse, chiuse da battenti di ferro o di travi, sotto le quali curvarono la testa per l’ultima volta pascià, principi imperiali, governatori, ciambellani, grandi ufficiali nel fiore della giovinezza e nel colmo della potenza, a cui tutto veniva tolto in un’ora; e il loro capo aveva già rigato di sangue le mura esterne del castello, che le loro spose li aspettavano ancora vestite a festa fra gli splendori degli arem. Passavano per quei corridoi stillanti d’acqua e per quelle scale sepolcrali, di notte, al lume delle lanterne, soldati e carnefici dalle mani sanguinose, e messaggeri del Serraglio che venivano a portare ai condannati a morte, ancora illusi da un barlume di speranza, l’ultimo no dei Sultani, e cadaveri cogli occhi fuor della fronte e coll’orrendo cordone di seta alla gola, portati da sciaù affannati e stanchi dalle lunghe lotte combattute nelle tenebre contro la rabbia della disperazione. Alla estremità opposta di Stambul, sulla collina del Serraglio, v’era il tribunale spaventoso della Corte. Qui era una macchina enorme di supplizio, coronata da sette patiboli di pietra, la quale riceveva dal mare e dalla terra, al lume della luna, le vittime vive, e non restituiva al sole che teschi e cadaveri; e dall’alto delle torri, in cui si moriva, le sentinelle notturne vedevano lontano i chioschi del Serraglio illuminati per le feste imperiali. Ed ora si prova un senso di piacere al veder il castello infame così deformato, come se tutte le vittime risuscitate l’avessero roso e sgretolato colle unghie e coi denti per vendicarsi sulle mura non potendo vendicarsi sugli uomini. Il grande mostro, disarmato e decrepito, sbadiglia colle cento bocche delle sue feritoie e delle sue porte squarciate, ridotto a un vano spauracchio, e una miriade di topi, di bisce e di scorpioni giallognoli, pullulati, come vermi, dal suo corpaccio infracidito, gli brulica nel ventre vuoto e per le reni spezzate, in mezzo a una vegetazione insolente che lo inghirlanda e lo impennacchia per ludibrio. Dopo essermi affacciato a varie porte senza veder altro che una fuga precipitosa di topacci, salii per una scala erbosa sopra una delle cortine del lato occidentale. Di là si domina tutto il castello: un vasto disordine di rovine, di torri, di merli, di scale, dì piatteforme, tutto nerastro o rosso cupo, intorno a un gran mucchio di verde vivo; e di là, altre torri e altri merli innumerevoli delle mura orientali di Stambul; così che a socchiuder gli occhi, par di vedere una sola vastissima fortezza abbandonata, che si disegna sull’azzurro del Mar di Marmara. A sinistra si vede una gran parte di Stambul, tagliata da parecchie lunghissime strade serpeggianti, che fuggono nella direzione dell’antica via trionfale degl’Imperatori Bizantini, la quale dalla Porta Dorata, passando per il foro d’Arcadio e per il foro di Costantino, andava fino alla reggia. Era una veduta immensa e ridente, che mi faceva parer più sinistro il mucchio di rovine malaugurate che avevo ai piedi. Rimasi lungo tempo là, appoggiato a un merlo infocato dal sole, abbagliato da una luce vivissima, guardando sotto quel grande sepolcro scoperchiato con quella curiosità pensierosa e diffidente con cui si guardano i luoghi dove fu commesso di fresco un delitto. Regnava un silenzio profondo. Per i muri correvano delle grosse lucertole, giù nei fossi gracidavano i rospi, sopra le torri roteavano dei corvi, intorno al capo mi ronzava un nuvolo d’insetti venuti su dai pantani delle rovine, e l’aria un po’ agitata mi portava il puzzo d’un cavallo putrefatto, disteso in fondo al fosso esterno della fortezza. Mi prese un senso di schifo e di ribrezzo; eppure mi sentivo inchiodato là, come affascinato, immerso in una specie d’assopimento; e tenendo gli occhi socchiusi, quasi sognando, in quella pace morta del mezzogiorno, mi pareva d’udire, nel ronzio monotono degl’insetti, il tonfo dei teschi gettati nel pozzo, le grida lamentevoli dei moribondi dei sotterranei e la voce del figliuolo minore di Brancovano, che sentendosi sul collo il freddo del capestro, gridava: – Padre mio! Padre mio! – E siccome ero stanco e la luce m’abbagliava, chiusi gli occhi e rimasi un momento assopito; e subito tutte quelle orribili immagini mi si affollarono alla mente con un’evidenza spaventosa. In quel punto fui riscosso da un grido acuto e sonoro, e vidi sotto, sul terrazzo del piccolo minareto, il muezzin della moschea del castello. Quella voce lenta, dolce, solenne, che parlava di Dio, in quel luogo, in quel momento, mi discese nel più profondo dell’anima! Pareva che parlasse in nome di tutti coloro che eran morti là dentro, che dicesse che i loro dolori non erano stati inutili, che le loro ultime lacrime erano state raccolte, che le loro torture avevano avuto un compenso, che essi avevano perdonato, che bisognava perdonare, che si doveva pregare e confidare in Dio, anche quando il mondo ci abbandona, e che tutto è vano sulla terra fuorchè questo sentimento infinito di amore e di pietà… E uscii dal castello, commosso.

Ripresi il mio cammino verso il mare lungo le mura esterne di Stambul. Là vicino c’è la stazione di Adrianopoli e s’incrociano sotto le mura parecchi tronchi di strada ferrata. Mi trovai in mezzo a lunghe file di vagoni logori e polverosi. Non c’era nessuno. Se fossi stato un turco fanatico, nemico delle novità europee, avrei potuto incendiare l’una dopo l’altra quelle baracche, e andarmene tranquillamente senz’essere molestato. Andai innanzi sull’orlo della strada temendo di sentire da un momento all’altro l’olà minaccioso d’un guardiano; ma nessuno mi diede noia, In poco tempo arrivai all’estremità delle mura. Credevo di poter entrare in Stambul per di là: fui deluso. Le mura del lato di terra si congiungono sulla spiaggia con quelle della parte di mare, e non c’è effigie di porta. Allora mi avanzai su per le rovine d’un antico molo e sedetti sopra un macigno, in mezzo all’acqua. Di là non vedevo altro che il Mar di Marmara, i monti dell’Asia, e le alture azzurrine, che parevano lontanissime, di Scutari. La spiaggia era deserta; mi pareva d’esser solo nell’universo. Le onde venivano a rompersi ai miei piedi e mi spruzzavano il volto. Rimasi là un pezzo, pensando a mille cose, vagamente. Vedevo me, solo, uscir dalla porta Caligaria e venir giù lentamente per la strada solitaria, fra i cimiteri e le torri, e seguitavo quell’uomo, come se fosse un altro. Poi mi diedi a cercare Yunk nella città immensa. Poi stetti a osservare le onde che venivano l’una dopo l’altra a distendersi mormorando sulla riva e sparivano l’una dopo l’altra in silenzio; e vedevo in esse l’immagine dei popoli e degli eserciti che eran venuti l’un dopo l’altro a urtarsi contro le mura di Bisanzio: le falangi di Pausania e d’Alcibiade, le legioni di Massimo e di Severo, le torme dei Persiani, le orde degli Avari, e gli Slavi e gli Arabi e i Bulgari e i Crociati, e gli eserciti di Michele Paleologo e di Comneno e quei di Baiazet Ilderim e quelli del secondo Amurat e quelli di Maometto il conquistatore, svaniti l’un dopo l’altro nel silenzio infinito della morte; e provavo la tristezza che stringeva il cuore al Leopardi la sera del dì di festa, quando sentiva morire a poco a poco il canto solitario dell’artigiano, che gli rammentava il suono dei popoli antichi, e pensava che tutto passa come un sogno sopra la terra.

Di là tornai indietro fino alla porta delle Sette Torri ed entrai dentro le mura per percorrere tutta Stambul lungo la riva del Mar di Marmara. Ero già mezzo sgambato; ma nelle lunghe passeggiate, a un certo punto, nasce dalla stanchezza medesima una cocciutaggine animalesca che ravviva le forze. Mi vedo ancora camminare e camminare per quelle strade deserte, sotto quel sole ardente, dominato da non so che sonnolenza fantastica, nella quale mi passavano dinanzi facce d’amici di Torino, episodi di romanzi, vedute di altri paesi e pensieri vaghi sulla vita umana e sull’immortalità dell’anima; e tutto metteva a capo alla tavola rotonda dell’albergo di Bisanzio, scintillante di lumi e di cristalli, che vedevo lontanissima, al di là d’una città cento volte più grande di Stambul, e già coperta dalla notte. Attraverso un sobborgo musulmano, che par disabitato, nel quale spira ancora la tristezza del castello delle Sette Torri, ed entro nel vasto quartiere di Psammatia, abitato da greci e da armeni, e anch’esso deserto. Vado innanzi per una interminabile stradicciuola tortuosa, dalla quale vedo giù a destra, fra casa e casa, le mura merlate della città, che profilano i loro merli neri nell’azzurro vivo del mare. Passo sotto la porta di Psammatia e mi trovo daccapo in un quartiere musulmano, tra finestre ingraticolate, porte chiuse, piccole moschee, giardini nascosti, cisterne erbose, fontane abbandonate. Attraverso lo spazio dov’era l’antico foro boario, vedendo sempre, giù a destra, le mura e le torri, e non incontrando che qualche cane che si ferma per vedermi passare e qualche monello turco, seduto in terra, che mi fissa in volto, pensando un’impertinenza. Qualche finestra s’apre e si chiude improvvisamente, e vedo di sfuggita una mano o il lembo d’una manica di donna. Giro intorno ai vasti giardini di Vlanga che fanno corona all’antico porto di Teodosio; vedo dei vasti spazi colle tracce d’un incendio recente, dei luoghi dove pare che la città finisca nella campagna, dei conventi di dervis, delle chiese greche, delle piazzette misteriose ombreggiate da un grande platano, sotto il quale sonnecchia qualche vecchio col bocchino del narghilè tra le dita. Vado innanzi, mi fermo dinanzi a un piccolo caffè per bere un bicchier d’acqua messo in mostra sulla finestra, chiamo, picchio, nessuno risponde. Esco dal quartiere greco di Jeni-Kapú, entro in un altro quartiere musulmano, rientro un’altra volta fra le casette greche ed armene del quartiere di porta Kum, e m’accompagnano sempre da una parte i merli delle mura e l’azzurro del mare, e non incontro che cani, mendicanti, monelli, e sento sonare in alto la voce dei muezzin che annunziano il tramonto. L’aria si fa oscura; e continuano a succedersi le casette, le moschee malinconiche, i crocicchi deserti, le imboccature dei vicoli; e comincio a sentirmi spossato e a pensare di buttarmi sopra una materassa dinanzi al primo caffè veduto, quando, a una svoltata, mi sorge improvvisamente dinanzi la mole enorme di Santa Sofia. Oh, la cara vista! Le forze mi tornano, i pensieri si rasserenano, affretto il passo, arrivo al porto, passo il ponte, ed ecco dinanzi alla porta illuminata del primo caffè di Galata, Yunk, Rosasco, Santoro, tutta la mia piccola Italia che mi viene incontro col volto sorridente e colle mani tese… e tiro uno dei più lunghi e larghi respiri che abbiano mai tirato i polmoni d’un galantuomo.


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

13- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: Ianghen Var

13- Ianghen Var

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

Stavo appunto fantasticando intorno a questa passeggiata, verso le cinque della mattina, nella mia camera dell’Albergo di Bisanzio, e così tra il sonno e la veglia, vedendo lontano la collina di Superga, cominciavo a dire alla mia hanum viaggiatrice: – «Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno fra due catene non interrotte….» – quando mi comparve dinanzi, col lume in mano, il mio amico Yunk «bianco vestito» e mi domandò con gran meraviglia: – Che cosa accade questa notte a Costantinopoli?

Tesi l’orecchio e sentii un rumore sordo e confuso che veniva dalla strada, un suono di passi affrettati per le scale, un mormorio, un fremito, che pareva di giorno. Mi affacciai alla finestra e vidi giù nell’oscurità un gran correre di gente verso il Corno d’oro. Corsi sul pianerottolo, afferrai un cameriere greco che scendeva le scale a precipizio e gli domandai che cos’era accaduto. Egli si svincolò dicendo: – Ianghen var, per Dio! Non avete sentito il grido? – E poi soggiunse scappando: – Guardate la cima della Torre di Galata. – Tornammo alla finestra e guardando giù verso Galata vedemmo tutta la parte superiore della gran torre illuminata da una luce purpurea vivissima, e una gran nuvola nera che s’alzava dalle case vicine in mezzo a un vortice di scintille e s’allargava rapidamente sopra il cielo stellato.

Subito il nostro pensiero corse ai formidabili incendi di Costantinopoli, e specialmente a quello spaventevole di quattr’anni innanzi; e il nostro primo sentimento fu di terrore e di compassione. Ma immediatamente dopo, – lo confesso e me ne vergogno, – un altro sentimento egoistico e crudele, – la curiosità del pittore e del descrittore, – prese il disopra e, – confesso anche questo, – ci scambiammo un sorriso che il Doré avrebbe potuto cogliere a volo per stamparlo sulla faccia d’uno dei suoi demoni danteschi. Chi ci avesse aperto il petto, in quel momento, non ci avrebbe trovato che un calamaio e una tavolozza.
Ci vestimmo e scendemmo in furia giù per la gran strada di Pera.

Ma la nostra curiosità, per fortuna, fu delusa. Non eravamo ancora arrivati alla torre di Galata che l’incendio era quasi spento. Finivano di bruciare due piccole case; la gente cominciava a ritirarsi; le strade erano allagate dall’acqua delle pompe e ingombre di mobili e di materasse, fra le quali andavano e venivano, nell’oscurità grigia del mattino, uomini e donne in camicia, tremanti dal freddo, levando in cento lingue un vocìo assordante, nel quale non si sentiva più che quel resto di paura che dà sapore alla chiacchiera dopo un grave pericolo svanito. Vedendo che tutto stava per finire, scendemmo verso il ponte per consolarci del nostro dispetto scellerato colla levata del sole.
Qui assistemmo a uno spettacolo che valeva quello d’un incendio.

Il cielo cominciava appena a chiarirsi dietro le colline dell’Asia. Stambul, scossa per poco al primo annunzio dell’incendio, era già rientrata nella quiete solenne della notte. Le rive e il ponte erano deserti; tutto il Corno d’oro dormiva, coperto da una bruma leggerissima e immerso in un silenzio profondo. Non moveva una barca, non volava un uccello, non stormiva un albero, non si sentiva un respiro. Quella interminabile città azzurra, muta e velata, pareva dipinta nell’aria, e sembrava che, gettando un grido, avrebbe dovuto svanire. Costantinopoli non ci s’era mai mostrata in un aspetto così aereo e così misterioso; non ci aveva mai presentato più vivamente l’immagine di quelle città favolose delle storie orientali, che il pellegrino vede sorgere improvvisamente dinanzi a sè, e vi trova, entrando, un popolo immobile, pietrificato, negli infiniti atteggiamenti di una vita affaccendata ed allegra, dalla vendetta improvvisa d’un Re dei geni. Stavamo là appoggiati alle spallette del ponte, contemplando quella scena meravigliosa, senza più pensare all’incendio, quando sentimmo prima un vocìo fioco e confuso di là dal Corno d’oro, come di gente che chiedesse soccorso, e poi uno scoppio di grida altissime: – Allah! Allah! Allah! – che risonarono improvvisamente nel vano enorme e silenzioso della rada, e nello stesso tempo apparve sulla sponda opposta, e si slanciò giù per il ponte, correndo precipitosamente verso di noi, una folla rumorosa e sinistra.
– Tulumbadgi! – gridò uno dei guardiani del ponte. – (I pompieri!)
Noi ci tirammo da una parte.

Un’orda di selvaggi seminudi, col capo scoperto, coi petti irsuti, grondanti di sudore, vecchi, giovani, neri, nani e giganti cappelluti e rapati, facce d’assassini e di ladri, quattro dei quali portavano sulle spalle una piccola pompa e pareva una bara di fanciullo; armati di lunghe aste uncinate, di fasci di corde, d’asce, e di picconi, – ci passarono accanto, urlando e anelando, cogli occhi dilatati, coi capelli sparsi, coi cenci al vento, stretti, impetuosi e biechi, – e gettandoci in viso una tanfata d’odora di belve, disparvero nella strada di Galata, d’onde ci giunsero le loro ultime grida fioche di Allah, e poi fu di nuovo un silenzio profondo.

L’impressione che mi fece quell’apparizione tumultuosa e fulminea in quella quiete arcana della grande città addormentata, non la so esprimere; – so che compresi e vidi in un momento mille scene d’invasioni barbariche, di saccheggi e d’orrori di paesi e di tempi lontani, che fino allora la mia immaginazione si era sforzata inutilmente di rappresentarsi al vivo, e che mi domandai se quella era la città, se quello era proprio il ponte, su cui, di giorno, passavano degli ambasciatori europei, delle signore vestite alla parigina e dei venditori di giornali francesi.

Un minuto dopo, il silenzio solenne del Corno d’oro fu rotto di nuovo da un gridio lontano, e un’altra turba scamiciata e selvaggia ci passò dinanzi, come un turbine, sul ponte ondeggiante e sonante, levando un frastuono confuso di urli, di sbuffi, d’aneliti, di risa soffocate e sinistre, e un’altra volta le grida prolungate e lamentevoli di Allah si perdettero per le strade di Galata, seguite da un silenzio mortale.

Poco dopo passò un’altra turba, e poi una quarta, e poi altre due, e infine passò il pazzo di Pera, nudo dalla testa ai piedi, mezzo morto dal freddo, gettando grida acutissime, inseguito da un branco di monelli turchi, che disparvero con lui e coi pompieri dietro le case della riva franca; e sulla grande città, dorata dai primi raggi dell’aurora, tornò a regnare un altissimo silenzio.

Di lì a poco si levò il sole, comparvero i muezzin sui minareti, si mossero i caicchi, si svegliò il porto, cominciò a passar gente sul ponte e a spandersi intorno il rumore sordo della vita cittadina, e noi ritornammo verso Pera. Ma l’immagine di quella grande città assopita, di quel cielo albeggiante, di quella pace solenne, di quelle orde selvagge, ci rimase così profondamente stampata nella mente, che oggi ancora non ci rivediamo una volta senza ricordarcela, con un misto piacevolissimo di stupore e di paura, come una scena veduta nella Stambul d’altri secoli, o sognata nell’ebbrezza dell’hascisc.

Così non vidi lo spettacolo di un incendio a Costantinopoli; ma se non lo vidi coi miei occhi, conobbi tanti testimoni oculari di quello che distrusse Pera nel 1870, e ne raccolsi notizie così minute, che posso dire d’averlo visto colla mente, e descriverlo forse con non minore evidenza che se ne fossi stato anch’io spettatore.

La prima fiamma s’accese in una piccola casa di via Feridié, in Pera, il giorno cinque di giugno, stagione in cui una buona parte della popolazione agiata di Costantinopoli villeggia sul Bosforo; al tocco dopo mezzogiorno, ora in cui quasi tutti gli abitanti della città, anche europei, stanno chiusi in casa a far la siesta. Nella casa di via Feridié non c’era che una vecchia serva; la famiglia era partita la mattina per la campagna. Appena s’accorse dell’incendio, la vecchia si slanciò nella strada e si mise a correre gridando: – Al fuoco! – Subito accorse gente dalle case intorno, con secchie e con piccole pompe –, perché era già caduta la legge insensata che proibiva di spegnere gli incendii prima che arrivassero gli ufficiali dei Seraschierato –, e, come sempre, si precipitarono tutti verso la fontana più vicina per prender acqua. Le fontane di Pera, a cui i portatori d’acqua vanno ad attingere, a certe ore, per le famiglie del quartiere, vengono tutte chiuse a chiave dopo la distribuzione, e l’impiegato che le ha in custodia non può più aprirle senza il permesso dell’autorità. In quel momento appunto v’era accanto alla fontana una guardia turca della municipalità di Pera, che aveva la chiave in tasca, e stava là spettatrice impassibile dell’incendio. La folla affannata lo circonda e gl’intima di aprire. Egli rifiuta dicendo che non ha l’ordine. Gli si stringono addosso, lo minacciano, lo afferrano: egli resiste, si dibatte, grida che non leveranno la chiave che dal suo cadavere. Intanto le fiamme avvolgono tutta la casa e cominciano ad attaccarsi alle case vicine. La notizia dell’incendio si propaga di quartiere in quartiere. Dalla sommità della torre di Galata e di quella del Seraschiere, i guardiani hanno visto il fumo e messo fuori le grandi ceste purpuree, segnale degl’incendi di giorno. Tutte le guardie di città corrono per le strade battendo i loro lunghi bastoni sul ciottolato e mettendo il grido sinistro: – Ianghen var! – C’è il fuoco! – a cui rispondono con rulli cupi e precipitosi i mille tamburi delle caserme. Il cannone di Top-hané annunzia il pericolo alla immensa città con tre colpi che risuonano dal mar di Marmara al mar Nero. Il Seraschierato, il serraglio, le ambasciate, tutta Pera e tutta Galata sono sottosopra; e pochi minuti dopo arrivano a spron battuto in via Feridié il ministro della guerra, un nuvolo di ufficiali, un esercito di pompieri, e cominciano precipitosamente il lavoro. Ma come accade quasi sempre, quel primo tentativo riuscì inutile. Le strade strettissime non concedevano libertà di movimenti; le pompe non servivano, l’acqua era insufficiente e lontana; i pompieri, mal disciplinati, come sempre, e piuttosto intesi a crescere che a scemare la confusione, per pescare nel torbido; e per di più scarseggiavano i facchini per il trasporto delle robe, essendone andato un gran numero, quel giorno, alla festa nazionale armena che si celebra a Beicos. È a notarsi, inoltre, che le case di legno erano allora in assai maggior numero che non siano ora, e che anche le case di pietra e di mattoni avevano, come quelle di legno, dei tetti sottili, difesi da radissime tegole, e perciò facilissimi ad accendersi. E non v’era nemmeno il vantaggio che presenta, in simili occasioni, la popolazione musulmana, la quale, fatalista ed apatica com’è in faccia alla sventura, non si atterrisce gran fatto all’aspetto d’un incendio, e se non aiuta abbastanza a spegnere, non intralcia almeno l’opera degli altri con la propria forsennatezza. Quella era popolazione quasi tutta cristiana e perdette immediatamente la testa. L’incendio non abbracciava ancora che poche case, che già in tutte le strade d’intorno era un tramestio indescrivibile, un precipitar di mobili dalle finestre, un tumulto di pianti e di grida, uno sgomento, un ingombro, contro cui non potevano né le minacce, né la forza, né le armi. Un’ora era appena trascorsa dall’apparire delle prime fiamme, e già tutta la strada Feridié era accesa, e gli ufficiali e i pompieri indietreggiavano rapidamente da tutte le parti, lasciando qua e là morti e feriti, e la speranza di soffocar l’incendio sul nascere era perduta. Per maggior disgrazia tirava quel giorno un vento fortissimo che abbatteva le fiamme delle case ardenti sopra i tetti delle case vicine, in larghe vampe orizzontali, che parevano tende ondeggianti, in modo che il fuoco penetrava in tutte le case dal tetto, come rovesciatovi sopra da un vulcano. L’accensione era così rapida, che le famiglie raccolte nelle case, sicure d’essere ancora in tempo a portar via una parte dei loro averi, si sentivano tutt’a un tratto crepitare il tetto sul capo, e appena riuscivano a metter in salvo la vita. Le case s’accendevano l’una dopo l’altra come se fossero state intonacate di pece, e subito, dalle innumerevoli finestrine prorompevano le fiamme lunghe, diritte, mobilissime, come serpenti smaniosi di preda, che si curvavano fino a lambire la strada quasi per cercar vittime umane. L’incendio non correva, volava, e prima di avvolgere, copriva, come un mare di fuoco. Dalla via Feridiè irruppe furiosamente nella via di Tarla- Bascì, di qui tornò indietro e invase come un torrente la via di Misc, poi infiammò come una foresta secca il quartiere Aga-Dgiami, poi la via Sakes-Agatsce, poi quella di Kalindgi- Kuluk, e poi di strada in strada, coprì di fuoco tutta la china di Yeni-Sceir, e s’incrociò col turbine di fiamme che veniva giù strepitando e muggendo per la gran strada di Pera. Non c’erano soltanto mille incendi da spegnere, mille nemici sparsi da combattere; erano come le insidie e i colpi di mano inaspettati d’un grande esercito, che pareva fosse guidato astutamente da una volontà unica, per cogliere nella rete la città intera, e non lasciar scampo a nessuno. Erano tanti torrenti di lava che si riunivano e s’incrociavano, precipitando e spandendosi in laghi di fuoco con una rapidità che preveniva tutti i soccorsi. In capo a tre ore metà di Pera era in fiamme. Una miriade di colonne di fumo vermiglio, sulfureo, bianco, nero, fuggivano rapidissimamente rasente i tetti e s’allungavano a perdita d’occhi lungo le colline, ottenebrando e tingendo di colori sinistri i vasti sobborghi del Corno d’oro; per tutto era un turbinio furioso di cenere e di scintille; e il vento sbatteva contro le case ancora intatte dei bassi quartieri una vera grandine di braci e di tizzi, che spazzavano le strade come scariche di mitraglia. Le strade dei quartieri accesi non erano più che grandi fornaci, sopra alcune delle quali le fiamme formavano come un fitto padiglione, e là precipitavano e saltellavano con un fracasso orrendo i pini del mar Nero delle travature dei tetti, i travicelli sottili dei ciardak, i balconi vetrati, i minareti di legno delle piccole moschee, che pareva rovinassero spezzati da un terremoto. Per le strade ancora accessibili, si vedevano passare, come spettri, illuminati da bagliori d’inferno, lancieri a cavallo, ventre a terra, che portavano in tutte le direzioni gli ordini del Seraschierato; ufficiali del Serraglio, col capo scoperto e la divisa abbruciacchiata; cavalli sciolti di soldati caduti; frotte di facchini carichi di masserizie, sciami di cani ululanti, turbe di fuggiaschi che inciampavano e stramazzavano urlando giù per le chine, tra i feriti, i cadaveri e le macerie, e sparivano tra il fumo e le fiamme, come legioni di dannati. Per un momento, fu visto immobile dinanzi all’imboccatura d’una strada accesa del quartier Aga-Dgiami, il Sultano Abdul-Aziz, a cavallo, circondato dal suo corteo, pallido come un cadavere, cogli occhi dilatati e fissi nelle fiamme, come se ripetesse tra sé le parole memorabili di Selim I: – Ecco il soffio ardente delle mie vittime! Io lo sento, che distruggerà la città, il mio serraglio e me pure! – E poi disparve in un nuvolo di cenere, trascinato dai suoi cortigiani. Tutto l’esercito di Costantinopoli e tutta l’innumerevole turba dei pompieri era in moto, a frotte, a lunghissime catene, a semicerchi immensi che abbracciavano interi quartieri, sorvegliati e diretti da visir, da ufficiali di corte, da pascià, da ulema; in alcuni punti, per tagliar la strada alle fiamme, fervevano battaglie disperate; case dietro case, in pochi minuti, cadevano sotto le scuri; i tetti formicolavano di gente ardita che affrontava il fuoco a bruciapelo, e cadevano a capofitto nei crateri aperti sotto i loro piedi, e altri vi succedevano, come in una mischia, ostinati, gettando grida selvagge, e agitando i fez abbruciacchiati in mezzo al fumo color di foco. Ma l’incendio s’avanzava vittorioso in mezzo ai mille getti d’acqua, sorpassando a grandi salti piazze, giardini, grandi edifici di pietra, piccoli cimiteri, e faceva da tutte le parti retrocedere pompieri, soldati e cittadini, come un esercito in rotta, flagellandoli alle spalle con una pioggia di carboni roventi. Si compievano, anche in quell’orrenda confusione, dei belli atti di coraggio e di umanità. Si videro in molti punti, fra le rovine ardenti delle case, sventolare i veli bianchi delle Suore di Carità, curve sui moribondi; dei turchi che si slanciarono tra le fiamme e ricomparvero poco dopo sollevando sulle braccia scorticate dei bambini cristiani; altri musulmani che, dinanzi a una casa infiammata, immobili, colle braccia incrociate in mezzo a una famiglia cristiana in preda alla disperazione, offrivano freddamente cento lire turche a chi salvasse un ragazzo europeo rimasto nel fuoco; alcuni che raccoglievano in drappelli, per le strade, i bimbi smarriti, e li legavano colle bende del turbante, per restituirli poi ai parenti; altri che aprivano le loro case ai fuggitivi seminudi; più d’uno, che, per dar un esempio di coraggio e di disprezzo dei beni terreni, mentre la propria casa bruciava, stava seduto nella via sopra un tappeto, fumando tranquillamente il narghilè, e si faceva in là, con suprema indifferenza, man mano che le fiamme s’avvicinavano. Ma il coraggio e la freddezza d’animo non valevano più oramai contro quella tempesta di fuoco. A momenti, pareva che, scemando un poco il vento, l’incendio rimettesse della sua furia; ma subito il vento ricominciava a soffiare con maggior veemenza, e le fiamme, che s’erano appena risollevate, tornavano a curvarsi con impeto e a vibrare come frecce le loro punte diritte e implacabili, levando uno strepito cupo e precipitoso, rotto dagli scoppi improvvisi delle farmacie piene di petrolio, dalle detonazioni del gas sparso per le case, di cui i tubi disfatti mandavano fuori rigagnoli di piombo fuso; dai tetti che rovinavano d’un colpo come schiacciati da una valanga; dal crepitìo dei giardini di cipressi che si contorcevano e s’infiammavano a un tratto, sciogliendosi in una pioggia di resina ardente; dai gruppi di vecchie case di legno, che s’accendevano scoppiettando come fuochi d’artifizio, e sprigionavano fasci enormi di fiamme bianche in cui parevano che soffiassero mantici di cento officine. Era uno stritolamento, un rovinio, una distruzione rabbiosa, che pareva prodotta nello stesso tempo da un incendio, da un’inondazione, da una convulsione della terra e dalla rapina d’un esercito. Nessuno aveva mai né visto né sognato un simile orrore. La popolazione pareva impazzita. Per le strade di Pera era un rimescolamento vertiginoso e un urlio forsennato come sul ponte d’un bastimento nel momento del naufragio. In mezzo ai mobili rotolati, sotto al balenio delle spade degli ufficiali, fra gli urti e le bastonate dei facchini e dei portatori d’acqua, in mezzo ai cavalli dei Pascià e alle frotte dei pompieri che passavano di corsa investendo e rovesciando quanto incontravano, famiglie italiane, francesi, greche, armene, poveri e ricchi, donne e fanciulli, smarriti, smemorati, si cercavano brancolando, si chiamavano gridando e piangendo, soffocati dal fumo e accecati dalle scintille; passavano ambasciatori, seguiti da drappelli di servi, carichi di carte e di libri; frati che innalzavano un crocifisso sopra la folla; gruppi di donne turche che portavano fra le braccia gli oggetti più preziosi dell’arem; stuoli di gente curva sotto spoglie di chiese, di teatri, di scuole, di moschee; e a quando a quando, una nuvola enorme di fumo caliginoso, spinta giù da una ventata improvvisa, immergeva tutti nelle tenebre e cresceva lo scompiglio e il terrore. A crescere ancora gli orrori di quel disastro, c’era, come sempre, ma più quel giorno che mai, una miriade di ladri d’ogni paese, sbucati da tutti i covi di Costantinopoli, riuniti a drappelli d’intesa fra loro, e vestiti da facchini, da signori o da soldati, i quali entravano nelle case e rubavano a man salva, e correvano poi in frotte a Kassim-Pascià e a Tataola, a depositarvi il bottino; e i soldati li cacciavano, stendendosi in cordoni, e assalendoli a pattuglie, e seguivano lotte, dispersioni e inseguimenti, che aggiungevano sgomento a sgomento. I pompieri, i facchini, i portatori d’acqua, spalleggiati dai loro parenti, stretti in bande brigantesche, sotto gli occhi delle famiglie desolate di cui ardevano le case, interrompevano il lavoro, e mettevano a prezzo d’oro la continuazione. I mobili ammucchiati a traverso le strade strette, difesi dalle famiglie, erano presi d’assalto da torme di predoni, colle armi alla mano, e poi ridifesi, come barricate, dall’assalto di altri predoni. Turbe di fuggitivi, incontrandosi colle loro robe nei varchi angusti, si disputavano ferocemente la precedenza del passaggio, e lasciavano il terreno ingombro di gente soffocata o ferita. Ma già dopo le prime quattr’ore d’incendio, la furia del foco era tale che pochi s’affannavano più per le proprie robe, e a tutti pareva già molto di metter in salvo la vita. Due terzi di Pera ardevano, e le fiamme, correndo sempre più rapidamente in tutte le direzioni, accerchiavano quasi all’improvviso dei vasti spazi prima che la gente, ch’era dentro, se ne avvedesse. Centinaia di sventurati, stretti in folla, si slanciavano su per una stradicciuola tortuosa per cercare uno scampo, e improvvisamente, a una svoltata, si vedevano venir contro un uragano di vampe e di fumo, che li ricacciava indietro, forsennati, a cercare un’altra uscita. Famiglie intere, – ed una, fra queste, di ventidue persone, – erano tutt’a un tratto circondate, asfissiate, arse, carbonizzate. Presi dalla disperazione, si rifugiavano nelle cantine dove rimanevano soffocati, si precipitavano nei pozzi e nelle cisterne, s’impiccavano agli alberi, o dopo aver cercato inutilmente un ricovero nei ripostigli più segreti della casa, smarrita la ragione, uscivano all’aperto e correvano a buttarsi nelle fiamme. Dai luoghi alti di Pera, si vedevano giù per le chine, in mezzo a cerchi di fuoco, famiglie inginocchiate sulle terrazze, colle braccia tese e le mani giunte, che chiedevano al cielo il soccorso che non speravano più dalla terra. Si vedevano venir giù di corsa dalle alture di Pera e sparpagliarsi per Galata, per Top-hanè, per Funduclù, per i bassi cimiteri, stormi di gente pallida e scapigliata, stravolta dal terrore, che cercava ancora dove nascondersi, come se fosse inseguita dal fuoco; fanciulli insanguinati, donne lacere, coi capelli arsi, che stringevano fra le braccia bimbi morti o acciecati; uomini col viso e le braccia scorticate che si scontorcevano per terra fra gli spasimi dell’agonia; vecchi singhiozzanti come bambini, signori ridotti alla miseria che davano del capo nei muri, giovanetti deliranti che andavano a cadere estenuati sulla riva del Corno d’oro, famiglie che portavano cadaveri anneriti, sventurati impazziti dallo spavento che trascinavano seggiole attaccate a uno spago o si serravano sul petto delle bracciate di cocci e di cenci, prorompendo in grida lamentevoli o in risa frenetiche. E intanto, continuavano a salire dai quartieri bassi, dagli arsenali di Ters- hanè e di Top-hanè, dalle caserme, dalle moschee, dai palazzi del Sultano, e correvano come a un assalto, urlando Janghen var e Allah, su per le colline, fra il turbinìo della cenere e delle scintille, sotto una pioggia di caligine ardente, per le strade coperte di tizzoni e di rottami, battaglioni di nizam, bande di ladri, falangi di pompieri, generali, dervis, messi della Corte, famiglie che tornavano indietro a cercare i parenti perduti, predatori ed eroi, la sventura, la carità e il delitto, confusi in una turba spaventevole, che montava rumoreggiando come un mare in tempesta, colorata dai riflessi vermigli dell’immensa fornace. E poco lontano da quell’inferno, rideva, come sempre, la maestà serena di Stambul e la bellezza primaverile della riva asiatica, specchiata dal mar di Marmara e dal Bosforo, coperto di bastimenti immobili; una folla immensa, che faceva nere tutte le rive, assisteva muta e impassibile allo spettacolo spaventoso; i muezzin annunziavano con lente cantilene dai terrazzi dei minareti il tramonto del sole; gli uccelli roteavano allegramente intorno alle moschee delle sette colline; e i vecchi turchi, seduti all’ombra dei platani, sopra le alture verdi di Scutari, mormoravano con voce pacata: – È sonata l’ultima ora per la città dei Sultani. – Il giorno prescritto è venuto. – La sentenza d’Allah si compisce. – Così sia –
Così sia.

L’incendio, per fortuna, non si protrasse nella notte. Alle sette della sera s’accendeva, per ultimo, il palazzo dell’ambasciata d’Inghilterra; dopo di che il vento cessava improvvisamente, e le fiamme morivano, spontaneamente o soffocate, da tutte le parti.
In sei ore due terzi di Pera erano stati distrutti dalle fondamenta, nove mila case incenerite, due mila persone morte.
Dopo l’incendio famoso del 1756, che distrusse ottanta mila case, e spianò due terzi di Stambul, sotto il regno di Otmano III, non s’era più visto un disastro così tremendo; e nessun incendio, dalla presa di Costantinopoli in poi, mieté un così gran numero di vite.

Il giorno seguente Pera offriva un aspetto meno spaventevole, ma non meno triste che durante l’infuriare dell’incendio. Dov’era passato il fuoco, era un deserto, e apparivano le forme nude e sinistre della grande collina; nuovi prospetti, una luce nuova, vastissimi spazi coperti di cenere in mezzo ai quali non rimanevano che le torricine affumicate dei camini, come monumenti funebri; quartieri interi scomparsi come accampamenti di beduini portati via dall’uragano; strade e crocicchi di cui non rimanevano più che le tracce nere e fumanti sulla terra, fra le quali erravano migliaia di sventurati cenciosi e sparuti, che chiedevano l’elemosina in mezzo a un via vai di soldati, di medici, di monache, di sacerdoti d’ogni religione e d’impiegati di tutti i gradi, che distribuivano pane e denaro, e guidavano lunghe file di carri carichi di materasse e di coperte, mandate dal governo per la gente rimasta senza casa. Il governo aveva fatto pure distribuire le tende dei soldati. Le alture di Tataola e il grande cimitero armeno erano coperti d’accampamenti, in cui brulicava una folla immensa. Per tutto si vedevano strati e monti di masserizie su cui sedevano famiglie estenuate e istupidite. Nel vasto cimitero di Galata erano sparsi e accatastati alla rinfusa, come in un bazar messo sottosopra, lungo i sentieri e in mezzo ai sepolcri, divani, letti, cuscini, pianoforti, quadri, libri, carrozze sconquassate, cavalli feriti legati ai cipressi, portantine dorate d’ambasciatori e gabbie di pappagalli degli arem, custoditi da una folla di servi e di facchini neri di caligine e cascanti di sonno. Una poveraglia innumerevole, immonda, non mai veduta, girava per le strade a cercar chiodi e serrature fra le macerie, scansando i soldati e i pompieri addormentati per terra, sfiniti dalle fatiche della notte; si vedeva per tutto gente affaccendata a rizzar baracche sulle rovine delle proprie case, con tende ed assiti; famiglie inginocchiate in mezzo ai muri affumicati di chiese senza tetto, dinanzi ad altari bruciati; gruppi di uomini e di donne che correvano affannosamente, col capo chino, osservando viso per viso lunghe file di cadaveri carbonizzati e sformati, e lì riconoscimenti, grida disperate, scoppi di pianto, gente che stramazzava come fulminata, in mezzo a una processione di lettighe e di bare, a un polverio denso, a un’aria infocata, a un puzzo di carni arse, a nuvoli di scintille che si sollevavano improvvisamente sotto le vanghe e i picconi degli scavatori, e ricadevano sopra una folla fitta, lenta, silenziosa, sbalordita, accorsa da tutte le parti di Costantinopoli, sopra alla quale apparivano le facce pallide e gravi dei Consoli e degli Ambasciatori, che arrestavano i cavalli sui crocicchi, e guardavano intorno sgomentati dall’immensità del disastro.

Eppure anche quell’immenso disastro, come segue sempre nei paesi orientali, fu presto dimenticato. Quattro anni dopo io non ne vidi più traccia, fuorché qualche tratto di terreno sgombro all’estremità di Pera, dinanzi all’altura di Tataola. Dell’incendio si parlava già come d’un avvenimento molto lontano. Per qualche tempo, mentre le ceneri erano ancora calde, i giornali avevano chiesto al governo dei provvedimenti: che riordinasse il corpo dei pompieri, che mutasse le pompe, che si procurasse maggior abbondanza d’acqua, che regolasse la costruzione delle case; ma il governo aveva fatto il sordo e gli europei avevano rimesso il cuore in pace, continuando a vivere alla turca, ossia fidando un po’ nel buon Dio e un po’ nella buona fortuna.

Così, nulla o quasi nulla essendo mutato, si può andar sicuri che quello del 1870 non fu l’ultimo dei grandi incendi dai quali «è scritto» che la città dei Sultani sia ogni tanti anni desolata. Le case di Pera sono ora quasi tutte, è vero, di muratura; ma costrutte la maggior parte malamente, da architetti senza studii e senza esperienza, non invigilati dal Governo, e spesso anche costrutte dal primo venuto, in maniera che molte rovinano prima d’esser terminate, e quelle che rimangono su, non possono opporre alcuna resistenza alle fiamme. L’acqua, specialmente a Pera, è sempre scarsa e soggetta a un monopolio vergognoso; e siccome viene in gran parte dai serbatoi del villaggio di Belgrado, costrutti dai Romani, manca affatto quando non cadono piogge abbondanti in primavera e in autunno; onde chi ha denari deve pagarla a peso d’oro e i poveri bevono fango. I pompieri sono sempre piuttosto una grande banda di malfattori, che un corpo ordinato di operai; banda composta di gente d’ogni paese, dipendenti più di nome che di fatto dal Seraschierato, da cui non ricevono che una razione di pane; inesperti, indisciplinati, ladri, detestati e temuti dalla popolazione quanto il fuoco che non sanno spegnere, e sospetti, non senza fondamento, di desiderare gl’incendi, come occasione di far bottino. Le pompe non scarseggiano, è vero, e i turchi ne vanno alteri come di macchine meravigliose; ma sono ridicole carabattole, che contengono una dozzina di litri d’acqua, e mandano uno zampillo sottilissimo, piuttosto adatto a innaffiare giardini che a spegnere incendi. E sarebbe nondimeno una gran fortuna, se rimanendo questi inconvenienti, fossero cessati gli altri, che sono molto più gravi. Non è credibile, senza dubbio, quello che molti credono ancora, che il Governo, cioè, susciti gl’incendi per allargare le strade, chè il danno e il pericolo sarebbero troppo sproporzionati ai vantaggi; né accade più come per il passato, che il «partito d’opposizione» dia fuoco a un quartiere di Costantinopoli per spaventare il Sultano, né che l’esercito incendi un sobborgo per ottenere un accrescimento di paga. Ma il sospetto, che gl’incendi siano molte volte suscitati da coloro che ne possono trarre guadagno, è sempre vivo, e il fatto provò troppo spesso che non è un sospetto infondato. Per il che la popolazione vive in un’ansietà continua. Teme dei portatori d’acqua, dei facchini, degli architetti, dei mercanti di legna e di calce, e massimamente dei servitori, che sono la peggior genìa di Costantinopoli, legati la maggior parte con ladri, i quali sono alla loro volta ordinati in associazioni e in comitati, da cui altre compagnie occulte comprano la roba rubata e facilitano con vari mezzi il delitto. E la polizia locale mostra con questa gente una fiacchezza, per non chiamarla indulgenza, la quale produce quasi gli effetti della complicità. Non fu mai condannato un incendiario. Raramente i ladri, dopo gl’incendi, sono colti e puniti. È anche più raro che gli oggetti sequestrati dalla polizia siano restituiti ai proprietari. Di più, essendoci a Costantinopoli del canagliume di tutti i paesi, l’azione della giustizia è inceppata in mille modi dai trattati internazionali; i Consolati reclamano a sé i malfattori della propria nazione; i processi durano un secolo; molti delinquenti scappano; il timore del castigo non serve quasi affatto di freno agli scellerati, e il saccheggio negl’incendi è considerato da loro quasi come un privilegio tacitamente riconosciuto dalle autorità, come era altre volte per gli eserciti il mettere a sacco le città espugnate. Per questo la parola «incendio» significa ancora per la popolazione di Costantinopoli «tutte le sventure» e il grido di Janghen var è sempre un grido tremendo, solenne, fatale, al cui suono tutta la città si rimescola fin nel più profondo delle sue viscere, come all’annunzio d’un castigo di Dio. E chi sa quante volte la grande metropoli dovrà ancora essere incenerita e rialzata sulle sue ceneri prima che la civiltà europea abbia piantato la sua bandiera sul palazzo imperiale di Dolma-Bagcé!

Nei tempi andati, quando scoppiava un incendio in Costantinopoli, se il Sultano si trovava in quel momento nell’arem, gli portava l’annunzio del pericolo un’odalisca tutta vestita color di porpora dal turbante alle babbucce, la quale aveva l’ordine di presentarsi a Lui in qualunque luogo egli fosse; fosse anche stato in braccio alla più cara delle sue favorite. Essa non aveva che da presentarsi sulla soglia: il color di fuoco dei suoi panni era l’annunzio muto della sventura. Ebbene, chi crederebbe che fra tante immagini grandiose e terribili che mi si affacciano alla mente quando penso agl’incendi di Costantinopoli, sia la figura di quell’odalisca quella che scuote più vivamente tutte le mie fibre d’artista? Io vorrei essere pittore per dipingere quel quadro, e supplicherò tutti i pittori di dipingerlo, sin che n’abbia trovato uno che s’innamori dell’argomento, e a lui sarò grato per la vita. Egli rappresenterà, in una stanza dell’arem imperiale, tappezzata di raso e rischiarata da una luce soavissima, sopra un largo divano, accanto a una circassa bionda di quindici anni, coperta di perle, Selim I, il Sultano tremendo, che s’è svincolato impetuosamente dalle braccia della sua cadina, e fissa i grand’occhi atterriti sopra l’odalisca purpurea, muta, sinistra, ritta sulla soglia come una statua, la quale, con un volto pallido che rivela la venerazione e il terrore, sembra voler dire: – Re dei Re, Allà ti chiama e il tuo popolo desolato t’aspetta! – e sollevando la cortina della porta, mostra di là da un terrazzo, in una grande lontananza azzurrina, la città enorme che fuma.


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

12- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: Le Turche

12- Le Turche

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

È una grande sorpresa per chi arriva a Costantinopoli, dopo aver inteso parlar tanto della schiavitù delle donne turche, il veder donne da tutte le parti e a tutte le ore del giorno, come in una qualunque città europea. Pare che appunto in quel giorno a tutte quelle rondini prigioniere sia stato dato il volo per la prima volta e che sia cominciata un’era nuova di libertà per il bel sesso musulmano. La prima impressione è curiosissima. Lo straniero si domanda, al vedere tutte le donne con quei veli bianchi e quelle lunghe cappe di colori ciarlataneschi, se son maschere o monache o pazze; e siccome non se ne vede una sola accompagnata da un uomo, pare che non debbano essere di nessuno, che siano tutte vedove o ragazze, o che appartengano tutte a un qualche grande ritiro di «malmaritate». Nei primi giorni non ci si può persuadere che tutti quei turchi e tutte quelle turche che s’incontrano e si toccano senza guardarsi e senza accompagnarsi mai, possano avere tra loro qualcosa di comune. E ogni momento s’è costretti a fermarsi per osservare quelle strane figure e per meditare su quello stranissimo uso. Son queste dunque, si dice, son proprio queste quelle «avvincitrici di cuori», quelle «fonti di piacere», quelle «piccole foglie di rosa» e «uve primaticcie» e «rugiade del mattino» e «aurore» e «vivificatrici» e «lune splendenti» di cui mille poeti ci hanno empita la testa? Queste le hanum e le odalische misteriose, che a vent’anni, leggendo le ballate di Victor Hugo all’ombra d’un giardino, abbiamo sognate tante volte, come creature d’un altro mondo, di cui un solo amplesso avrebbe consunto tutte le forze della nostra giovinezza? Queste le belle infelici, nascoste dalle grate, vigilate dagli eunuchi, separate dal mondo, che passano sulla terra, come larve, gettando un grido di voluttà e un grido di dolore? Vediamo che cosa c’è ancora di vero in tutta questa poesia.

Prima di tutto, il viso della donna turca non è più un mistero, e perciò una gran parte della poesia che la circondava è svanita. Quel velo geloso che, secondo il Corano, doveva essere «un segno della sua virtù e un freno ai discorsi del mondo» non è più che un’apparenza. Tutti sanno come è fatto il jasmac. Sono due grandi veli bianchi, di cui uno, stretto intorno al capo come una benda, copre la fronte fino alle sopracciglia, s’annoda dietro, nei capelli, al di sopra della nuca, e ricade sulla schiena, in due lembi, fino alla cintura; l’altro copre tutta la parte inferiore del viso, e va ad annodarsi col primo, in modo che par tutto un velo solo. Ma questi due veli, che dovrebbero essere di mussolina e stretti in maniera da non lasciar vedere che gli occhi e la sommità delle guance, sono invece di tulle radissimo, e allentati tanto, che lasciano vedere non solo il viso, ma gli orecchi, il collo, le trecce, e spesso anche i cappellini all’europea, ornati di penne e di fiori, che portano le signore «riformate». E perciò accade appunto il contrario di quello che si vedeva una volta, quando alle donne attempate era lecito di andare col viso un po’ più scoperto, e alle giovani era imposto di coprirsi più rigorosamente. Ora son le giovani, e specialmente le belle, quelle che si mostrano meglio, e son le vecchie che per ingannare il mondo portano il velo fitto e serrato. Quindi un’infinità di bei misteri e di belle sorprese, raccontate dai romanzieri e dai poeti, non sono più possibili; ed è una fiaba, fra le altre, quella che lo sposo veda per la prima volta il viso della sua sposa nella notte nuziale. Ma fuorché il viso, tutto è ancora nascosto; non si può intravvedere né il seno, né la vita, né il braccio, né il fianco; il feregé nasconde rigorosamente ogni cosa. È una specie di tonaca, guernita d’una pellegrina, di maniche lunghissime, larga, senza garbo, cadente come un mantellaccio dalle spalle ai piedi, di panno l’inverno, di seta l’estate, e tutta d’un colore, quasi sempre vivissimo: ora rosso vivo, ora ranciato, ora verde; e l’uno o l’altro predomina d’anno in anno, rimanendo inalterata la forma. Ma benché insaccate in quel modo, tanta è l’arte con cui sanno aggiustarsi il jasmac, che le belle paiono bellissime, e le brutte graziose. Non si può dire che cosa fanno con quei due veli, con che grazia se li dispongono a corona e a turbante, con che ampiezza e con che nobiltà di pieghe li ravvolgono e li sovrappongono, con che leggerezza e con che elegante trascuranza li allentano e li lasciano cadere, come li fanno servire nello stesso tempo a mostrare, a nascondere, a promettere, a proporre degli indovinelli e a rivelare inaspettatamente delle piccole meraviglie. Alcune pare che abbiano intorno al capo una nuvola bianca e diafana, che debba svanire ad un soffio; altre sembrano inghirlandate di gigli e di gelsomini; tutte paiono di pelle bianchissima, e prendono da quei veli delle sfumature nivee e un’apparenza di morbidezza e di freschezza che innamora. È un’acconciatura ad un tempo austera e ridente, che ha qualche cosa di sacerdotale e di virgineo; sotto la quale pare che non debbano nascere che pensieri gentili e capricci innocenti…. Ma vi nasce un po’ d’ogni cosa.

È difficile definire la bellezza della donna turca. Posso dire che quando ci penso vedo un viso bianchissimo, due occhi neri, una bocca purpurea e un’espressione di dolcezza. Quasi tutte però son dipinte. S’imbiancano il viso con pasta di mandorle e di gelsomino, s’ingrandiscono le sopracciglia con inchiostro di china, si tingono le palpebre, s’infarinano il collo, si fanno un cerchio nero intorno agli occhi, si mettono dei nei sulle guance. Ma fanno questo con garbo; non come le belle di Fez, che si danno delle pennellate da imbianchini. La maggior parte hanno un bel contorno ovale, un nasino un po’ arcato, le labbra grossette, il mento rotondo, colla fossetta; molte hanno le fossette anche nelle guance; un bel collo lunghetto e flessibile; e mani piccine, quasi sempre coperte, peccato, dalle maniche della cappa. Quasi tutte poi sono grassotte e moltissime di statura più che mezzana: rarissime le acciughe e i crostini dei nostri paesi. Se hanno un difetto comune, è quello di camminar curve e un po’ scomposte, con una certa cascaggine di bambolone cresciute tutt’a un tratto; il che deriva, si dice, da una mollezza di membra, di cui è cagione l’abuso del bagno, ed anche un po’ dalla calzatura disadatta. Si vedono, infatti, delle donnine elegantissime, che debbono avere un piedino di nulla, calzate di babbucce da uomo o di stivaletti lunghi, larghi e aggrinziti, che una pezzente europea sdegnerebbe. Ma anche in quella brutta andatura hanno un certo garbo fanciullesco che, quando ci si è fatto l’occhio, non dispiace. Non si vede nessuna di quelle figure impettite, di quelle mostre da modista, così frequenti nelle città europee, che vanno a passetti di marionetta, e che par che saltellino sopra uno scacchiere. Non hanno ancora perduto la pesantezza e la trascuranza naturale dell’andatura orientale, e se la perdessero, riuscirebbero forse più maestose, ma meno simpatiche. Si vedono delle figure bellissime e di bellezza infinitamente svariata, poiché c’entra col sangue turco, il sangue circasso, l’arabo, il persiano. Ci sono delle matrone di trent’anni, di forme opulente, che il feregé non basta a nascondere, altissime, con grandi occhi scuri, colle labbra tumide, colle narici dilatate, – pezzi di hanum da far tremare cento schiave con uno sguardo, – vedendo le quali, par davvero una ridicola e temeraria spacconata quella dei signori turchi che pretendono d’esser quattro volte mariti. Ce n’è dell’altre, piccolette e paffutelle, che han tutto rotondo – volto, occhi, naso, bocca – ed un’aria così queta, così benevola, così bambina, un’apparenza di rassegnazione così docile al loro destino, di non essere che un trastullo e una ricreazione, che passandogli accanto, vi verrebbe voglia di mettergli in bocca una caramella. Ci son poi anche le figurine svelte, sposine di sedici anni, ardite e vivacissime, cogli occhi pieni di capricci e d’astuzie, che fanno pensare con un sentimento di pietà al povero effendi che le ha da tenere in freno e al disgraziato eunuco che le deve tener d’occhio. E la città si presta mirabilmente a inquadrare, per dir così, la loro bellezza e il loro vestiario. Bisogna vedere una di quelle figurine col velo bianco e col feregé purpureo, seduta in un caicco, in mezzo all’azzurro del Bosforo; o adagiata sull’erba, in mezzo al verde bruno d’un cimitero; o anche meglio, vederla venir giù per una stradetta ripida e solitaria di Stambul, chiusa in fondo da un grande platano, quando tira vento, e i veli e il feregé svolazzano, e scoprono collo, piedino e calzina; e v’assicuro che in quel momento, se fosse sempre in vigore l’indulgente decreto di Solimano il Magnifico, che multa d’un aspro ogni bacio dato alla moglie e alla figliola altrui, allungherebbe un calcio all’avarizia anche Arpagone. E non c’è caso che quando tira vento, la donna turca s’affanni a tener basso il feregé, perché il pudore delle musulmane non va più in giù delle ginocchia, e s’arresta qualche volta assai prima.

Una cosa che stupisce, sulle prime, è la loro maniera di guardare e di ridere, che scuserebbe qualunque giudizio più temerario. Accade spessissimo che un giovane europeo, guardando fisso una donna turca, anche di alto bordo, sia ricambiato con uno sguardo sorridente o con un sorriso aperto. Non è raro nemmeno che una bella hanum in carrozza, faccia, di nascosto all’eunuco, un saluto grazioso colla mano a un giovanotto franco a cui si sia accorta di piacere. Qualche volta, in un cimitero o in una strada appartata, una turca capricciosa s’arrischia perfino a gettare un fiore passando, o a lasciarlo cadere in terra coll’intenzione manifesta che sia raccolto dal giaurro elegante che le vien dietro. Per questo un viaggiatore fatuo può prendere dei grandi abbagli, e ci sono infatti degli europei scimuniti, che, essendo stati un mese a Costantinopoli, credono in buona fede d’aver rubata la pace a un centinaio di sventurate. C’è senza dubbio, in quegli atti, un’espressione ingenua di simpatia; ma c’entra in parte assai maggiore uno spirito di ribellione, che tutte le turche hanno in cuore, nato dall’uggia della soggezione in cui sono tenute, e al quale danno sfogo, come e quando possono, in piccole monellerie, non fosse che per far dispetto, in segreto, ai loro padroni. Fanno in quel modo più per fanciullaggine che per civetteria. E la loro civetteria è d’un genere singolarissimo, che somiglia molto ai primi esperimenti delle ragazzine quando cominciano ad accorgersi d’esser guardate. È un gran ridere, un guardare in su colla bocca aperta in atto di stupore, un fingere d’aver male al capo o a una gamba, certi atti di dispetto il feregé che le imbarazza, certi scatti da scolarette, che sembrano fatti più per far ridere che per sedurre. Mai un atteggiamento da salotto o da fotografia. Quella po’ d’arte che mostrano è proprio un’arte rudimentale. Si vede, come direbbe il Tommaseo, che non hanno molti veli da gettar via; che non sono abituate ai lunghi amoreggiamenti, ad «essere circuite alla muta» come le donne geroglifiche del Giusti; e che quando hanno una simpatia, invece di star lì tanto a sospirare e a girar gli occhi, direbbero addirittura, se potessero esprimere il loro sentimento: – Cristiano, tu mi piaci. – Non potendolo dire colla voce, glie lo dicono francamente, mostrando due belle file di perle luccicanti, ossia ridendogli sul viso. Sono belle tartare ingentilite.

E son libere: è una verità che lo straniero tocca con mano appena arrivato. È una esagerazione il dire come Lady Montague che son più libere delle europee; ma chiunque è stato a Costantinopoli non può a meno di ridere quando sente parlare della loro «schiavitù». Le signore, quando vogliono uscire, ordinano agli eunuchi di preparar la carrozza, escono senza chiedere il permesso a nessuno, e tornano a casa quando vogliono, purché sia prima di notte. Una volta non potevano uscire senz’essere accompagnate da un eunuco, o da una schiava, o da un’amica, e le più ardite, se non avessero voluto altri, avrebbero dovuto almeno condurre con sé un figlioletto, che fosse come un titolo al rispetto della gente. Se qualcheduna si faceva veder sola in un luogo appartato, era facilissimo che una guardia di città o un qualunque vecchio turco rigorista la fermasse e le domandasse: – Dove vai? D’onde vieni? Perché non hai nessuno con te? Così rispetti il tuo effendi? Torna a casa! – Ma ora escono sole a centinaia, e se ne vedono a tutte le ore per le vie dei sobborghi musulmani e della città franca. Vanno a far visita alle amiche da un capo all’altro di Stambul, vanno a passar delle mezze giornate nelle case di bagni, fanno delle gite in barchetta, il giovedì alle Acque dolci d’Europa, la domenica alle acque d’Asia, il venerdì al cimitero di Scutari, gli altri giorni alle isole dei Principi, a Terapia, a Bujukderé, a Kalender, a far merenda colle loro schiave, in brigatelle di otto o dieci; vanno a pregare alle tombe dei Padiscià e delle Sultane, a vedere i conventi dei dervis, a visitare le mostre pubbliche dei corredi nuziali, e non c’è effigie d’uomo, non che le accompagni o le segua, ma che, se anche son sole, ardisca di far loro un’osservazione. Vedere un turco in una via di Costantinopoli, non dico a braccetto, ma al fianco, ma fermo per un momento a discorrere con una «velata», quando anche portassero scritto in fronte che son marito e moglie, parrebbe a tutti la più strana delle stranezze, o per meglio dire un’impudenza inaudita, come nelle nostre vie un uomo e una donna che si facessero ad alta voce delle dichiarazioni d’amore. Da questo lato le donne turche sono veramente più libere che le europee, e non si può dire questa libertà quanto la godano, e con che matto desiderio corrano allo strepito, alla folla, alla luce, all’aria aperta, esse che in casa non vedono che un uomo solo, ed hanno finestre e giardini claustrali. Escono e scorrazzano per la città coll’allegrezza di prigioniere liberate. C’è da divertirsi a pedinarne una a caso, alla lontana, per vedere come sanno sminuzzarsi e raffinarsi i piaceri del vagabondaggio. Vanno nella moschea più vicina a dire una preghiera e si fermano a cicalare un quarto d’ora con un’amica sotto le arcate del cortile; poi al bazar a dare una capatina in dieci botteghe, e a farne metter sottosopra un paio, per comprare una bagattella; poi pigliano il tramway, scendono al mercato dei pesci, passano il ponte, si fermano a contemplare tutte le trecce e tutte le parrucche dei parrucchieri di via di Pera, entrano in un cimitero e mangiano un dolce sopra una tomba, ritornano in città, ridiscendono al Corno d’oro scantonando cento volte e guardando colla coda dell’occhio ogni cosa – vetrine, stampe, annunzi, signore che passano, carrozze, insegne, porte di teatri – comprano un mazzo di fiori, bevono una limonata da un acquaiolo, fanno l’elemosina a un povero, ripassano il Corno d’oro in caicco, ricominciano a far dei nastri per Stambul; poi pigliano il tramway un’altra volta, e arrivate sulla porta di casa, son capaci di tornare indietro, per fare ancora un giro di cento passi intorno a un gruppo di casette; tale e quale come i ragazzi che escono soli la prima volta, e che in quell’oretta di libertà ci vogliono far entrare un po’ di tutto. Un povero effendi corpulento che volesse tener dietro a sua moglie per scoprire se ha qualche ripesco, rimarrebbe sgambato a mezza strada.

Per vedere il bel sesso musulmano, bisogna andare un giorno di gran festa alle Acque dolci d’Europa, in fondo al Corno d’oro, o a quelle d’Asia, vicino al villaggio di Anaduli- Hissar; che sono due grandi giardini pubblici, coperti da boschetti foltissimi, attraversati da due piccoli fiumi, e sparsi di caffè e di fontane. Là sopra un vasto piano erboso, all’ombra dei noci, dei terebinti, dei platani, dei sicomori, che formano una successione di padiglioni verdi, per cui non passa un raggio di sole, si vedono migliaia di turche sedute a gruppi e a circoli, circondate di schiave, d’eunuchi, di bambini, che merendano e folleggiano per una mezza giornata, in mezzo a un via vai di gente infinito. Appena giunti si rimane come trasognati. Par di vedere una festa del paradiso islamitico. Quella miriade di veli bianchissimi e di feregé scarlatti, gialli, verdi e cinerei, quegli innumerevoli gruppi di schiave vestite di mille colori, quel formicolio di bimbi in costume di mascherine, i grandi tappeti di Smirne distesi in terra, i vasellami argentati e dorati che passano di mano in mano, i caffettieri musulmani, in abito di gala, che corrono in giro portando frutti e gelati, gli zingari che danzano, i pastori bulgari che suonano, i cavalli bardati d’oro e di seta che scalpitano legati agli alberi, i pascià, i bey, i giovani signori che galoppano lungo la riva del fiume, il movimento della folla lontana che sembra il tremolio d’un campo di camelie e di rose, i caicchi variopinti e le carrozze splendide che arrivano continuamente a versare in quel mare di colori altri colori, e il suono confuso dei canti, dei flauti, delle zampogne, delle nacchere, delle grida infantili, in mezzo a quella bellezza di verde e d’ombra, svariata qua e là da piccole vedute luminose di paesaggi lontani; presentano uno spettacolo così festoso e così nuovo che al primo vederlo vien voglia di batter le mani e di gridare: – Bravissimi! – come a scena di teatro.

Ed anche là, malgrado la confusione, è rarissimo il cogliere sul fatto un turco e una turca che amoreggino cogli occhi o si scambino dei sorrisi e dei gesti d’intelligenza. Là non esiste la galanteria coram populo come nei nostri paesi; non ci sono né le sentinelle melanconiche, che vanno e vengono sotto le finestre, né le retroguardie affannose che camminano per tre ore sulle orme delle loro belle. L’amore si fa tutto in casa. Se qualche volta, in una strada solitaria, si sorprende un giovane turco che guarda in su a una finestrina ingraticolata dietro la quale scintilla un occhietto nero o spunta una manina bianca, si può esser quasi certi che è un fidanzato. Ai fidanzati soli si permette il servizio di ronda e di scorta e tutte le altre fanciullaggini dell’amore ufficiale, come quella di parlarsi di lontano con un fiore, con un nastro, o per mezzo del colore d’un vestito o di una ciarpa. E in questo le turche sono maestre. Hanno migliaia di oggetti, tra fiori, frutti, erbe, penne, pietre, ciascuno dei quali possiede un significato convenuto, che è un epiteto o un verbo od anche una proposizione intera, in modo che possono mettere insieme una lettera con un mazzetto e dir mille cose con una scatolina o una borsa piena di oggettini svariatissimi, che paiono riuniti a caso; e siccome il significato d’ogni oggetto è per lo più espresso in un verso, così ogni amante è in grado di comporre una poesia amorosa od anche un poemetto polimetrico in cinque minuti. Un chiodetto di garofano, una striscia di carta, una fettina di pera, un pezzetto di sapone, un fiammifero, un po’ di fil d’oro e un grano di cannella e di pepe, vogliono dire: – È molto tempo che t’amo –, che ardo –, che languisco –, che muoio d’amore per te. – Dammi un po’ di speranza – non mi respingere – rispondimi una parola. – E oltre all’amore, c’è modo di dir mille cose: si possono far dei rimproveri, dar consigli, avvertimenti, notizie; ed è una grande occupazione delle giovanette, al tempo dei primi palpiti, quella d’imparare questo frasario simbolico, e di comporne delle lunghe lettere dirette a dei bei sultani ventenni, veduti in sogno. E fanno lo stesso per il linguaggio dei gesti, alcuni dei quali sono graziosissimi; quello che fa l’uomo, per esempio, fingendo di lacerarsi il petto con un pugnale, che significa: – Sono lacerato dalle furie dell’amore –; a cui la donna risponde lasciando cader le braccia lungo i fianchi, in modo che s’apra un poco dinanzi il feregé, che vuol dire: – Io t’apro le mie braccia. – Ma non c’è forse un Europeo che abbia mai visto far queste cose; le quali, d’altra parte, sono oramai piuttosto tradizioni che usi; e non s’imparano dai Turchi, i quali arrossirebbero di parlarne, ma da qualche ingenua hanum, che le confida a qualche amica cristiana.

Per questo mezzo pure si conosce il modo di vestire della donna turca fra le pareti dell’arem, quel bel costume capriccioso e pomposo, di cui tutti hanno un’idea, e che dà a ogni donna la dignità d’una principessa e la grazia d’una bambina. Noi non lo vedremo mai, eccetto che la moda lo porti nei nostri paesi, perché, se anche un giorno cadrà il feregé, le turche saranno allora vestite all’europea anche di sotto. Che rodimento per i pittori e che peccato per tutti! Bisogna raffigurarsi una bella turca «svelta come un cipresso» e colorita «di tutte le sfumature dei petali della rosa» con una berrettina di velluto rosso o di stoffa argentata, un po’ inclinata a destra; colle treccie nere giù per le spalle; con una veste di damasco bianco ricamata d’oro, colle maniche a gozzi e un lunghissimo strascico, aperta dinanzi in modo da lasciar vedere due grandi calzoni di seta rosea, che cascano con mille pieghe su due scarpettine ritorte in su alla cinese; con una cintura di raso verde intorno alla vita; con diamanti nelle collane, negli spilloni, nei braccialetti, nei fermagli, nelle trecce, nella nappina del berretto, sulle babbucce, sul collo della camicia, sulla cintura, intorno alla fronte; lampeggiante da capo a piedi come una madonna delle cattedrali spagnole, e adagiata, in un atteggiamento infantile, sopra un largo divano, in mezzo a una corona di belle schiave circasse, arabe e persiane, ravvolte, come statue antiche, in grandi vesti cadenti; – o immaginare una sposa «bianca come la cima dell’Olimpo», vestita di raso cilestrino e tutta coperta da un grande velo intessuto d’oro, seduta sopra un’ottomana imperlata, dinanzi alla quale lo sposo, inginocchiato sopra un tappeto di Teheran, fa la sua ultima preghiera prima di scoprire il suo tesoro; – o rappresentarsi una favorita innamorata, che aspetta il suo signore nella stanza più segreta dell’arem, non più vestita che della zuavina e dei calzoncini, che mettono in rilievo tutte le grazie del suo corpo flessibile, e le danno l’aspetto d’un bel paggio snello e elegante; e bisogna convenire che quei brutti turchi «riformati» colla testa pelata e il soprabito nero, hanno assai più di quello che meritano. Questo vestiario di casa, però, va soggetto ai capricci della moda. Le donne, non avendo altro da fare, passano il tempo a cercare nuove acconciature; si coprono di gale e di fronzoli, si mettono penne e nastri nei capelli, bende intorno al capo, pellicce intorno al collo e alle braccia; prendono qualcosa ad imprestito da tutti i vestimenti orientali; mescolano la moda europea colla moda turca; si mettono delle parrucche, si tingono i capelli di nero, di biondo, di rosso, si sbizzarriscono in mille modi e gareggiano fra di loro come le più sfrenate ambiziose delle grandi città europee. Se un giorno di festa, alle Acque dolci, si potessero far sparire con un colpo di bacchetta magica tutti i feregé e tutti i veli, si vedrebbero probabilmente delle turche vestite da regine asiatiche, altre da crestaine francesi, altre da gran signore in abbigliamento da ballo, altre da mercantesse in pompa magna, da vivandiere, da cavallerizze, da greche, da zingarelle: tante varietà di vestiario quante se ne vedono nel sesso mascolino sul ponte della Sultana Validè.

Gli appartamenti dove stanno queste belle e ricche maomettane corrispondono in qualche modo al loro vestiario seducente e bizzarro. Le stanze riserbate alle donne sono per lo più in bei siti, da cui si godono vedute meravigliose sulla campagna o sul mare o sopra una gran parte di Costantinopoli. Sotto, c’è un giardinetto chiuso da alti muri, rivestiti d’edera e di gelsomini; sopra, una terrazza; dalla parte della strada, dei camerini sporgenti e vetrati, come i miradores delle case spagnole. L’interno è delizioso. Sono quasi tutte piccole sale: i palchetti coperti di stuoie cinesi o di tappeti, i soffitti dipinti di frutti e di fiori, larghi divani lungo le pareti, una fontanella di marmo nel mezzo, vasi di fiori alle finestre, e quella luce vaga e soavissima, che è tutta propria della casa orientale, una luce di bosco, che so io? di claustro, di luogo sacro e gentile, che impone di camminare sulla punta dei piedi, di parlar con un filo di voce, di non dire che parole umili e dolci, di non discorrere che d’amore o di Dio. Questa luce languida, i profumi del giardino, il mormorio dell’acqua, le schiave che passano come ombre, il silenzio profondo che regna in tutta la casa, le montagne dell’Asia di cui si vede l’azzurro a traverso i fori delle grate e i rami del caprifoglio che fanno tenda alle finestre, destano nelle europee, che entrano fra quelle mura per la prima volta, un sentimento inesprimibile di dolcezza e di malinconia. La decorazione della maggior parte di questi arem è semplice e quasi severa; ma ve ne sono pure degli splendidissimi, colle pareti coperte di raso bianco rabescato d’oro, coi soffitti di cedro, colle grate dorate, con suppellettili preziose. Dalle suppellettili s’indovina la vita. Non si vedono che poltrone, ottomane grandi e piccine, piccoli tappeti, sgabelli, panchettini, cuscini di tutte le forme e materasse coperte di scialli e di broccati; un mobilio tutto mollezza e delicature, che dice in mille modi: – Siedi, allungati, ama, addormentati, sogna. – Ci si trovano qua e là degli specchietti a mano e dei larghi ventagli di penne di struzzo; dalle pareti pendono dei cibuk cesellati; ci son gabbie d’uccelli alle finestre, profumiere in mezzo alle stanze, orologi a musica sui tavolini, balocchi e gingilli d’ogni maniera, che accusano i mille capricci puerili d’una donnina sfaccendata che si secca. E non c’è soltanto il lusso delle cose apparenti. Ci son case in cui tutto il servizio da tavola è d’argento dorato, d’oro massiccio i vasi delle acque odorose, le serviette di raso frangiate d’oro, e brillanti e pietre preziose nelle posate, nelle tazze da caffè, nelle anfore, nelle pipe, nelle tappezzerie, nei ventagli; come ci son altre case, e in molto maggior numero, si capisce, in cui nulla o quasi nulla è mutato dall’antica tenda o capanna tartara, di cui tutta la masserizia sta sul dorso di un mulo, dove tutto è pronto per un nuovo pellegrinaggio a traverso l’Asia; case verginalmente maomettane ed austere, nelle quali, quando sia giunta l’ora della partenza, non suonerà che la voce pacata del padrone, che dirà: – Olsun! – Così sia! –

La casa turca è divisa, come tutti sanno, in due parti: l’arem e il selamlik. Il selamlik è la parte riserbata all’uomo. Qui egli ci lavora, ci desina, ci riceve gli amici, ci fa la siesta, e ci dorme la notte quando amore «non gli detta dentro». La donna non ci penetra mai. E come nel selamlik è padrone l’uomo, nell’arem è padrona la donna. Essa ne ha l’amministrazione ed il governo e ci fa quello che vuole fuorché ricevervi degli uomini. Quando non le garbi di ricevere suo marito, può anche fargli dire cortesemente che torni un’altra volta. Una sola porta e un piccolo corridoio dividono per lo più il selamlik dall’arem; eppure sono come due case lontanissime l’una dall’altra. Gli uomini vanno a visitar l’effendi e le donne vanno a trovar la hanum senza incontrarsi e senza sentirsi, e il più delle volte son gente sconosciuti gli uni agli altri. Le persone di servizio sono separate, e separate quasi sempre le cucine. Ciascuno si diverte e scialacqua per conto suo. Raramente il marito desina colla moglie, in ispecie quando ne ha più d’una. Non hanno nulla di comune fuorché il divano su cui s’avvicinano. L’uomo non entra quasi mai nell’arem come marito, ossia come compagno e come educatore dei figliuoli; non v’entra che come amante. Entrandovi, lascia sulla soglia, se può, tutti i pensieri che potrebbero turbare il piacere ch’egli va a cercarvi; tutta quella parte di sé stesso, che non ha che fare col suo desiderio di quel momento. Egli va là per dimenticare le cure o i dolori della giornata, o piuttosto per assopirne in sé il sentimento; non per domandar lume a una mente serena e conforto a un cuore gentile. Né la sua donna, sarebbe atta a quell’ufficio. Egli non si cura nemmeno di presentarsele circondato di quella qualsiasi gloria d’ingegno o di sapere o di potenza, che potrebbe renderlo più amabile. A che pro? Egli è il dio del tempio e l’adorazione gli è dovuta; non ha bisogno di farsi valere; la preferenza ch’egli dà alla donna che ricerca basta a far sì ch’essa gli dia con un sentimento di gratitudine che sembra amore l’amplesso desiderato da lui. «Donna» per lui significa «piacere». Quel nome porta il suo pensiero diritto a quel senso; è anzi quasi il nome stesso del senso; e per questo gli pare impudico il pronunziarlo, e non lo pronuncia mai; e se ha da dire: – M’è nata una femmina – dice: – M’è nata una velata, una nascosta, una straniera. – Così non ci può essere un’intimità vera fra loro, perché v’è sempre tra l’uno e l’altro come il velo del senso, il quale nasconde quegli infiniti segretissimi recessi dell’anima, che non si vedono se non a traverso la limpidezza d’una famigliarità lunga e tranquilla. Oltreché la donna, sempre preparata alla visita, abbigliata e atteggiata quasi per quel momento, intesa sempre a vincere una rivale o a conservare una predominanza che è continuamente in pericolo, dev’essere sempre un po’ cortigiana, far forza a sé stessa perché tutto sorrida intorno al suo signore, anche quando il suo cuore è triste, mostrargli sempre la maschera ridente d’una donna fortunata e felice, perchè egli non se ne uggisca e se ne sdia. Perciò il marito la conosce di rado come sposa, come non ha e non può averla conosciuta figliuola, sorella, amica; come non la conosce madre. Ed essa lascia così isterilire a poco a poco in sé medesima le qualità nobili che non può rivelare o che non le sono pregiate; s’abitua a non curare se non quello che le si cerca, e soffoca spesso risolutamente la voce del suo cuore e del suo spirito, per trovare in una certa sonnolenza di vita animalesca, se non la felicità, la pace. Ha, è vero, il conforto dei figliuoli, e il marito li cerca e li abbraccia dinanzi a lei; ma è un conforto amareggiato dal pensiero che forse, un’ora prima, egli ha baciato i figliuoli d’un’altra, che bacerà forse un’ora dopo quelli d’una terza, e che bacerà quelli d’una quarta tra qualche anno. L’amore d’amante, l’affetto di padre, l’amicizia, la confidenza, tutto è diviso e suddiviso, ed ha il suo orario, i suoi riguardi, le sue misure, le sue cerimonie; quindi tutto è freddo e insufficiente. E poi v’è sempre in fondo qualcosa di sprezzante e di mortalmente ingiurioso per la donna nell’amore del marito che le tiene ai fianchi un eunuco. Egli le dice in sostanza: – Io t’amo, tu sei «la mia gioia e la mia gloria», tu sei «la perla della mia casa»; ma sono sicuro che se questo mostro che ti sorveglia fosse un uomo, tu ti prostituiresti al tuo servitore.

Variano però grandemente le condizioni della vita coniugale secondo i mezzi pecuniari del marito, anche non tenuto conto di questo, che chi non ha mezzi di mantenere più d’una donna è costretto ad avere una moglie sola. Il ricco signore vive separato di casa e di spirito dalla moglie, perché può tenere un appartamento od anche una casa per lei sola, e perché, volendo ricevere amici, clienti, adulatori, senza che le sue donne siano viste o disturbate, è costretto ad avere una casa separata. Il turco di mezzo ceto, per ragioni d’economia, sta più vicino a sua moglie, la vede più sovente e vive con essa in maggiore famigliarità. Il turco povero, in fine, che è costretto a vivere nel minor spazio e colla minor spesa possibile, mangia, dorme, passa tutte le sue ore libere colla moglie e coi figliuoli. La ricchezza divide, la povertà unisce. Nella casa del povero non c’è differenza reale tra la vita della famiglia cristiana e quella della famiglia turca. La donna, che non può avere una schiava, lavora, e il lavoro rialza la sua dignità e la sua autorevolezza. Non è raro che essa vada a tirar fuori il marito ozioso dal caffè o dalla taverna, e che lo spinga a casa a colpi di pantofola. Si trattano da pari a pari, passano la sera l’uno accanto all’altro davanti alla porta di casa; nei quartieri più appartati, vanno sovente insieme a far le spese per la famiglia; e occorre molte volte di vedere, in un cimitero solitario, il marito e la moglie che fanno merenda vicino al cippo d’un parente, coi loro bambini intorno, come una famigliola d’operai dei nostri paesi. Ed è uno spettacolo più commovente appunto perché è più singolare. E non si può, vedendolo, non sentire che c’è qualcosa di necessario e d’universalmente ed eternamente bello in quel nodo d’anime e di corpi, in quel gruppo unico d’affetti; che non c’è posto per altri; che una nota di più in quell’armonia la guasta o la distrugge; che s’ha un bel dire e un bel fare, ma che la forza prima, l’elemento necessario, la pietra angolare d’una società ordinata e giusta è là; – che ogni altra combinazione d’affetti e d’interessi è fuori della natura; – che quella sola è una famiglia, e l’altra un armento; – che quella sola è una casa, e l’altra un lupanare.

E v’è chi dice che le donne orientali sono soddisfatte della poligamia e che non ne comprendono neppure l’ingiustizia. Per creder questo bisogna non conoscere, non dico l’Oriente, ma nemmeno l’anima umana. Se questo fosse vero, non seguirebbe quello che segue: cioè che non v’è quasi ragazza turca la quale, accettando la mano d’un uomo, non gli metta per condizione di non sposarne un’altra, lei viva; non ci sarebbero tante spose che ritornano alla loro famiglia quando il marito manca a quella promessa; e non ci sarebbe un proverbio turco che dice: – casa di quattro donne, barca nella burrasca. – Anche se è adorata da suo marito, la donna orientale non può che maledire la poligamia, per cui vive sempre con quella spada di Damocle sul capo, di avere di giorno in giorno una rivale, non nascosta o lontana e sempre colpevole, com’è necessariamente quella di una moglie europea; ma installata accanto a lei, in casa sua, col suo titolo, coi suoi stessi diritti; di vedere fors’anche una delle sue schiave, prescelta a odalisca, alzare tutt’a un tratto la fronte dinanzi a lei, e trattarla da eguale, e mettere al mondo dei figliuoli che hanno gli stessi diritti dei suoi. È impossibile che il suo cuore non senta l’ingiustizia di quella legge. Quando il marito amato da lei, le conduce in casa un’altra donna, essa avrà un bel pensare che, facendo questo, l’uomo non fa che valersi d’un diritto che gli dà il codice del Profeta. In fondo all’anima sua sentirà che v’è una legge più antica e più sacra che condanna quell’atto come un tradimento e una prepotenza, sentirà che quell’uomo non è più suo, che il nodo è sciolto, che la sua vita è spezzata, ch’essa ha il diritto di ribellarsi e di maledire. E se anche non ama suo marito, ha mille ragioni di detestare quella legge: l’interesse leso dei suoi figliuoli, il suo amor proprio ferito, la necessità in cui è posta, o di vivere abbandonata o di non essere più cercata dall’uomo che per compassione o per un desiderio senz’amore. Si dirà che la donna turca sa che queste cose accadono pure alla donna europea: è vero; ma sa pure che la donna europea non è costretta dalla legge civile e religiosa a rispettare e a chiamar sorella colei che le avvelena la vita, e che ha almeno la consolazione di esser considerata come una vittima, e che ha mille modi di consolarsi e di vendicarsi senza che il marito le possa dire, come può dire il poligamo a una delle sue mogli infedeli: – Io ho il diritto di amare cento donne, e tu hai il dovere di non amar che me solo.

È vero che la donna turca ha molte guarentigie dalla legge e molti privilegi per consuetudine. È generalmente rispettata con una certa forma di gentilezza cavalleresca. Nessun uomo oserebbe alzar la mano sopra una donna in mezzo alla via. Nessun soldato, anche nel tafferuglio d’una sedizione, s’arrischierebbe a maltrattare la più insolente delle popolane. Il marito tratta la moglie con una certa deferenza cerimoniosa. La madre è oggetto d’un culto particolare. Non c’è uomo che osi far lavorare la donna per campare sul suo lavoro. È lo sposo che assegna una dote alla sposa; essa non porta alla casa maritale che il suo corredo e qualche schiava. In caso di ripudio o di divorzio, il marito è obbligato a dare alla moglie tanto che basti per vivere senza disagio; e quest’obbligo lo trattiene da usar con lei dei cattivi trattamenti, che le diano il diritto d’ottenere la separazione. La facilità del divorzio rimedia in parte alle tristi conseguenze dei matrimoni, fatti quasi sempre alla cieca per effetto della costituzione speciale della società turca, nella quale i due sessi vivono divisi. Alla donna, per ottenere il divorzio, basta poca cosa: che il marito l’abbia maltrattata una volta, che l’abbia offesa parlando con altri, che l’abbia trascurata per un certo tempo. Quando essa ha da lagnarsi di suo marito, non ha che da presentare le sue lagnanze per scritto al tribunale; può, quando occorra, presentarsi in persona a un visir, al gran visir stesso, da cui è quasi sempre ricevuta e ascoltata senza ritardo e benignamente. Se non può andar d’accordo colle altre mogli, il marito è tenuto a darle una casa separata; e se anche va d’accordo, ha diritto a un appartamento per sé sola. L’uomo non può né sposare né far sue odalische le schiave che la moglie ha portato con sé dalla casa paterna. Una donna stata sedotta e abbandonata, può farsi sposare dal suo seduttore, se questi non ha già quattro mogli; e se ne ha quattro, farsi pigliare in casa come odalisca, e il padre deve riconoscere il figliuolo; il perché fra i turchi non ci son bastardi. Rarissimi i celibi, rarissime le vecchie ragazze; assai meno frequenti che non si creda i matrimoni forzati, perché la legge punisce i padri che se ne rendono colpevoli. Lo Stato dà una pensione alle vedove senza parenti e senza mezzi, e provvede alle orfane; molte bambine rimaste in mezzo alla strada, sono pure raccolte da signore ricche, che le educano e le maritano; è raro che una donna sia lasciata nella miseria. Tutto questo è vero ed è buono; ma non toglie che i Turchi ci facciano ridere quando vogliono confrontare con vantaggio la condizione sociale della loro donna a quella della nostra, e affermare la loro società immune dalla corruzione di cui accusano la società europea. Che valgono alla donna le forme del rispetto, se la sua condizione di moglie suppletoria è per sè stessa umiliante? Che le vale la facilità di divorziare e di rimaritarsi, se qualunque altro uomo la sposi, ha il diritto di metterla nelle condizioni medesime, per le quali s’è separata dal primo marito? Che gran cosa che l’uomo abbia l’obbligo di riconoscere il figlio illegittimo se non ha i mezzi di mantenerlo, e se può averne legittimamente cinquanta, ai quali, se non il nome, tocca di bastardi la miseria o l’abbandono? Ci dicono che non commettono infanticidi; ma li aborti voluti, per i quali hanno delle case apposite, chi li conta? Ci dicono che non hanno prostituzione. Ma come! E che altro mestiere è quello delle mille concubine causasse, comprate e rivendute cento volte? Dicono: non c’è almeno quella pubblica. Che baie! Murad III non avrebbe ordinato di mandare di là dal Bosforo tutte le donne di mala vita, e si sa che ne fu fatta una grande retata. Vorrebbero poi farci credere che è più facile ad uomo aver la fedeltà di quattro donne che di una sola? E darci ad intendere che il turco che ha quattro mogli, non commette più peccati fuori di casa e fuori della propria religione? E ci parleranno di moralità gli uomini più devoti alla nefanda voluptas che siano sulla terra?

Da tutto questo è facile argomentare che cosa siano le donne turche. Non sono la maggior parte che «femmine piacevoli». Le più non sanno che leggere e scrivere, e né leggono né scrivono; e sono creature miracolose quelle che hanno una superficialissima coltura. Già ai turchi, secondo i quali le donne «hanno i capelli lunghi e l’intelligenza corta», non garba ch’esse coltivino la mente perché non conviene che siano in nulla eguali o superiori a loro. Così, non ricavando istruzione dai libri, e non potendo riceverne dalla conversazione cogli uomini, rimangono in una crassa ignoranza. Dalla separazione dei due sessi nasce che all’uno manca qualche cosa di gentile e all’altro qualche cosa di alto: gli uomini diventano rozzi, le donne diventano comari. E non praticando della società altro che un piccolo cerchio donnesco, ritengono quasi tutte fino alla vecchiezza qualche cosa di puerile nelle idee e nelle maniere: una curiosità matta di mille cose, uno stupirsi di tutto, un fare un gran caso d’ogni inezia, una maldicenza piccina, un’abitudine di sdegni e di dispettucci da educande, un ridere sguaiato a tutti i propositi, e un divertirsi per ore a giochi bambineschi, come inseguirsi di stanza in stanza e strapparsi di bocca i confetti. È vero che hanno per contrapposto, per dirla alla rovescia dei francesi, la buona qualità nel difetto; ed è che sono nature schiette e trasparenti, dentro alle quali si legge alla prima; che sono quello che paiono, persone vere, come diceva la signora di Sevigné, non maschere, né caricature, né scimmie; donne aperte e tutte d’un pezzo anche nella tristizia; e se è vero che basta che una di esse giuri e spergiuri una cosa perché nessuno ci creda, vuol dire appunto che non hanno arte abbastanza per riuscire nell’inganno. E non è una piccola lode il dire anche che non ci sono fra loro né dottoresse pesanti, né maestruccole che non ciancino altro che di lingua e di stile, né creature vaporose che vivano fuori della vita. Ma è anche vero che in quella vita angusta, priva di alte ricreazioni dello spirito, nella quale rimane perpetuamente insoddisfatto il desiderio istintivo della gioventù e della bellezza, di essere ammirate e lodate, l’animo loro s’inasprisce; e che, non avendo il freno dell’educazione, corrono a qualunque eccesso, quando una brutta passione le muove. E l’ozio fomenta in loro mille capricci insensati, in cui s’ostinano con furore, e li vogliono appagati a qualunque prezzo. Oltreché, in quell’aria sensuale dell’arem, in quella compagnia di donne inferiori a loro di nascita e d’educazione, lontane dall’uomo che servirebbe loro di freno, s’assuefanno a una crudità indicibile di linguaggio, non conoscono le sfumature dell’espressione, dicono le cose senza velo, amano la parola che fa arrossire, lo scherzo inverecondo, l’equivoco plebeo; diventano sboccatamente mordaci ed insolenti; tanto che all’europeo che intende il turco, occorre qualche volta di sentire dalla bocca d’una hanum d’aspetto signorile, stizzita contro un bottegaio indiscreto o sgarbato, delle impertinenze che non sfuggono tra noi se non alle donne della specie peggiore. E questa loro acrimonia va crescendo col crescere delle loro relazioni colle donne europee o della loro conoscenza dei nostri costumi, che alimentano in esse lo spirito di ribellione; e quando sono amate, si vendicano con una tirannide capricciosa sui loro mariti della tirannide sociale a cui sono soggette. Molti hanno dipinte le donne turche tutte dolci, mansuete, peritose. Ma ci sono anche fra loro le anime ardite e feroci. Anche là, nelle sommosse popolari, si vedono le donne in prima linea; si armano, s’assembrano, arrestano le carrozze dei visir invisi, li coprono di contumelie, li pigliano a sassate e resistono alla forza. Sono dolci e mansuete, come tutte le donne, quando nessuna passione le rode o le accende. Trattano amorevolmente le schiave, se non ne sono gelose; dimostrano tenerezza pei figliuoli, benché non sappiano o non si curino d’educarli; contraggono fra di loro, specialmente quelle divise dai mariti o afflitte dallo stesso dolore, delle amicizie tenerissime, piene d’entusiasmo giovanile, e si dimostrano l’affetto reciproco vestendosi degli stessi colori, profumandosi colle medesime essenze, e facendosi dei nei della stessa forma. E qui potrei aggiungere quello che scrisse più d’una viaggiatrice europea, «che ci sono fra loro tutti i vizi di Babilonia»; ma mi ripugna, in una cosa così grave, l’affermare sulla fede altrui.

Quale è la loro indole, tali sono le loro maniere. Somigliano la maggior parte a quelle ragazze di buona famiglia, ma cresciute in campagna, le quali, nell’età in cui non sono più bambine e non sono ancora donne, commettono in società mille piacevolissime sconvenienze, per cui ogni momento si fanno far gli occhiacci dalla mamma. Bisogna sentirne parlare da una signora europea, che abbia visitato un arem. È una cosa comicissima. La hanum, per esempio, che nei primi minuti sarà stata seduta sopra il sofà nello stesso atteggiamento composto della sua visitatrice, tutt’a un tratto incrocicchierà le dita sopra la testa, o tirerà un lungo sbadiglio, o si piglierà un ginocchio tra le mani. Abituate alla libertà, per non dire alla licenza, dell’arem, agli atteggiamenti cascanti dell’ozio e della noia, e ammollite come sono dai lunghi bagni, si stancano subito d’una qualunque compostezza forzata. Si coricano sul divano, si voltano e si rivoltano continuamente attorcigliando e districando in mille modi il loro lunghissimo strascico, si raggomitolano, si pigliano i piedini in mano, si mettono un cuscino sulle ginocchia e i gomiti sul cuscino, s’allungano, si storcono, si stirano, fanno la gobbina come i gatti, rotolano dal divano sulla materassa, dalla materassa sul tappeto, dal tappeto sul marmo del pavimento, e s’addormentano dove il sonno le coglie come i bambini. Una viaggiatrice francese ha detto che hanno qualcosa del mollusco. Son quasi sempre in un atteggiamento da poterle prendere fra le braccia come una cosa rotonda. La loro posizione meno rilassata è quella di star sedute a gambe incrociate. E dicono che derivi appunto dallo star sedute quasi sempre in questa maniera, fin dall’infanzia, il difetto che hanno quasi tutte delle gambe un po’ arcate. Ma con che garbo si siedono! Si vede nei cimiteri e nei giardini. Cascano a piombo e rimangono sedute in terra, senza puntar le mani, immobili come statue, e si drizzano poi in piedi, senz’appoggiarsi, d’un sol tratto, come se scattassero. Ma è forse questo il loro solo movimento vivace. La grazia della donna turca è tutta nel riposo; – nell’arte di mettere in evidenza le belle curve con atteggiamenti stanchi d’addormentata, col capo arrovesciato indietro, coi capelli sciolti, colle braccia penzoloni, – l’arte che strappa l’oro e i gioielli al marito, e sconvolge il sangue e la ragione all’eunuco.

E lo studio di quest’arte non è l’ultimo dei mezzi con cui esse cercano di alleggerire la noia mortale che pesa sulla maggior parte degli arem; noia che deriva non tanto dalla mancanza d’occupazioni e di distrazioni, quanto dall’esser queste tutte d’un colore; come certi libri che, pure essendo svariati nella sostanza, seccano per l’uniformità dello stile. Per salvarsi dalla noia fanno di tutto; la loro giornata non è spesso che una lotta continua contro questo mostro ostinato. Sedute sui cuscini o sui tappeti, accanto alle loro schiave, orlano innumerevoli fazzoletti da regalare alle amiche, ricamano berretti da notte o borse da tabacco pei mariti, per i padri, e per i fratelli; fanno scorrere cento volte le pallottoline del tespì; contano fin al numero più alto a cui sanno contare; seguitano coll’occhio, per lunghi tratti, dai finestrini rotondi delle stanze alte, i bastimenti che passano sul Bosforo o sul Mar di Marmara, o si mettono a fantasticare ricchezze, libertà ed amori accompagnando collo sguardo le spire azzurrine del fumo della sigaretta. Quando son stanche della sigaretta assaporano nel cibuk i «biondi capelli del Latachié»; sazie di fumare, sorbono una tazzina di caffè di Siria; rosicchiano frutta e confetti; si fanno durare mezz’ora un gelato; poi fanno un’altra fumatina col narghilè profumato d’acqua di rosa; poi succhiano un po’ di mastico per levarsi il sapore del fumo; poi prendono la limonata per levarsi il sapore del mastico. Si vestono, si svestono, si mettono tutte le robe del loro cassettone, esperimentano tutte le tinture dei loro vasetti, si fanno e si disfanno dei nei in forma di stelle e di mezzelune, e combinano in tutte le maniere possibili una dozzina di specchi e di specchietti per vedersi da tutte le parti, finché si vengono in uggia. Allora due schiave di quindici anni ballano il balletto obbligato colle nacchere e col tamburello; una terza ripete per la centesima volta una canzonetta o una favola che sanno tutte a memoria; o le due solite maschiotte vestite da acrobata fanno la solita lotta, che finisce con un pattone sul pavimento e una risata senza sapore. Qualche volta c’è la novità d’una brigatella di ballerine egiziane, e allora è una piccola festa; qualche altra volta capita una zingara, e allora la hanum si fa dir la ventura sulla palma, o compera un talismano per esser sempre giovane, un decotto per aver figliuoli, un filtro per farsi amare. Stanno ore col viso alle grate a guardar la gente e i cani che passano, insegnano una parola nuova a un pappagallo, scendono in giardino a fare all’altalena, risalgono in casa a dir le preghiere, tornano a sdraiarsi sul divano per giocare alle carte, saltano su per ricever la visita d’una parente o d’un’amica, e allora ricomincia la solita sequela di caffè, di fumatine, di limonate, di merenduccie, di risate stanche e di sbadigli sonori, fin che l’amica se ne va, e l’eunuco, apparendo sulla soglia, dice a bassa voce: – L’Effendi. – Ah! finalmente! È proprio Allah che lo manda, foss’anche il più brutto marito di Stambul.

Questo segue negli arem dove c’è, se non altro, la pace; negli altri la noia è soffocata dal furore delle passioni, e vi si mena una vita affatto diversa. Regna la pace nell’arem in cui v’è una donna sola, amata da suo marito, il quale non bada alle schiave, e non ha intrighi fuor di casa. C’è pure, se non felicità, pace, negli arem dove sono parecchie mogli di carattere leggiero o freddo, indifferenti per il marito, il quale non fa differenza tra loro, che ricevono ciascuna alla propria volta le sue preferenze senza amore, senza gelosia e senza ambizione di predominio. Queste mogli di buona pasta cercano di cavare all’Effendi tutto il denaro che possono, stanno nella stessa casa, vivono d’accordo, si chiamano sorelle, si divertono insieme, e addio; la barca è fatta alla diavola, ma tanto e tanto va avanti. C’è ancora la pace, un’apparenza almeno di pace, negli arem dove la moglie posposta a una nuova venuta, si rassegna tristamente al suo destino, e pure rifiutando i ritagli d’amore che le vorrebbe dar suo marito, rimane amica sua, nella sua casa, e cerca un conforto nei figli, e vive in un raccoglimento dignitoso. Ma è un tutt’altro vivere negli arem dove ci sono donne di cuor fiero e di sangue ardente che non vogliono sottostare al trionfo d’una rivale, che non possono sopportar l’onta dell’abbandono, che non si rassegnano a veder posposti i propri figli a quelli d’un’altra madre. In questi arem c’è l’inferno. Qui si piange, si strepita, si spezzano porcellane e cristalli, si fanno morir delle schiave a colpi di spillo, si ordiscono delle congiure, si meditano dei delitti, e qualche volta si consumano: si avvelena, si stiletta, si gettano delle bocce di vetriolo nel viso; qui la vita non è che una trama orribile di persecuzioni, di odii implacabili, di guerre sorde e feroci. L’uomo che ha più mogli, in conclusione, o ne ama una sola davvero, e non ha la pace; o le ama tutte ad un modo per aver la pace, e non ha l’amore. E nell’un caso e nell’altro, va quasi sempre diritto alla rovina, poiché se fra le sue donne non c’è gelosia d’amore, c’è sempre gelosia d’amor proprio, rivalità d’ambizione, gara di splendidezze; ed egli non può regalare alla sua prediletta del giorno un gioiello o una carrozza o una villetta sul Bosforo, senza che ne nasca un sottosopra; il perché è costretto a far per tutte quello che vorrebbe fare per una, vale a dire a comprar la pace a peso d’oro. E quello che segue tra le donne, segue tra i figliuoli, i quali o son figli della madre negletta, e odiano; o son figli della favorita, e sono odiati. Ed è facile immaginare che educazione possono ricevere nell’arem, in quelle case piene di rancori e d’intrighi, in mezzo alle schiave e agli eunuchi, senza l’assistenza del padre, senza l’esempio del lavoro, in quell’aria bassa e sensuale; le ragazze in special modo, che s’avvezzano fin dai primi anni a fondare tutte le speranze della propria fortuna sopra le arti d’una seduzione per la quale è troppo alto l’epiteto di «amorosa», e che imparano queste arti dalla madre, e il rimanente dalle schiave, e il di più da Caragheuz.

Vi sono poi due altre specie di arem, oltre ai pacifici e ai tempestosi: l’arem del turco giovane e spregiudicato, che seconda le tendenze europee della moglie, e quello del turco o rigorista per sentimento proprio, o dominato da parenti, e in particolar modo da una vecchia madre, musulmana inflessibile, avversa ad ogni novità, che gli fa governar la casa a modo suo. Fra questi due arem corre una gran differenza. Il primo arieggia la casa d’una signora europea. C’è un pianoforte che la hanum impara a sonare da una maestra cristiana; ci son dei tavolini da lavoro, delle seggiole impagliate, un letto di mogogon, una scrivania; c’è appeso a una parete un bel ritratto a matita dell’Effendi fatto da un pittore italiano di Pera; c’è in un cantuccio uno scaffaletto con una ventina di libri, fra i quali un piccolo dizionario turco e francese e l’ultimo numero della Mode illustrée che la signora riceve di seconda mano dalla consolessa di Spagna. La signora possiede pure tutto l’occorrente per dipingere all’acquerello e dipinge con passione fiori e frutti. Essa assicura alle sue amiche che non ha un momento di noia. Tra un lavoro e l’altro scrive le sue memorie. A una cert’ora riceve il maestro di francese (un vecchio gobbo e sfiatato, s’intende) col quale fa esercizio di conversazione. Qualche volta viene a farle il ritratto una fotografa tedesca di Galata. Quando è malata, viene a visitarla un medico europeo, il quale può anche essere un bel giovane, chè il marito non è poi così bestialmente geloso come certi suoi amici antiquati. E viene una volta ogni tanto anche una modista francese a misurarle un vestito tagliato proprio sull’ultimo figurino del giornale della moda, col quale la signora vuol fare una bella sorpresa al marito la sera del giovedì, che è la sera sacramentale degli sposi musulmani, nella quale l’effendi ha una specie di cambiale galante da pagare alla sua «foglia di rosa». E l’effendi, che è uomo d’alto affare, le ha promesso di farle vedere dallo spiraglio d’una porta il primo gran ballo che darà nel prossimo inverno l’ambasciata d’Inghilterra. La hanum, insomma, è una signora europea di religione musulmana, e lo dice con compiacenza alle amiche: – Io vivo come una cocona, – come una cristiana; – e le amiche e le parenti sue professano almeno gli stessi principii, se non possono condurre la stessa vita, e fra lei e loro si discorre di mode e di teatri, si canzonano le «superstizioni», le «pedanterie», le «bigotterie della vecchia Turchia» e si finisce ogni discorso col dire che «è tempo di cominciare a vivere in una maniera più ragionevole». Ma nell’altro arem? Qui tutto è rigorosamente turco dal vestire della signora fino alla più piccola suppellettile. Di libri non c’entra che il Corano, di giornali non ci penetra che lo Stambul. Se la signora s’ammala, non si chiama il medico, ma una di quelle tante dottoresse turche, che hanno uno specifico miracoloso per tutti i mali. Se il padre e la madre della signora son gente infetta dalla tabe europea, non si permette loro di veder la figliuola che una volta la settimana. Tutte le aperture della casa sono bene ingraticolate e chiavistellate, e d’europeo non c’entra proprio altro che l’aria, eccetto il caso che la signora abbia avuto la disgrazia d’imparare un po’ di francese da bambina, ché allora la suocera è capace di metterle in mano un qualche romanzaccio della peggio specie, per poterle dir poi: – Lo vedete che bella società è quella che voi volete scimmiottare? che fior di roba produce? che belli esempi vi porge?

Eppure, la vita delle donne turche è piena d’accidenti, di brighe, di pettegolezzi, che a primo aspetto non si credono possibili in una società dove i due sessi non hanno comunicazione diretta fra loro. In un arem, per esempio, c’è la vecchia madre che vuol levar dal cuore di suo figlio una delle mogli per farci entrare la prediletta da lei, e cerca ogni modo di nascondergli i figliuoli di quella, e di farne trasandare l’educazione perché egli non ci ponga affetto, e non li preferisca a quei dell’altra. In un altro c’è una moglie, che non potendo staccare il marito dalla sua rivale per riaverne l’amore essa sola, cerca almeno di sfogare il proprio dispetto staccandolo da quella per un’altra, e a questo scopo cerca per mare e per terra una bella schiava da metter sotto gli occhi all’Effendi, perché se ne incapricci e tradisca con essa la sua favorita. Un’altra moglie, che fa per inclinazione naturale la sensale di matrimoni, s’ingegna di fare in maniera che un tale suo parente veda spesso una tale ragazza, e se ne innamori, e la sposi, e la rubi così al proprio mmarito,il quale cova da un pezzo il proposito di farla sua. Qui è un gruppo di signore che si quotano a un tanto ciascuna per regalare, con qualche secondo fine, una bella schiava al gran Visir o al Sultano; là sono altre signore, alto locate, che movendo mille fili segreti di parentele potenti, vengono a capo di quello che vogliono, e fanno cader nemici da alte cariche, e salirvi amici, e divorziar l’uno, e partire un altro per una provincia lontana. E benché ci sia meno commercio sociale che nelle nostre città, non si sanno meno che fra noi i fatti degli altri. La fama d’una donna spiritosa, o d’una gran maldicente, o d’una gelosa feroce, o d’una grulla, si spande molto al di là del cerchio dei conoscenti. Anche là i motti arguti e i bei giochi di parole, a cui la lingua turca si presta mirabilmente, corrono di bocca in bocca e fanno dei giri infiniti. Le nascite, le circoncisioni, i matrimoni, le feste, tutti i più piccoli avvenimenti che seguono nelle colonie europee e nel Serraglio, sono argomento di chiacchiere interminabili. Avete visto il nuovo cappellino dell’Ambasciatrice di Francia? Si sa nulla della bella schiava venuta dalla Georgia, che la Sultana Validè regalerà al Sultano il giorno del gran Beiram? È vero che la moglie di Ahmed-Pascià è uscita ieri l’altro cogli stivaletti all’europea guerniti di nappine di seta? Sono finalmente arrivati i vestiari da Parigi per la rappresentazione del Bourgeois gentilhomme al teatro del Serraglio? È una settimana che la moglie di Mahmud-effendi va a pregare ogni mattina nella moschea di Baiazet per ottenere la grazia di due gemelli. È seguito uno scandalo in casa del tal fotografo di via di Pera, perché Ahmed-effendi ci ha trovato il ritratto di sua moglie. La signora Aiscè beve vino. La signora Fatima s’è fatta fare dei biglietti di visita. La signora Hafiten è stata vista entrare alle tre e uscire alle quattro dalla bottega d’un franco. La piccola cronaca maligna circola con una rapidità incredibile fra quelle innumerevoli casette gialle e vermiglie, s’allaccia con quella della corte, si spande per Scutari, s’allunga sulle due rive del Bosforo fino al mar Nero, e arriva non di rado fino alle grandi città di provincia, di dove ritorna ricamata e frangiata a provocar nuove risate e nuovi pettegolezzi nei mille arem della metropoli.

Sarebbe un divertimento curioso, se ci fossero fra i turchi, come ce n’è fra noi, di quei gazzettini viventi del bel mondo, che conoscono tutti e sanno e propalano tutto; sarebbe un divertimento insieme e uno studio amenissimo dei costumi di Costantinopoli, l’andarsi a piantare con uno di costoro all’entrata delle Acque dolci d’Europa, un giorno di festa, e farsi dire una paroletta a proposito di tutte le persone notevoli per un verso o per l’altro che ci passerebbero davanti. Ma che importa che non si sia fatto? Le cose si sanno, le persone si possono immaginare. Per me è come se vedessi e sentissi in questo momento. La gente passa, e il turco accenna e ciancia. Quella signora lì s’è rotta che è poco con suo marito ed è andata a stare a Scutari; Scutari è il rifugio delle malcontente e delle imbronciate; è andata a stare con una sua amica, e ci starà fin che suo marito, il quale in fondo le vuol bene, le andrà ad annunziare che s’è sbarazzato della concubina, cagione della rottura, e la ricondurrà a casa pacificata. Questo effendi che passa è un impiegato del Ministero degli esteri, il quale per non aver che fare con parenti e parenti di parenti, che spesso mettono la discordia in casa, ha fatto come fanno tanti altri: ha sposato una schiava araba, che prende appunto in questi giorni le prime lezioni di lingua turca dalla sorella del marito. Quest’altra bella donnina è una divorziata, la quale aspetta che l’effendi tale abbia ripudiata una delle sue quattro mogli per andare a prendere il posto che le è stato promesso da un pezzo. Quell’altra laggiù è una signora che dopo aver fatto divorzio due volte dallo stesso marito, lo vuol sposare daccapo, e lui è d’accordo; e per far questo essa sposa fra qualche giorno, come vuole la legge, un altr’uomo, il quale sarà suo marito per una notte sola, e farà divorzio subito, dopo di che la bella capricciosa potrà celebrare il suo terzo matrimonio col primo sposo. Questa brunetta cogli occhi spiritati è una schiava abissina, stata regalata da una gran signora del Cairo a una gran signora di Stambul, la quale è morta, e le ha lasciato il posto di padrona di casa. Questo effendi di cinquant’anni è già stato marito di dieci donne. Questa vecchietta vestita di verde può vantarsi d’essere stata moglie legittima di dodici uomini. Quest’altra è una signora che si fa d’oro comprando ragazze di quattordici anni, a cui fa insegnare la musica, il ballo, il canto, le belle maniere della società signorile, e poi le rivende col guadagno del cinquecento per cento. Ecco là un’altra bella signora di cui posso dirvi il costo esatto: è una circassa che fu comprata a Tophané per cento e venti lire turche e rivenduta tre anni dopo per la bagattella di quattrocento. Questa qui che s’aggiusta il velo è passata per una trafila singolare: è stata prima schiava, poi odalisca, poi moglie, poi divorziata, poi moglie daccapo, e adesso è vedova e sta brigando per un nuovo matrimonio. Guardate questo effendi: è in una condizione curiosa; ve la do in mille a indovinare; sua moglie è innamorata d’un eunuco, e si dice che è capace di dare a suo marito una cattiva tazza di caffè, per andare a stare in pace coll’amante, e non sarebbe il primo esempio d’un amore così mostruosamente spirituale. Quello là è un negoziante che per ragioni di commercio ha sposate quattro donne, e ne tiene una a Costantinopoli, una a Trebisonda, una a Salonico e la quarta in Alessandria d’Egitto, ed ha così quattro porti amorosi in cui riparare al termine dei suoi viaggi. Questo bel pascià di ventiquattr’anni non era un mese fa che un povero ufficiale subalterno della guardia imperiale, e l’ha fatto pascià di sbalzo il Sultano per dargli in moglie una sua sorella; ma sconta i peccati degli altri mariti turchi, perché con una Sultana non si celia, e si sa che quella è «gelosa come un usignolo», e forse, se cercassimo bene tra la folla, troveremmo una schiava che lo pedina alla lontana per scoprir chi guarda e chi non guarda. Guardate questo bel fusto di donna: non c’è bisogno d’un occhio fine per accorgersi che è un fiore uscito dal Serraglio; è stata una bella del Sultano, e l’ha sposata mesi sono un impiegato del Ministero della guerra, che per mezzo suo ha ora un piede nella Corte e farà in poco tempo molta strada. Ecco là una bambina di cinque anni che fu fidanzata oggi a un ragazzo di otto; lo sposino è stato condotto dai parenti a farle visita, l’ha trovata di suo genio e ha fatto subito le furie perché un cuginetto alto un metro l’ha baciata in presenza sua. Ecco una vecchia strega che ieri l’altro ha fatto scannar due montoni in ringraziamento ad Allah perché la sbarazzò d’una nuora che detestava. Ecco là una medichessa briccona, a cui una signora ha messo nelle mani una delle sue schiave, incaricandola di farle andare a male il frutto d’un suo intrighetto coll’Effendi, poiché se la schiava mette al mondo una creatura, la padrona non la può più vendere e il padrone bisogna che se la tenga. Quest’altra è una donna dello stesso conio, a cui certi effendi danno di tratto in tratto l’incarico di verificare de visu se una schiava che vogliono pigliarsi in casa è proprio schietta farina. Quella là col viso tutto coperto e col feregé lilla, è la moglie d’un turco amico mio; ma non è turca, è cristiana, è va tutte le domeniche in chiesa; ma non ne dite nulla a nessuno, per riguardo a lei, non già per il marito, ché il Corano non proibisce di sposar le cristiane, e per purificarsi dall’abbraccio d’un infedele basta lavarsi il viso e le mani. Ah! che cos’abbiamo perduto! È passata una carrozza del Serraglio; c’era dentro la terza cadina del Sultano: ho riconosciuto il nastro color di rosa al collo dell’intendente: la terza cadina, regalo del pascià di Smirne, che ha i più grandi occhi e la più piccola bocca dell’impero; una figura sul gusto di questa piccola hanum col nasino arcato, che ieri offese Gesù e Maometto con un pittore inglese di mia conoscenza. La sciagurata! E pensare che quando i due angeli Nekir e Munkir giudicheranno l’anima sua, essa crederà di scusarsi colla solita bugia, dicendo che in quel momento aveva gli occhi chiusi e non riconobbe l’infedele!

Ma dunque ci sono delle turche infedeli? Se ce ne sono! Nonostante la gelosia degli effendi e la vigilanza degli eunuchi, nonostante i cento colpi di frusta che il Corano minaccia ai colpevoli, nonostante che i mariti turchi formino tra loro una specie di società di mutua assicurazione, e che segua là tutto l’opposto di quello che segue in altri paesi, dove par che tutti cospirino tacitamente a danno della felicità coniugale; si può quasi affermare che le «velate» di Costantinopoli non commettono meno peccati che le «non velate» di molte città cristiane. Se ciò non fosse, Caragheuz non avrebbe così spesso sulla bocca la parola kerata, la quale, tradotta in un nome storico, significa Menelao. O com’è possibile? È possibile in mille maniere. Già bisogna dire che donne nel Bosforo non se ne gettano più, né dentro un sacco, né senza sacco, e che i castighi del digiuno, del silenzio, del cilicio, delle bastonate sulle piante dei piedi, non son più che minacce di qualche kerata bestiale. La gelosia cerca d’impedire il tradimento; ma quando s’accorge di non esservi riuscita, non fa più né le furie né le vendette d’una volta, poiché ora è assai più difficile di tener nascoste le tragedie domestiche fra le mura della casa, e nella società musulmana è entrata, con molte altre forze europee, la forza del ridicolo, di cui la gelosia ha paura. E oltre a ciò la gelosia turca, che nella maggior parte dei casi è una gelosia fredda, corporale, d’amor proprio più che d’amore, è bensì severa, pesante, ed anche vendicativa; ma non può avere i mille occhi e l’attività investigatrice e infaticabile di quella che vien proprio dal vivo dell’anima innamorata. E poi chi vigila sulle donne separate dal marito, od anche non separate, ma che stanno in una casa a parte, dove egli non va tutti i giorni? Chi le segue per i vicoli intricati di Pera e di Galata e per i quartieri lontani di Stambul? Chi impedisce a un bell’aiutante di campo del Sultano di fare quel che gli vidi far io, di passar di galoppo accanto a una carrozza, alla svoltata d’uno stradone, nel punto in cui l’eunuco che è dinanzi gli volge le spalle e quello di dietro non può vederlo perché c’è la carrozza frammezzo, e di gettare passando un bigliettino nello sportello? E le sere del Ramazan che le donne stan fuori fino a mezzanotte? E le cocone compiacenti, specie quelle che stanno sul confine d’un sobborgo cristiano e d’un sobborgo musulmano, che ricevono in casa un’amica velata, senza chiuder la porta ad un amico europeo? Le avventure però non son più né strane né terribili come altre volte. Non ci son più le gran dame che di notte, dopo soddisfatto un capriccio, precipitano nel Bosforo per un trabocchetto il giovane di bottega che ha portata all’arem la stoffa comprata da loro la mattina; come faceva una Sultana del secolo scorso. Ora tutto procede prosaicamente. I primi convegni si danno per lo più nelle retrobotteghe. Si sa; ci sono da per tutto dei bottegai che fanno bottega d’ogni cosa. E non c’è da domandare se le autorità turche cerchino di impedire questi abusi. Basti il dire che delle prescrizioni per il buon ordine che dà la Polizia di Costantinopoli in occasione delle grandi feste, la maggior parte si riferiscono alle donne, e sono direttamente rivolte a loro in forma di consigli o di minacce. È proibito alle donne, per esempio, d’entrare nelle stanze interne delle botteghe: debbono stare in modo da esser viste dalla strada. È proibito alle donne di andare in tramway per divertimento: ossia debbono scendere al termine della corsa e non tornare subito indietro per la stessa via. È proibito alle donne di far segni alla gente che passa, di fermarsi qui, di passar per di là, di trattenersi più di quel certo tempo in quei dati luoghi: tutte prescrizioni che ognuno può immaginare come vengano poi rispettate e se sia possibile farle rispettare. E poi c’è quel benedetto velo, che fu istituito come una salvaguardia dell’uomo, e che ora è diventato una salvaguardia della donna, perché se lo mettono trasparente per far saltare i capricci, e fitto per poterli appagare; dal che si dice che nascano molti accidenti bizzarri: di amanti fortunati che dopo molto tempo non sanno ancora chi siano le loro belle; di donne che si nascondono sotto il nome d’un’altra per fare una vendetta; di corbellature, di riconoscimenti, d’imbrogli, che danno luogo a chiacchiere e a battibecchi infiniti.

Le chiacchiere vanno poi tutte a confondersi e a ribollire nelle case di bagni, che sono i luoghi usuali di convegno per le donne turche. Il bagno è in certo modo il loro teatro. Ci vanno a coppie e a brigate colle schiave, portando con sé cuscini, tappeti, oggetti di toeletta, ghiottonerie, e qualche volta il desinare, per starvi dalla mattina alla sera. Là, in quelle sale semioscure, fra i marmi e le fontane, si trovano qualche volta insieme più di duecento donne, nude come ninfe o mal velate, che a detta delle signore europee che ci furono, presentano uno spettacolo da far cadere il pennello di mano a cento pittori. Vi si vedono le hanum bianchissime accanto alle schiave nere come l’ebano; le belle matrone dalle forme poderose che rappresentano l’ideale della bellezza per i turchi di gusto antico; delle sposine smilze e giovanissime, coi capelli corti e ricciuti, che sembrano giovinetti; circasse coi capelli d’oro che cascano fino alle ginocchia; turche che hanno fino a cento trecce nerissime sparse per il seno e per le spalle; altre coi capelli divisi in un’infinità di piccole ciocche disordinate che fanno la figura d’una parrucca enorme; una con un amuleto al collo, un’altra con uno spicchio d’aglio legato al capo per scongiurare il mal d’occhio; delle mezze selvagge con rabeschi sopra le braccia; le donnine alla moda che hanno intorno alla vita le tracce del busto e intorno al collo del piede i segni dello stivaletto; e qualche volta anche delle povere schiave che mostrano sulle spalle le impronte del frustino degli eunuchi. Si vedono mille gruppi e mille atteggiamenti graziosi e bizzarri; alcune fumano sdraiate sui tappeti, altre si fanno pettinar dalle schiave, altre ricamano, altre canterellano, ridono, si spruzzano e si rincorrono, o strillano sotto le doccie, o gozzovigliano sedute in cerchio, o tagliano i panni al prossimo aggruppate in disparte. E scoprendo il loro corpo, scoprono anche, là più che altrove, la loro indole fanciullesca. Si misurano i piedini, si giudicano, si confrontano. Una dice francamente: – Son bella; – un’altra: – Son passabile: – un’altra: – Mi rincresce d’aver questo difetto – oppure: – Ma sai che sei più bella di me, tu? – E qualcuna dice in tuono di rimprovero all’amica: – Ma guarda dunque la signora Ferideh com’è diventata grassa a mangiar gamberi schiacciati, tu che dicevi che fanno meglio le pallottole di riso? – E quando c’è una cocona garbata la circondano e le fanno mille domande: – Ma è vero che andate ai balli scoperte fin qui? Il vostro effendi che cosa ne pensa? E gli altri uomini che cosa ne dicono? E come vi pigliate per ballare? In codesto modo? Ma davvero? Ma son proprio cose che bisognerebbe vederle per poterci credere!

E non solo nei bagni, ma per tutto e in tutte le occasioni cercano di conoscere signore europee, e son felici quando possono attaccar discorso con esse, e specialmente quando possono riceverle in casa. Allora radunano le amiche, mettono in vista tutte le donne di servizio, fanno un po’ di festa, rimpinzano la visitatrice di dolci e di frutti, e di rado la lasciano andar via senza un regalo. Il sentimento che le muove a queste dimostrazioni è più la curiosità, si capisce, che la benevolenza; e infatti, appena hanno preso un po’ di famigliarità colla nuova amica, si fanno dire mille particolari della vita europea, esaminano il suo vestiario parte per parte dal cappellino agli stivaletti, e non sono soddisfatte se non quando l’hanno condotta al bagno e hanno visto bene com’è fatta una nazarena, una di queste donne straordinarie, che studiano tante cose, che dipingono, che scrivono per le stampe, che lavorano negli uffici pubblici, che montano a cavallo, che salgono sulla cima delle montagne. Da molto tempo, però, non hanno più di loro le strane idee che avevano prima della riforma; non credono più, per esempio, che il busto sia una specie di corazza messa dai mariti alle mogli per assicurarsi della loro fedeltà, e di cui essi soli abbiano la chiave; né che le donne europee siano di tutti coloro con cui vanno una volta a braccetto; per il che le guardavano con diffidenza e ne parlavano con disprezzo, non invidiando nemmeno la loro coltura, di cui non avevano idea o che non erano in grado d’apprezzare. Ora nutrono invece per esse un tutt’altro sentimento, e son diventate diffidenti nel senso opposto; si vergognano, cioè, in faccia a loro, della propria ignoranza; temono di parer rozze o sciocche o puerili; e molte non s’abbandonano più coll’ingenuità confidente delle prime volte. Ma le imitano sempre più nel vestire e nei modi. Quelle che studiano una lingua europea, la studiano più per imitazione che per desiderio di sapere, o la studiano per parlare con le cristiane. Discorrendo, s’ingegnano d’incastrare nel turco qualche parola francese; quelle che non sanno quella lingua, fingono di saperla o almeno d’intenderla; sono beate di sentirsi chiamar madame; vanno apposta in certe botteghe di franchi per essere salutate con quel titolo; e Pera, la gran Pera le attira, come il lume le farfalle; attira i loro passi, le loro fantasie e i loro quattrini, e qualche volta anche i loro peccati. Per questo son smaniose di conoscer signore franche, che sono per esse come le rivelatrici d’un nuovo mondo. Da loro si fanno descrivere i grandi spettacoli dei teatri d’occidente, i balli splendidi, i bei conviti, i ricevimenti sontuosi delle gran dame, le avventure carnevalesche e i grandi viaggi, e tutte queste immagini luminose turbinano poi tutte insieme nella loro testina affaticata, fra le pareti uggiose dell’arem, all’ombra dei giardini malinconici; e come le donne europee sognano gli orizzonti sereni dell’Oriente, esse sospirano in quei momenti, la vita varia e febbrile dei nostri paesi, e darebbero tutte le meraviglie del Bosforo per un quartiere nebbioso di Parigi. Ma non è soltanto la vita varia e febbrile ch’esse sospirano; è anche, e più sovente e più intimamente desiderata, la vita domestica, il piccolo mondo della casa europea, il cerchio degli amici devoti, le mense coronate di figli, le belle vecchiezze onorate; quel santuario pieno di memorie, di confidenze e di tenerezze, che può render bella l’unione di due anime anche senza l’amore; al quale si ritorna anche dopo una lunga vita d’aberrazioni e di colpe; nel quale, anche fra i dolori del presente e le tempeste della giovinezza, il pensiero si rifugia e il cuore si conforta, come in una promessa di pace per gli anni più tardi, come nella bellezza d’un tramonto sereno contemplato dall’oscurità della valle.

Ma c’è una gran cosa da dire a conforto di tutti coloro che lamentano la sorte della donna turca, ed è che la poligamia decade di giorno in giorno. Già è stata considerata sempre dai turchi medesimi piuttosto come un abuso tollerabile che come diritto naturale dell’uomo. Maometto disse: – È sempre lodevole chi sposa una donna sola, – benché egli ne abbia sposato parecchie; e sposano infatti una donna sola tutti coloro che vogliono dar l’esempio di costumi onesti ed austeri. Chi n’ha più d’una, non è apertamente disapprovato, ma non è nemmeno lodato. Sono pochi i turchi che sostengono la poligamia apertamente, più rari quelli che l’approvino nella loro coscienza. Quasi tutti ne comprendono l’ingiustizia e le male conseguenze; molti la combattono a viso aperto e con ardore. Tutti coloro che sono in una condizione sociale che impone una certa rispettabilità di carattere e una qualche dignità di vita, non hanno che una donna. Ne hanno una sola gli alti impiegati dei ministeri, gli ufficiali dell’esercito, i magistrati, gli uomini di religione. Una sola, per necessità, tutti i poveri e quasi tutti gli uomini del mezzo ceto. Quattro quinti dei turchi di Costantinopoli non sono più poligami. Molti, è vero, non sposano che una donna per la mania d’imitar gli europei; e molti altri, che hanno una moglie sola, si rifanno colle odalische. Ma quella mania d’imitazione ha le sue prime radici in un sentimento confuso della necessità d’un cangiamento nella società musulmana; e l’uso delle odalische, apertamente biasimato come vizio, non può che scemare col ristringersi del commercio, ancora tollerato, delle schiave, fin che si confonderà colla corruzione ordinaria di tutti i paesi europei. Ne nascerà una corruzione maggiore? Ad altri la sentenza. Questo è il fatto: che la trasformazione europea della società turca non è possibile senza la redenzione della donna, che la redenzione della donna non si può compiere senza la caduta della poligamia, e che la poligamia cade. Nessuno forse leverebbe la voce, se la sopprimesse improvvisamente domani un decreto del Gran Signore. L’edifizio è crollato e non c’è più che da sgombrar le rovine. La nuova aurora tinge già di rosa le terrazze degli arem. Sperate, o belle hanum! Le porte del selamlik saranno spezzate, le grate cadranno, il feregé andrà a decorare i musei del gran bazar, l’eunuco non sarà più che una reminiscenza nera dell’infanzia, e voi mostrerete liberamente al mondo le grazie del vostro viso e i tesori della vostra anima; e allora, ogni volta che si nomineranno in Europa le «perle dell’Oriente», s’intenderà di nominar voi, o bianche hanum; voi, belle musulmane, colte, argute e gentili; non le inutili perle che brillano intorno alla vostra fronte in mezzo alle pompe fredde dell’arem. Coraggio, dunque! Il Sole si leva. Per me – e questo lo dico ai miei amici increduli – vecchio come sono, non ho ancora rinunziato alla speranza di dare il braccio alla moglie d’un pascià di passaggio per Torino, e di condurla a passeggiare sulle rive del Po, recitandole un capitolo dei Promessi Sposi.


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

11- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: Dolma Bagcè

11- Dolma Bagcè

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

Ogni venerdì il Sultano va a far le sue preghiere in una moschea di Costantinopoli.
Noi lo vedemmo un giorno che andò alla moschea d’Abdul-Megid, posta sulla riva europea del Bosforo, vicino al palazzo imperiale di Dolma Bagcé.
Per andare a Dolma Bagcé, da Galata, si passa per il quartiere popoloso di Top- hané, fra una grande fonderia di cannoni e un vasto arsenale; si percorre tutto il sobborgo musulmano di Funduclù, che occupa il luogo dell’antico Aïanteion, e si riesce in una piazza spaziosa, aperta verso il mare, di là dalla quale, lungo la riva del Bosforo, s’innalza il palazzo famoso dove risiedono i Sultani.

È la più grande mole di marmo che riflettano le acque dello stretto dalla collina del Serraglio alle bocche del Mar Nero, e non si abbraccia tutta con uno sguardo che passandovi davanti in caicco. La facciata, che si stende per la lunghezza di circa un mezzo miglio italiano, è rivolta verso l’Asia, e si vede biancheggiare a una grande distanza fra l’azzurro del mare e il verde cupo delle colline della riva. Non è propriamente un palazzo perché non c’è un unico concetto architettonico; le varie parti sono slegate e vi si mescolano in una confusione non mai veduta lo stile arabo, il greco, il gotico, il turco, il romano, quello del nascimento; e colla maestà dei palazzi reali d’Europa, la grazia quasi femminea delle moresche di Siviglia e di Granata. Piuttosto che il «palazzo» si potrebbe chiamare «la città imperiale» come quella dell’Imperatore della China; e più che per la vastità, per la forma, pare che debba essere abitato, non da un solo monarca, ma da dieci re fratelli od amici, che vi passino il tempo fra gli ozi e i piaceri. Dalla parte del Bosforo presenta una serie di facciate di teatri o di templi, sulle quali v’è una profusione indescrivibile d’ornamenti, buttati via, come dice un poeta turco, dalle mani d’un pazzo; che rammentano quelle favolose pagode indiane, su cui l’occhio si stanca al primo sguardo, e sembrano l’immagine degli infiniti capricci amorosi e fastosi dei principi sfrenati che vivono tra quelle mura. Sono file di colonne doriche e ioniche, leggiere come aste di lancia; finestre inquadrate in cornici a festoni e in colonnine accannellate; archi pieni di fogliami e di fiori che s’incurvano su porte coperte di ricami; terrazze gentili coi parapetti scolpiti a giorno; trofei, rosoni, viticci; ghirlande che s’annodano e s’intrecciano, vezzi di marmo che s’affollano sui cornicioni, lungo le finestre, intorno a tutti i rilievi; una rete d’arabeschi che si stende dalle porte ai frontoni, una fioritura, uno sfarzo e una finezza di fregi e di gale architettoniche, che danno ad ognuno dei piccoli palazzi di cui è composto il grande edifizio multiforme, l’apparenza d’un prodigioso lavoro di cesellatura. Pare che non debba essere un tranquillo architetto armeno quello che n’ebbe il primo concetto; ma un sultano innamorato il quale l’abbia visto in sogno, dormendo tra le braccia della più ambiziosa delle sue amanti. Dinanzi si stende una fila di pilastri monumentali di marmo bianco, uniti da cancellate dorate, che rappresentano un intreccio delicatissimo di rami e di fiori, e che viste di lontano sembrano cortine di trina, che il vento debba portar via. Lunghe gradinate marmoree discendono dalle porte alla sponda e si nascondono nel mare. Tutto è bianco, fresco, nitido come se il palazzo fosse fatto d’ieri. L’occhio d’un artista ci potrà vedere mille errori d’armonia e di gusto; ma l’insieme di quella mole smisurata e ricchissima, il primo aspetto di quella schiera di regge bianche come la neve, niellate come gioielli, coronate da quel verde, riflesse da quelle acque, lascia un’impressione di potenza, di mistero e d’amore, che fa quasi dimenticare la collina dell’antico Serraglio. Quelli che ebbero la fortuna di penetrare fra quelle mura, dicono che il di dentro corrisponde alla facciata: che son lunghe sfilate di sale dipinte a fresco di soggetti fantastici e di colori ridenti, con porte di cedro e d’acagiù scolpite e ornate d’oro, che s’aprono su interminabili corridoi rischiarati da una luce dolcissima, dai quali si va in altre sale colorate di foco da cupolette di cristallo porporino, e in stanze da bagno che sembrano scavate in un solo blocco di marmo di Paros; e di qui su terrazze aeree, che pendono sopra giardini misteriosi e sopra boschetti di cipressi e di rose, dai quali, per lunghe fughe di portici moreschi, si vede l’azzurro del mare; e finestre, terrazze, logge, chioschetti, tutto ribocca di fiori, per tutto c’è acqua che schizza e ricasca in piogge vaporose sulla verzura e sui marmi, e da ogni parte s’aprono vedute divine sul Bosforo, di cui l’aria viva spande in tutti i recessi della reggia enorme un delizioso fresco marino.

Dalla parte di Funduclù v’è una porta monumentale, sopraccarica d’ornamenti; il Sultano doveva uscire da quella porta e attraversare la piazza.

Non c’è altro re sulla terra che abbia una così bella piazza per fare una uscita solenne dalla sua reggia. Stando ai piedi della collina, si vede da un lato la porta del palazzo, che sembra un arco di trionfo d’una regina; dall’altro la moschea graziosa di Abdul-Megid, fiancheggiata da due minareti gentili, in faccia, il Bosforo; di là, le colline dell’Asia, verdissime, picchiettate d’infiniti colori dai chioschi, dai palazzi, dalle moschee, dalle ville, che presentano l’aspetto d’una grande città parata a festa; più lontano, la maestà ridente di Scutari, colla sua corona funebre di cipressi; e fra le due rive, un incrociarsi continuo di legni a vela, di navi da guerra imbandierate, di vaporini affollati che paiono colmi di fiori, di bastimenti asiatici di forme antiche e bizzarre, di lance del Serraglio, di barchette signorili, di stormi d’uccelli che radono le acque: una bellezza piena d’allegria e di vita, dinanzi alla quale lo straniero che aspetta l’uscita del corteo imperiale, non può che immaginare un Sultano bello come un angelo e sereno come un fanciullo.

Mezz’ora prima, v’erano già nella piazza due schiere di soldati vestiti alla zuava, che dovevano far ala al passaggio del Sultano, e un migliaio di curiosi. Non c’è nulla di più strano della raccolta di gente che si vede per il solito in quell’occasione. C’erano ferme qua e là parecchie splendide carrozze chiuse, con dentro delle turche «dell’alta signoria» guardate da giganteschi eunuchi a cavallo, immobili accanto gli sportelli; alcune signore inglesi in carrozze da nolo scoperte; varii crocchi di viaggiatori col cannocchiale a tracolla, fra i quali vidi il contino conquistatore dell’albergo di Bisanzio, venuto forse, il crudele! per fulminare d’uno sguardo di trionfo il suo rivale potente e infelice. Tra la folla giravano parecchie figure cappellute, con un album sotto il braccio, che mi parvero disegnatori venuti per schizzare furtivamente le sembianze imperiali. Vicino alla banda musicale c’era una bellissima signora francese, vestita un po’ stranamente, d’aspetto e di atteggiamenti arditi, che stava dinanzi a tutti, che doveva essere un’avventuriera cosmopolitica venuta là per dar nell’occhio al Gran Signore, poiché le si leggeva sul viso «la trepida gioia d’un gran disegno». C’erano di quei vecchi turchi, sudditi fanatici e sospettosi, che non mancano mai al passaggio del loro Sultano, perché vogliono proprio assicurarsi coi loro occhi che è vivo e sano per la gloria e la prosperità dell’universo; e il Sultano esce appunto ogni venerdì per dare al suo buon popolo una prova della propria esistenza, potendo accadere, come accadde più volte, che la sua morte naturale o violenta sia tenuta segreta da una congiura di corte. C’erano dei mendicanti, dei bellimbusti musulmani, degli eunuchi sfaccendati, dei dervis. Fra questi notai un vecchio alto e sparuto, dagli occhi terribili, immobile, che guardava verso la porta del palazzo con un’espressione sinistra; e pensai che aspettasse il Sultano per piantarglisi davanti e gridargli in faccia come il dervis delle Orientali al Pascià Alì di Tepeleni: – Tu non sei che un cane e un maledetto! – Ma di questi ardimenti sublimi non si dà più esempio dopo la sciabolata famosa di Mahmud.

C’erano poi vari gruppi di donnine turche, in disparte, che parevano gruppi di maschere, e quella solita accozzaglia di comparse da palco scenico che è la folla di Costantinopoli. Tutte le teste si profilavano sull’azzurro del Bosforo, e probabilmente tutte le bocche dicevano le stesse parole.

Si cominciava a parlare appunto in quei giorni delle stravaganze d’Abdul Aziz. Già da un pezzo si parlava della sua insaziabile avidità di denaro. Il popolo diceva: – Mamhud avido di sangue, Abdul-Megid di donne, Abdul-Aziz d’oro. – Tutte le speranze che s’erano fondate su di lui, principe imperiale, quando, ammazzando un bue con un pugno, diceva: – Così ammazzerò la barbarie, – erano già svanite d’un pezzo. Le tendenze a una vita semplice e severa, di cui aveva dato prova nei primi anni del suo regno, amando, come si diceva, una donna sola, e ristringendo inesorabilmente le spese enormi del Serraglio, non erano più che una memoria. Forse erano anche anni ed anni che aveva smesso affatto quegli studi di legislazione, d’arte militare e di letteratura europea, di cui s’era fatto tanto scalpore, come se in essi riposassero tutte le speranze della rigenerazione dell’Impero. Da molto tempo non pensava più che a sé stesso. Ogni momento correva la voce di qualche sua escandescenza contro il ministro delle finanze che non voleva o non poteva dargli tutto il denaro ch’egli avrebbe voluto. Alla prima obbiezione scaraventava addosso alla malcapitata Eccellenza il primo oggetto che gli cadeva nelle mani, recitando per filo e per segno, con quanta voce aveva in gola, la formola antica del giuramento imperiale: per il Dio creatore del cielo e della terra, per il profeta Maometto, per le sette varianti del Corano, per i centoventiquattromila profeti di Dio, per l’anima di mio nonno e per l’anima di mio padre, per i miei figli e per la mia spada, portami del danaro o faccio piantare la tua testa sulla punta del più alto minareto di Stambul. E per un verso o per un altro veniva a capo di quel che voleva, e il danaro estorto in quella maniera, ora lo ammucchiava e se lo covava gelosamente come un avaro volgare, ora lo profondeva a piene mani in capricci puerili. Oggi era il capriccio dei leoni, domani delle tigri, e mandava incettatori nelle Indie e nell’Affrica; poi per un mese filato cinquecento pappagalli facevano risonare i giardini imperiali della stessa parola; poi gli pigliava il furore delle carrozze e dei pianoforti che voleva far sonare sorretti dalla schiena di quattro schiavi; poi la mania dei combattimenti dei galli, a cui assisteva con entusiasmo, e appendeva di sua mano una medaglia al collo dei vincitori, e cacciava in esilio, di là dal Bosforo, i vinti; poi la passione del gioco, dei chioschi, dei quadri; la corte pareva tornata ai tempi del primo Ibraim; ma il povero principe non trovava pace, non faceva che passare da una noia mortale a un’inquietudine tormentosa; era torbido e triste; pareva che presentisse la fine infelice che lo aspettava. A volte si ficcava nel capo di dover morire avvelenato, e per un pezzo, diffidando di tutti, non mangiava più che uova sode; altre volte, preso dal terrore degl’incendi, faceva togliere dalle sue stanze tutti gli oggetti di legno, persino le cornici degli specchi. In quel tempo appunto si diceva che, per paura del fuoco, leggesse di notte al lume d’una candela piantata in un secchio d’acqua. E malgrado queste follie, di cui si diceva che fosse la prima cagione una cagione che non c’è bisogno di dire, egli conservava tutta la forza imperiosa della volontà antica, e sapeva farsi obbedire e faceva tremare i più arditi. La sola persona che potesse sull’animo suo era sua madre, donna d’indole altera e vana, che nei primi anni del suo regno faceva coprire di tappeti di broccato le strade dove passava suo figlio per andare alla moschea, e il giorno dopo regalava tutti quei tappeti agli schiavi che li andavano a levare. Però, anche nel disordine della sua vita affannosa, fra l’uno e l’altro dei suoi grandi capricci, Abdul Aziz aveva pure dei capricci piccolissimi, come quello di volere sopra una data porta un dipinto a fresco di natura morta, con quei certi frutti e quei certi fiori, combinati in quella data maniera, e prescriveva accuratamente ogni cosa al pittore, e stava là lungo tempo a contare le pennellate, come se non avesse altro pensiero al mondo. Di tutte queste bizzarrie, frangiate chi sa come dalle mille bocche del Serraglio, tutta la città parlava, e forse fin d’allora s’andavano raccogliendo le prime fila della congiura che lo rovesciò dal trono due anni dopo. La sua caduta, come dicono i Musulmani, era già scritta, e con essa la sentenza che fu poi pronunziata sopra di lui e sopra il suo regno. La quale non è molto diversa da quella che si potrebbe dare su quasi tutti i Sultani degli ultimi tempi. Principi imperiali, spinti verso la civiltà europea da un’educazione superficiale, ma varia e libera, e dal fervore della giovinezza desiderosa di novità e di gloria, vagheggiano, prima di salire sul trono, grandi disegni di riforme e di rinnovamenti, e fanno il proposito fermo e sincero di dedicare a quel fine tutta la loro vita, che dovrà essere una vita austera di lavoro e di lotta. Ma dopo qualche anno di regno e di lotte inutili, circondati da mille oracoli, inceppati da tradizioni e da consuetudini avversati dagli uomini e dalle cose, spaventati dalla grandezza non prima misurata dell’impresa, se ne sdanno sfiduciati, per domandare ai piaceri quello che non possono avere dalla gloria, e perdono a poco a poco, in una vita tutta sensuale, perfino la memoria dei primi propositi e la coscienza del loro avvilimento. Così accade che al sorgere d’ogni nuovo Sultano si faccia sempre, e non senza fondamento, un pronostico felice a cui segue sempre un disinganno.

Abdul-Aziz non si fece aspettare. All’ora fissata, s’udì uno squillo di tromba, la banda intonò una marcia di guerra, i soldati presentarono le armi, un drappello di lancieri uscì improvvisamente dalla porta del palazzo, e si vide apparire il Sultano a cavallo, che venne innanzi lentamente, seguito dal suo corteo.

Mi passò dinanzi a pochi passi, ed ebbi tutto il tempo di considerarlo attentamente.

La mia immaginazione fu stranamente delusa.

Il re dei re, il sultano scialacquatore, violento, capriccioso, imperioso, – che era allora

sui quarantaquattr’anni, – aveva l’aspetto di una buonissima pasta di turco, che si trovasse a fare il sultano senza saperlo. Era un uomo tarchiato e grasso, un bel faccione con due grandi occhi sereni e una barba intera e corta, già un po’ brizzolata di bianco; aveva una fisonomia aperta e mansueta, un atteggiamento naturalissimo, quasi trascurato; e uno sguardo quieto e lento in cui non appariva la minima preoccupazione dei mille sguardi che gli erano addosso. Montava un cavallo grigio bardato d’oro, di bellissime forme, tenuto per le briglie da due palafrenieri sfolgoranti. Il corteo lo seguiva a grande distanza, e da questo solo si poteva capire che era il Sultano. Il suo vestimento era modestissimo. Aveva un semplice fez, un lungo soprabito di color scuro abbottonato fin sotto il mento, un paio di calzoni chiari e gli stivali di marocchino. Veniva innanzi lentissimamente, guardando intorno con un’espressione tra benevola e stanca, come se volesse dire agli spettatori: – Ah! se sapeste come mi secco! – I musulmani s’inchinavano profondamente; molti europei si levavano il cappello: egli non restituì il saluto a nessuno. Passando dinanzi a noi, diede uno sguardo a un ufficiale d’alta statura che lo salutava colla sciabola, un altro sguardo al Bosforo, e poi uno sguardo più lungo a due giovani signore inglesi che lo guardavano da una carrozza, e che si fecero rosse come due fragole. Osservai che aveva la mano bianca e ben fatta, ed era appunto la mano destra, colla quale, due anni dopo, si aperse le vene nel bagno. Dietro di lui passò uno stuolo di pascià, di cortigiani, di pezzi grossi, a cavallo; quasi tutti omaccioni con gran barbe nere, vestiti senza pompa, silenziosi, gravi, cupi, come se accompagnassero un convoglio funebre; dopo, un drappello di palafrenieri che conducevano a mano dei cavalli superbi; poi uno stuolo d’ufficiali a piedi col petto coperto di cordoni d’oro; passati i quali, i soldati abbassarono le armi, la folla si sparpagliò per la piazza, ed io rimasi là immobile, cogli occhi fissi sulla cima del monte Bulgurlù, pensando alla singolarissima condizione in cui si trova un sultano di Stambul.

È un monarca maomettano, pensavo, e ha la reggia ai piedi di una città cristiana, Pera, che gli torreggia sul capo. È sovrano assoluto d’uno dei più vasti imperi del mondo, e ci sono nella sua metropoli, poco lontano da lui, dentro ai grandi palazzi che sovrastano al suo Serraglio, quattro o cinque stranieri cerimoniosi che la fanno da padroni in casa sua, e che trattando con lui, nascondono sotto un linguaggio reverente una minaccia perpetua che lo fa tremare. Ha nelle mani un potere smisurato, gli averi e la vita di milioni di sudditi, il mezzo di soddisfare i suoi più pazzi desideri, e non può cambiare la forma della sua copertura di capo. È circondato da un esercito di cortigiani e di guardie, che bacerebbero l’orma dei suoi piedi, e trema continuamente per la propria vita e per quella dei suoi figliuoli. Possiede mille donne fra le più belle donne della terra, ed egli solo, tra tutti i musulmani del suo impero, non può dare la mano di sposo a una donna libera, non può aver che figli di schiave, ed è chiamato egli stesso: – Figlio di schiava, – da quello stesso popolo che lo chiama «ombra di Dio». Il suo nome suona riverito e terribile dagli ultimi confini della Tartaria agli ultimi confini del Maghreb, e nella sua stessa metropoli v’è un popolo innumerevole, e sempre crescente, su cui non ha ombra di potere e che si ride di lui, della sua forza e della sua fede. Su tutta la faccia del suo immenso impero, fra le tribù più miserabili delle provincie più lontane, nelle moschee e nei conventi più solitarii delle terre più selvaggie, si prega ardentemente per la sua vita e per la sua gloria; ed egli non può fare un passo nei suoi stati, senza trovarsi in mezzo a nemici che lo esecrano e che invocano sul suo capo la vendetta di Dio. Per tutta la parte del mondo che si stende dinanzi alla sua reggia, egli è uno dei più augusti e più formidabili monarchi dell’universo; per quella che gli si stende alle spalle, è il più debole, il più pusillo, il più miserevole uomo che porti una corona sul capo. Una corrente enorme d’idee, di volontà, di forze contrarie alla natura e alle tradizioni della sua potenza, lo avvolge, lo soverchia, trasforma sotto di lui, intorno a lui, suo malgrado, senza che se n’avveda, consuetudini, leggi, usi, credenze, uomini, ogni cosa. Ed egli è là, tra l’Europa e l’Asia, nel suo smisurato palazzo bagnato dal mare, come in una nave pronta a far vela, in mezzo a una confusione infinita d’idee e di cose, circondato d’un fasto favoloso e d’una miseria immensa, già non più né due né uno, non più vero musulmano, non ancora vero europeo, regnante sopra un popolo già in parte mutato, barbaro di sangue, civile d’aspetto, bifronte come Giano, servito come un nume, sorvegliato come uno schiavo, adorato, insidiato, accecato, e intanto ogni giorno che passa spegne un raggio della sua aureola e stacca una pietra dal suo piedestallo. A me pare che se fossi in lui, stanco di quella condizione così singolare nel mondo, sazio di piaceri, stomacato d’adulazioni, affranco dai sospetti, indignato di quella sovranità malsicura ed oziosa sopra quel disordine senza nome, qualche volta, nell’ora in cui l’enorme Serraglio è immerso nel sonno, mi butterei a nuoto nel Bosforo come un galeotto fuggitivo, e andrei a passar la notte in una taverna di Galata in mezzo a una brigata di marinai, con un bicchiere di birra in mano e una pipa di gesso fra i denti, urlando la marsigliese.

Dopo una mezz’ora, il Sultano ripassò rapidamente in carrozza chiusa, seguito da un drappello d’ufficiali a piedi, e lo spettacolo fu finito. Di tutto, quello che mi fece un senso più vivo, furono quegli ufficiali in grande uniforme, che correvano saltellando, come una frotta di lacchè, dietro la carrozza imperiale. Non vidi mai una prostituzione simile della divisa militare.

Questo spettacolo del passaggio del Sultano è ora, come si vede, una cosa assai meschina. I sultani d’altri tempi uscivano in gran pompa, preceduti e seguiti da un nuvolo di cavalieri, di schiavi, di guardie dei giardini, d’eunuchi, di ciambellani, che visti di lontano, presentavano l’aspetto, come dicevano i cronisti entusiastici, «d’una vasta aiuola di tulipani.» I sultani d’oggi invece par che rifuggano dalle pompe come da un’ostentazione teatrale della grandezza perduta. Io mi domando sovente che cosa direbbe uno di quei primi monarchi se, risorgendo per un momento dal suo sepolcro di Brussa o dal suo turbè di Stambul, vedesse passare uno di questi suoi nipoti del secolo diciannovesimo, insaccato in un soprabito nero, senza turbante, senza spada, senza gemme, in mezzo a una folla di stranieri insolenti. Io credo che arrossirebbe di rabbia e di vergogna, e che in segno di supremo disprezzo gli farebbe, come Solimano I ad Hassan, tagliare la barba a colpi di scimitarra, che è la più crudele ingiuria che si passa fare a un osmano. E veramente, fra i sultani d’ora e quei primi, i cui nomi risonarono in Europa tra il secolo XII e il XVI come scoppi di folgore, corre la stessa differenza che tra l’impero ottomano dei nostri giorni e quello dei primi secoli. Quelli raccoglievano davvero in sé la gioventù, la bellezza e il vigore della loro razza; e non erano soltanto un’immagine vivente del proprio popolo, una bella insegna, una perla preziosa della spada dell’islamismo; ma ne costituivano per sé soli una vera forza, e tale, che non c’è chi possa disconoscere nelle loro qualità personali una delle cagioni più efficaci del meraviglioso incremento della potenza ottomana. Il più bel periodo è quello della prima giovinezza della dinastia che abbraccia centonovantatrè anni da Osmano a Maometto II. Quella fu davvero una catena di principi fortissimi, e fatta una sola eccezione, e tenuto conto dei tempi e delle condizioni della razza, austeri e saggi e amati dai propri sudditi; spesso feroci, ma di rado ingiusti, e sovente anche generosi e benefici verso i nemici; e tutti poi quali si capisce che dovessero essere dei principi di quella gente, belli e tremendi d’aspetto, leoni veri, come le loro madri li chiamavano «di cui il ruggito faceva tremare la terra.» Gli Abdul-Megid, gli Abdul-Aziz, i Murad, gli Hamid non sono che larve di padiscià in confronto di quei giovani formidabili, figli di madri di quindici e di padri di diciott’anni, nati dal fiore del sangue tartaro e dal fiore della bellezza greca, persiana, caucasea. A quattordici anni comandavano eserciti e governavano provincie, e ricevevano in premio dalle proprie madri delle schiave belle ed ardenti come loro. A sedici anni erano già padri, a settanta lo diventavano ancora. Ma l’amore non infiacchiva in loro la tempra gagliardissima dell’animo e delle membra. L’animo era di ferro, dicevano i poeti, e il corpo era d’acciaio. Avevano tutti certi tratti comuni, che si perdettero poi nei loro nipoti degeneri: la fronte alta, le sopracciglia arcate e riunite come quelle dei persiani, gli occhi azzurrini dei figli delle steppe, il naso che si curvava sulla bocca purpurea «come il becco d’un pappagallo sopra una ciliegia» e foltissime barbe nere, per le quali i poeti del serraglio si stillavano a cercar paragoni gentili o terribili. Avevano «lo sguardo dell’aquila di monte Tauro e la forza del re del deserto; colli di toro, larghissime spalle, petti sporgenti che poteva contenere tutta l’ira guerriera dei loro popoli», braccia lunghissime, articolazioni colossali, gambe corte ed arcate, che facevano nitrir di dolore i più vigorosi cavalli turcomanni, e grandi mani irsute che palleggiavano come canne le mazze e gli archi enormi dei loro soldati di bronzo. E portavano dei soprannomi degni di loro: il lottatore, il campione, la folgore, lo stritolatore d’ossa, lo spargitore di sangue. La guerra era dopo Allà il primo dei loro pensieri, e la morte era l’ultimo. Non avevano il genio dei grandi capitani, ma erano dotati tutti di quella prontezza di risoluzione che quasi sempre vi supplisce, e di quella feroce ostinatezza che consegue non di rado i medesimi effetti. Trasvolavano, come furie alate, pei campi di battaglia, mostrando di lontano le lunghe penne d’airone confitte nei turbanti candidi, e gli ampi caffettani tessuti d’oro e di porpora, e i loro urli selvaggi ricacciavano innanzi le schiere macellate dalla mitraglia serba e tedesca, quando non bastavano più i nerbi di bue di mille sciaù furibondi. Lanciavano i loro cavalli a nuoto nei fiumi mulinando al disopra delle acque le scimitarre stillanti di sangue; afferravano per la strozza e stramazzavano di sella, passando, i pascià infingardi o vigliacchi; balzavano giù da cavallo, nelle rotte, e piantavano i loro pugnali scintillanti di rubini nel dorso dei soldati fuggiaschi; e feriti a morte, salivano, comprimendo la ferita, sopra un rialto del campo, per mostrare ai loro giannizzeri il volto smorto ma ancora minacciane e imperioso, finché cadevano ruggendo di rabbia ma non di dolore. Quale doveva essere il sentimento di quelle loro giovanette circasse o persiane appena uscite dalla puerizia, quando per la prima volta, la sera d’un giorno di battaglia, sotto una tenda purpurea, al lume velato d’una lampada, si vedevano comparire davanti uno di quei sultani spaventosi e superbi, inebbriati dalla vittoria e dal sangue? Ma allora essi diventavano dolci e amorosi, e stringendo quelle mani infantili nelle loro gigantesche mani ancora convulse dalla stretta della spada, cercavano mille immagini dai fiori dei loro giardini, dalle perle dei loro pugnali, dai più belli uccelli dei loro boschi, dai più bei colori delle aurore dell’Anatolia e della Mesopotamia per lodare la bellezza delle loro schiave tremanti, fin che esse prendevano animo, e rispondevano nel loro linguaggio appassionato e fantastico: – Corona del mio capo! Gloria della mia vita! Mio dolce e tremendo Signore! Che il tuo volto sia sempre bianco e splendido nei due mondi dell’Asia e dell’Europa! Che la vittoria ti segua da per tutto dove ti porterà il tuo cavallo! Che la tua ombra si stenda sopra tutta la terra! Io vorrei essere una rosa per olezzare sulla cima del tuo turbante, o una farfalla per battere le ali sulla tua fronte! – E poi, colla voce velata, raccontavano a quei grandi amanti appagati, che s’assopivano sul loro seno, le loro storie fanciullesche di palazzi di smeraldo e di montagne d’oro, mentre intorno alla tenda, per la campagna insanguinata ed oscura, l’esercito feroce dormiva. Ma essi lasciavano ogni mollezza sulla soglia dell’arem, e uscivano da quegli amori più fieri e più ardenti. Erano dolci nell’arem, feroci sul campo, umili nella moschea, superbi sul trono. Di qui parlavano un linguaggio pieno d’iperboli sfolgoranti e di minacce fulminee, ed ogni loro sentenza era una sentenza irrevocabile che bandiva una guerra, o innalzava un uomo all’apice della fortuna, o faceva rotolare una testa ai piedi del trono, o scatenava un uragano di ferro o di foco sopra una provincia ribelle. Così turbinando dalla Persia al Danubio e dall’Arabia alla Macedonia, fra le battaglie, i trionfi, le cacce, gli amori, passavano dal fiore degli anni a una virilità più bollente e più audace della giovinezza, e poi a una vecchiaia della quale non s’accorgeva né il seno delle loro belle né il dorso dei loro cavalli né l’elsa della loro spada. E non solo nella vecchiaia, anche nell’età verde avveniva qualche volta che, oppressi dal sentimento della loro mostruosa potenza, sgomentati tutt’a un tratto, nel furore delle vittorie e dei trionfi, dalla coscienza d’una responsabilità più che umana, e presi da una specie di terrore nella solitudine della propria altezza, si volgevano con tutta l’anima a Dio, e passavano i giorni e le notti nei recessi oscuri dei loro giardini a comporre poesie religiose, o andavano a meditare il Corano sulle rive del mare o a ballare le ridde frenetiche dei dervis o a macerarsi coi digiuni e coi cilici nella caverna d’un vecchio eremita. E come nella vita, così nella morte si presentarono quasi tutti ai loro popoli in una figura o venerabile o tremenda, sia che morissero colla serenità dei santi come il capo della dinastia, o carichi d’anni di gloria e di tristezza come Orkano, o del pugnale d’un traditore come Murad I, o nella disperazione dell’esilio come Baiazet, o conversando placidamente fra una corona di dotti e di poeti come il primo Maometto, o del dolore d’una sconfitta come il secondo Murad; e si può dir con sicurezza che i loro fantasmi minacciosi sono quanto rimarrà di più grande e di più poetico sugli orizzonti color di sangue della storia ottomana.


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

10- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: Santa Sofia

10- Santa Sofia

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

Ed ora, se anche un povero scrittore di viaggi può invocare una musa, io la invoco a mani giunte perché la mia mente si smarrisce «in faccia al nobile subbietto» e le grandi linee della basilica bizantina mi tremano dinanzi come un’immagine riflessa da un’acqua agitata. La musa m’ispiri, Santa Sofia m’illumini e l’imperatore Giustiniano mi perdoni.

Una bella mattina d’ottobre, accompagnati da un cavas turco del Consolato d’Italia e da un dracomanno greco, andammo finalmente a visitare il «paradiso terrestre, il secondo firmamento, il carro dei cherubini, il trono della gloria di Dio, la meraviglia della terra, il maggior tempio del mondo dopo San Pietro». La quale ultima sentenza, – lo sappiano i miei amici di Burgos, di Colonia, di Milano, di Firenze, – non è mia, e non oserei farla mia; ma l’ho citata, colle altre, perché è una delle molte espressioni consacrate dall’entusiasmo dei Greci, che il nostro dracomanno ci andava ripetendo per via. E avevamo scelto pensatamente, insieme a un vecchio cavas turco, un vecchio dracomanno greco, colla speranza, che non fu delusa, di sentire nelle loro spiegazioni e nelle loro leggende cozzare le due religioni, le due storie, i due popoli; e che l’uno ci avrebbe esaltato la chiesa l’altro magnificato la moschea, in modo da farci vedere Santa Sofia come dev’esser veduta: con un occhio di cristiano e un occhio di turco.

La mia aspettazione era grande e la curiosità vivissima; eppure, strada facendo, pensavo come penso ancora, che non c’è monumento famoso, e sia pure degno della sua fama, dal quale venga all’anima una commozione così vivamente e schiettamente piacevole com’è quella che si prova nell’andarlo a vedere. Se dovessi rivivere un’ora di tutti i giorni in cui vidi qualche grande cosa, sceglierei quella che passò fra il momento in cui dissi: – Andiamo –; e il momento in cui intesi dire: – Siamo giunti. Le più belle ore dei viaggi son quelle. Andando, par di sentirsi ingrandir l’anima come per contenere il sentimento di ammirazione che vi sorgerà tra poco; si rammentano i desideri della prima giovinezza, che parevano sogni; si rivede un vecchio professore di geografia che, dopo aver segnato Costantinopoli sulla carta d’Europa, traccia per aria, con una presa di tabacco tra le dita, le linee della grande basilica; si vede quella stanza, quel caminetto, dinanzi al quale, nel prossimo inverno, si descriverà il monumento in mezzo a un cerchio di visi meravigliati ed immobili; si sente sonar quel nome di Santa Sofia nella testa, nel cuore, nelle orecchie, come il nome d’un essere vivo che ci aspetti e ci chiami per rivelarci qualche grande segreto; si vedono apparire sul nostro capo archi e pilastri prodigiosi d’edifizi che si perdono nel cielo; e quando si è a pochi passi dalla meta, si prova ancora un piacere inesprimibile a soffermarsi per guardare un ciottolo, per veder fuggire una lucertola, per raccontare una barzelletta, per perdere un po’ di tempo, per ritardare di qualche minuto quel momento che s’è desiderato per vent’anni e che si ricorderà per tutta la vita. Per modo che rimane assai poca cosa di questi celebrati piaceri dell’ammirazione, se si toglie il sentimento che li precede e quello che li segue. È quasi sempre un’illusione, seguita da un leggiero disinganno, dal quale noi, ostinati, facciamo pullulare altre illusioni.

La moschea di Santa Sofia è posta in faccia all’entrata principale dell’antico Serraglio.

Arrivando, però, nella piazza che si stende dinanzi al Serraglio, la prima cosa che attira gli occhi, non è la moschea, ma la fontana famosa del Sultano Ahmed III.

È uno dei più originali e più ricchi monumenti dell’arte turca. Ma più che un monumento, è un vezzo di marmo, che un galante sultano mise in fronte alla sua Stambul in un momento d’amore. Io credo che non lo possa descriver bene che una donna. La mia penna non è abbastanza fina per ritrarne l’immagine. A prima vista, non si direbbe una fontana. Ha la forma d’un tempietto quadrato, ed è coperto da un tetto alla cinese, che spinge le sue falde ondulate molto al di fuori dei muri, e gli dà una vaga apparenza di pagoda. Ai quattro angoli vi sono quattro torricciole rotonde, munite di finestrine ingraticolate, o piuttosto quattro chioschetti di forma gentilissima, ai quali corrispondono, sopra il tetto, altrettante cupolette svelte, sormontate ciascuna da una guglia graziosa; le quali fanno corona a una cupoletta più grande, posta nel mezzo. In ciascuno dei quattro muri ci sono due nicchie eleganti; fra le nicchie un arco a sesto acuto; sotto l’arco, una cannella che versa l’acqua in una piccola vasca. Intorno all’edifizio gira una iscrizione che dice: – Questa fontana ti parla della sua età nei seguenti versi del sultano Ahmed: volgi la chiave di questa sorgente pura e tranquilla e invoca il nome di Dio; bevi di quest’acqua inesauribile e limpida e prega per il Sultano. – Il piccolo edifizio è tutto di marmo bianco, che appena apparisce sotto gl’infiniti ornamenti che coprono i muri; sono archetti, nicchiette, colonnine, rosoni, poligoni, nastri, ricami di marmo, dorature su fondo azzurro, frange intorno alle cupole, intarsiature sotto il tetto, musaici di cento colori, arabeschi di mille forme, che par che s’intrichino a fissarvi lo sguardo, ed irritano quasi il senso dell’ammirazione. Non c’è lo spazio d’una mano che non sia scolpito, miniato, tormentato. È un prodigio di grazia, di ricchezza e di pazienza, da tenersi sotto una campana di cristallo; una cosa che pare non sia fatta soltanto per gli occhi, ma che debba avere un sapore, e se ne vorrebbe succhiare una scheggia; uno scrigno, che si vorrebbe aprire, per vedere che cosa c’è dentro: se una dea bambina o una perla enorme o un anello fatato. Il tempo n’ha in parte sbiadito le dorature, confusi i colori e anneriti i marmi. Che cosa doveva essere questo gioiello colossale quando fu scoperto la prima volta, tutto nuovo e sfolgorante, agli occhi del Salomone del Bosforo, cento e sessant’anni or sono? Ma così vecchio e nero come si ritrova, tiene ancora il primato su tutte le piccole meraviglie di Costantinopoli; ed oltre a ciò, è un monumento così schiettamente turco, che visto una volta, si fissa per sempre nella memoria in mezzo a quel certo numero d’immagini, che balenano poi tutte insieme alla mente ogni volta che ci suoni all’orecchio il nome di Stambul, e formano come il fondo del quadro orientale, su cui si moverà perpetuamente il nostro pensiero.

Dalla fontana si vede la moschea di Santa Sofia, che chiude un lato della piazza.

L’aspetto esterno non ha nulla di notevole. La sola cosa che arresti lo sguardo sono i quattro altissimi minareti bianchi, che sorgono ai quattro angoli dell’edifizio su piedestalli grandi come case. La cupola famosa sembra piccina. Non pare che possa essere quella medesima cupola che si vede rotondeggiare nell’azzurro, come la testa d’un titano, da Pera, dal Bosforo, dal mar di Marmara e dalle colline dell’Asia. È una cupola schiacciata, fiancheggiata da due mezze cupole, rivestita di piombo, coronata di finestre, che s’appoggia su quattro muri dipinti a larghe strisce bianche e rosate, sostenuti alla loro volta da enormi contrafforti, intorno ai quali sorgono confusamente molti piccoli edifizi d’aspetto meschino, – bagni, scuole, mausolei, ospizi, cucine per i poveri. – che nascondono l’antica forma architettonica della basilica. Non si vede che una mole pesante, irregolare, di color scialbo, nuda come una fortezza, e non tanto grande all’apparenza, da far supporre a chi non lo sappia che vi sia dentro il vano immenso della navata di Santa Sofia. Della basilica antica non apparisce propriamente che la cupola, la quale pure ha perduto lo splendore argentino che si vedeva, a detta dei Greci, dalla sommità dell’Olimpo. Tutto il rimanente è musulmano. Un minareto fu innalzato da Maometto il Conquistatore, un altro da Selim II, gli altri due dal terzo Amurat. Dello stesso Amurat sono i contrafforti innalzati sulla fine del sedicesimo secolo per sostenere i muri stati scossi da un terremoto, e la smisurata mezzaluna di bronzo, piantata sulla sommità della cupola, di cui la sola doratura costò cinquantamila ducati. L’antico atrio è sparito; il battistero convertito in mausoleo di Mustafà e d’Ibraim I quasi tutti gli altri piccoli edifizi annessi alla chiesa greca, o distrutti, o nascosti da nuovi muri, o trasformati in maniera che non si riconoscono. Da tutte le parti la moschea stringe, opprime e maschera la chiesa, che non ha più libero che il capo, sul quale però vigilano, come quattro sentinelle gigantesche i quattro minareti imperiali. Dalla parte d’Oriente v’è una porta ornata di sei colonne di porfido e di marmo; a mezzogiorno un’altra porta per cui s’entra in un cortile, circondato d’edifici bassi e disuguali, in mezzo al quale zampilla una fontana per le abluzioni, coperta da un tempietto arcato, sostenuto da otto colonnine. A guardarla di fuori, non si distinguerebbe Santa Sofia dalle altre grandi moschee di Stambul, se non perché è meno bianca e meno leggiera; e molto meno passerebbe per il capo che sia quello «il maggior tempio del mondo dopo San Pietro».

Le nostre guide ci condussero, per una stradicciola che fiancheggia il lato settentrionale dell’edifizio, a una porta di bronzo che girò lentamente sui cardini, ed entrammo nel vestibolo.

Questo vestibolo, che è una lunghissima ed altissima sala, rivestita di marmo e ancora luccicante qua e là degli antichi mosaici, dà accesso alla navata dal lato orientale per nove porte, e dal lato opposto metteva anticamente, per altre cinque porte, in un altro vestibolo, che per altre tredici porte comunicava coll’atrio.

Appena oltrepassata la soglia, mostrammo il nostro firmano d’entrata a un sacrestano in turbante, infilammo le pantofole, e a un cenno delle guide, ci avvicinammo, trepidando, alla porta di mezzo del lato orientale, che ci aspettava spalancata.

Messo appena il piede nella navata, rimanemmo tutti e due come inchiodati.

Il primo effetto, veramente, è grande e nuovo.

Si abbraccia con uno sguardo un vuoto enorme, un’architettura ardita di mezze cupole

che paiono sospese nell’aria, di pilastri smisurati, di archi giganteschi, di colonne colossali, di gallerie, di tribune, di portici, su cui scende da mille grandi finestre un torrente di luce; un non so che di teatrale e di principesco, più che di sacro; una ostentazione di grandezza e di forza, un’aria d’eleganza mondana, una confusione di classico, di barbaro, di capriccioso, di presuntuoso, di magnifico; una grande armonia, in cui, alle note tonanti e formidabili dei pilastri e degli archi ciclopici, che rammentano le cattedrali nordiche, si mescono gentili e sommesse cantilene orientali, musiche clamorose dei conviti di Giustiniano e d’Eraclio, echi di canti pagani, voci fioche d’un popolo effeminato e stanco, e grida lontane di Vandali, d’Avari e di Goti; una grande maestà sfregiata, una nudità sinistra, una pace profonda; un’idea della basilica di San Pietro raccorciata e intonacata, e della basilica di San Marco ingigantita e deserta; un misto non mai veduto di tempio, di chiesa e di moschea, d’aspetti severi e d’ornamenti puerili, di cose antiche e di cose nove, e di colori disparati, e d’accessori sconosciuti e bizzarri; uno spettacolo, insomma, che desta un sentimento di stupore insieme e di rammarico, e fa stare per qualche tempo coll’animo incerto, come cercando una parola che esprima ed affermi il proprio pensiero.

L’edifizio è fabbricato sopra un rettangolo quasi equilatero, nel mezzo del quale s’innalza la cupola maggiore, sorretta da quattro grandi archi, i quali posano su quattro pilastri altissimi, che sono come l’ossatura di tutta la basilica. Ai due archi che si presentano in faccia a chi entra, si appoggiano due grandi semi cupole, le quali coprono tutta la navata, e ciascuna d’esse s’apre in altre due semi cupole minori, che formano come quattro tempietti rotondi nel grande tempio. Fra i due tempietti della parte opposta all’entrata, s’apre l’abside, pure coperta da una volta a quarto di sfera. Sono dunque sette mezze cupole che fanno corona alla cupola maggiore, due sotto questa, e cinque sotto quelle due, senza punto d’appoggio apparente, in modo che presentano tutte insieme un aspetto di leggerezza meravigliosa, e sembrano davvero, come disse un poeta greco, appese per sette fili alla volta del cielo. Tutte queste cupole sono rischiarate da grandi finestre arcate e simmetriche. Fra i quattro pilastri enormi che formano un quadrato nel mezzo della basilica, s’alzano, a destra e a sinistra di chi entra, otto meravigliose colonne di breccia verde, su cui s’incurvano degli archi graziosi scolpiti a fogliami, che formano un porticato elegantissimo ai due lati della navata, e sorreggono a una grande altezza due vaste gallerie, le quali presentano due altri ordini di colonne e d’archi scolpiti. Una terza galleria, che comunica colle due prime, corre lungo tutto il lato dell’entrata, e s’apre sulla navata con tre grandi archi, sostenuti da colonne gemelle. Altre gallerie minori, sostenute da colonne di porfido, tramezzano i quattro tempietti posti alle estremità della navata, e sorreggono altre colonne, sulle quali s’appoggiano delle tribune. Questa è la basilica. La moschea è come sparpagliata nel suo seno e appiccicata alle sue mura. Il Mirab, – la nicchia che indica la direzione della Mecca, – è scavato in un pilastro dell’abside. Alla sua destra, in alto, è appeso uno dei quattro tappeti, su cui Maometto faceva le sue preghiere. Sull’angolo dell’abside più vicino al Mirab, in cima a una scaletta ripidissima, fiancheggiata da due balaustrate di marmo scolpite con una delicatezza magistrale, sotto un bizzarro tetto conico, in mezzo a due bandiere trionfali di Maometto II, sporge il pulpito dove sale il Ratib a leggere il Corano, con una scimitarra sguainata nel pugno, per significare che Santa Sofia è moschea conquistata. In faccia al pulpito v’è la tribuna del Sultano, coperta da una graticola dorata. Altri pulpiti, o specie di terrazze, munite di balaustrate scolpite a giorno, e sorrette da colonnine di marmo e da archi arabescati, si stendono qua e là lungo i muri o s’avanzano verso il mezzo della navata. A destra e a sinistra dell’entrata, ci sono due enormi urne d’alabastro, rinvenute fra le rovine di Pergamo, e fatte trasportare a Costantinopoli da Amurat III. Dai pilastri, a una grande altezza, pendono dei dischi verdi smisurati, con iscrizioni del Corano a caratteri d’oro. Di sotto sono attaccate ai muri delle grandi cartelle di porfido, che portano scritti i nomi d’Allà, di Maometto e dei quattro primi Califfi. Negli angoli formati dai quattro archi che sostengono la cupola si vedono ancora le ali gigantesche di quattro cherubini di musaico, ai quali è stato coperto il viso con un rosone dorato. Dalle volte delle cupole pendono innumerevoli cordoni di seta, che misurano quasi tutta l’altezza della basilica, e sostengono uova di struzzo, lampade di bronzo cesellato e globi di cristallo. Qua e là si vedono dei leggii di legno a ìccase, intarsiati di madreperla e di rame, con su dei Corani manoscritti. Il pavimento è coperto di tappeti e di stuoie. I muri son nudi, biancastri, giallognoli, grigi oscuri, ornati ancora in qualche punto di musaici scoloriti. L’aspetto generale, triste.

La prima meraviglia della moschea è la grande cupola. Guardandola dal mezzo della navata, par davvero di vedere, come dice la Stael della cupola di San Pietro, un abisso sospeso sul nostro capo. È altissima, ha una circonferenza enorme e la sua profondità non è che un sesto del suo diametro; il che la fa apparire anche più grande. Alla sua base gira un terrazzino; sopra il terrazzino una corona di quaranta finestre ad arco. Sulla sommità c’è scritta la sentenza che pronunciò Maometto II arrestando il suo cavallo dinanzi all’altar maggiore della basilica, il giorno della presa di Costantinopoli: – Allà è la luce del cielo e della terra –; e alcune delle lettere, bianche su fondo oscuro, hanno la lunghezza di nove metri. Come tutti sanno, questo prodigio aereo non si sarebbe potuto compiere coi materiali ordinari; le volte furono costruite con pietra pomice che galleggia sull’acqua e con mattoni dell’isola di Rodi, cinque dei quali pesano appena quanto un mattone comune. In ogni mattone era iscritta la sentenza di Davide: – Deus in medio eius non commovebitur. Adiuvabit eam Deus vultu suo. – Ogni dodici giri di mattoni, si muravano nella volta delle reliquie di santi. Mentre gli operai lavoravano, i sacerdoti cantavano; Giustiniano, vestito d’una tunica di lino, assisteva; una folla immensa ammirava. E non c’è da stupire quando si pensi che la costruzione di questo «secondo firmamento» ancora meraviglioso ai giorni nostri, era un ardimento senza esempio nel sesto secolo. Il volgo credeva che stesse su per incanto, e i turchi, per molto tempo dopo la conquista, dovettero, pregando nella moschea di Santa Sofia, far forza a sè stessi per volgere lo sguardo ad Oriente invece d’innalzarlo a quel «cielo di pietra». La cupola, infatti, copre circa la metà della navata in modo che signoreggia e rischiara tutto l’edifizio e da tutte le parti se ne vede un segmento; e vai vai si finisce sempre per trovarvisi sotto, e tornare per la centesima volta a farci rotear dentro il proprio sguardo e i propri pensieri, con un brivido di piacere acuto, che somiglia alla sensazione del volo.

Vista la navata e la cupola, non s’è che cominciato a veder Santa Sofia. Chi appena ha un’ombra di curiosità storica, per esempio, può dedicare un’ora all’esame delle colonne. Qui ci sono le spoglie di tutti i templi del mondo. Le colonne di breccia verde che sostengono le due grandi gallerie, furono regalate a Giustiniano dai magistrati d’Efeso, e appartenevano al tempio di Diana, messo in fiamme da Erostrato. Le otto colonne di porfido che s’alzano a due a due fra i pilastri, appartenevano al tempio del Sole innalzato da Aureliano a Balbek. Altre colonne sono del tempio di Giove di Cizico, del tempio d’Helios di Palmira, dei templi di Tebe, d’Atene, di Roma, della Troade, delle Cicladi, d’Alessandria; e presentano una varietà infinita di grandezze e di colori. Tra le colonne, le balaustrate, i piedestalli, e le lastre che rimangono dell’antico rivestimento dei muri, si vedono marmi di tutte le cave dell’Arcipelago, dell’Asia Minore, dell’Affrica e della Gallia. Il marmo del Bosforo, bianco, picchiettato di nero, fa contrapposto al celtico nero venato di bianco; il marmo verde di Laconia si riflette nel marmo azzurro di Libia; il porfido punteggiato d’Egitto, il granito stellato di Tessaglia, il cario del monte Iassi strisciato di bianco e di rosso, il caristio pallido screziato di ferro, mescolano i loro colori alla porpora del marmo frigio, alla rosa del marmo di Synada, all’oro del marmo di Mauritania, alla neve del marmo di Paros. A questa varietà di colori, s’aggiunge la varietà indescrivibile delle forme dei fregi, dei cornicioni, dei rosoni, dei balaustri, dei capitelli d’un bizzarro stile corinzio, in cui s’intrecciano animali, fogliami, croci, chimere, e di altri che non appartengono a nessun ordine, fantastici di disegno e disuguali di grandezza, accoppiati a casaccio; e dei fusti di colonne e dei piedestalli ornati di sculture capricciose, logorati dai secoli e scheggiati dalle scimitarre; che presentano tutt’insieme un aspetto bizzarro di magnificenza disordinata e barbaresca, e sono il vilipendio del buon gusto, e non se ne può staccare lo sguardo.

Stando nella navata, però, non si può comprendere tutta la vastità della moschea. La navata, infatti, non ne è che una piccola parte. I due porticati che sorreggono le gallerie laterali sono per sé soli due grandi edifizi, di cui si potrebbero fare due templi. Ciascuno d’essi è diviso in tre parti, separate da archi altissimi. Qui pure colonne, architravi, pilastri, volte, tutto è enorme. Passeggiando sotto quelle arcate, s’intravvede appena, per gl’interstizi delle colonne del tempio d’Efeso, la grande navata, e par quasi di essere in un’altra basilica. Lo stesso effetto si prova dalle gallerie a cui si va per una scala a spirale d’inclinazione leggerissima, o piuttosto per una strada in salita, poiché non ci sono gradini, e potrebbe salirvi comodamente un uomo a cavallo. Le gallerie erano il «gineceo» ossia la parte della chiesa riserbata alle donne; i penitenti stavano nel vestibolo, il comune dei fedeli nella navata. Ciascuna galleria potrebbe contenere la popolazione d’un sobborgo di Costantinopoli. Non par più di essere in una chiesa; par di passeggiare per la loggia d’un teatro titanico, dove debba scoppiare da un momento all’altro un canto di centomila voci. Per veder la moschea bisogna affacciarsi alla balaustrata e allora tutta la grandezza appare. Gli archi, le volte, i pilastri, tutto è ingigantito. I dischi verdi, che parevano da misurarsi colle braccia, coprirebbero una casa. Le finestre sono portoni di palazzi; le ali dei cherubini sono vele di bastimento; le tribune son piazze; la cupola dà il capogiro. Abbassando lo sguardo si prova un’altra meraviglia. Non si credeva d’essere saliti tant’alto. Il piano della navata è giù in fondo a un abisso, e i pulpiti, le urne di Pergamo, le stuoie, le lampade, sembrano straordinariamente rimpicciolite. Di là si vede meglio che di sotto una particolarità curiosa della moschea di Santa Sofia, ed è che la navata non avendo la direzione precisa della Mecca, a cui i musulmani debbono rivolgersi pregando, tutte le stuoie e tutti i tappeti sono disposti obliquamente alle linee dell’edifizio, e offendono gli occhi come un madornale errore di prospettiva. Di lassù si abbraccia bene collo sguardo e col pensiero tutta la vita della moschea. Si vedono dei turchi inginocchiati sulle stuoie colla fronte a terra; altri ritti come statue colle mani dinanzi al viso, come se interrogassero le rughe delle palme; alcuni seduti a gambe incrociate ai piedi d’un pilastro, come se riposassero all’ombra d’un albero; qualche donna velata, in ginocchio in un angolo solitario; dei vecchi seduti dinanzi ai leggii, che leggono il Corano; un iman che fa recitare dei versetti sacri a un gruppo di ragazzi; e qua e là, sotto le arcate lontane e per le gallerie, iman, ratib, muezzin, servitori della moschea, in abiti strani, che vanno e vengono tacitamente come se non toccassero il pavimento. La melodia vaga formata dalle voci sommesse e monotone di chi legge e di chi prega, quelle mille lampade bizzarre, quella luce chiara ed eguale, quell’abside deserta, quelle vaste gallerie silenziose, quella immensità, quelle memorie, quella pace lasciano nell’animo un’impressione di grandezza e di mistero, che né la parola può esprimere né il tempo può cancellare.

Ma in fondo, come già dissi, è un’impressione triste, e non diede nel falso il grande poeta che paragonò la moschea di Santa Sofia a un «colossale sepolcro», perché da tutte le parti vi si vedono le tracce d’una devastazione orrenda, e si prova maggior rammarico pensando a ciò che fu, di quello che si goda nell’ammirazione di ciò che è ancora. Quietato il sentimento della prima meraviglia, il pensiero si slancia irresistibilmente nel passato. E oggi ancora, dopo tre anni, non mi si affaccia mai alla mente la grande moschea, ch’io non mi sforzi di rappresentarmi invece la chiesa. Atterro i pulpiti musulmani, levo le lampade e le urne, stacco i dischi, e le cartelle di porfido, riapro le porte e le finestre murate, raschio l’intonaco che copre le pareti e le volte, ed ecco la basilica intera e novissima, come tredici secoli or sono, quando Giustiniano esclamò: – Gloria a Dio che m’ha giudicato degno di compiere quest’opera! Salomone, io t’ho vinto! – Da qualunque parte si giri lo sguardo, tutto luccica, scintilla e lampeggia come nelle regge fatate delle leggende. Le grandi pareti, rivestite di marmi preziosi, mandano dei riflessi d’oro, di avorio, d’acciaio, di corallo, di madreperla; le innumerevoli macchiette dei marmi, offrono l’aspetto di corone e di ghirlande di fiori; gli infiniti mosaici di cristallo danno ai muri, su cui batte un raggio di sole, l’apparenza di muri d’argento tempestati di diamanti. I capitelli, i cornicioni, le porte, i fregi degli archi sono di bronzo dorato. Le volte dei porticati e delle gallerie, dipinte a fuoco, offrono immagini colossali d’angeli e di santi in campo d’oro. Dinanzi ai pilastri, nelle cappelle, accanto alle porte, in mezzo alle colonne, si drizzano statue di marmo e di bronzo, candelabri enormi d’oro massiccio, vangeli giganteschi appoggiati sopra leggii risplendenti come sedie reali, alte croci d’avorio, vasi scintillanti di perle. In fondo alla navata non si vede che un bagliore confuso come di molte cose che ardano. È la balaustrata del coro, di bronzo dorato; è il pulpito, incrostato di quarantamila libbre d’argento, che costò il tributo d’un anno dell’Egitto; sono le sedie dei sette preti, il trono del patriarca, il trono dell’imperatore, dorati, scolpiti, intarsiati, imperlati, su cui, quando scende diritta la luce, non si può fissare lo sguardo. Al di là di questi splendori, nell’abside, si vede uno sfolgorio più vivo. È l’altare, di cui la mensa, sostenuta da quattro colonne d’oro, è fatta d’una fusione d’argento, d’oro, di stagno e di perle, e il ciborio formato da quattro colonne d’argento puro, sulle quali s’innalza una cupola d’oro massiccio, sormontata da un globo e da una croce d’oro del peso di duecento sessanta libbre. Di là dall’altare, s’alza una figura gigantesca della divina Sapienza che tocca il pavimento coi piedi e la volta dell’abside col capo. Su tutti questi tesori splendono in alto le sette mezze cupole coperte di mosaici di cristallo e d’oro, e la grande cupola, su cui s’allungano le immagini smisurate degli apostoli, degli evangelisti, della Vergine e della Croce, tutta dorata, colorita e scintillante, come una volta di gioielli e di fiori. E cupole e colonne e statue e candelabri si specchiano sull’immenso pavimento di marmo proconnesio ondulato, che visto dalle quattro porte principali, presenta l’immagine di quattro fiumi maestosi, increspati dal vento. Così era l’interno della basilica. Ma bisogna rappresentarsi ancora il grande atrio, circondato di colonne e di muri rivestiti di mosaico, e ornato di fontane di marmo e di statuette equestri; la torre da cui trentadue campane facevano sentire i loro rintocchi formidabili alle sette colline; le cento porte di bronzo decorate di bassorilievi e d’iscrizioni d’argento; le sale dei sinodi, le stanze dell’Imperatore, le prigioni dei sacerdoti, il battistero, le vaste sacristie riboccanti di tesori, e un labirinto di vestiboli, di triclini, di corridoi, di scale nascoste che giravano nei fianchi dell’edifizio e conducevano alle tribune o gli oratorii segreti. Ora si può immaginare che spettacolo offrisse una tale basilica nelle grandi solennità di nozze imperiali, di concili, d’incoronazioni; quando dal palazzo enorme dei Cesari, per una strada fiancheggiata da mille colonne, sparsa di mirto e di fiori, profumata d’incenso e di mirra, fra le case ornate di vasi preziosi e di parati di seta, fra due schiere d’azzurri e di verdi, fra i canti dei poeti e i clamori degli araldi che gridavano evviva in tutte le lingue dell’impero, veniva innanzi l’Imperatore, colla tiara sormontata da una croce, imperlato come un idolo, seduto sopra un carro d’oro dalle tende di porpora, tirato da due mule bianche, e circondato da un corteo di monarca persiano; e gli andava incontro il clero pomposo nell’atrio della basilica; e tutta quella turba di cortigiani, di scudieri, di logoteti, di protospatari, di drongarii, di conestabili, di generali eunuchi, di governatori ladri, di magistrati venduti, di patrizie spudorate, di senatori codardi, di schiavi, di buffoni, di casisti, di mercenari d’ogni paese, tutta quella canaglia fastosa, tutto quel putridume dorato irrompeva per ventisette porte nella navata illuminata da sei mila candelabri; e si vedeva lungo la balaustrata del coro, sotto i portici e nelle tribune un via vai, un rimescolio concitato di teste chiomate e di cappe purpuree, uno sfolgorio di berretti gemmati, di collane d’oro, di corazze d’argento, un ricambiarsi di atti cerimoniosi, un incrociarsi d’inchini e di sorrisi, uno strascicare affettato di zimarre di seta e di spade di gala; e un molle profumo riempiva l’aria; e una immensa folla vigliacca faceva risonare le volte di grida di gioia e d’applausi profani.

Dopo aver fatto in silenzio parecchi giri per la moschea, lasciammo parlare le nostre guide, che cominciarono col farci vedere le cappelle poste sotto le gallerie e spogliate d’ogni cosa, come ogni altra parte della basilica. Alcune servono di tesorerie, come l’opistodomo del Partenone, nelle quali i turchi che partono per un lungo viaggio o che temono i ladri, depositano i loro denari e i loro oggetti preziosi, e ce li lasciano anche per anni sotto la guardia di Dio; altre, chiuse da un muro, son convertite in infermerie, in cui aspetta la guarigione o la morte qualche malato incurabile o qualche idiota, che fanno tratto tratto risonare la moschea di grida lamentevoli o di risate infantili. Di qui ci ricondussero in mezzo alla navata, e cominciò il dracomanno greco a raccontar le meraviglie della basilica. Il disegno fu tracciato, è vero, dagli architetti Antemio di Tralles e da Isidoro di Mileto; ma è un angelo che ne ha ispirato loro il primo concetto. È un angelo pure che ha suggerito a Giustiniano di far aprire tre finestre nell’abside, che rappresentassero le tre persone della Trinità. Così le cento e sette colonne della chiesa rappresentano le cento e sette colonne che sostengono la casa della Sapienza. Per radunare i materiali necessari alla costruzione dell’edifizio, furono impiegati sette anni. Cento capi mastri sopraintendevano al lavoro, e diecimila operai lavoravano nello stesso tempo, cinque mila da una parte e cinque mila dall’altra. I muri non erano ancora alti da terra che pochi palmi, e già s’era speso per più di quattro cento cinquanta quintali d’oro. La spesa totale per il solo edifizio ammontò a venticinque milioni di lire. La chiesa fu consacrata dal Patriarca cinque anni, undici mesi e dieci giorni dopo che n’era stata messa la prima pietra, e Giustiniano ordinò in quell’occasione dei sacrifici, delle feste, delle distribuzioni di danaro e di viveri, che durarono due settimane. Qui prese la parola il cavas turco, e fu per accennarci il pilastro su cui il sultano Maometto II, entrando vincitore in Santa Sofia, lasciò l’impronta sanguinosa della mano destra come per suggellare la sua conquista. Poi ci mostrò, vicino al Mirab, la così detta finestra fredda, dalla quale spira continuamente un’aria freschissima, che ispirò le più belle prediche ai più grandi dottori dell’Islamismo. Ci fece vedere, a un’altra finestra, la famosa pietra risplendente, che è una lastra di marmo diafano, la quale risplende come un pezzo di cristallo quando vi batte il raggio del sole. A sinistra di chi entra per la porta dal lato settentrionale, ci fece toccare la colonna che suda: una colonna rivestita di bronzo, della quale si vede il marmo sempre umido per una piccola screpolatura del rivestimento. E infine ci indicò un blocco di marmo cavo, portato da Betlemme, nel quale si dice che fu messo, appena nato, Sidi Yssa «il figlio di Maria, l’apostolo di Dio, lo spirito che da lui procede, e che merita onore in questo mondo e nell’altro». Ma mi parve che né il turco né il greco ci credessero molto. Prese ancora una volta la parola il dracomanno, passando dinanzi a una porta murata delle gallerie, per raccontare la leggenda celebre del vescovo, e questa volta parlò con un accento di persuasione, che se non era schietto, era ben simulato. Nel momento che i turchi irruppero nella chiesa di Santa Sofia, un vescovo greco stava dicendo la messa all’altar maggiore. Alla vista degl’invasori abbandonò l’altare, salì sulla galleria e, inseguito dai soldati, scomparve per quella piccola porta, che rimase istantaneamente chiusa da un muro di pietra. I soldati si misero a percuotere il muro furiosamente; ma non riuscirono che a lasciarvi le tracce delle loro armi; furono chiamati dei muratori; ma dopo aver lavorato un giorno intero coi picconi e le stanghe, dovettero rinunziare all’impresa; ci si provarono in seguito tutti i muratori di Costantinopoli, e tutti caddero inutilmente spossati dinanzi al muro miracoloso. Ma quel muro si aprirà; s’aprirà il giorno in cui la basilica profanata sarà restituita al culto di Cristo, e allora ne uscirà il vescovo greco, vestito dei suoi abiti pontificali, col calice in mano, col volto radiante, e risaliti i gradini dell’altare, ripiglierà la messa nel punto a cui l’aveva lasciata; e quel giorno splenderà l’aurora di nuovi secoli per la città di Costantino. Al momento d’uscire, il sacrestano turco, che ci aveva seguiti sino allora ciondolando e sbadigliando, ci diede una manata di pezzetti di mosaico che aveva staccati poco prima da un muro, e il dracomanno, fermandoci sulla porta, incominciò il racconto, che gli tagliammo in bocca, della profanazione di Santa Sofia.

Ma non vorrei che altri lo tagliasse in bocca a me ora che la descrizione della basilica mi ha ravvivato nella mente i particolari di quella scena.

Appena sparsa la notizia, verso le sette della mattina, che i turchi avevano superate le mura, una folla immensa s’era rifugiata in Santa Sofia. Erano intorno a centomila persone: soldati fuggiaschi, monaci, sacerdoti, senatori, migliaia di vergini fuggite dai monasteri, famiglie patrizie coi loro tesori, grandi dignitari dello Stato e principi del sangue imperiale, che correvano per le gallerie e per la navata, e si pigiavano per tutti i recessi dell’edifizio, alla rinfusa con la feccia del volgo, cogli schiavi, coi malfattori vomitati dalle carceri e dalle galere, e tutta la basilica risonava di grida di terrore come un teatro affollato al divampare d’un incendio. Quando la navata, tutte le gallerie e tutti i vestiboli furono pieni stipati, si sbarrarono e si asserragliarono le porte, e al frastuono dei primi momenti succedette una quiete spaventosa. Molti credevano ancora che i vincitori non avrebbero osato profanare la chiesa di Santa Sofia; altri aspettavano con una stupida sicurezza l’apparizione dell’Angelo, annunziato dai profeti, il quale avrebbe sterminato l’esercito musulmano prima che le avanguardie arrivassero alla colonna di Costantino; altri, saliti sul terrazzo interno della grande cupola, spiavano dalle finestre l’avanzarsi del pericolo, e ne davano notizia coi cenni ai centomila volti smorti che guardavano in su dalle gallerie e dalla navata. Di lassù si vedeva un’immensa nuvola bianca che copriva le mura dalle Blacherne fino alla Porta dorata; e di qua dalle mura, quattro strisce lampeggianti, che s’avanzavano fra le case come quattro torrenti di lava, allargandosi e rumoreggiando, in mezzo al fumo e alle fiamme. Erano le quattro colonne assalitrici dell’esercito turco, che cacciavano dinanzi a sé gli avanzi disordinati dell’esercito greco, e convergevano, saccheggiando e incendiando, verso Santa Sofia, l’Ippodromo e il palazzo imperiale. Quando le avanguardie delle colonne arrivarono sulla seconda collina, gli squilli delle trombe risonarono improvvisamente nella chiesa, e la moltitudine atterrita cadde in ginocchio. Ma anche in quei momenti, molti confidavano ancora nell’apparizione dell’Angelo ed altri speravano che un sentimento di rispetto e di terrore avrebbe arrestato gl’invasori dinanzi alla maestà di quell’enorme edificio consacrato a Dio. Ma anche quest’ultima illusione non tardò a dileguarsi. Gli squilli delle trombe s’avvicinarono, un rumore confuso di armi e di grida, irrompendo dalle mille finestre, riempì la basilica, e un minuto dopo rimbombarono i primi colpi delle asce ottomane sulle porte di bronzo dei vestiboli. Allora quella immensa folla sentì il freddo della morte, e tutti si raccomandarono a Dio. Le porte sfracellate o sgangherate rovinarono, e un’orda selvaggia di giannizzeri, di spahì, di timmarioti, di dervis, di sciaù, lordi di polvere e di sangue, trasfigurati dal furore della battaglia, della rapina e dello stupro, apparve sulle soglie. Al primo aspetto della grande navata sfolgorante di tesori, gettarono un grido altissimo di meraviglia e di gioia; poi irruppero dentro come un torrente furioso. Una parte si precipitò sulle vergini, sulle dame, sui patrizi, schiavi preziosi, che, istupiditi dal terrore, porsero spontaneamente le braccia alle corde e alle catene; gli altri piombarono sulle ricchezze della chiesa. I tabernacoli furono predati, le statue stramazzate, i crocifissi d’avorio frantumati; i musaici, creduti gemme, disfatti a colpi di scimitarra, caddero in piogge scintillanti nei caffettani e nelle cappe aperte; le perle dei vasi, scastonate dalle punte dei pugnali, saltellarono sul pavimento inseguite come cose vive, e disputate a morsi e a sciabolate; l’altar maggiore andò disperso in mille rottami d’oro e d’argento; le seggiole, i troni, il pulpito, la balaustrata del coro scomparvero come stritolati da una valanga di pietra. E intanto continuavano a irrompere nella chiesa, a ondate sanguinose, le orde asiatiche; e in breve non si vide più che un turbinìo vertiginoso di predoni ubriachi, camuffati di tiare e di abiti sacerdotali, che agitavano nell’aria calici e ostensori, trascinando file di schiavi legati colle cinture dorate dei pontefici, in mezzo ai cammelli e ai cavalli carichi di bottino, scalpitanti sul pavimento ingombro di schegge di statue, di vangeli lacerati e di reliquie di santi; un’orgia forsennata e sacrilega, accompagnata da un frastuono orrendo di urli di trionfo, di minacce, di nitriti, di risa, di grida di fanciulle e di squilli di trombe; fin che tutto tacque improvvisamente, e sulla soglia della porta maggiore apparve a cavallo Maometto II, circondato da una folla di principi, di visir e di generali, superbo e impassibile come l’immagine vivente della vendetta di Dio, e rizzandosi sulle staffe, lanciò con voce tonante nella basilica devastata la prima formula della nuova religione: – Allah è la luce del cielo e della terra!


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – Costantinopoli

9- La vita a Costantinopoli – Costantinopoli

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

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E sulla torre del Seraschiere, come su quella di Galata, come sul vecchio ponte, come a Scutari, io mi domandai cento volte: – Ma in che maniera hai potuto innamorarti dell’Olanda? – E non solo quel paese, ma Parigi, ma Madrid, ma Siviglia, mi parevano città oscure e malinconiche, in cui non avrei più potuto vivere un mese. Poi ripensavo alle mie povere descrizioni e mi dicevo con rammarico: – Ah! disgraziato! Quante volte hai sciupato le parole bello, splendido, immenso! Ed ora che cosa dirai di questo spettacolo? – Ma già mi pareva che da Costantinopoli non avrei cavato una pagina. E il mio amico Rossasco mi diceva: – Ma perché non ti ci provi? – Ed io gli rispondevo: – Ma se non ho nulla da dire! – E alle volte, chi lo crederebbe? quello spettacolo, per qualche minuto secondo, a certe ore, a una certa luce, mi pareva meschino, ed esclamavo quasi con sgomento: – O dov’è la mia Costantinopoli? – Altre volte mi pigliava un sentimento di tristezza pensando che mentre io ero là dinanzi a quella immensità e a quella bellezza, mia madre era in una piccola stanza, da cui non si vedeva che un cortile uggioso e una piccola striscia di cielo; e mi pareva una colpa mia, e avrei dato un occhio per aver la mia buona vecchia a braccetto e condurla a Santa Sofia. La giornata però correva quasi sempre allegra e leggera come un’ora d’ebbrezza. E le rare volte che faceva capolino l’umor nero, il mio amico ed io avevamo un mezzo sicuro di liberarcene. Scendevamo a Galata in due caicchi a due remi, i più variopinti e i più dorati dello scalo, e gridavamo: – Eyub! – ed eravamo già in mezzo al Corno d’oro. I nostri rematori si chiamavano Mahmut, Baiazet, Ibraim, Murat, avevano vent’anni per uno e due braccia di ferro, e vogavano a gara incitandosi con grida e ridendo come bambini; il cielo era sereno e il mare trasparente; noi rovesciavamo il capo indietro per bere a sorsate più lunghe l’aria piena di profumi, e lasciavamo spenzolare una mano nell’acqua; i due caicchi volavano, di qua e di là ci fuggivano allo sguardo i chioschi, i palazzi, i giardini, le moschee; ci pareva d’esser portati dal vento a traverso un mondo fatato, sentivamo un piacere inesprimibile d’esser giovani e d’essere a Stambul, Yunk cantava, io recitavo delle ballate orientali di Vittor Hugo, e vedevo ora a destra, ora a sinistra, ora vicino, ora lontano, balenare per aria un viso amoroso, coronato di capelli bianchi e illuminato da un sorriso dolcissimo, che diceva: – Sii felice, figliuolo! Io ti benedico e ti seguo.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – La Torre del Seraschiere

9- La vita a Costantinopoli – La Torre del Seraschiere

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

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Sentendosi così puri e disposti a riveder le stelle non c’è di meglio che arrampicarsi sopra la testa di quel titano di pietra che si chiama la torre del Seraschiere. Io credo che Satana, se volesse tentare un’altra volta qualcuno coll’offerta del regno della terra, sarebbe sicuro del fatto suo, trasportando la sua vittima su quella cima. La torre, fabbricata sotto il regno di Mahmud II, è piantata sulla collina più alta di Stambul, nel mezzo del cortile vastissimo del ministero della guerra, nel punto che i turchi chiamano l’ombelico della città. È costrutta in gran parte con marmo bianco di Marmara, sul piano d’un poligono regolare di sedici lati, e si slancia in alto, ardita e svelta come una colonna, sorpassando d’un buon tratto i minareti giganteschi della vicina moschea di Solimano. Si va su per una scala a chiocciola, rischiarata da poche finestre quadrate, per le quali s’intravvede, passando, ora Galata, ora Stambul, ora i sobborghi del Corno d’oro; e non s’è ancora a mezza altezza, che già, lanciando uno sguardo fuori, pare di essere nella regione delle nuvole. Qualche volta salendo, si sente un leggero rumore sul proprio capo, e quasi nello stesso punto si vede passare e sparire una larva, che sembra una cosa che precipita piuttosto che un uomo che discende; ed è uno dei guardiani che stanno giorno e notte alla vedetta sulla sommità della torre, il quale ha visto probabilmente in qualche punto lontano dell’orizzonte un nuvolo di fumo sospetto, e ne porta avviso al Seraschierato. La scala ha circa duecento scalini, e conduce a una specie di terrazza rotonda, coperta di sopra e vetrata tutt’intorno, nella quale gira perpetuamente un guardiano, che serve il caffè ai visitatori. Al primo entrare in quella gabbia trasparente, che par sospesa tra il cielo e la terra, al vedere tutt’intorno quell’immenso vuoto azzurro, al sentire il vento che strepita e fa sonare i vetri e scricchiolare gli assiti, s’è quasi presi dalle vertigini e tentati di rinunziare al panorama. Ma alla vista della scaletta appoggiata al finestrino del tetto, il coraggio ritorna, si sale col cuore palpitante, e si getta un grido di meraviglia. È un momento sublime. Si rimane come sfolgorati. Tutta Costantinopoli è là e s’abbraccia tutta con un giro dello sguardo; tutte le colline e tutte le valli di Stambul, dal castello delle Sette Torri ai cimiteri d’Eyub; tutta Galata e tutta Pera, come se lo sguardo vi cadesse a fil di piombo; tutta Scutari, come se fosse lì sotto; tre file di città, di boschi, di flotte, che fuggono a perdita d’occhi lungo tre rive incantevoli, e altre strisce interminabili di villaggi e di giardini che si perdono serpeggiando nell’interno delle terre; tutto il Corno d’oro, immobile, cristallino e picchiettato d’innumerevoli caicchi, che sembrano moscerini natanti; tutto il Bosforo, che par chiuso qua e là dalle colline più avanzate delle due rive, e presenta l’immagine d’una successione di laghi, e ogni lago par circondato da una città, e ogni città è inghirlandata di giardini; di là dal Bosforo, il mar Nero azzurrino che si confonde col cielo; dalla parte opposta, il mar di Marmara, il golfo di Nicomedia, le isole dei Principi, la riva europea e la riva asiatica biancheggianti di villaggi; di là dal mar di Marmara, lo stretto dei Dardanelli, che luccica come un sottile nastro d’argento; oltre i Dardanelli un vago bagliore bianco, ch’è il mare Egeo e una curva oscura che è la riva della Troade; di là da Scutari, la Bitinia e l’Olimpo; di là da Stambul, le solitudini ondulate e giallognole della Tracia; due golfi, due stretti, due continenti, tre mari, venti città, una miriade di cupole inargentate e di guglie d’oro, una gloria di colori e di luce, da far dubitare se quella sia una veduta del nostro pianeta o di un altro astro più favorito da Dio.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

9- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: La vita a Costantinopoli – Il bagno

9- La vita a Costantinopoli Il bagno

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

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Dopo aver fatto un giro per Balata, non è delle peggio, come si dice a Firenze, l’andare a fare un bagno turco. Le case dei bagni si riconoscono di fuori: sono edifizi senza finestre, della forma di piccole moschee, sormontati da una cupola e da alti camini conici, che fumano perpetuamente. Ma prima d’entrare, bisogna pensarci due volte, e domandarsi quid valeant humeri, perché non tutti possono resistere all’aspro governo che si fa d’un uomo fra quelle mura salutari. Io confesso che dopo quello che ne avevo inteso dire, c’entrai con un po’ di trepidazione; e i lettori vedranno che ero da compatire. Ripensandoci, mi sento uscire dalle tempie due goccioline di sudore che aspettano ch’io sia nel vivo della descrizione per filarmi giù̀ per le guance. Ecco dunque quello che fu fatto della mia povera persona. Entro timidamente e mi trovo in una gran sala che mi lascia un momento incerto, se sia un teatro o un ospedale. Nel mezzo zampilla una fontana, coronata di fiori; e lungo le pareti gira una galleria di legno, dove dormono profondamente o fumano sonnecchiando alcuni turchi sdraiati su materasse e ravvolti dalla testa ai piedi in pannolini bianchissimi. Mentre guardo intorno in cerca del bagnaiolo, due tarchiati mulatti seminudi, sbucati non so di dove, mi si rizzano dinanzi come due spettri, e mi domandano tutti e due insieme con voce cavernosa: Hammamun? (bagno?) – Evvet (sì) rispondo con un filo di voce. Mi accennano di seguirli e mi rimorchiano su per una scaletta di legno in una stanza piena di stuoie e di cuscini, dove mi fanno capire che mi debbo spogliare. Mi stringono una stoffa azzurra e bianca intorno alle reni, mi raspano la testa con un pezzo di mussolina, mi fanno infilare due zoccoli colossali, mi pigliano sotto le braccia come un ubbriaco e mi conducono, o piuttosto mi traducono in un’altra sala calda e semi-oscura, dove mi distendono sopra un tappeto e stanno ad aspettare colle mani sui fianchi che mi si ammorbidisca la pelle. Tutti questi apparecchi, che somigliano molto a quelli d’un supplizio, mi mettono addosso una inquietudine, la quale si cangia in un sentimento anche meno onorevole, quando i due aguzzini mi toccano la fronte, si scambiano uno sguardo che significa: – può resistere – e par che vogliano dire: – alla ruota – e ripigliandomi per le braccia mi accompagnano in una terza sala. Qui provo una sensazione stranissima. Mi par d’essere in un tempio sottomarino. Vedo vagamente, a traverso un velo bianco di vapori, delle alte pareti marmoree, delle colonne, degli archi, la volta d’una cupola finestrata, da cui scendono dei raggi di luce rossa, azzurra e verde, dei fantasmi bianchi che vanno e vengono rasente le pareti, e nel mezzo della sala, uomini seminudi distesi sul pavimento come cadaveri, sui quali altri uomini seminudi stanno chinati nell’atteggiamento di medici che facciano un’autopsia. La temperatura della sala è tale che, appena entrato, mi sento tutto in sudore, e mi pare che non potrò più uscir di là che sotto le forme d’un fiumicello, come l’amante d’Aretusa. I due mulatti trasportano il mio corpo in mezzo alla sala e lo adagiano sopra una specie di tavola anatomica, che è una grande lastra di marmo bianco, rilevata dal pavimento, sotto la quale ardono le stufe. La lastra scotta ed io vedo le stelle; ma oramai ci sono e bisogna striderci. I due mulatti cominciano la vivisezione, canterellando una canzonetta funebre. Mi pizzicano le braccia e le gambe, mi premono i muscoli, mi fanno scricchiolare le articolazioni, mi fregano, mi strizzano, mi stropicciano; mi fanno voltar bocconi, e ricominciano; mi rimettono supino, e tornano da capo; mi stirano e mi schiacciano come un fantoccio di pasta, a cui vogliano dare una forma che hanno in mente, e non ci riescano, e ci s’arrabbino; poi pigliano un po’ di respiro; poi di nuovo pizzicotti e strizzatine e schiacciature da farmi temere che sia quello il mio ultimo quarto d’ora. Finalmente, quando tutto il mio corpo schizza acqua come una spugna spremuta, quando mi vedono circolare il sangue sotto la pelle, quando s’accorgono che proprio non ci posso più reggere, tirano sui miei resti da quel letto di tortura, e li portano in un angolo, dinanzi a una piccola nicchia, dove sono due cannelle di rame, che gettano acqua calda e acqua fresca in una vaschetta di marmo. Ma, ahimè! qui comincia un altro martirio. E veramente la cosa piglia un certo andare, che, senza celia, io mi domando se non è il caso di appoggiare un cappiotto a destra e uno scopaccione a sinistra, e di battermela come mi trovo. Uno dei due tormentatori si mette un guanto di pelo di cammello e comincia a fregarmi la schiena, il petto, le braccia e le gambe, colla grazia con cui striglierebbe un cavallo, e la strigliatura si prolunga per la bellezza di cinque minuti. Finita la strigliatura, mi rovesciano addosso un torrente d’acqua tepida, e ripigliano fiato. E lo ripiglio anch’io, ringraziando il cielo che sia finita. Ma non è finita! Il mulatto feroce si leva il guanto e ricomincia l’operazione colla mano nuda, ed io m’indispettisco e gli fo cenno di smettere, e lui, mostrandomi la mano, mi prova, con mia grande meraviglia, che deve fregare ancora. Finito di fregare, un altro rovescio d’acqua, e poi un’altra operazione. Prendono tutti e due uno strofinaccio di stoppa imbevuto di sapone di Candia, e m’insaponano dalla testa ai piedi. Finita l’insaponata, un altro diluvio d’acqua profumata, e poi da capo lo strofinamento colla stoppa. Ma questa volta, come dio vuole, la stoppa è asciutta e strofinano per asciugare. Asciugato che sono, mi rifasciano la testa, mi rimettono il grembiale, mi ravvolgono in un lenzuolo, mi riconducono nella seconda sala, e dopo una sosta di qualche minuto, mi fanno rientrar nella prima. Qui trovo una materassa tepida sulla quale mi distendo mollemente e i due esecutori di giustizia mi danno gli ultimi pizzicotti per rendere uguale in tutte le membra la circolazione del sangue. Ciò fatto, mi mettono un cuscino ricamato sotto la testa, una coperta bianca addosso, una pipa in bocca, una limonata accanto, e mi lasciano lì fresco, leggiero, odoroso, colla mente serena, col cuore contento, con un senso così puro e così giovanile della vita, che mi par d’esser nato allora, come Venere, dalla spuma del mare, e di sentirmi frullare sopra la testa le ali degli amorini.

Il capitolo è composto da 24 ritratti della città


Edmondo De Amicis
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Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.