11- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: Dolma Bagcè

11- Dolma Bagcè

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

Ogni venerdì il Sultano va a far le sue preghiere in una moschea di Costantinopoli.
Noi lo vedemmo un giorno che andò alla moschea d’Abdul-Megid, posta sulla riva europea del Bosforo, vicino al palazzo imperiale di Dolma Bagcé.
Per andare a Dolma Bagcé, da Galata, si passa per il quartiere popoloso di Top- hané, fra una grande fonderia di cannoni e un vasto arsenale; si percorre tutto il sobborgo musulmano di Funduclù, che occupa il luogo dell’antico Aïanteion, e si riesce in una piazza spaziosa, aperta verso il mare, di là dalla quale, lungo la riva del Bosforo, s’innalza il palazzo famoso dove risiedono i Sultani.

È la più grande mole di marmo che riflettano le acque dello stretto dalla collina del Serraglio alle bocche del Mar Nero, e non si abbraccia tutta con uno sguardo che passandovi davanti in caicco. La facciata, che si stende per la lunghezza di circa un mezzo miglio italiano, è rivolta verso l’Asia, e si vede biancheggiare a una grande distanza fra l’azzurro del mare e il verde cupo delle colline della riva. Non è propriamente un palazzo perché non c’è un unico concetto architettonico; le varie parti sono slegate e vi si mescolano in una confusione non mai veduta lo stile arabo, il greco, il gotico, il turco, il romano, quello del nascimento; e colla maestà dei palazzi reali d’Europa, la grazia quasi femminea delle moresche di Siviglia e di Granata. Piuttosto che il «palazzo» si potrebbe chiamare «la città imperiale» come quella dell’Imperatore della China; e più che per la vastità, per la forma, pare che debba essere abitato, non da un solo monarca, ma da dieci re fratelli od amici, che vi passino il tempo fra gli ozi e i piaceri. Dalla parte del Bosforo presenta una serie di facciate di teatri o di templi, sulle quali v’è una profusione indescrivibile d’ornamenti, buttati via, come dice un poeta turco, dalle mani d’un pazzo; che rammentano quelle favolose pagode indiane, su cui l’occhio si stanca al primo sguardo, e sembrano l’immagine degli infiniti capricci amorosi e fastosi dei principi sfrenati che vivono tra quelle mura. Sono file di colonne doriche e ioniche, leggiere come aste di lancia; finestre inquadrate in cornici a festoni e in colonnine accannellate; archi pieni di fogliami e di fiori che s’incurvano su porte coperte di ricami; terrazze gentili coi parapetti scolpiti a giorno; trofei, rosoni, viticci; ghirlande che s’annodano e s’intrecciano, vezzi di marmo che s’affollano sui cornicioni, lungo le finestre, intorno a tutti i rilievi; una rete d’arabeschi che si stende dalle porte ai frontoni, una fioritura, uno sfarzo e una finezza di fregi e di gale architettoniche, che danno ad ognuno dei piccoli palazzi di cui è composto il grande edifizio multiforme, l’apparenza d’un prodigioso lavoro di cesellatura. Pare che non debba essere un tranquillo architetto armeno quello che n’ebbe il primo concetto; ma un sultano innamorato il quale l’abbia visto in sogno, dormendo tra le braccia della più ambiziosa delle sue amanti. Dinanzi si stende una fila di pilastri monumentali di marmo bianco, uniti da cancellate dorate, che rappresentano un intreccio delicatissimo di rami e di fiori, e che viste di lontano sembrano cortine di trina, che il vento debba portar via. Lunghe gradinate marmoree discendono dalle porte alla sponda e si nascondono nel mare. Tutto è bianco, fresco, nitido come se il palazzo fosse fatto d’ieri. L’occhio d’un artista ci potrà vedere mille errori d’armonia e di gusto; ma l’insieme di quella mole smisurata e ricchissima, il primo aspetto di quella schiera di regge bianche come la neve, niellate come gioielli, coronate da quel verde, riflesse da quelle acque, lascia un’impressione di potenza, di mistero e d’amore, che fa quasi dimenticare la collina dell’antico Serraglio. Quelli che ebbero la fortuna di penetrare fra quelle mura, dicono che il di dentro corrisponde alla facciata: che son lunghe sfilate di sale dipinte a fresco di soggetti fantastici e di colori ridenti, con porte di cedro e d’acagiù scolpite e ornate d’oro, che s’aprono su interminabili corridoi rischiarati da una luce dolcissima, dai quali si va in altre sale colorate di foco da cupolette di cristallo porporino, e in stanze da bagno che sembrano scavate in un solo blocco di marmo di Paros; e di qui su terrazze aeree, che pendono sopra giardini misteriosi e sopra boschetti di cipressi e di rose, dai quali, per lunghe fughe di portici moreschi, si vede l’azzurro del mare; e finestre, terrazze, logge, chioschetti, tutto ribocca di fiori, per tutto c’è acqua che schizza e ricasca in piogge vaporose sulla verzura e sui marmi, e da ogni parte s’aprono vedute divine sul Bosforo, di cui l’aria viva spande in tutti i recessi della reggia enorme un delizioso fresco marino.

Dalla parte di Funduclù v’è una porta monumentale, sopraccarica d’ornamenti; il Sultano doveva uscire da quella porta e attraversare la piazza.

Non c’è altro re sulla terra che abbia una così bella piazza per fare una uscita solenne dalla sua reggia. Stando ai piedi della collina, si vede da un lato la porta del palazzo, che sembra un arco di trionfo d’una regina; dall’altro la moschea graziosa di Abdul-Megid, fiancheggiata da due minareti gentili, in faccia, il Bosforo; di là, le colline dell’Asia, verdissime, picchiettate d’infiniti colori dai chioschi, dai palazzi, dalle moschee, dalle ville, che presentano l’aspetto d’una grande città parata a festa; più lontano, la maestà ridente di Scutari, colla sua corona funebre di cipressi; e fra le due rive, un incrociarsi continuo di legni a vela, di navi da guerra imbandierate, di vaporini affollati che paiono colmi di fiori, di bastimenti asiatici di forme antiche e bizzarre, di lance del Serraglio, di barchette signorili, di stormi d’uccelli che radono le acque: una bellezza piena d’allegria e di vita, dinanzi alla quale lo straniero che aspetta l’uscita del corteo imperiale, non può che immaginare un Sultano bello come un angelo e sereno come un fanciullo.

Mezz’ora prima, v’erano già nella piazza due schiere di soldati vestiti alla zuava, che dovevano far ala al passaggio del Sultano, e un migliaio di curiosi. Non c’è nulla di più strano della raccolta di gente che si vede per il solito in quell’occasione. C’erano ferme qua e là parecchie splendide carrozze chiuse, con dentro delle turche «dell’alta signoria» guardate da giganteschi eunuchi a cavallo, immobili accanto gli sportelli; alcune signore inglesi in carrozze da nolo scoperte; varii crocchi di viaggiatori col cannocchiale a tracolla, fra i quali vidi il contino conquistatore dell’albergo di Bisanzio, venuto forse, il crudele! per fulminare d’uno sguardo di trionfo il suo rivale potente e infelice. Tra la folla giravano parecchie figure cappellute, con un album sotto il braccio, che mi parvero disegnatori venuti per schizzare furtivamente le sembianze imperiali. Vicino alla banda musicale c’era una bellissima signora francese, vestita un po’ stranamente, d’aspetto e di atteggiamenti arditi, che stava dinanzi a tutti, che doveva essere un’avventuriera cosmopolitica venuta là per dar nell’occhio al Gran Signore, poiché le si leggeva sul viso «la trepida gioia d’un gran disegno». C’erano di quei vecchi turchi, sudditi fanatici e sospettosi, che non mancano mai al passaggio del loro Sultano, perché vogliono proprio assicurarsi coi loro occhi che è vivo e sano per la gloria e la prosperità dell’universo; e il Sultano esce appunto ogni venerdì per dare al suo buon popolo una prova della propria esistenza, potendo accadere, come accadde più volte, che la sua morte naturale o violenta sia tenuta segreta da una congiura di corte. C’erano dei mendicanti, dei bellimbusti musulmani, degli eunuchi sfaccendati, dei dervis. Fra questi notai un vecchio alto e sparuto, dagli occhi terribili, immobile, che guardava verso la porta del palazzo con un’espressione sinistra; e pensai che aspettasse il Sultano per piantarglisi davanti e gridargli in faccia come il dervis delle Orientali al Pascià Alì di Tepeleni: – Tu non sei che un cane e un maledetto! – Ma di questi ardimenti sublimi non si dà più esempio dopo la sciabolata famosa di Mahmud.

C’erano poi vari gruppi di donnine turche, in disparte, che parevano gruppi di maschere, e quella solita accozzaglia di comparse da palco scenico che è la folla di Costantinopoli. Tutte le teste si profilavano sull’azzurro del Bosforo, e probabilmente tutte le bocche dicevano le stesse parole.

Si cominciava a parlare appunto in quei giorni delle stravaganze d’Abdul Aziz. Già da un pezzo si parlava della sua insaziabile avidità di denaro. Il popolo diceva: – Mamhud avido di sangue, Abdul-Megid di donne, Abdul-Aziz d’oro. – Tutte le speranze che s’erano fondate su di lui, principe imperiale, quando, ammazzando un bue con un pugno, diceva: – Così ammazzerò la barbarie, – erano già svanite d’un pezzo. Le tendenze a una vita semplice e severa, di cui aveva dato prova nei primi anni del suo regno, amando, come si diceva, una donna sola, e ristringendo inesorabilmente le spese enormi del Serraglio, non erano più che una memoria. Forse erano anche anni ed anni che aveva smesso affatto quegli studi di legislazione, d’arte militare e di letteratura europea, di cui s’era fatto tanto scalpore, come se in essi riposassero tutte le speranze della rigenerazione dell’Impero. Da molto tempo non pensava più che a sé stesso. Ogni momento correva la voce di qualche sua escandescenza contro il ministro delle finanze che non voleva o non poteva dargli tutto il denaro ch’egli avrebbe voluto. Alla prima obbiezione scaraventava addosso alla malcapitata Eccellenza il primo oggetto che gli cadeva nelle mani, recitando per filo e per segno, con quanta voce aveva in gola, la formola antica del giuramento imperiale: per il Dio creatore del cielo e della terra, per il profeta Maometto, per le sette varianti del Corano, per i centoventiquattromila profeti di Dio, per l’anima di mio nonno e per l’anima di mio padre, per i miei figli e per la mia spada, portami del danaro o faccio piantare la tua testa sulla punta del più alto minareto di Stambul. E per un verso o per un altro veniva a capo di quel che voleva, e il danaro estorto in quella maniera, ora lo ammucchiava e se lo covava gelosamente come un avaro volgare, ora lo profondeva a piene mani in capricci puerili. Oggi era il capriccio dei leoni, domani delle tigri, e mandava incettatori nelle Indie e nell’Affrica; poi per un mese filato cinquecento pappagalli facevano risonare i giardini imperiali della stessa parola; poi gli pigliava il furore delle carrozze e dei pianoforti che voleva far sonare sorretti dalla schiena di quattro schiavi; poi la mania dei combattimenti dei galli, a cui assisteva con entusiasmo, e appendeva di sua mano una medaglia al collo dei vincitori, e cacciava in esilio, di là dal Bosforo, i vinti; poi la passione del gioco, dei chioschi, dei quadri; la corte pareva tornata ai tempi del primo Ibraim; ma il povero principe non trovava pace, non faceva che passare da una noia mortale a un’inquietudine tormentosa; era torbido e triste; pareva che presentisse la fine infelice che lo aspettava. A volte si ficcava nel capo di dover morire avvelenato, e per un pezzo, diffidando di tutti, non mangiava più che uova sode; altre volte, preso dal terrore degl’incendi, faceva togliere dalle sue stanze tutti gli oggetti di legno, persino le cornici degli specchi. In quel tempo appunto si diceva che, per paura del fuoco, leggesse di notte al lume d’una candela piantata in un secchio d’acqua. E malgrado queste follie, di cui si diceva che fosse la prima cagione una cagione che non c’è bisogno di dire, egli conservava tutta la forza imperiosa della volontà antica, e sapeva farsi obbedire e faceva tremare i più arditi. La sola persona che potesse sull’animo suo era sua madre, donna d’indole altera e vana, che nei primi anni del suo regno faceva coprire di tappeti di broccato le strade dove passava suo figlio per andare alla moschea, e il giorno dopo regalava tutti quei tappeti agli schiavi che li andavano a levare. Però, anche nel disordine della sua vita affannosa, fra l’uno e l’altro dei suoi grandi capricci, Abdul Aziz aveva pure dei capricci piccolissimi, come quello di volere sopra una data porta un dipinto a fresco di natura morta, con quei certi frutti e quei certi fiori, combinati in quella data maniera, e prescriveva accuratamente ogni cosa al pittore, e stava là lungo tempo a contare le pennellate, come se non avesse altro pensiero al mondo. Di tutte queste bizzarrie, frangiate chi sa come dalle mille bocche del Serraglio, tutta la città parlava, e forse fin d’allora s’andavano raccogliendo le prime fila della congiura che lo rovesciò dal trono due anni dopo. La sua caduta, come dicono i Musulmani, era già scritta, e con essa la sentenza che fu poi pronunziata sopra di lui e sopra il suo regno. La quale non è molto diversa da quella che si potrebbe dare su quasi tutti i Sultani degli ultimi tempi. Principi imperiali, spinti verso la civiltà europea da un’educazione superficiale, ma varia e libera, e dal fervore della giovinezza desiderosa di novità e di gloria, vagheggiano, prima di salire sul trono, grandi disegni di riforme e di rinnovamenti, e fanno il proposito fermo e sincero di dedicare a quel fine tutta la loro vita, che dovrà essere una vita austera di lavoro e di lotta. Ma dopo qualche anno di regno e di lotte inutili, circondati da mille oracoli, inceppati da tradizioni e da consuetudini avversati dagli uomini e dalle cose, spaventati dalla grandezza non prima misurata dell’impresa, se ne sdanno sfiduciati, per domandare ai piaceri quello che non possono avere dalla gloria, e perdono a poco a poco, in una vita tutta sensuale, perfino la memoria dei primi propositi e la coscienza del loro avvilimento. Così accade che al sorgere d’ogni nuovo Sultano si faccia sempre, e non senza fondamento, un pronostico felice a cui segue sempre un disinganno.

Abdul-Aziz non si fece aspettare. All’ora fissata, s’udì uno squillo di tromba, la banda intonò una marcia di guerra, i soldati presentarono le armi, un drappello di lancieri uscì improvvisamente dalla porta del palazzo, e si vide apparire il Sultano a cavallo, che venne innanzi lentamente, seguito dal suo corteo.

Mi passò dinanzi a pochi passi, ed ebbi tutto il tempo di considerarlo attentamente.

La mia immaginazione fu stranamente delusa.

Il re dei re, il sultano scialacquatore, violento, capriccioso, imperioso, – che era allora

sui quarantaquattr’anni, – aveva l’aspetto di una buonissima pasta di turco, che si trovasse a fare il sultano senza saperlo. Era un uomo tarchiato e grasso, un bel faccione con due grandi occhi sereni e una barba intera e corta, già un po’ brizzolata di bianco; aveva una fisonomia aperta e mansueta, un atteggiamento naturalissimo, quasi trascurato; e uno sguardo quieto e lento in cui non appariva la minima preoccupazione dei mille sguardi che gli erano addosso. Montava un cavallo grigio bardato d’oro, di bellissime forme, tenuto per le briglie da due palafrenieri sfolgoranti. Il corteo lo seguiva a grande distanza, e da questo solo si poteva capire che era il Sultano. Il suo vestimento era modestissimo. Aveva un semplice fez, un lungo soprabito di color scuro abbottonato fin sotto il mento, un paio di calzoni chiari e gli stivali di marocchino. Veniva innanzi lentissimamente, guardando intorno con un’espressione tra benevola e stanca, come se volesse dire agli spettatori: – Ah! se sapeste come mi secco! – I musulmani s’inchinavano profondamente; molti europei si levavano il cappello: egli non restituì il saluto a nessuno. Passando dinanzi a noi, diede uno sguardo a un ufficiale d’alta statura che lo salutava colla sciabola, un altro sguardo al Bosforo, e poi uno sguardo più lungo a due giovani signore inglesi che lo guardavano da una carrozza, e che si fecero rosse come due fragole. Osservai che aveva la mano bianca e ben fatta, ed era appunto la mano destra, colla quale, due anni dopo, si aperse le vene nel bagno. Dietro di lui passò uno stuolo di pascià, di cortigiani, di pezzi grossi, a cavallo; quasi tutti omaccioni con gran barbe nere, vestiti senza pompa, silenziosi, gravi, cupi, come se accompagnassero un convoglio funebre; dopo, un drappello di palafrenieri che conducevano a mano dei cavalli superbi; poi uno stuolo d’ufficiali a piedi col petto coperto di cordoni d’oro; passati i quali, i soldati abbassarono le armi, la folla si sparpagliò per la piazza, ed io rimasi là immobile, cogli occhi fissi sulla cima del monte Bulgurlù, pensando alla singolarissima condizione in cui si trova un sultano di Stambul.

È un monarca maomettano, pensavo, e ha la reggia ai piedi di una città cristiana, Pera, che gli torreggia sul capo. È sovrano assoluto d’uno dei più vasti imperi del mondo, e ci sono nella sua metropoli, poco lontano da lui, dentro ai grandi palazzi che sovrastano al suo Serraglio, quattro o cinque stranieri cerimoniosi che la fanno da padroni in casa sua, e che trattando con lui, nascondono sotto un linguaggio reverente una minaccia perpetua che lo fa tremare. Ha nelle mani un potere smisurato, gli averi e la vita di milioni di sudditi, il mezzo di soddisfare i suoi più pazzi desideri, e non può cambiare la forma della sua copertura di capo. È circondato da un esercito di cortigiani e di guardie, che bacerebbero l’orma dei suoi piedi, e trema continuamente per la propria vita e per quella dei suoi figliuoli. Possiede mille donne fra le più belle donne della terra, ed egli solo, tra tutti i musulmani del suo impero, non può dare la mano di sposo a una donna libera, non può aver che figli di schiave, ed è chiamato egli stesso: – Figlio di schiava, – da quello stesso popolo che lo chiama «ombra di Dio». Il suo nome suona riverito e terribile dagli ultimi confini della Tartaria agli ultimi confini del Maghreb, e nella sua stessa metropoli v’è un popolo innumerevole, e sempre crescente, su cui non ha ombra di potere e che si ride di lui, della sua forza e della sua fede. Su tutta la faccia del suo immenso impero, fra le tribù più miserabili delle provincie più lontane, nelle moschee e nei conventi più solitarii delle terre più selvaggie, si prega ardentemente per la sua vita e per la sua gloria; ed egli non può fare un passo nei suoi stati, senza trovarsi in mezzo a nemici che lo esecrano e che invocano sul suo capo la vendetta di Dio. Per tutta la parte del mondo che si stende dinanzi alla sua reggia, egli è uno dei più augusti e più formidabili monarchi dell’universo; per quella che gli si stende alle spalle, è il più debole, il più pusillo, il più miserevole uomo che porti una corona sul capo. Una corrente enorme d’idee, di volontà, di forze contrarie alla natura e alle tradizioni della sua potenza, lo avvolge, lo soverchia, trasforma sotto di lui, intorno a lui, suo malgrado, senza che se n’avveda, consuetudini, leggi, usi, credenze, uomini, ogni cosa. Ed egli è là, tra l’Europa e l’Asia, nel suo smisurato palazzo bagnato dal mare, come in una nave pronta a far vela, in mezzo a una confusione infinita d’idee e di cose, circondato d’un fasto favoloso e d’una miseria immensa, già non più né due né uno, non più vero musulmano, non ancora vero europeo, regnante sopra un popolo già in parte mutato, barbaro di sangue, civile d’aspetto, bifronte come Giano, servito come un nume, sorvegliato come uno schiavo, adorato, insidiato, accecato, e intanto ogni giorno che passa spegne un raggio della sua aureola e stacca una pietra dal suo piedestallo. A me pare che se fossi in lui, stanco di quella condizione così singolare nel mondo, sazio di piaceri, stomacato d’adulazioni, affranco dai sospetti, indignato di quella sovranità malsicura ed oziosa sopra quel disordine senza nome, qualche volta, nell’ora in cui l’enorme Serraglio è immerso nel sonno, mi butterei a nuoto nel Bosforo come un galeotto fuggitivo, e andrei a passar la notte in una taverna di Galata in mezzo a una brigata di marinai, con un bicchiere di birra in mano e una pipa di gesso fra i denti, urlando la marsigliese.

Dopo una mezz’ora, il Sultano ripassò rapidamente in carrozza chiusa, seguito da un drappello d’ufficiali a piedi, e lo spettacolo fu finito. Di tutto, quello che mi fece un senso più vivo, furono quegli ufficiali in grande uniforme, che correvano saltellando, come una frotta di lacchè, dietro la carrozza imperiale. Non vidi mai una prostituzione simile della divisa militare.

Questo spettacolo del passaggio del Sultano è ora, come si vede, una cosa assai meschina. I sultani d’altri tempi uscivano in gran pompa, preceduti e seguiti da un nuvolo di cavalieri, di schiavi, di guardie dei giardini, d’eunuchi, di ciambellani, che visti di lontano, presentavano l’aspetto, come dicevano i cronisti entusiastici, «d’una vasta aiuola di tulipani.» I sultani d’oggi invece par che rifuggano dalle pompe come da un’ostentazione teatrale della grandezza perduta. Io mi domando sovente che cosa direbbe uno di quei primi monarchi se, risorgendo per un momento dal suo sepolcro di Brussa o dal suo turbè di Stambul, vedesse passare uno di questi suoi nipoti del secolo diciannovesimo, insaccato in un soprabito nero, senza turbante, senza spada, senza gemme, in mezzo a una folla di stranieri insolenti. Io credo che arrossirebbe di rabbia e di vergogna, e che in segno di supremo disprezzo gli farebbe, come Solimano I ad Hassan, tagliare la barba a colpi di scimitarra, che è la più crudele ingiuria che si passa fare a un osmano. E veramente, fra i sultani d’ora e quei primi, i cui nomi risonarono in Europa tra il secolo XII e il XVI come scoppi di folgore, corre la stessa differenza che tra l’impero ottomano dei nostri giorni e quello dei primi secoli. Quelli raccoglievano davvero in sé la gioventù, la bellezza e il vigore della loro razza; e non erano soltanto un’immagine vivente del proprio popolo, una bella insegna, una perla preziosa della spada dell’islamismo; ma ne costituivano per sé soli una vera forza, e tale, che non c’è chi possa disconoscere nelle loro qualità personali una delle cagioni più efficaci del meraviglioso incremento della potenza ottomana. Il più bel periodo è quello della prima giovinezza della dinastia che abbraccia centonovantatrè anni da Osmano a Maometto II. Quella fu davvero una catena di principi fortissimi, e fatta una sola eccezione, e tenuto conto dei tempi e delle condizioni della razza, austeri e saggi e amati dai propri sudditi; spesso feroci, ma di rado ingiusti, e sovente anche generosi e benefici verso i nemici; e tutti poi quali si capisce che dovessero essere dei principi di quella gente, belli e tremendi d’aspetto, leoni veri, come le loro madri li chiamavano «di cui il ruggito faceva tremare la terra.» Gli Abdul-Megid, gli Abdul-Aziz, i Murad, gli Hamid non sono che larve di padiscià in confronto di quei giovani formidabili, figli di madri di quindici e di padri di diciott’anni, nati dal fiore del sangue tartaro e dal fiore della bellezza greca, persiana, caucasea. A quattordici anni comandavano eserciti e governavano provincie, e ricevevano in premio dalle proprie madri delle schiave belle ed ardenti come loro. A sedici anni erano già padri, a settanta lo diventavano ancora. Ma l’amore non infiacchiva in loro la tempra gagliardissima dell’animo e delle membra. L’animo era di ferro, dicevano i poeti, e il corpo era d’acciaio. Avevano tutti certi tratti comuni, che si perdettero poi nei loro nipoti degeneri: la fronte alta, le sopracciglia arcate e riunite come quelle dei persiani, gli occhi azzurrini dei figli delle steppe, il naso che si curvava sulla bocca purpurea «come il becco d’un pappagallo sopra una ciliegia» e foltissime barbe nere, per le quali i poeti del serraglio si stillavano a cercar paragoni gentili o terribili. Avevano «lo sguardo dell’aquila di monte Tauro e la forza del re del deserto; colli di toro, larghissime spalle, petti sporgenti che poteva contenere tutta l’ira guerriera dei loro popoli», braccia lunghissime, articolazioni colossali, gambe corte ed arcate, che facevano nitrir di dolore i più vigorosi cavalli turcomanni, e grandi mani irsute che palleggiavano come canne le mazze e gli archi enormi dei loro soldati di bronzo. E portavano dei soprannomi degni di loro: il lottatore, il campione, la folgore, lo stritolatore d’ossa, lo spargitore di sangue. La guerra era dopo Allà il primo dei loro pensieri, e la morte era l’ultimo. Non avevano il genio dei grandi capitani, ma erano dotati tutti di quella prontezza di risoluzione che quasi sempre vi supplisce, e di quella feroce ostinatezza che consegue non di rado i medesimi effetti. Trasvolavano, come furie alate, pei campi di battaglia, mostrando di lontano le lunghe penne d’airone confitte nei turbanti candidi, e gli ampi caffettani tessuti d’oro e di porpora, e i loro urli selvaggi ricacciavano innanzi le schiere macellate dalla mitraglia serba e tedesca, quando non bastavano più i nerbi di bue di mille sciaù furibondi. Lanciavano i loro cavalli a nuoto nei fiumi mulinando al disopra delle acque le scimitarre stillanti di sangue; afferravano per la strozza e stramazzavano di sella, passando, i pascià infingardi o vigliacchi; balzavano giù da cavallo, nelle rotte, e piantavano i loro pugnali scintillanti di rubini nel dorso dei soldati fuggiaschi; e feriti a morte, salivano, comprimendo la ferita, sopra un rialto del campo, per mostrare ai loro giannizzeri il volto smorto ma ancora minacciane e imperioso, finché cadevano ruggendo di rabbia ma non di dolore. Quale doveva essere il sentimento di quelle loro giovanette circasse o persiane appena uscite dalla puerizia, quando per la prima volta, la sera d’un giorno di battaglia, sotto una tenda purpurea, al lume velato d’una lampada, si vedevano comparire davanti uno di quei sultani spaventosi e superbi, inebbriati dalla vittoria e dal sangue? Ma allora essi diventavano dolci e amorosi, e stringendo quelle mani infantili nelle loro gigantesche mani ancora convulse dalla stretta della spada, cercavano mille immagini dai fiori dei loro giardini, dalle perle dei loro pugnali, dai più belli uccelli dei loro boschi, dai più bei colori delle aurore dell’Anatolia e della Mesopotamia per lodare la bellezza delle loro schiave tremanti, fin che esse prendevano animo, e rispondevano nel loro linguaggio appassionato e fantastico: – Corona del mio capo! Gloria della mia vita! Mio dolce e tremendo Signore! Che il tuo volto sia sempre bianco e splendido nei due mondi dell’Asia e dell’Europa! Che la vittoria ti segua da per tutto dove ti porterà il tuo cavallo! Che la tua ombra si stenda sopra tutta la terra! Io vorrei essere una rosa per olezzare sulla cima del tuo turbante, o una farfalla per battere le ali sulla tua fronte! – E poi, colla voce velata, raccontavano a quei grandi amanti appagati, che s’assopivano sul loro seno, le loro storie fanciullesche di palazzi di smeraldo e di montagne d’oro, mentre intorno alla tenda, per la campagna insanguinata ed oscura, l’esercito feroce dormiva. Ma essi lasciavano ogni mollezza sulla soglia dell’arem, e uscivano da quegli amori più fieri e più ardenti. Erano dolci nell’arem, feroci sul campo, umili nella moschea, superbi sul trono. Di qui parlavano un linguaggio pieno d’iperboli sfolgoranti e di minacce fulminee, ed ogni loro sentenza era una sentenza irrevocabile che bandiva una guerra, o innalzava un uomo all’apice della fortuna, o faceva rotolare una testa ai piedi del trono, o scatenava un uragano di ferro o di foco sopra una provincia ribelle. Così turbinando dalla Persia al Danubio e dall’Arabia alla Macedonia, fra le battaglie, i trionfi, le cacce, gli amori, passavano dal fiore degli anni a una virilità più bollente e più audace della giovinezza, e poi a una vecchiaia della quale non s’accorgeva né il seno delle loro belle né il dorso dei loro cavalli né l’elsa della loro spada. E non solo nella vecchiaia, anche nell’età verde avveniva qualche volta che, oppressi dal sentimento della loro mostruosa potenza, sgomentati tutt’a un tratto, nel furore delle vittorie e dei trionfi, dalla coscienza d’una responsabilità più che umana, e presi da una specie di terrore nella solitudine della propria altezza, si volgevano con tutta l’anima a Dio, e passavano i giorni e le notti nei recessi oscuri dei loro giardini a comporre poesie religiose, o andavano a meditare il Corano sulle rive del mare o a ballare le ridde frenetiche dei dervis o a macerarsi coi digiuni e coi cilici nella caverna d’un vecchio eremita. E come nella vita, così nella morte si presentarono quasi tutti ai loro popoli in una figura o venerabile o tremenda, sia che morissero colla serenità dei santi come il capo della dinastia, o carichi d’anni di gloria e di tristezza come Orkano, o del pugnale d’un traditore come Murad I, o nella disperazione dell’esilio come Baiazet, o conversando placidamente fra una corona di dotti e di poeti come il primo Maometto, o del dolore d’una sconfitta come il secondo Murad; e si può dir con sicurezza che i loro fantasmi minacciosi sono quanto rimarrà di più grande e di più poetico sugli orizzonti color di sangue della storia ottomana.


Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

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