5- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: All’albergo

5- All’albergo

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

Ed ora i lettori vengano con me all’albergo a prendere un po’ di respiro.
Una gran parte di quello che ho descritto fin qui, il mio amico ed io lo vedemmo il giorno stesso dell’arrivo: immagini chi legge come dovessimo aver la testa ritornando all’albergo sul far della notte. Per strada non si disse una parola, e appena entrati nella camera, ci lasciammo cadere sul sofà guardandoci in viso e domandandoci tutt’e due insieme:
– Che te ne pare?
– Che cosa ne dici?
– E pensare ch’io son venuto qui per dipingere!
– Ed io per scrivere!
E ci ridemmo sul viso in atto di fraterno compatimento.

Quella sera, infatti, ed anche per vari giorni dopo, sua maestà Abdul-Aziz m’avrebbe potuto offrire in premio una provincia dell’Asia Minore, che non sarei riuscito a metter insieme dieci righe intorno alla capitale dei suoi Stati, tanto è vero che per descrivere le grandi cose bisogna farsi di lontano, e per ricordarsene bene, averle un po’ dimenticate. E poi come avrei potuto scrivere in una camera da cui si vedeva il Bosforo, Scutari e la cima dell’Olimpo? L’albergo stesso era uno spettacolo. A tutte le ore del giorno, per le scale e pei corridoi, andava e veniva gente d’ogni paese. Alla tavola rotonda sedevano ogni giorno venti nazioni. Desinando, non mi potevo levar dalla testa d’essere un delegato del governo italiano, e di dover prendere la parola alle frutta su qualche grande questione internazionale. C’erano visi rosei di lady, teste scapigliate d’artisti, grinte d’avventurieri da batterci moneta sopra, testine di vergini bizantine a cui non mancava che il nimbo d’oro, facce bizzarre e sinistre; e ogni giorno cangiavano. Alle frutta, quando tutti parlavano, pareva d’essere nella torre di Babele. Vi conobbi fin dal primo giorno parecchi russi infatuati di Costantinopoli. Ogni sera ci ritrovavamo là, di ritorno dai punti estremi della città, e ognuno aveva un viaggio da raccontare. Chi era salito in cima alla torre del Seraschiere, chi aveva visitato i cimiteri di Eyub, chi veniva da Scutari, chi aveva fatto una corsa sul Bosforo; la conversazione era tutta ordita di descrizioni piene di colori e di luce; e quando mancava la parola, i vini dolci e profumati dell’Arcipelago facevano da suggeritori. C’erano pure alcuni miei concittadini, bellimbusti danarosi, che mi fecero divorar molta stizza, perché dalla minestra alle frutta non facevano che dire ira d’Iddio di Costantinopoli: e che non c’eran marciapiedi, e che i teatri erano oscuri, e che non si sapeva come passar la sera. Erano venuti a Costantinopoli per passar la sera. Uno di costoro aveva fatto il viaggio sul Danubio. Gli domandai se gli era piaciuto il gran fiume. Mi rispose che in nessuna parte del mondo si cucinava lo storione come sui piroscafi della reale e imperiale Compagnia austriaca. Un altro era un tipo amenissimo di viaggiatore amoroso; uno di coloro che viaggiano per sedurre, col taccuino delle conquiste. Era un contino lungo e biondo, largamente dotato dell’ottavo dono dello Spirito Santo, che quando il discorso cadeva sulle donne turche, chinava la testa con un sorriso misterioso, e non pigliava parte alla conversazione se non con mezze parole troncate sempre artificialmente da una sorsata di vino. Arrivava tutti i giorni a desinare un po’ più tardi degli altri, tutto ansante, coll’aria d’averla fatta al Sultano un quarto d’ora prima, e tra un piatto e l’altro faceva passare di tasca in tasca, con molta cautela, dei bigliettini piegati, che dovevano parere lettere d’odalische, ed erano sicurissimamente note d’albergo. Ma i soggetti che s’inciampano in questi alberghi di città cosmopolite! Bisogna esserci stati per crederci. V’era un giovane ungherese, sulla trentina, alto, nervoso, con due occhi diabolici e una parlantina febbrile, il quale, dopo aver fatto il segretario d’un ricco signore a Parigi, era andato ad arruolarsi fra gli zuavi francesi in Algeria, era stato ferito e preso prigioniero dagli Arabi, poi scappato nel Marocco, poi ritornato in Europa e corso all’Aja a chiedere il grado d’ufficiale per andare a combattere contro gli Accinesi; respinto all’Aja, aveva deciso di arruolarsi nell’esercito turco; ma passando a Vienna per venire a Costantinopoli, s’era preso una palla di pistola nel collo, in un duello per una donna, e faceva vedere la cicatrice; respinto anche a Costantinopoli, – cos’ho da fare? – diceva – je suis enfant de l’aventure; bisogna bene ch’io mi batta; ho già trovato chi mi conduce alle Indie, – e mostrava il biglietto d’imbarco –; mi farò soldato inglese; nell’interno c’è sempre qualcosa da fare; io non cerco che di battermi; che cosa m’importa di morire? Tanto ho un polmone rovinato. – Un altro bell’originale era un francese, la cui vita pareva non fosse altro che una perpetua guerra colla posta: aveva una questione pendente con la posta austriaca, colla francese, coll’inglese; mandava articoli di protesta alla Neue Freie Presse; lanciava impertinenze telegrafiche a tutte le stazioni postali del continente, aveva ogni giorno un diverbio a qualche finestrino di posta, non riceveva una lettera a tempo, non ne scriveva una che arrivasse dov’era mandata, e raccontava a tavola tutte le sue disgrazie e tutte le sue baruffe, concludendo sempre coll’assicurarci che la Posta gli avrebbe accorciata la vita. Mi ricordo pure d’una signora greca, un viso di spiritata, vestita bizzarramente, e sempre sola, che ogni sera si alzava da tavola a metà del desinare, e se n’andava dopo aver fatto sul piatto un segno cabalistico di cui nessuno riuscì mai a capire il significato. Non ho più dimenticata nemmeno una coppia valacca, un bel giovane sui venticinque anni e una giovanetta sul primo sboccio, comparsi una sera sola, che erano indubitatamente due fuggiaschi; lui rapitore, lei complice; perché bastava fissarli un momento per farli arrossire, e ogni volta che s’apriva la porta, scattavano come due molle. Di chi altri mi ricordo? di cento altri, se ci pensassi. Era una lanterna magica. Ci divertivamo, il mio amico ed io, i giorni dell’arrivo d’un piroscafo, a veder entrare la gente per la porta di strada: tutti stanchi, sbalorditi, qualcuno ancora commosso dallo spettacolo della prima entrata; facce che dicevano: – Che mondo è questo? Dove siamo venuti a cascare? – Un giorno entrò un giovinetto, arrivato allora, che pareva matto dalla contentezza di essere finalmente a Costantinopoli, sogno della sua infanzia, e stringeva con tutt’e due le mani la mano di suo padre; e suo padre gli diceva con voce commossa: – Je suis heureux de te voir heureux, mon cher enfant. – Poi passavamo le ore calde alla finestra a guardare la Torre della fanciulla, che s’alza, bianca come la neve, sopra uno scoglio solitario del Bosforo, in faccia a Scutari; e mentre fantasticavamo sulla leggenda del principe di Persia che va a succhiare il veleno dal braccio della bella sultana, morsicata dall’aspide, da una finestra della casa in faccia, ogni giorno alla stessa ora, un ragazzo di cinque anni ci faceva le corna. Tutto era curioso in quell’albergo. Fra le altre cose, dinanzi alla porta, trovavamo ogni sera uno o due soggetti di faccia equivoca, che dovevano essere provveditori di modelle per i pittori, e che pigliando tutti per pittori, a tutti domandavano a bassa voce: – Una turca? una greca? un’armena? un’ebrea? una nera?


Edmondo De Amicis
Leggi su Wikipedia

Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.

About the author: Experiences