1- Edmondo De Amicis, Costantinopoli: L’arrivo

Edmondo De Amicis
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Edizione elettronica tratta da Liber Liber

Opera di riferimento: “Costantinopoli” di Edmondo De Amicis, Fratelli Treves editori, Milano 1877

Alla edizione elettronica ha contribuito Vittorio Volpi, volpi@galactica.it

Revisione: Catia Righi, catia_righi@tin.it

Pubblicato su Liber Liber da Marco Calvo, al quale vanno i nostri ringraziamenti.

Costantinopoli è un libro di ricordi scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1877. Il soggetto dell’opera è il viaggio di più giorni fatto nel 1874, in compagnia dell’amico pittore Enrico Junck, a Istanbul, capitale dell’Impero Ottomano, quale corrispondente per conto della rivista Illustrazione Italiana.

De Amicis ha elaborato l’opera raccogliendo tre anni dopo la visita le impressioni in un libro, parte dagli appunti presi durante il viaggio e parte da memorie personali.  Ne emergono molte informazioni sulla Istanbul del secolo XIX e sulla storia ottomana. L’opera originale comprendeva anche 45 incisioni di Enrico Junck. La prima edizione fu pubblicata nel 1877 in due volumi. Cesare Biseo ne illustrò un’edizione del 1882, a causa della prematura scomparsa di Junck.

Il Grande Bazar d’Istanbul in un disegno di Cesare Biseo tratto dall’edizione del 1882

L’opera riscosse un successo immediato e fu tradotta in molte lingue, oltre naturalmente al turco, ma ricevette anche critiche severe, come quella di Remigio Zena nel suo diario di bordo In Yacht da Genova a Costantinopoli (1887). Nel suo libro Istanbul – Memory of a City, lo scrittore turco Orhan Pamuk (premio Nobel per la letteratura 2006) ha definito Costantinopoli di Edmondo de Amicis il miglior libro scritto su Istanbul nell’Ottocento, seguito da Costantinopoli di Théophile Gautier (1852). Umberto Eco, nell’introduzione ad una nuova ristampa del 2005, ha affermato che la descrizione della città fatta da De Amicis appare come la più cinematografica.


1- L’arrivo

INDICE

L ’arrivo
Cinque ore dopo
Il ponte
Stambul
All’albergo
Costantinopoli
Galata
Il Gran Bazar
La vita a Costantinopoli
Santa Sofia
Dolma Bagcè
Le Turche
Ianghen Var
Le mura
L’antico Serraglio
Gli ultimi giorni
I Turchi
Il Bosforo

L’emozione che provai entrando in Costantinopoli mi fece quasi dimenticare tutto quello che vidi in dieci giorni di navigazione dallo stretto di Messina all’imboccatura del Bosforo. Il mar Jonio azzurro e immobile come un lago, i monti lontani della Morea tinti di rosa dai primi raggi del sole, l’Arcipelago dorato dal tramonto, le rovine d’Atene, il golfo di Salonico, Lemno, Tenedo, i Dardanelli, e molti personaggi e casi che mi divertirono durante il viaggio, si sbiadirono per modo nella mente, dopo visto il Corno d’oro, che se ora li volessi descrivere, dovrei lavorare più d’immaginazione che di memoria. Perché la prima pagina del mio libro m’esca viva e calda dall’anima, debbo cominciare dall’ultima notte del viaggio, in mezzo al mare di Marmara, nel punto che il capitano del bastimento s’avvicinò a me e al mio amico Yunk, e mettendoci le mani sulle spalle, disse col suo schietto accento palermitano: – Signori! Domattina all’alba vedremo i primi minareti di Stambul.
Ah! ella sorride, mio buon lettore, pieno di quattrini e di noia; ella che, anni sono, quando le saltò il ticchio d’andare a Costantinopoli, in ventiquattr’ore rifornì la borsa e fece le valigie, e partì tranquillamente come per una gita in campagna, incerto fino all’ultimo momento se non fosse meglio prendere invece la via di Baden-Baden! Se il capitano del bastimento ha detto anche a lei: – Domani mattina vedremo Stambul – lei avrà risposto flemmaticamente: – Ne ho piacere. – Ma bisogna aver covato quel desiderio per dieci anni, aver passato molte sere d’inverno guardando melanconicamente la carta d’Oriente, essersi rinfocolata l’immaginazione colla lettura di cento volumi, aver girato mezza l’Europa soltanto per consolarsi di non poter vedere quell’altra mezza, essere stati inchiodati un anno a tavolino con quell’unico scopo, aver fatto mille piccoli sacrifici, e conti su conti, e castelli su castelli, e battagliole in casa; bisogna infine aver passato nove notti insonni sul mare, con quell’immagine immensa e luminosa davanti agli occhi, felici tanto da provar quasi un sentimento di rimorso pensando alle persone care che si sono lasciate a casa; e allora si capisce che cosa voglion dire quelle parole: – Domani all’alba vedremo i primi minareti di Stambul; – e invece di rispondere flemmaticamente: – ne ho piacere – si picchia un pugno formidabile sul parapetto del bastimento.
Un gran piacere per me e per il mio amico era la profonda certezza che la nostra immensa aspettazione non sarebbe stata delusa. Su Costantinopoli, infatti, non ci son dubbi; anche il viaggiatore più diffidente ci va sicuro del fatto suo; nessuno ci ha mai provato un disinganno. E non c’entra il fascino delle grandi memorie e la consuetudine dell’ammirazione. È una bellezza universale e sovrana, dinanzi alla quale il poeta e l’archeologo, l’ambasciatore e il negoziante, la principessa e il marinaio, il figlio del settentrione e il figlio del mezzogiorno, tutti hanno messo un grido di meraviglia. È il più bel luogo della terra a giudizio di tutta la terra. Gli scrittori di viaggi, arrivati là, perdono il capo. Il Perthusier balbetta, il Tournefort dice che la lingua umana è impotente, il Pouqueville crede d’esser rapito in un altro mondo, il La Croix è innebriato, il visconte di Marcellus rimane estatico, il Lamartine ringrazia Iddio, il Gautier dubita della realtà di quello che vede; e tutti accumulano immagini sopra immagini, fanno scintillare lo stile e si tormentano invano per trovare un’espressione che non riesca miseramente al disotto del proprio pensiero. Il solo Chateaubriand descrive la sua entrata in Costantinopoli con un’apparenza di tranquillità d’animo che reca stupore; ma non tralascia di dire che è il più bello spettacolo dell’universo; e se la celebre Lady Montague, pronunziando la stessa sentenza, ci premette un forse, è da credersi che l’abbia fatto per lasciare tacitamente il primo posto alla propria bellezza, della quale si dava molto pensiero. C’è persino un freddo tedesco, il quale dice che le più belle illusioni della gioventù e i sogni stessi del primo amore sono pallide immagini in confronto del senso di dolcezza che invade l’anima alla vista di quei luoghi fatati; e un dotto francese afferma che la prima impressione che fa Costantinopoli è lo spavento. Immagini chi legge il ribollimento che dovevano produrre tutte queste parole di foco, cento volte ripetute, nel cervello d’un bravo pittore di ventiquattr’anni, e in quello d’un cattivo poeta di vent’otto! Ma nemmeno queste lodi illustri di Costantinopoli ci bastavano, e cercavamo le testimonianze dei marinai. E anch’essi, povera gente rozza, per dare un’idea di quella bellezza, sentivano il bisogno d’esprimersi con qualche similitudine o parola straordinaria, e la cercavano volgendo gli occhi qua e là e stropicciando le dita, e facevano dei tentativi di descrizione con quel suono di voce che par che venga di lontano e quei gesti larghi e lenti con cui la gente del popolo esprime la meraviglia quando non le bastano le parole. – Entrare con una bella mattinata in Costantinopoli –, ci disse il capo dei timonieri –, credete a me, signori: è un bel momento nella vita d’un uomo.
Anche il tempo ci sorrideva; era una notte serena e tepida; il mare accarezzava con un mormorìo leggerissimo i fianchi del bastimento; gli alberi e i più minuti cordami si disegnavano netti ed immobili sul cielo coperto di stelle; non pareva nemmeno che si navigasse. A prora v’era una folla di turchi sdraiati che fumavano beatamente il loro narghilè col viso rivolto alla luna, la quale faceva un contorno d’argento ai loro turbanti bianchi; a poppa un visibilio di gente d’ogni paese, fra cui una compagnia famelica di commedianti greci che s’erano imbarcati al Pireo. Vedo ancora, in mezzo a una nidiata di bambine russe che vanno a Odessa con la madre, il visetto della piccola Olga, tutta meravigliata ch’io non capisca la sua lingua e indispettita d’avermi fatto tre volte la medesima domanda senza ottenere una risposta intelligibile. Ho da una parte un grosso e sucido prete greco, col cappello a staio rovesciato, che cerca col cannocchiale l’arcipelago di Marmara; dall’altra un ministro evangelico inglese, rigido e freddo come una statua, che in tre giorni non ha ancora detto una parola né guardato in faccia anima viva; davanti, due belle signorine ateniesi colla berrettina rossa e le trecce giù per le spalle, che appena uno le guarda, si voltano tutte due insieme verso il mare per farsi vedere di profilo; un po’ più in là un negoziante armeno che fa scorrere tra le dita le pallottoline del rosario orientale, un gruppo d’ebrei vestiti del costume antico, degli albanesi colle sottanine bianche, un’istitutrice francese che fa la malinconica, qualcuno di quei soliti viaggiatori di nessuna tinta, che non si capisce di che paese siano nè che mestiere facciano; e in mezzo a questa gente, una piccola famiglia turca composta d’un babbo in fez, d’una mamma velata e di due bambine coi calzoncini, tutti e quattro accovacciati sotto una tenda, a traverso un mucchio di materasse e di cuscinetti variopinti, in mezzo a una corona di carabattole d’ogni forma e d’ogni colore.
Come si sentiva la vicinanza di Costantinopoli! C’era una vivacità insolita. Quasi tutti i visi, che s’intravvedevano al lume delle lanterne, erano visi allegri. Le bambine russe saltellavano intorno alla madre gridando l’antico nome russo di Stambul: – Zavegorod! Zavegorod! – Passando accanto ai crocchi, si udivano qua e là i nomi di Galata, di Pera, di Scutari, di Bujukderé, di Terapia, che luccicavano alla mia fantasia come le prime scintille d’un grande foco d’artifizio sul punto d’accendersi. Anche i marinai erano contenti d’avvicinarsi a quel luogo dove, com’essi dicevano, si dimenticano almeno per un’ora tutte le noie della vita. Persino a prora, in mezzo a quel biancume di turbanti, c’era un movimento straordinario: anche quei mussulmani pigri e impassibili vedevano già cogli occhi della immaginazione ondulare all’orizzonte i fantastici contorni di Ummelunià, la madre del mondo, «la città», come dice il Corano, «di cui un lato guarda la terra e due guardano il mare.» Pareva che il bastimento, anche senza la forza motrice del vapore, avrebbe dovuto andare innanzi da sé, spinto dall’impeto dei desideri e delle impazienze che fremevano sulle sue tavole. Di tratto in tratto mi appoggiavo al parapetto per guardare in mare, e mi pareva che cento voci confuse mi parlassero col mormorio delle acque. Erano tutte le persone che mi amano, che dicevano: Va, va, figliuolo, fratello, amico, va; va a goderti la tua Costantinopoli; te la sei guadagnata, sii felice, e Dio t’accompagni.
Soltanto verso la mezzanotte i viaggiatori cominciarono a scendere sottocoperta. Il mio amico ed io scendemmo gli ultimi e a passo di formica, perché ci ripugnava d’andare a chiudere fra quattro pareti un’allegrezza a cui pareva angusto il circuito della Propontide. Quando fummo a metà della scaletta sentimmo la voce del capitano che ci invitava a salire la mattina seguente sul ponte riserbato al comando. – Siano su prima del levar del sole, – gridò affacciandosi alla botola –; faccio buttare in mare chi ritarda.
Una minaccia più superflua non è mai stata fatta dopo che mondo è mondo. Io non chiusi occhio. Credo che il giovane Maometto II, in quella famosa notte di Adrianopoli, in cui disfece il letto a furia di voltarsi e di rivoltarsi, agitato dalla visione della città di Costantino, non abbia fatto tanti rivoltoloni quanti ne feci io nella mia cuccetta in quelle quattr’ore d’aspettazione. Per dominare i miei nervi, provai a contare fino a mille, a tener l’occhio fisso sulle ghirlande bianche che l’acqua rotta dal bastimento sollevava intorno all’occhio del mio camerino, a canterellare delle ariette cadenzate sul rumore monotono della macchina a vapore; ma era inutile. Avevo la febbre, mi sentivo mancare il respiro e la notte mi pareva eterna. Appena vidi un barlume di giorno, saltai giù; Yunk era già in piedi; ci vestimmo in furia, e salimmo in tre salti sopra coperta.
Maledizione!
C’era la nebbia.
Una nebbia fitta copriva l’orizzonte da tutte le parti; pareva imminente la pioggia; il
grande spettacolo dell’entrata in Costantinopoli era perduto; il nostro più ardente desiderio, deluso; il viaggio in una parola, sciupato!
Io rimasi annichilito.
In quel punto comparve il capitano col suo solito sorrisetto sulle labbra.
Non ci fu bisogno di parlare; appena ci vide, capì, e battendoci una mano sulla spalla,
disse in tuono di consolazione:
– Niente, niente. Non si sgomentino, signori. Benedicano anzi questa nebbia. In grazia
della nebbia loro faranno la più bella entrata in Costantinopoli che abbiano mai potuto desiderare. Fra due ore avremo un sereno meraviglioso. Riposino sulla mia parola.
Mi sentii tornare la vita.
Salimmo sul ponte del Comando.
A prora tutti i turchi erano già seduti a gambe incrociate sui loro tappeti, col viso
rivolto verso Costantinopoli. In pochi minuti tutti gli altri viaggiatori usciron fuori, armati di cannocchiali d’ogni forma, e si appoggiarono, stesi in una lunga fila, al parapetto di sinistra, come alla balaustrata d’una galleria di teatro. Tirava un’arietta fresca; nessuno parlava. Tutti gli occhi e tutti i cannocchiali si rivolsero a poco a poco verso la riva settentrionale del mare di Marmara. Ma non si vedeva ancor nulla.
La nebbia però non formava che una fascia biancastra all’orizzonte, sopra la quale splendeva il cielo sereno e dorato.
Diritto dinanzi a noi, nella direzione della prora, appariva confusamente il piccolo arcipelago delle nove Isole dei Principi, le Demonesi degli antichi, luogo di piaceri della Corte al tempo del Basso Impero, ed ora luogo di ritrovo e di festa degli abitanti di Costantinopoli.
Le due rive del mar di Marmara erano ancora completamente nascoste.
Soltanto dopo un’ora che s’era sul ponte si vide…
Ma è impossibile intender bene la descrizione dell’entrata in Costantinopoli, se non si
ha chiara nella mente la configurazione della città. Supponga il lettore d’aver davanti a sè l’imboccatura del Bosforo, il braccio di mare che separa l’Asia dall’Europa e congiunge il mar di Marmara col mar Nero. Stando così s’ha la riva asiatica a destra e la riva europea a sinistra; di qui l’antica Tracia, di là l’antica Anatolia. Andando innanzi, infilando cioè il braccio di mare, si trova a sinistra, appena oltrepassata l’imboccatura, un golfo, una rada strettissima, la quale forma col Bosforo un angolo quasi retto, e si sprofonda per parecchie miglia nella terra europea, incurvandosi a modo di un corno di bue; donde il nome di Corno d’oro, ossia corno dell’abbondanza, perché v’affluivano, quand’era porto di Bisanzio, le ricchezze di tre continenti. Nell’angolo di terra europea, che da una parte è bagnato dal mar di Marmara e dall’altra dal Corno d’oro, dov’era l’antica Bisanzio, s’innalza, sopra sette colline, Stambul, la città turca. Nell’altro angolo, bagnato dal Corno d’oro e dal Bosforo, s’innalzano Galata e Pera, le città franche. In faccia all’apertura del Corno d’oro, sopra le colline della riva asiatica, sorge la città di Scutari. Quella, dunque, che si chiama Costantinopoli, è formata da tre grandi città divise dal mare, ma poste l’una in faccia all’altra, e la terza in faccia alle due prime, e tanto vicine tra loro, che da ciascuna delle tre rive si vedono distintamente gli edifizi delle altre due, presso a poco come da una parte all’altra della Senna e del Tamigi nei punti dove sono più larghi a Parigi e a Londra. La punta del triangolo su cui s’innalza Stambul, ritorta verso il Corno d’oro, è quel famoso Capo del Serraglio, il quale nasconde fino all’ultimo momento, agli occhi di chi viene dal mar di Marmara, la vista delle due rive del Corno, ossia la parte più grande e più bella di Costantinopoli.
Fu il Capitano del bastimento, che col suo occhio di marinaio scoperse per il primo il primo barlume di Stambul.
Le due signore ateniesi, la famiglia russa, il ministro inglese, Yunk, io ed altri, che andavamo tutti a Costantinopoli per la prima volta, stavamo intorno a lui stretti in un gruppo, silenziosi, stancandoci gli occhi inutilmente sopra la nebbia, quand’egli stese il braccio a sinistra, verso la riva europea, e gridò: – Signori, ecco il primo spiraglio.
Era un punto bianco, la sommità d’un minareto altissimo, di cui la parte di sotto rimaneva ancora nascosta. Tutti vi appuntarono su i cannocchiali e si misero a frugare cogli occhi in quel piccolo squarcio della nebbia come per farlo più largo. Il bastimento filava rapidamente. Dopo pochi minuti, si vide accanto al minareto una macchia incerta, poi due, poi tre, poi molte che a poco a poco prendevano il contorno di case, e la fila s’allungava, s’allungava. Dinanzi a noi e sulla nostra destra, tutto era ancora coperto dalla nebbia. Quella che s’andava scoprendo allora, era la parte di Stambul che s’allunga, formando un arco di circa quattro miglia italiane, sulla riva settentrionale del mar di Marmara, fra il Capo del Serraglio e il Castello delle Sette Torri. Ma tutta la collina del Serraglio era ancora velata. Dietro le case spuntavano l’un dopo l’altro i minareti, altissimi e bianchi, e le loro sommità, illuminate dal sole, erano color di rosa. Sotto le case cominciavano a scoprirsi le vecchie mura merlate, di color fosco, rafforzate, a distanze eguali, da grosse torri, che formano intorno a tutta la città una cintura non interrotta, contro la quale si rompono le onde del mare. In poco tempo rimase scoperto un tratto di città lungo due miglia; ma, dico il vero, lo spettacolo non corrispondeva alla mia aspettazione. Eravamo nel punto in cui il Lamartine domandò a sè stesso: – È questa Costantinopoli? – e gridò: – Che delusione! – Le colline erano ancora nascoste, non si vedeva che la riva, le case formavano una sola fila lunghissima, la città pareva tutta piana. – Capitano! – esclamai anch’io –; è questa Costantinopoli? – Il capitano m’afferrò per un braccio, e accennando colla mano dinanzi a sé: – Uomo di poca fede! – gridò –; guardi lassù. – Guardai! e mi fuggì un’esclamazione di stupore. Un’ombra enorme, una mole altissima e leggiera, ancora coperta da un velo vaporoso, si sollevava al cielo dalla sommità d’un’altura, e rotondeggiava gloriosamente nell’aria, in mezzo a quattro minareti smisurati e snelli, di cui le punte inargentate scintillavano ai primi raggi del sole. – Santa Sofia! – gridò un marinaio; e una delle due signore ateniesi disse a bassa voce: – Hagia Sofia! (La santa sapienza). I turchi a prora s’alzarono in piedi. Ma già dinanzi e accanto alla grande basilica, si sbozzavano a traverso la nebbia altre cupole enormi, e minareti fitti e confusi come una foresta di gigantesche palme senza rami – La moschea del Sultano Ahmed! – gridava il capitano, accennando –; la moschea di Bajazet, la moschea d’Osman, la moschea di Laleli, la moschea di Solimano. Ma nessuno lo sentiva più. Il velo si squarciava rapidamente, e da ogni parte balzavan fuori moschee, torri, mucchi di verzura, case su case; e più andavamo innanzi, più la città s’alzava e mostrava più distinti i suoi grandi contorni rotti, capricciosi, bianchi, verdi, rosati, scintillanti; e la collina del serraglio disegnava già intera la sua forma gentile sopra il fondo grigio della nebbia lontana. Quattro miglia di città, tutta la parte di Stambul che guarda il mare di Marmara, si stendeva dinanzi a noi, e le sue mura fosche e le sue case di mille colori si riflettevano nell’acqua terse e nitide come in uno specchio.
A un tratto il bastimento si fermò.
Tutti s’affollarono intorno al capitano domandando perché. Egli ci spiegò che per andare innanzi bisognava aspettare che svanisse la nebbia. La nebbia, infatti, nascondeva ancora l’imboccatura del Bosforo come una fitta cortina. Ma dopo meno d’un minuto, si poté proseguire, andando però cautissimamente.
Ci avvicinavamo alla collina dell’antico serraglio.
Qui la curiosità mia e di tutti diventò febbrile.
– Si volti in là –, mi disse il capitano – e aspetti a guardare quando tutta la collina ci sia
davanti.
Mi voltai e fissai gli occhi sopra uno sgabello che mi pareva che ballasse.
– Eccoci! – esclamò il Capitano dopo qualche momento.
Mi voltai. Il bastimento s’era fermato.
Eravamo in faccia alla collina, vicinissimi.
È una grande collina tutta vestita di cipressi, di terebinti, d’abeti e di platani
giganteschi, che spingono i rami fuori delle mura merlate fino a far ombra sul mare; e in mezzo a questo mucchio di verzura s’alzano disordinatamente, separati e a gruppi, come sparsi a caso, cime di chioschi, padiglioncini coronati di gallerie, cupolette inargentate, piccoli edifizii di forme gentili e strane, colle finestre ingraticolate e le porte a rabeschi; tutto bianco, piccino, mezzo nascosto, che lascia indovinare un labirinto di giardini, di corridoi, di cortili, di recessi; un’intera città chiusa in un bosco; separata dal mondo, piena di mistero e di tristezza. In quel momento vi batteva su il sole, ma la ricopriva ancora un velo leggerissimo. Non vi si vedeva nessuno, non vi si sentiva il più leggiero rumore. Tutti i viaggiatori stavano là cogli occhi fissi su quel colle coronato dalle memorie di quattro secoli di gloria, di piaceri, d’amori, di congiure e di sangue; reggia, cittadella e tomba della grande monarchia ottomana; e nessuno parlava, nessuno si moveva. Quando a un tratto il secondo del bastimento gridò: – Signori, si vede Scutari!
Ci voltammo tutti verso la riva asiatica. Scutari, la Città d’oro, era là sparsa a perdita
d’occhi sulle sommità e per i fianchi delle sue grandi colline, velata dai vapori luminosi del mattino, ridente, fresca come una città sorta allora al tocco d’una verga fatata. Chi può descrivere quello spettacolo? Il linguaggio con cui descriviamo le città nostre non serve a dare una idea di quella immensa varietà di colori e di prospetti, di quella meravigliosa confusione di città e di paesaggio, di gaio e d’austero, d’europeo, d’orientale, di bizzarro, di gentile, di grande! S’immagini una città composta di diecimila villette gialle e purpuree, e di diecimila giardini lussureggianti di verde, in mezzo a cui s’alzano cento moschee candide come la neve; di sopra, una foresta di cipressi enormi: il più grande cimitero dell’Oriente; alle estremità, smisurate caserme bianche, gruppi di case e di cipressi, villaggetti raccolti sui poggi, dietro ai quali ne spuntano altri mezzo nascosti fra la verzura; e per tutto cime di minareti e sommità di cupole biancheggianti fino a mezzo il dorso d’una montagna che chiude come una gran cortina l’orizzonte; una grande città sparpagliata in un immenso giardino, sopra una riva qui rotta da burroni a picco, vestiti di sicomori, là digradante in piani verdi, aperta in piccoli seni pieni d’ombra e di fiori; e lo specchio azzurro del Bosforo che riflette tutta questa bellezza.
Mentre stavo guardando Scutari, il mio amico mi toccò col gomito per annunziarmi che aveva scoperto un’altra città. E vidi infatti, voltandomi verso il mar di Marmara, sulla stessa riva asiatica, al di là di Scutari, una lunghissima fila di case, di moschee e di giardini dinanzi a cui era passato il bastimento, e che fino allora eran rimasti nascosti dalla nebbia. Col cannocchiale si discernevano benissimo i caffè, i bazar, le case all’europea, gli scali, i muri di cinta degli orti, le barchette sparse lungo la riva. Era Kadi-Kioi, il villaggio dei giudici, posto sulle rovine dell’antica Calcedonia, già rivale di Bisanzio; quella Calcedonia fondata seicento ottantacinque anni prima di Cristo dai Megaresi, ai quali fu dato dall’oracolo di Delfo il soprannome di ciechi per avere scelto quel sito invece della riva opposta dove sorge Stambul. – E tre città – ci disse il Capitano –; le contino sulle dita perchè a momenti ne salteranno fuori delle altre.
Il bastimento era sempre immobile fra Scutari e la collina del Serraglio. La nebbia nascondeva affatto il Bosforo da Scutari in là, e tutta Galata e tutta Pera che stavano dinanzi a noi. Ci passavano accanto dei barconi, dei vaporini, dei caicchi, dei piccoli legni a vela; ma nessuno li guardava. Tutti gli occhi erano fissi sulla cortina grigia che copriva la città franca. Io fremevo d’impazienza e di piacere. Ancora pochi momenti, e lo spettacolo meraviglioso, che strappa un grido dall’anima! Appena potevo tener fermo agli occhi il canocchiale, tanto mi tremava la mano. Il capitano mi guardava, pover’uomo, e godeva della mia emozione, e fregandosi le mani esclamava:
– Ci siamo! ci siamo!
Finalmente incominciarono ad apparire dietro al velo prima delle macchie bianchiccie, poi il contorno vago d’una grande altura, poi uno sparso e vivissimo luccichio di vetrate percosse dal sole, e infine Galata e Pera in piena luce, un monte, una miriade di casette di tutti i colori, le une sulle altre; una città altissima coronata di minareti, di cupole e di cipressi; sulla sommità i palazzi monumentali delle Ambasciate, e la gran torre di Galata; ai piedi il vasto arsenale di Tophanè e una foresta di bastimenti; e diradando sempre la nebbia, la città s’allungava rapidamente dalla parte del Bosforo, e balzavano fuori borghi dietro borghi, distesi dall’alto dei colli fino al mare, vasti, fitti, picchiettati di bianco dalle moschee; file di bastimenti, piccoli porti, palazzi a fior d’acqua, padiglioni, giardini, chioschi, boschetti; e confusi nella nebbia lontana, altri borghi di cui si vedevano soltanto le sommità dorate dal sole; uno sbarbaglio di colori, un rigoglio di verde, una fuga di vedute, una grandezza, una delizia, una grazia da far prorompere in esclamazioni insensate. Sul bastimento tutti erano a bocca aperta: viaggiatori, marinai, turchi, europei, bambini. Non si sentiva uno zitto. Non si sapeva più da che parte guardare. Avevamo da una parte Scutari e Kadi-Kioi; dall’altra la collina del Serraglio; in faccia Galata, Pera, il Bosforo. Per vedere ogni cosa, bisognava girare sopra sè stessi; e giravano, lanciando da tutte le parti degli sguardi fiammeggianti, e ridendo e gesticolando senza parlare, con un piacere che ci soffocava. Che bei momenti, Dio eterno!
Eppure, il più grande e il più bello rimaneva da vedere. Noi eravamo ancora immobili al di qua della punta del Serraglio; senza oltrepassare la quale non si può vedere il Corno d’oro, e la più meravigliosa veduta di Costantinopoli è sul Corno d’oro. – Signori, stiano attenti – esclamò il capitano prima di dar l’ordine d’andare avanti; – ora viene il momento critico. In tre minuti siamo in faccia a Costantinopoli!
Provai un senso di freddo.
Si aspettò qualche altro momento.
Ah! come mi saltava il cuore! Con che febbre nell’anima aspettavo quella benedetta
parola: – Avanti!
– Avanti! – gridò il capitano.
Il bastimento si mosse.
Andiamo! Re, principi, Cresi, potenti e fortunati della terra, in quel momento io ebbi
compassione di voi; il mio posto sul bastimento valeva tutti i vostri tesori, e non avrei venduto un mio sguardo per un impero.
Un minuto – un altro minuto – si passa la punta del Serraglio – intravvedo un enorme spazio pieno di luce e un’immensità di cose e di colori – la punta è passata… Ecco Costantinopoli! Costantinopoli sterminata, superba, sublime! Gloria alla creazione ed all’uomo! Io non avevo sognato questa bellezza!
Ed ora descrivi, miserabile! profana con la tua parola questa visione divina! Chi osa descrivere Costantinopoli? Chateaubriand, Lamartine, Gautier, che cosa avete balbettato? Eppure, le immagini e le parole s’affollano alla mente e fuggono dalla penna. Vedo, parlo, scrivo, tutto ad un tempo, senza speranza, ma con una voluttà che m’inebria. Vediamo dunque. Il Corno d’oro, diritto dinanzi a noi, come un largo fiume; e sulle due rive, due catene d’alture su cui s’innalzano e s’allungano due catene parallele di città, che abbracciano otto miglia di colli, di vallette, di seni, di promontori; cento anfiteatri di monumenti e di giardini; una doppia immensa gradinata di case, di moschee, di bazar, di serragli, di bagni, di chioschi, svariati di colori infiniti; in mezzo ai quali migliaia di minareti dalla punta lucente s’alzano al cielo come smisurate colonne d’avorio; e sporgono boschi di cipressi che discendono in strisce cupe dalle alture al mare, inghirlandando sobborghi e forti; e una possente vegetazione sparsa si rizza e ribocca da ogni parte, impennacchia le cime, serpeggia fra i tetti e si curva sulle sponde. A destra, Galata con dinanzi una selva di antenne e di bandiere; sopra Galata, Pera che disegna sul cielo i possenti contorni dei suoi palazzi europei; dinanzi, un ponte che unisce le due rive, corso da due opposte folle variopinte; a sinistra, Stambul, distesa sulle sue larghe colline, ognuna delle quali sorregge una moschea gigantesca dalla cupola di piombo e dalle guglie d’oro: Santa Sofia, bianca e rosata; Sultano Ahmed, fiancheggiata da sei minareti; Solimano il Grande, coronata di dieci cupole; Sultana Validè, che si specchia nelle acque; sulla quarta collina, la moschea di Maometto II; sulla quinta, la moschea di Selim; sulla sesta, il serraglio di Tekyr; e al disopra di tutte le altezze, la torre bianca del Seraschiere che domina le rive dei due continenti dai Dardanelli al mar Nero. Di là dalla sesta collina di Stambul e di là da Galata non si vedono più che profili vaghi, punte di città e di sobborghi, scorci di porti, di flotte e di boschi, quasi svaniti in una atmosfera azzurrina, che non paiono più cose reali, ma inganni dell’aria e della luce. Come afferrare i particolari di questo quadro prodigioso? Lo sguardo si fissa per qualche momento sulle rive vicine, sopra una casetta turca o sopra un minareto dorato; ma subito si rilancia in quella profondità luminosa e spazia a caso fra quelle due fughe di città fantastiche, seguito a stento dalla mente sbalordita. Una maestà infinitamente serena è diffusa su tutta quella bellezza: un non so che di giovanile e d’amoroso, che risveglia mille rimembranze di racconti di fate e di sogni primaverili; un che d’aereo, d’arcano e di grande, che rapisce la fantasia fuori del vero. Il cielo, sfumato a finissime tinte opaline ed argentee, contorna con una nettezza meravigliosa tutte le cose; il mare, color di zaffiro, tutto picchiettato di gavitelli porporini, fa tremolare i lunghi riflessi bianchi dei minareti; le cupole scintillano; tutta quella immensa vegetazione s’agita e freme all’aria della mattina; nuvoli di colombi svolazzano intorno alle moschee; migliaia di caicchi dipinti e dorati guizzano sulle acque; il venticello del Mar Nero porta i profumi di dieci miglia di giardini; e quando inebriati da questo paradiso, e già dimentichi d’ogni altra cosa, ci si volta indietro, si vede con un sentimento nuovo di meraviglia la riva dell’Asia che chiude il panorama colla bellezza pomposa di Scutari e colle cime nevose dell’Olimpo di Bitinia; il mar di Marmara sparso d’isolette e biancheggiante di vele; e il Bosforo coperto di navi, che serpeggia fra due file interminabili di chioschi, di palazzi e di ville, e si perde misteriosamente in mezzo alle più ridenti colline dell’Oriente. Ah sì! Questo è il più bello spettacolo della terra; chi lo nega è ingrato a Dio e ingiuria la creazione; una più grande bellezza soverchierebbe i sensi dell’uomo!
Passata la prima emozione, guardai i viaggiatori: tutte le facce erano mutate. Le due signore ateniesi avevano gli occhi inumiditi; la signora russa, nel momento solenne, s’era stretta sul cuore la piccola Olga; persino il freddo prete inglese faceva sentire per la prima volta la sua voce, esclamando di tratto in tratto: – wonderful! wonderful! – (stupendo stupendo!).
Il bastimento s’era fermato poco lontano dal ponte; in pochi minuti vi si radunò intorno un visibilio di barchette e irruppe sopra coperta una folla di facchini turchi, greci, armeni ed ebrei, che bestemmiando un italiano dell’altro mondo, s’impadronirono delle nostre robe e delle nostre persone.
Dopo un tentativo inutile di resistenza, diedi un abbraccio al capitano, un bacio a Olga, un addio a tutti e scesi col mio amico in un caicco a quattro remi, che ci condusse alla dogana, di dove ci arrampicammo per un labirinto di stradicciuole fino all’albergo di Bisanzio, sulla sommità della collina di Pera.


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