La storia prende l’avvio quando, una dopo l’altra, cinque
bizzoche si presentano ai giudici del Santo Tribunale
dell’Inquisizione per denunciare Pellegrina Vitello come
magara, ovvero come strega. La Corte è presieduta da
Monsignor Bartholomeo Sebastiàn, Vescovo di Patti, che dal 1546
al 1555
ha ricoperto la carica d’Inquisitore Generale di Sicilia. Svolge
la sua “santissima missione contro gli eretici come censore
del Regno”. E’ stato inviato nell’Isola direttamente
dall’Imperatore Carlo V, non solo per contribuire a fortificare
la fede cattolica, ma anche per imporre le regole del Governo
Spagnolo.
Pellegrina si trova alla presenza dell’Inquisitore. Racconta
le sfortunate vicende che l’hanno portata a Messina a causa di
un rovescio fortuna del marito setaiolo, il quale una volta
giunto in città l’abbandona per un'altra donna. Gli inquirenti
sostengono di avere informazioni su fatti che Pellegrina non ha
confessato. Dicono che in diverse occasioni ha operato molte
fatture ed invocato i demoni. Pellegrina nega, ma in effetti le
testimonianze più compromettenti l’accusano di aver fornito un
pane magico per evitare che un martoriato potesse confessare, di
essere capace di cadere in trance nel guardare una caraffa piena
d’acqua, nella quale galleggiano strane cose nere che paiono
demoni.
Le viene fatta la prima di tre ammonizioni, poi è condotta in
carcere. Anche un apprendista setaiolo che ha lavorato nella bottega
di Nardo Vitello, marito di Pellegrina, per un segreto desiderio
sessuale insoddisfatto denuncia Pellegrina. Racconta come la
magara prepari sortilegi. La produzione della seta coinvolge in effetti interi strati
di popolazione, indaffarata a coltivare la materia prima, poi a
filarla, a tesserla, ed in ultimo a tingerla e ricamarla.
Per proteggerne il ciclo lavorativo fino alla sua conclusione
si usano nel contempo pratiche religiose ed accorgimenti legati
alla superstizione. Perciò, anche in questo caso maghi e magare sono integrati nell’ambiente della
comunità, per fare o disfare sortilegi.
Dopo quattordici giorni di cella, Pellegrina si decide a
confessare. Fa il nome della sua complice, una greca di nome
Catharina, che confeziona gli amuleti per nasconderli nelle
case. Pellegrina informata li trova. Le due donne si spartiscono
il compenso. Ma da tempo il sodalizio è stato interrotto.
Pellegrina parla anche di un venditore di ceste che insiste
perché guardi dentro uno strano disegno che chiama “gruppo di
Salomone”. I giudici non sono soddisfatti e intimano a
pellegrina la seconda ammonizione ed è
condotta di nuovo in carcere.
In effetti, analizzando il testo processuale è possibile
dimostrare che a partire dall’anno 1549 l’attività di magara si
rafforza, lasciando i piccoli espedienti che interessano poco o
nulla l’Inquisitore, per concentrarsi sulla divinazione in
estasi. Per dimostrare ciò, Don Sebastiàn procede ad un
confronto fra Pellegrina e due venditori di ceste, suoi clienti,
i quali affermano che la magara, anche in questa occasione, ha
saputo indicare chi avesse rubato un prezioso anello e dove lo
avesse nascosto.
Le sequenza delle testimonianze - ben undici, contro la
media di sei dei processi inquisitoriali - finalmente si
conclude. Per ultimo si riporta lo stralcio tratto da un altro
processo, intentato contro una donna, che, da altro documento
ritrovato, sappiamo che sarà anche lei condannata per
stregoneria nello stesso atto di fede del 12 maggio 1555.
Cosa vuole dimostrare Don Sebastiàn, per condannare
Pellegrina? I segni che sa decifrare in uno specchio o in una
caraffa non possono essere di origine divina, ma unicamente
opera del demonio. All’accusata viene ingiunto, per la terza ed
ultima volta, di confessare tutta la verità: se si dimostra
assennata, si userà con lei misericordia, altrimenti si farà
giustizia. Pellegrina ammette i reati meno gravi e nega tutto il
resto, per non essere compromessa. A sorpresa Pellegrina sceglie
di rimettersi al volere della Corte, pur di ottenere
misericordia. La corte, al contrario, decide di sottoporre
l’imputata alla tortura della corda. Per tre volte nell’arco di
mezz’ora, viene lasciata cadere violentemente. Pellegrina geme,
prega, ma non confessa.
L’udienza è terminata e la Corte emette la sentenza finale.
Nel
solenne autodafè celebrato il 12 maggio 1555 nella piazza grande
della Cattedrale di Messina vediamo sfilare una trentina di
penitenti. Si emette la condanna al rogo di un luterano, già
riconciliato, ma recidivo. Si seguono le sorti di undici
streghe, di un nutrito gruppo di bigami e bestemmiatori.
Assistiamo al pronunciamento pubblico della sentenza contro
Pellegrina.
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