Teresa Lazzaro – Ravensbrück, breve viaggio nella memoria 2/2

Appunti di Teresa Lazzaro

L’ideologia della razza spingeva le SS a trattare le donne secondo una scala gerarchica, così le tedesche erano trattate meglio delle scandinave e delle polacche. Anche chi aveva il triangolo nero, da asociale, o il triangolo verde da criminale era trattata meglio di altre. Pertanto, le deportate mal sopportavano chi aveva “potere” come le kapò, in genere asociali e criminali che facevano abusi di potere, che torturavano, che decidevano chi andava punita, che potevano avere qualcosa in più da mangiare e che potevano favorire alcune internate solo per simpatia.  Tale odio per le kapò è espresso nei disegni in cui appaiono come figure grottesche ma anche ironiche nei confronti delle altre. Erano vestite meglio perché rubavano o perché si procuravano dei capi in modo illecito. Nei processi dopo la guerra due delle kapò di Ravensbrück subirono la condanna a morte per aver collaborato con le SS mandando gente nella camera a gas.

Legami di tipo religioso o politico furono meno importanti della solidarietà e del patriottismo sebbene nella sua vasta testimonianza Corrie Ten Boom affermasse di essere cristiana prima ed olandese dopo. Nanda Herbermann vedeva se stessa prima cattolica e poi tedesca e condannava i suoi compatrioti per il comportamento immorale. Le comuniste erano tra loro molto legate prima per l’ideologia e poi per orgoglio nazionale. Questo variava a seconda dei gruppi e insieme alla posizione sociale è stato determinante per la loro sopravvivenza.

Memoriali e poesie sul campo di Ravensbrück confermano l’esistenza di pregiudizi. Zingare ed Ucraine era anche target di discriminazione. Considerate infantili ed ignoranti venivano emarginate perché avevano portato i pidocchi e se veniva a mancare qualcosa erano loro ad essere accusate di fare ciò che altre non avrebbero osato fare, anche rubare un arto artificiale!

Peggiori le considerazioni per le ucraine considerate maligne e pronte a prendersi quel poco che altre le deportate avevano. Un altro gruppo indesiderato era quello delle prostitute, considerate delinquenti e crudeli. Soggette a devianza, perverse erano accusate di essere lesbiche. Interessate solo a rapporti intimi le polacche si baciavano sulla bocca e mettevano a disagio le francesi. Molte ebbero rapporti da lesbiche come l’unico modo per superare la solitudine ed evitare isterismi ma erano spesso accusate di furti e di terrorizzare le altre. È difficile trovare qualche testimonianza che non le stigmatizzi.

C’era nel campo anche il sottobosco culturale e le Jules erano coloro che fisicamente assomigliavano a uomini. Pertanto, come tali vestivano. Venivano scelte come kapò ed in una delle poesie Charlotte Delbo descrive i loro rapporti intimi come quelli di coppie legalmente sposate mentre le altre sono stanche morte in quella specie di strapuntini. Le Jules godevano di protezione e vivevano meglio grazie a compiti di lavoro più leggeri, razioni di cibo più grandi e qualche vestito in più.

Spesso costrette in tre in un “letto” il freddo le costringeva a tare strette strette per scaldarsi e la cosa a volte sfociava in qualche relazione illecita. A volte erano amicizie solidali a sfociare nell’intimità. L’affetto le rendeva umane ed era l’unico modo per sentirsi tali e quindi per sopravvivere. Era importante cercare di creare dei legami, lontano dalla propria famiglia, per sopportare le sofferenze e poter dipendere le une dalle altre dava loro molta forza. È chiaro dunque che chi era isolata soffriva di più. L’amicizia tra due o più donne era più forte di quella che poteva esistere tra gli uomini. Lo stesso Wiesel abbandonò il proprio padre. Gli uomini potevano essere accusati di omosessualità e per questo motivo non creavano legami tra loro. Le donne al contrario per questo tipo di rapporti ebbero una chance di sopravvivenza maggiore.

Chi non aveva legami era esclusa dalla vita del campo, come fu il caso di Helen Ernst, un’artista che a Ravensbrück venne accusata di essere arrogante nei confronti delle altre. Lei si isolò dagli altri vivendo nel proprio mondo senza dar peso a quanto potevano pensare gli altri di lei. Disegnare fu per lei una medicina, un modo per guarire dall’abisso in cui era sprofondata nel campo. Disegnare era un lottare ma nel suo caso la sua riservatezza fu presa per arroganza mentre nei suoi disegni lei mette in evidenza la mutua assistenza e teneri atteggiamenti che permettevano alle donne di confortarsi tra loro.

Tra le artiste deportate a Ravensbrück merita di essere ricordata Aat Breuer, i cui disegni sono arrivati fino a noi. Artista di grande talento catturò l’anima e le emozioni delle cose in quei tanti ritratti di bambini: unico ricordo rimasto alle madri che persero i figli. Chiederle di fare ritratti di defunti serviva ad onorare la persona per la quale non c’era funerale. Anche se nel campo di concentramento si moriva per le dure condizioni di vita nei suoi disegni l’artista ritrasse le persone avvolte nella pace e nella bellezza.

Nelle poesie gli uomini raccontavano le brutture del campo mentre le donne il loro desiderio della casa o della famiglia. Poesie e disegni erano doni gli uni per le altre, a volte, erano preferiti anche a un tozzo di pane. Lo scambio di doni era il pretesto per un sorriso, un modo per sentire la propria umanità. Ammirevole che trovassero la forza di farlo. Spesso infatti per una matita rinunciavano a quel poco cibo. Le donne nascondevano poesie e disegni nei loro stracci o nei muri delle baracche, ben sapendo che se gli trovassero indosso qualcosa significava morire. Le donne non solo scrissero testi di poesia propri ma fecero raccolte dei propri tesori culturali, di poesie, canzoni, favole, ricette. Quanto è arrivato fino a noi rivela anche il senso dell’umorismo in mezzo all’indescrivibile orrore. Un biglietto dato ad una donna che era stata vittima di esperimenti medici aveva l’immagine di un coniglio. Nel 1944 per Natale Aat Breur fece un biglietto in cui Babbo Natale schiacciava il campo portando morte: significativo del fatto che per le donne non c’era nessuna festa di Natale. Per quanto riguarda il campo di concentramento delle donne, scritti e disegni, furono fatti durante gli anni di internamento e dopo la guerra. Sono una finestra aperta su quel posto. Le donne rubavano materiali mentre lavoravano in fabbrica per scrivere o per disegnare o per cucire. Le poesie le imparavano a memoria e le recitavano durante il lungo appello. Era un modo per lottare, proprio perché proibito. In un ambiente in cui avevi solo quanto indossavi, io disegno, la poesia, il dono erano quell’IO che nel campo non potevano essere. Una piccola cosa importante per non farle sentire solo il numero tatuato. Una piccola cosa per tenere la donna legata alla vita. Una piccola cosa che rappresentava il coraggio, l’ingenuità, la voglia di vivere. Una piccola cosa che rappresentava il futuro da vivere fuori dal campo.

IMMAGINE DI APERTURA: Monumento alle vittime dell’Olocausto a Minsk – Foto di Lynn Greyling da Pixabay 

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