

Il dialogo tra Gigi Guadagnucci e Gio’ Pomodoro
di Rossella Farinotti, Presidente dell’Archivio Gio’ Pomodoro
Il dialogo tra Gigi Guadagnucci e Gio’ Pomodoro è un’azione che, prima o poi, storicamente e formalmente doveva essere affrontata. L’urgenza di porre in relazione due colleghi – i virtuosi del marmo – di due generazioni diverse, ma che, per territorialità e, appunto, similitudini nell’approccio poetico, analitico e di relazione con lo spazio nei confronti della scultura, era tangibile. L’Archivio Pomodoro è lieto di questa collaborazione: il confronto tra Guadagnucci e Pomodoro risulta delicato e poderoso allo stesso tempo; equilibrato per quelle direzioni orizzontali e rigorose di Gio’ in contrappunto con le linee verticali e più romantiche di Guadagnucci. I vuoti e i pieni si rincorrono creando ombre che suggeriscono narrazioni galoppanti in questo spazio che mette mostra un pezzo di storia dell’arte.
Il confronto con due scultori di fama internazionale
di Bruto Pomodoro, figlio di Gio’ Pomodoro e vicepresidente dell’Archivio Gio’ Pomodoro
Il confronto con due scultori di fama internazionale che, dalle avanguardie fino alle più innovative correnti del dopoguerra, hanno operato sul territorio apuano utilizzando marmo e bronzo come media della propria poetica, offrono un importante spunto culturale per dimostrare alle generazioni future quanto fecondo fu quel periodo storico per l’arte contemporanea italiana, all’insegna della tradizione del nuovo.
Sia pur con due approcci e prospettive di ricerca differenti le tematiche legate al mondo della fenomenologia naturale convergono tanto per Gio’ Pomodoro quanto per Gigi Guadagnucci, in un percorso espositivo di largo respiro nei bellissimi spazi della Villa Comunale La Rinchiostra.
“GIGI GUADAGNUCCI GIO’ POMODORO CONVERSAZIONE SULLA NATURA” 21 giugno – 21 agosto 2025 Museo Gigi Guadagnucci, Villa Rinchiostra Via dell’Acqua, 175 – Massa |

Il Novecento di Gigi Guadagnucci e Gio’ Pomodoro: ricerche a confronto nel secolo della scultura che ripensò sé stessa
di Paolo Bolpagni
La vitalità della scultura italiana della seconda metà del XX secolo è testimoniata in maniera straordinaria dalla produzione di due artisti diversi ma paragonabili per l’originalità degli esiti, per la profonda conoscenza dei materiali e per la densità di contenuti delle loro opere: il massese Gigi Guadagnucci (1915-2013) e il pesarese – poi milanese d’adozione e a lungo attivo in area apuana – Gio’ Pomodoro (1930-2002). La natura, la luce, il cosmo sono elementi cruciali nella riflessione e nella pratica di entrambi; ovviamente con declinazioni differenti, ma con un comune slancio vitalistico. Il primo, inesausto sperimentatore, è noto per le sue sculture in bilico tra figuratività, stilizzazione e aniconismo, spesso caratterizzate da una forte espressività, da una vera e propria carica emotiva, oltre che da una ricerca costante sulla forma e sulla materia. Per Gio’ Pomodoro, invece, quella dell’astrattismo, pur con eccezioni significative (penso agli essenziali e “architettonici” Alberi eseguiti a partire dalla metà degli anni Settanta), fu un’esplicita scelta di campo: usando il bronzo, il ferro, il marmo e la pietra, diede vita a lavori tridimensionali (cui si affiancano i dipinti e i disegni, senza dimenticare il contributo non irrilevante nell’àmbito della scenografia) segnati da un’indagine per così dire filosofico-speculativa sullo spazio, in cui la geometria riveste un ruolo importante. Tra le sue serie più rappresentative spicca il ciclo dedicato al Sole: caduto, deposto, produttore… Come lui stesso scrisse nel 1985 nel Prontuarietto per la scultura, si tratta di «figure araldiche e simboliche», fondate talvolta sulla numerologia e impostate secondo canoni di simmetria e di opposizione dei contrari, con una costruzione a spirale. Tecnicamente, gli elementi sono ricavati da tamburi cilindrici, a spessore variabile ma sempre proporzionale al raggio; da essi scaturiscono andamenti rotatori delle parti periferiche rispetto al centro. Emerge così la nozione di “torsione”, che è centrale per Gio’ Pomodoro, tanto da essere il principio-cardine di non poche opere, in quanto emblema di una tensione che sprigiona forza e movimento. Il Sole, poi, nel suo lavoro è considerato attraverso la lente interpretativa di una trasfigurazione astratto-simbolica, cosicché i fattori-base dei volumi e delle linee vanno a incastrarsi e compenetrarsi tra di loro per suggerire l’idea dell’armonia del cosmo, all’interno del quale il nostro astro ha una funzione essenziale, come perno del sistema di pianeti ove si trova la Terra. Implicitamente è anche, forse, un invito a perseguire un modello di equilibrata consonanza con la realtà fenomenica in cui siamo calati, a livello sia micro- sia macroscopico.
Non bisogna ignorare, peraltro, l’intero arco del percorso di ricerca compiuto da Gio’ Pomodoro, dalle prime esperienze segnico-materiche nel campo dell’oreficeria alla sperimentazione delle superfici in tensione (si pensi, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, alle serie delle Tracce, dei Contatti e delle Matrici); esplorando le potenzialità della forma e della materia, egli arrivò in seguito a trasporre nel bronzo – e poi nella pietra – le proprie intuizioni, orientandosi sempre di più in direzione di uno spazio costruito e misurabile, spesso dinamico e in espansione: la straordinaria Folla, del 1962, è un’opera già matura e originale, in grado di concretare in un flusso corrugato, che è la conciliazione di un’antitesi fisica e concettuale, il continuum tra “pieno” e “vuoto”.
L’itinerario artistico di Gigi Guadagnucci prende le mosse sulle orme della tradizione familiare: se i fratelli Pomodoro partirono come orafi, lui invece cominciò, quand’era ancora poco più di un bambino, lavorando il marmo e, passando di laboratorio in laboratorio (da Ciberti a Soldani), apprendendo i canoni della scultura funeraria all’epoca in voga. Più vecchio di quindici anni rispetto a Gio’, che ai tempi della Liberazione sarà soltanto un adolescente, dovette presto fare i conti con la cappa opprimente della dittatura fascista, e nel 1936 decise di lasciare l’Italia e di raggiungere in Francia i fratelli, che gestivano una marbrerie nella cittadina savoiarda di Annemasse, da dove poi si spostò rapidamente a Grenoble, trovandovi nell’artista Émile Gilioli un punto di riferimento. Dopo l’attiva partecipazione alla Resistenza transalpina, rientrò in Italia, ma infine scelse Parigi come propria dimora, e vi rimase, in maniera pressoché stabile, per circa un ventennio. Considerare tali aspetti biografici è essenziale per comprendere in quale humus sia germogliato il linguaggio plastico di Guadagnucci, che, a contatto con il geniale Beniamino Joppolo, con Zoran Mušič, Nardo Dunchi, Remo Bianco, Jean Tinguely, e osservando da vicino le opere di Alberto Giacometti e Ossip Zadkine e dei più giovani César e François Stahly, passò da una scultura sostanzialmente informale, dal ritmo per così dire geologico, a un tipo di lavorazione del marmo quasi paradossale nella sua ricerca di leggerezza e trasparenza, con il virtuosistico effetto di un “levare” che sa ottenere il risultato vertiginoso di lamine sottili che sembrano fasci di luce, stratificazioni lamellari di stupefacente levità, ottenute grazie a una tecnica trascendentale e a una conoscenza profondissima del medium. Come scrisse Pier Carlo Santini – autore nel 1990 dell’importante monografia Guadagnucci per le edizioni Grafis di Bologna – a proposito di un’opera del ciclo delle Meteore, «le sue sculture sono […] inscindibili dalla materia in cui si incarnano, il marmo bianco; né sono immaginabili altrimenti realizzate. Non solo, ma sistematicamente del marmo sfruttano alcune delle più intrinseche proprietà, contraddicendo la comune credenza che marmo voglia dire massa, volume, pesantezza, solidità, durezza. Le lamelle, che costituiscono il Leitmotiv della sua scultura, possono talora anche aprirsi nello spazio, ma finiscono sempre per convergere a un punto, o per ruotare intorno a un asse ideale, o per raccogliersi in sequenze stringenti e serrate».
Guadagnucci, aggiungo, riesce a unire il penetrante ragionamento formale e la padronanza del materiale con un’esuberanza legata al mondo naturale, sia animale sia vegetale (alludo alle serie delle Libellule, delle Foglie, dei Fiori), e talvolta addirittura con la carnalità dell’evocazione delle voluttuose curve del corpo femminile. A ben discernere, tanto lui quanto Gio’ Pomodoro, pur nella diversità delle scelte, vogliono restar legati alla natura. E torna alla mente il Manifesto del Realismo pubblicato nell’agosto del 1920 dai fratelli Naum Gabo e Anton Pevsner, là dove si affermava che «nessun nuovo sistema artistico potrà affermar<si> […] finché le fondamenta stesse dell’arte non saranno costruite sulle vere leggi della vita», argomentando che «spazio e tempo sono le uniche forme su cui la vita è costruita», e che «su ciò deve quindi essere edificata l’arte»; per concludere proclamando la rinuncia «alla scultura in quanto massa» in favore della trasparenza, del movimento, del superamento della tradizionale staticità e volumetria. Fu una vera e propria rivoluzione copernicana, uno scardinamento di statuti secolari e inveterati, con il quale, da lì in poi, è stato necessario fare i conti nel corso del secolo intero, con l’apertura a molteplici possibilità non solamente aniconiche, ma atte a suggerire all’occhio del percipiente un’impressione di moto, di cinetismo: modulazioni di superfici concavo-convesse, intersezioni e torsioni di piani, articolazioni spaziali imperniate sulla dinamica del vuoto, ritmi di linee sinuose e ondulate, di vettori direzionali etc.
In effetti tutte le arti, durante il Novecento, hanno conosciuto una crisi della loro specificità linguistica e disciplinare, ma è la scultura, credo, ad aver attraversato le maggiori criticità e i più radicali rivolgimenti, tanto che essa, rimarcò Rosalind Krauss nel celebre libro del 1977 Passages (ma ormai, sul tema, consiglio la lettura del più recente Contemporary Sculpture, curato da Jon Wood e Julia Kelly per l’editore Hatje Cantz nel 2020), è andata sviluppando, in prevalenza a partire dagli anni Sessanta, configurazioni malagevolmente assimilabili alle «idee precostituite delle operazioni proprie delle arti plastiche», sicché è diventato sempre più problematico stabilire, al di là di un’ovvia e scontata distinzione tra lavori bi- e tridimensionali, che cosa possa con legittimità esserle ascritto (a meno che non si voglia ricorrere alla famosa spiritosaggine – tipicamente yankee nella sua esibita superficialità – di Arthur Bloch, l’autore della Legge di Murphy, secondo cui «la scultura è ciò contro cui si va a sbattere in un museo quando si indietreggia per guardare un quadro da più distante»).

Gio’ Pomodoro, quindi, con i Soli, esempio perfetto di una peculiare modalità di ripensamento del medium, aspirava a denotare in forme simboliche e geometriche la nostra fonte di energia e vita, evocando nel marmo e nel bronzo, materiali purtuttavia “classici”, scelti perché durevoli, un senso di dinamicità e di vigore vitalistico, con l’obiettivo non di “rappresentare”, ma di costruire, per usare le sue stesse parole, sistemi concentrati e coesi «atti a misurare il valore temporale» del «moto apparente» del Sole nella volta celeste. Oppure, nelle Torsioni, esprimeva un’idea di opera scultorea come compresenza di tensioni, individuando la superficie quale oggetto d’intervento, intervenendo su di essa per trarne uno sviluppo plastico mediante rientranze, sporgenze e flessioni della materia, che conferiscono al piano uno spessore consistente, arrivando quasi a renderlo un corpo elastico. Ciò senza mai “imitare” la natura, ma cercando di carpirne le intime leggi che la regolano, provando a riprodurne non le apparenze, bensì i meccanismi di “crescita” o, meglio, di periodiche espansione e contrazione.
Guadagnucci, dal canto suo, rispose alla domanda sul significato e le prospettive della scultura nell’epoca contemporanea rivendicando l’importanza del mestiere (l’aveva chiaramente notato Mario De Micheli) e del contatto con il mondo organico, in un delicato equilibrio tra astrazione e figurazione, con la stilizzazione delle Libellule e delle Rondini e le forme floride e sensuali dei soggetti vegetali, paradigma della libertà e della grazia della natura. Eleggendo il marmo – materiale che Arturo Martini aveva definito «aulico e sacerdotale» per eccellenza – a medium privilegiato, benché non esclusivo, egli seppe comunque rifuggire dalla tentazione dell’«eterna ripetizione della statua», infondendo nelle proprie opere plastiche il trasalimento emotivo e l’intima vibrazione. Per nulla irrigiditi dal ricorso al solenne bianco di Carrara, i suoi sono lavori animati da un’autentica presenza vitale, da un alito pulsante. I rapporti proporzionali e gli esiti ritmici e talora persino contrappuntistici che Guadagnucci ottiene costituiscono un’ulteriore estrinsecazione della fede nella razionalità, oltre che nella poesia, del reale. Alla base stava la volontà, anche per lui, d’impadronirsi dell’idioma stesso della Creazione, di acquisirne gli arcani processi: non si trattava di mimesi di un êidos già dato (nella natura o nell’arte), quanto, invece, dell’espressione sensibile del percorso evolutivo della sua formazione, còlta nell’istante infinitamente dilatato di un divenire che diventa essere: si ponga attenzione, da una simile angolazione della nostra visuale, a sculture come Germination. Quello di Guadagnucci è insomma un marmo leggero, che comunica l’effetto oscillante di un rapidissimo battito d’ali, dello schiudersi di un seme, di un fiore e di una foglia che fuoriescono da un bocciolo, da una gemma: il materiale pesante per antonomasia che riesce a manifestare con elegante sprezzatura la fragilità, il palpito vitale, il mistero del nascere e dell’esistere.
Una “conversazione”, dunque, non estrinseca, giacché il riflettere sulla natura, a ben considerare, è il cuore dell’arte di Gio’ Pomodoro e di Gigi Guadagnucci, che, nel secolo della scultura che ha dovuto (e voluto) ripensare sé stessa, offrirono soluzioni differenti ma paragonabili, e accomunate da alcuni fattori fondamentali. Ed è bello concludere, per una mostra che s’inaugura nel giorno del solstizio d’estate, osservando che entrambi meditarono sul Sole, l’uno ravvisandovi il fulcro simbolico dell’armonia del cosmo, del movimento della volta celeste e della compenetrazione degli elementi, il secondo omaggiando l’eretico e sfortunato faraone egizio della XVIII dinastia Akhenaton, che tentò invano di portare il proprio popolo all’abbandono dei culti politeistici e oltretombali e all’adorazione di un dio unico, identificato con il disco solare, forza creatrice dell’universo e animatore di tutti gli esseri.
Un dialogo inedito tra Gigi Guadagnucci e Gio’ Pomodoro,
uno fra i più emblematici scultori del Novecento
di Mirco Taddeucci, Curatore della mostra
In occasione dei 110 anni dalla nascita di Gigi Guadagnucci (Massa, 1915 – 2013) e dei 10 anni dall’apertura del Museo a lui dedicato, la mostra propone un dialogo inedito tra l’artista ed uno fra i più emblematici scultori del Novecento, Gio’ Pomodoro (Orciano di Pesaro, 1930 – Milano, 2002). Durante il lungo percorso dei due artisti, entrambi contemporaneamente ai piedi delle Apuane per un periodo rilevante della loro carriera, ricorre, pur con esiti diversi, un profondo rapporto con la natura che la mostra si propone di indagare. Le forme sensuali e floride dei soggetti vegetali di Guadagnucci restituiscono, oltre la rappresentazione, la volontà di indagare l’articolazione ed i rapporti delle forme naturali nello spazio con esiti ritmici che lo spingono all’astrazione. La luce e gli equilibri sottili e lamellari dei marmi testimoniano l’aspirazione a sfuggire alla gravità, che raggiunge risultati di assoluta leggerezza nei “passaggi di meteora”. Le anticipazioni di Pomodoro, con il passaggio dall’iniziale organizzazione dei segni organico-vegetale alle “superfici in tensione”, individueranno il fenomeno fisico della natura nel suo continuo fluire. Nella lunga evoluzione della sua produzione, il periodo versiliese, attraverso la pietra, vedrà “il valore della tensione trasformarsi in torsione”. Qui la figura espressione di un sistema regolatore sarà il Sole.
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