La millenaria storia delle Isole Eolie

 

I primi insediamenti sulle isole vengono fatti risalire al 4.000 a. C. in epoca neolitica. Gli eoliani del tempo, trovandosi su un arcipelago di origina vulcanica, fecero del materiale più comune, l’ossidiana, la loro fortuna, esportandolo ovunque, dalla vicina Sicilia all’Italia meridionale, ma anche verso la Liguria, la Provenza e, addirittura, la Dalmazia. L’ossidiana all’epoca era il materiale più usato per ottenere schegge durissime e taglienti e quindi ricercatissima e preziosa. Gli eoliani, grazie a cotanta fortuna divennero uno dei più grandi insediamenti del Mediterraneo. Partita da Lipari, la popolazione, nel 3.000 a. C., si diffuse su tutte le altre isole consorelle. La vicinanza con lo Stretto di Messina portò le Eolie ad essere, tra il XVI e il XIV secolo a.C., sulla rotta del commercio dei metalli, come ad esempio dello stagno, che collegava la Britannia al Mediterraneo orientale. Si forma nelle isole la cosiddetta “cultura eoliana” caratterizzata più dal commercio che dall’agricoltura. Di tale cultura fanno parte i ritrovamenti archeologici di capanne circolari con pareti di pietre a secco e una produzione locale di ceramiche.

Nel 580 a.C. queste terre furono colonizzate dai greci che le chiamarono Eolie – secondo una delle varie tradizioni – dal nome del dio greco Eolo, dio dei venti. Nel 260 a. C. nel corso delle guerre puniche, l’arcipelago fu teatro dello scontro navale tra Roma e Cartagine, vinto dai romani. Perciò, come tutta la Sicilia, anche le isole divennero colonia romana. In tale periodo crebbero d’importanza, divenendo centro di produzione e commercio dello zolfo, dell’allume e del sale.
Nel 1544, durante la guerra tra Spagna e Francia, il sultano ottomano Solimano il Magnifico, alleato del re francese Francesco I, inviò una flotta comandata da Khayr al-Din Barbarossa che occupò le Eolie per farne un punto d’appoggio per la conquista di Napoli. Decimò e deportò ampiamente, con grande crudeltà, le popolazioni locali. Negli ultimi secoli le isole sono state ripopolate. Durante il governo borbonico ripresero ad esportare allume e zolfo. Oggi sono al centro di un turismo in forte ascesa dovuto alle loro esclusive caratteristiche naturalistiche.

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A che serviva una torre? 1/2

 

Cosa sia una torre lo sappiamo tutti. È un edificio sviluppato verso l’alto, con una base molto stretta rispetto all’altezza. Se militarmente la loro funzione è chiara (cioè controllare un territorio più vasto) civilmente la loro funzione è certamente fonte di dubbio. Sono state utilizzate come campanili, minareti, ma anche come torri dell’orologio o torri del vento. Tuttavia, quale sia la reale funzione, ad esempio, della Torre degli Asinelli a Bologna, rimane ancora enigmatica.

Storicamente erano già utilizzate al tempo dei romani, per l’avvistamento dei nemici, posizionate lungo mura difensive. Nel medioevo l’esigenza di proteggersi dai nemici crebbe. Avevano scopo difensivo anche le case gentilizie: erano a torre, ad esempio, le case dei guelfi e ghibellini, in contesa fra di loro, e quelle di tutte le altre famiglie che lottavano per il controllo del potere cittadino. La casa-torre era in sostanza un piccolo castello sviluppato in elevazione. Questo castello possedeva delle grosse mura nella parte basamentale, con piccole finestre a forma di feritoie (a volte munite di inferriate). Spesso si accedeva ai piani superiori tramite botole con scale a pioli rimovibili.

Nel corso del tempo esse mutarono conformazione. Le torri medievali a base tonda sono le più antiche e si ispiravano a quelle d’epoca romana, poste lungo le mura di cinta. Staticamente erano le più resistenti, anche se le più difficili da costruire, avendo le pietre una precisa angolatura. I conci tendevano ad essere meno spessi all’interno man mano che si saliva verso l’alto. In periodo romanico appaiono torri a base quadrata (o rettangolare), ma in epoca federiciana anche a base poligonale, come nel Castel del Monte, in Puglia, dove vi sono otto torri (a base ottagonale) poste ai vertici di un ottagono.

Abbiamo torri con scale in muratura in alcune cattedrali del nord Europa, dove è possibile trovare anche una doppia torre scalare, che aveva la funzione di raggiungere il matroneo, collocato ad un piano più superiore.

Nelle torri di guardia, essendo lo spazio interno molto limitato, scomodissimo per i soldati che trascorrevano lunghi periodi in cima alla torre, si pensò di aumentare la superfice ponendo all’ultimo piano ballatoi in legno. Tali opere, col tempo, divennero una “decorazione” della torre, anche per la presenza di smerlature e caditoie, vere o finte che fossero.

 

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Il Cinema racconta… nel Museo del Novecento

 

Messina è una città malata? Geri Villaroel usa una metafora calzante. Se sei un giovane e t’infortuni ad una gamba presto camminerai di nuovo, ma se sei un vecchio sarà problematico riprendersi. Evidenzia l’On. Giovanni Ardizzone: terremoto e guerra erano cause esterne, per questo la città ha riconquistato l’impulso vitale, oggi invece la sua crisi è interna alle coscienze. L’orgoglio civico che spingeva a rimboccarsi le maniche lo avverti nella quotidianità di quegli anni. Negli spezzoni di pellicola che Egidio Bernava ha rimontato vedi sul viale S. Martino, fra due quinte di casette in legno, carrozze e persone a passeggio, donne in lutto e famigliole eleganti. La pescheria, l’approdo dei traghetti, le navi agli ormeggi, tutto parla della vita che ricomincia. Anche gli spettacoli. Egidio propone un album di sale cinematografiche: dal Peloro in Piazza Don Fano, col prospetto ligneo di gusto liberty, fino all’Olimpia fondato dal padre Salvatore nel 1955. Lo fa con un piacere affabulatorio suggestivo: il giovane al mio fianco è calamitato dalle sue parole. Pensare alla nostalgia non coglierebbe lo spirito autentico di questa serata introduttiva della rassegna “Il Cinema racconta il Novecento”. La Messina del Teatro dei Dodicimila in piazza Municipio o della Rassegna cinematografica all’Irrera a mare – città moderna, colta, artefice d’iniziative culturali ed economiche – era guarita dai suoi trascorsi. Oggi al Museo del Novecento, sorto non a caso nell’ex rifugio aereo Cappellini, non c’è rimpianto. Bensì perseveranza fattiva. Qui si rievocano immagini e storie del secolo scorso: decisi a recuperare le radici del passato, per fare mettere frutti all’albero di un rinnovato buonsenso condiviso.

Pubblicato su Centonove-Press n. 39 – 20 ottobre 2016 2016

Fonte fotografia: Wikimedia. Lo scomparso cinema Trinacria a Messina

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Lungo i giardini del Palais-Royal 1/3

 

Esattamente di fronte all’ala Nord del Louvre, si aprono i cancelli dell’ampia piazza del Palais-Royal, che ospita oggi il Consiglio di Stato. Chi conosce la sua storia sa bene che il Palazzo è nato come residenza privata del cardinale Richelieu; ma alla sua morte passò in proprietà alla famiglia reale. Di qui il suo nome, anche se, tra Parigi e dintorni, di Palazzi Reali ne possiamo contare più d’uno, a cominciare dal Louvre stesso o dal Palazzo delle Tuileries, suo prolungamento, demolito in seguito a un incendio. Raccontano le cronache che per qualche tempo i rivoltosi Frondeurs costrinsero il giovane Luigi XIV a lasciare proprio le insicure Tuileries per soggiornare in quello che, un tempo, era stato il Palais Cardinal, con la regina Madre reggente e il cardinale Mazzarino, primo ministro, vero gestore del potere fino alla maggiore età del Re.

Tutti sanno, però, che la residenza amata dal futuro Re Sole era il favoloso Château de Versailles, ad una ventina di chilometri dalla capitale, dove il 6 maggio 1682 il sovrano trasferì definitivamente ed ufficialmente la propria Corte, benché la Reggia non fosse ancora del tutto completata. Fu per questo motivo che nel febbraio del 1692 Luigi XIV offrì il Palais-Royal a Monsieur (titolo nobiliare riservato esclusivamente al fratello minore del Re) Filippo I d’Orléans. Con questo atto il Palazzo divenne residenza dei Duchi di Orleans e del proprio casato.

“Noblesse oblige”, una responsabilità di sangue che dovrebbe sottintendere agiatezza, potere, prestigio. Fatto sta che nel 1781, il discendente Filippo d’Orleans, Duca di Chartres, noto come Philippe Egalité, si trovava sull’orlo della rovina.  Intraprese, pertanto, un articolato piano di speculazione immobiliare.  Dal momento che i giardini prospicienti il Palazzo erano aperti alla città, perché non lottizzarne i margini, per farne costruzioni fruibili dal pubblico? Ciò avrebbe permesso di accrescere il consenso popolare e, nel contempo, pareggiare il bilancio familiare. Il progetto, naturalmente, suscitò il disappunto dei proprietari limitrofi, che perdevano la vista sull’ampio spazio verde. Nonostante ciò fu incaricato della lottizzazione l’architetto Louis Victor, che il Duca aveva conosciuto a Bordeaux nel 1776, durante i lavori di costruzione del Grand Théâtre, accolto come il più bel teatro francese dell’epoca.

Galeries del Palais Royal
Galeries del Palais Royal

Le nuove edificazioni si eressero per setti livelli: un seminterrato, un pianoterra per attività commerciali, sormontato da un ammezzato, un piano nobile, un attico, un piano mansardato ed infine un sottotetto destinato alla servitù. Il prospetto, uniforme per tutto perimetro del giardino, fu terminato nel 1786 con le alte arcate in pietra del portico. Il quarto lato a sud, quello della “cour d’honneur” del Palazzo, doveva essere completato con un maestoso colonnato, sormontato da una terrazza. Furono gettate le fondamenta, ma per mancanza di finanziamenti il cantiere fu interrotto. Sembrava per poco tanto che, momentaneamente, si provvide a riparare dalle intemperie i lavori sospesi; ma questi lavori non furono più ripresi.

Quel doppio colonnato che oggi conclude la corte – ed apre sull’istallazione concettuale “Les Deux Plateaux” di Daniel Buren – non è, a ogni buon conto, progetto di Louis Victor. In qualche modo ne è la diretta conseguenza; ma questa è un’altra storia e troverò modo di raccontarla la prossima volta.

 

Per saperne di più sull’immagine consulta la scheda del musée Carnavalet di Parigi

Leggi anche: Béatrice MÉON-VINGTRINIER, « Les galeries du Palais-Royal, ancêtre des passages couverts », Histoire par l’image [en ligne].

 

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Il timballo delle feste 2/3

 

Infinite sono le ricette per la preparazione del timballo, il cui ripieno non impone limiti alla fantasia. Il timballo della tradizione è quello di maccheroni, dalle svariate forme e consistenze: maccheroni corti o lunghi, secchi o freschi (cioè lavorati a mano) lisci o rigati. Ma sono presenti anche ziti, mezzemaniche, fettuccine, lasagne…e persino il riso, cereale di antica tradizione siciliana, oggi desueto in queste preparazioni. Li accompagnano le verdure, le carni tra le quali quelle di gallina contenente le uova non nate, animelle e rigaglie (frattaglie).

Il timballo eleva i maccheroni, associati spesso alla schiettezza e alla semplicità del popolo, a piatto di prestigio, infatti la sua fama a partire dal secolo XVII travalica le Alpi, innalzandolo a piatto nobiliare e facendogli assumere un ruolo di primaria importanza nella letteratura gastronomica francese e italiana. Il famoso cuoco Antonin Carême celebra il timballo di maccheroni tanto da renderlo una preparazione di prestigio per l’Italia del Risorgimento e per la Francia dell’Impero e della Restaurazione.

L’interscambio tra le due culture gastronomiche, già nel Rinascimento aveva visto il prevalere della cucina italiana e in particolare toscana in Francia grazie a Caterina dei Medici, famosa, nello specifico, per aver introdotto l’uso di elaborati pasticci di carne. Nel ‘600 e nel ‘700, i ruoli si invertono, l’egemonia spetta alla cucina francese che, ingentilisce ed armonizza l’uso dei prodotti, controllando il dosaggio delle spezie, equilibrando contrasti fra dolce e salato e introducendo nuove tecniche di cottura. La superiorità di questa cucina contribuisce alla istituzione di un gergo specifico tuttora presente nel lessico abituale della gastronomia siciliana: monsù da monsieur, ragù da ragoût, gattò da gateaux

 

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Isole Eolie: Vulcano

 

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VULCANO

L’isola di Vulcano è divisa da un braccio di mare largo 750 metri circa dall’isola di Lipari, detto Bocche di Vulcano. Ricopre una superficie di 21 km quadrati e fa parte del comune di Lipari. Gli abitanti vengono chiamati vulcanari.

Chiaramente l’isola è d’origine vulcanica. Presenta una fusione di più vulcani, alcuni spenti altri ancora in attività, come il più grande detto il Vulcano della Fossa (alto 386 m ) con a nord un cratere spento, detto Forgia Vecchia. A nord dell’isola vi è Vulcanello (123 m), mentre a sud è collocato Monte Aria (500 m) che costituisce con il Monte Saraceno (481 m) un altopiano di lave, tufo e depositi alluvionali. La colata di ossidiana del 1771 ha creato a nord-ovest la zona delle Pietre Cotte. L’eruzione relativamente più recente risale al 1888-90, ma l’attività del vulcano continua con diversi segni, come fumarole, presenza di fanghi sulfurei (utilizzati per le sue proprietà terapeutiche) e fuoriuscite di vapore, sia dal cratere, che da aperture sottomarine. Alcune fumarole vengono adoperate per la produzione di zolfo.

Sull’isola veniva collocata dalla mitologia greca la fucina del dio del fuoco Efesto con i suoi aiutanti, i Ciclopi. Il dio venne chiamato dai latini Vulcano, da cui deriva il nome dell’isola. Oggi l’attività principale è, chiaramente, il turismo, ma sono presenti colture agricole, tra cui la primaria è quella della vite. Un servizio marittimo collega l’isola di Vulcano (da Porto di Levante) a Lipari, passando attraverso le Bocche di Vulcano. Può essere raggiunta partendo da Milazzo.

 

Tutte le foto presenti nelle Gallery delle Isole Eolie sono tratte dall’archivio di Wikimedia Commons. Per ogni riferimento fotografico consultare il sito.

 

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Una Tour Eiffel da record 2/2

 

La torre inizialmente, come detto, doveva essere smontata dopo vent’anni, il tempo concesso all’atto della sua costruzione. La modernità della torre, però, si sposò bene con l’avveniristica funzione delle comunicazioni via etere. Si cominciò con le trasmissioni fra la Torre Eiffel ed il Pantheon, poco distante. Più tardi fu utilizzata per scopi scientifici, quali le misurazioni meteorologiche o le analisi dell’aria (con l’aggiunta di un barometro), e furono avviate ricerche anche sul pendolo di Foucault. Man mano che passava il tempo, vennero inseriti nuovi “marchingegni” aggiuntivi, ad esempio, i parafulmini o uno strumento per la radiotelegrafia. Sulla torre furono eseguiti degli esperimenti scientifici, come quelli di telegrafia senza fili da parte dello scienziato Eugène Ducretet.

Quest’ultimo servizio non aveva soltanto uno scopo civile, ma, per i tempi, anche militare. Eiffel ebbe per questo anche il caloroso interessamento del generale Ferrié. Durante la Prima Guerra Mondiale, infatti, dalla torre venivano intercettate le trasmissioni radiotelegrafiche del nemico. Fu possibile, così, inviare d’urgenza e in modo quasi spettacolare i famosi taxi parigini sul fronte della Marna, per trasportare le truppe francesi. Inoltre, sulla torre si eseguivano trasmissioni senza fili con le navi da guerra al largo o con i dirigibili in volo. Tra gli usi curiosi delle sue antenne vi fu anche quello di ascoltare le comunicazioni segrete degli 007 tedeschi. Così, ad esempio, fu smascherata la famosa agente nemica che ormai tutti conoscono come Mata Hari (Gertrude Zelle).

Sulla sommità della torre, dal capodanno del 2000, sono stati montati quattro potenti riflettori che coprono l’area a 360 gradi, illuminando dall’alto tutta la città di Parigi.
La torre viene oggi, riverniciata integralmente ogni 7 anni, per un peso complessivo di 50 tonnellate di vernice. Essendo fatta interamente di metallo la struttura “respira” con dilatazioni che si adattano alle condizioni meteorologiche. In estate il materiale si dilata, tanto che la sua altezza può aumentare anche di 15 centimetri. Essendo una struttura traforata oppone poca resistenza ai venti, ma a volte si può avere una oscillazione che raggiunge perfino i 12 centimetri.

 

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T’innamorerai, con un colpo di fulmine

 

Sabirfest è un evento ispirato allo spirito di conoscenza e ospitalità della lingua sabir. «Cos’è la lingua sabir?» domanderete voi. E Molière mi avvertirebbe: «Se ti sabir, ti respondir. Se non sabir, tazir, tazir», come dire: «Se tu sai, rispondi. Se non sai, taci». Mi sono documentato e perciò chiarisco: è la più longeva lingua pidgin di cui si abbia notizia. Una lingua franca barbaresca – dove franchi erano i cristiani europei e barbareschi i musulmani – nata dal miscuglio di lingue parlate fra le popolazioni del Mediterraneo per capirsi sulle necessità della vita quotidiana. È durata almeno tre secoli e l’avremmo dimenticata senza questa manifestazione intrapresa nel 2014 a Messina, che «propone occasioni per vivere la nostra città e il Mediterraneo come spazio aperto di crescita culturale e partecipazione sociale, di creatività e di svago». Quest’anno ha raddoppiato attività: quattro giorni a Messina e altrettanti a Catania (fino al 16 ottobre). Con SabirFestival puoi appassionarti a letture, seminari, laboratori, cinema, teatro, fumetti. A SabirMaydan, la “piazza nella piazza”, puoi ascoltare e dibattere sul Mediterraneo come spazio di lotta e di progresso. A SabirLibri scoprire storie, idee, opere e autori, perché cinquantacinque sono le case editrici che presentano novità ai lettori. Tutto ciò per un pubblico differenziato in quanto ad interessi ed età: per giovani o meno, per studenti degli Istituti coinvolti direttamente e per i più piccoli con laboratori di animazione. Insomma, un programma fitto di appuntamenti per evitare a Messina i “Vuoti di memoria” e a Catania per tracciare rotte tra le realtà complesse dei quartieri del centro storico che restituiscono una “Città arcipelago”.

 

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Il Marché aux Puces di Saint-Ouen 2/2

 

Nel 1908 la metropolitana serve questa «Foire aux Puces». Il termine “foire” (fiera), richiama il chiasso, la confusione, una babele di rivenditori subissati dall’affluenza di compratori che, soprattutto la domenica, si distraggono con l’abituale passeggiata fuori le mura. Da allora, l’iniziale agglomerato si è moltiplicato in una infinità di altri mercati, specializzati nell’offerta merceologica. Dopo il primo conflitto mondiale la concentrazione commerciale diviene stabile e tra il 1920 e il 1938 si creano altri quattro mercati: Vernaiso, Malik, Biron e Jules Vallès. Tra le due guerre “les Puces” diventa così popolare che numerosi appaltatori accaparrano aree intorno alla Rue des Rosiers. Ciò determina l’esigenza di opere di urbanizzazione, come strade, reti idrauliche e fognarie, elettricità. Crescono luoghi di ristoro, caffè, pub, trattorie. Gli artigiani danno “spettacolo”: lavorano in strada per attrarre clienti, come gli impagliatori di sedie o di metalli artistici. Si organizzano attività ricreative con clown, complessini di musica negroamericana e chitarristi che inventano il Gypsy Jazz o, per dirla alla francese, il Manouche Jazz.

Dopo il 1945 agli iniziali venditori di rottami di metallo e commercianti di stracci, si sono fatti spazio antiquari e mercanti d’abbigliamento. Il mercato amplifica la propria offerta con merce di lusso datata tra XVIII secolo e primo Novecento: mobili restaurati, arazzi, specchi, lampade e articoli per la tavola. Paul Bert, ad esempio, è un mercato eterogeneo: mobili in stile eclettico, accanto a mobili dell’età industriale e Novecento. Per gli amanti di lampade Art déco, Art Nouveau e Design modernista, così per i collezionisti di vetri di Lallique o Gallé, c’è il mercato di Rosiers. L’Entrepôtè, invece, è specializzato in “marchandises volumineuses” cioè merci fuori misura; soprattutto grandi scalinate, librerie, caminetti, “zinchi”, gazebo, portali di pietra e portoni di palazzi, con il vantaggio del trasporto gratuito a destinazione. Gli appassionati di reliquie napoleoniche trovano armi d’epoca ed effetti militari; i bibliofili libri antichi e cimeli tipografici. Sono un po’ dappertutto.

Vernaison è quello che conserva i caratteri storici del passato. I suoi vicoli tortuosi, suggestivi, sono la dimostrazione dell’espansione del mercato delle pulci, quello improvvisato. I suoi chioschi specializzati offrono dai vecchi giocattoli agli oggetti scientifici. Dagli anni Novanta si sono aggiunti, a quelli originari, altri tredici mercati. Tanto che oggi “Les Puces” è stato classificato “Zone de Protection du Patrimoine Architectural Urbain et Paysager”, per l’atmosfera particolare che si respira, percorrendo i vicoli scoperti o coperti dei suoi complessivi diciassette mercati. È per questo che quanti non si accontentano di passeggiare o di acquistare, possono seguire delle visite guidate, per scoprirne i risvolti più nascosti.

 

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Il timballo delle feste 1/3

 

Timballo, pasticcio, sformato, sartù, nomi dagli etimi diversi, pietanze dalle impercettibili varianti, ma sempre ricche e sontuose. Il timballo, piatto in grado di sedurre i palati più esigenti, è caratterizzato da una sfoglia di pasta che lo avvolge ed è farcito da cibi già cotti (pasta, riso, carni, verdure) e passato in forno nell’apposito recipiente.

Il suo nome sta ad indicare un antico strumento a percussione, il tamburo o timpano, su cui è tesa una membrana e per analogia uno stampo di forma cilindrica. Il termine deriva dal francese timbale a sua volta dallo spagnolo atabal di origine araba. In Sicilia, del resto l’impronta araba pervade tutta la cucina e l’utilizzo di pasticci imbottiti di carne era già noto ai tempi degli conquistatori islamici.

Imperioso nell’aspetto, opulento per la quantità e la ricercatezza degli ingredienti, rigoroso per la forma che ricalca geometrie e decori di stampi appositamente creati per la sua realizzazione, è comune tanto alla cucina baronale quanto a quella popolare. La gente umile vuole infatti emulare le tavole dei nobili, in occasione di ricorrenze, eventi speciali o festività religiose come il Natale.

L’involucro esterno di questo contenitore commestibile, può essere dolce o salato, di pasta frolla, di pasta brisée, aromatizzato spesso con cannella, scorza di limone o con altre essenze. Tale involucro può essere sostituito da altri alimenti che svolgono il ruolo di “fasciare”, come fette di melanzane fritte e verdure affini, crespelle o del semplice pangrattato che, aderendo perfettamente alle pareti unte della teglia, crea un consistente strato esterno.

La visione del timballo, il cui decorativismo attinge alla pasticceria, intesa nel senso più ampio del termine come arte del plasmare, induce la mente e il palato del commensale a esperienze gustative uniche, in grado di stimolare ed attivare tutti i sensi.

 

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