Abramo – La notte in cui Dio sembrò smentire le sue promesse

 

La confusione di questi giorni, dettata da tre crisi che si sono accavallate inaspettatamente, sta creando un clima arroventato, non solo sui mezzi d’informazione, ma soprattutto sui social network. Ognuno è portato a sostenere la propria opinione, sulla base di notizie frammentarie, non verificate e spesso addirittura inventate. Ognuno tratta la crisi politica come farebbe al bar con gli amici, la crisi istituzionale non avendo mai letto per intero la costituzione, e infine la crisi economica avendo partecipato al massimo alle discussioni del proprio condominio. È vero quello che diceva Pericle che già nella Atene dei suoi anni, tutti avevano una capacità di giudizio, benché in pochi fossero in grado di dare vita ad una politica. Ma oggi sembra che ciascuno voglia rifarsi la politica, le istituzioni, l’economia, adottando un metro di giudizio del tutto individuale. Lasciamo dunque i lettori a discutere liberamente, perché sempre come diceva Pericle “un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile”. Consiglieremmo tuttavia di obiettare, confutare, ribattere, con meno superficialità. Ecco perché oggi, in questa pagina di FLIP, proponiamo un tema complesso legato ad un pensiero complesso, chiedendo a ciascuno di noi di considerare che, siccome “io penso” (come diceva Cartesio), non sempre “io penso” comunque bene.

Riprendiamo quindi un articolo dal Corriere della Sera, che non tratta gli argomenti all’ordine del giorno, ma che a noi pare si attagli efficacemente al nostro difficoltoso momento. Il tema è quello del sacrificio di Isacco; tema talmente lontano da non potere essere considerato una intromissione nel pensiero di nessuno dei lettori. Serve unicamente per indurre a riflettere, perché è un argomento estremamente complesso, dal momento che intervengono due concetti fondamentali: il primo è quello della fede e il secondo è quello della morale. La storia la conoscono tutti. I protagonisti sono tre: Dio che dà un ordine che moralmente contraddice il suo stesso dettato di non uccidere. Abramo, il quale è messo alla prova di rispettare per fede la volontà di Dio padre. Ma c’è anche Isacco che consapevolmente accetta di farsi uccidere per rispettare, a sua volta, l’imposizione fatta a suo padre Abramo di sacrificarlo al Signore. Una vicenda apparentemente assurda alla luce di noi contemporanei. Ecco perché non saremo noi a trarre le fila del discorso, ma lasceremo ad uno scrittore di spicco come Claudio Magris di esporre il tema. Lo fa, in modo puntuale, attraverso la filosofia di Soren Kierkegaard, che al racconto biblico ha dedicato una delle sue opere più importanti, ovvero Timore e tremore. Con lo pseudonimo di Johannes de Silentio, Kierkegaard analizzò il personaggio di Abramo, esponendo le ragioni etiche e religiose della sua abnegazione, apparentemente inspiegabile sotto il profilo etico, in ossequio alla fede verso Dio.

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IL SACRIFICIO DI ISACCO è un episodio del libro biblico della Genesi. Il suo racconto si trova in Genesi 22,1-18. Dio, per mettere alla prova la fede di Abramo, gli ordina di sacrificare il proprio figlio Isacco. Abramo si reca senza esitazioni sul monte Moriah. Mentre Abramo sta per compiere diligentemente il sacrificio, impugnando già il coltello, un angelo del Signore scende a bloccarlo e gli mostra un ariete da immolare come sacrificio sostitutivo. La scena, interpretata come prefigurazione del sacrificio di Cristo, è uno degli episodi salienti del Pentateuco. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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CORRIERE DELLA SERA

La storia eterna di Abramo e Isacco Una metafora della nostra civiltà

L’Osservatorio Permanente Giovani-Editori – Come crescere tra le righe

 

La decima edizione di “Crescere tra le righe”, si è tenuta il 25 e il 26 maggio a Borgo La Bagnaia, a pochi chilometri da Siena. Il convegno si rivolge da un decennio ai protagonisti del mondo delle istituzioni, della scuola e dell’editoria italiana e internazionale, quale occasione di confronto per raggiungere l’obiettivo ultimo di incentivare la lettura dei quotidiani, strumento fondamentale per la formazione delle giovani generazioni. La parola chiave di quest’anno è stata “apertura”. Apertura tra il mondo dell’hi-tech e quello della carta stampata. Con Andrea Ceccherini, presidente dell’Osservatorio Permanente Giovani-Editori che ha organizzato la manifestazione, sono intervenuti i numeri uno dei più prestigiosi quotidiani americani e i responsabili news a livello mondiale delle maggiori piattaforme digitali. Scorriamo l’elenco: il direttore del New York Times Dean Baquet, il direttore del Wall Street Journal Gerard Baker, il direttore del Washington Post Martin Baron, il vicepresidente delle news di Google, Richard Gingras, la direttrice News Products di Facebook Alex Hardiman, il direttore delle Global Content Partnerships News di Twitter, Peter Greenberger. L’editoria dell’informazione italiana era rappresentata dal gruppo Gedi con La Stampa e La Repubblica, Rcs con Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport, Monti-Riffeser con il Quotidiano Nazionale e la Confindustria con Il Sole 24 Ore.

Ceccherini, rivolgendosi agli editori dei media italiani e americani ha messo in risalto come il loro lavoro non solo sia uno dei più coinvolgenti, ma anche uno dei più difficili in questo tempo di cambiamento. Ognuno dei presenti ha messo in risalto il proprio punto di vista, con un denominatore comune: dare valore all’informazione di qualità amplierà il mercato delle vendite. Dal canto suo il presidente dell’Osservatorio Permanente Giovani – Editori, che con l’iniziativa del “Quotidiano in classe” ha condotto tutta la sua fortunata battaglia, non ha mancato di presentare agli studenti i progetti per il prossimo anno: «Saranno due iniziative, con un unico obiettivo: sviluppare il pensiero critico e darvi l’occasione per liberare la vostra creatività. Accanto al “Quotidiano in Classe”, dal prossimo anno avremo anche questa piattaforma sulla rete, in partnership con Google, che esordirà con lo stesso obiettivo. È la conferma che aumentano le piattaforme in cui si può sviluppare il critical thinking: prima c’erano solo i quotidiani, adesso i quotidiani e la rete, presto ci saranno i quotidiani, la rete e la tv». Quando tali iniziative sono gratis “è tutto grasso che cola” (come si diceva una volta in modo non troppo elegante ma realistico). Oltre che sensibilizzare alla lettura, rimane pur sempre il problema di vendere: la soluzione dell’enigma è demandata per intero agli editori.

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OSSERVATORIO PERMANENTE GIOVANI-EDITORI è un’Organizzazione che crede nei giovani e che investe su di loro per favorire un percorso di formazione e di educazione alla cittadinanza. Affinché questo cammino di crescita individuale e di educazione civile possa compiersi, fino a contribuire a rendere il giovane di oggi il libero cittadino di domani, la nostra Organizzazione si impegna e si batte per rendere le nuove generazioni più padrone di sé stesse. Secondo le più moderne dottrine in materia, la padronanza piena di sé si raggiunge solo quando alla padronanza della propria testa, si aggiunge la padronanza dei propri mezzi. È proprio a questo scopo che promuoviamo due grandi progetti strategici: uno teso ad allenare la padronanza della propria testa: “Il Quotidiano in Classe”, e l’altro teso ad esercitare la padronanza dei propri mezzi economici finanziari: “Young Factor”. Unisciti a noi, se anche tu credi che per cambiare il mondo e farne un posto migliore, non ci sia altra strada se non quella di cominciare a lavorare sui giovani.

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LA STAMPA

Il futuro delle news è nella collaborazione tra editori e grandi player della rete

TaoBuk – La “rivoluzione” delle parole si fonde con quella dei luoghi

Parlare di qualcosa che deve ancora avvenire è curioso, perché non esiste ancora tranne che nelle menti, quelle di coloro che hanno progettato l’Ottava Edizione di TaoBuk e quelle del pubblico che vi parteciperà numeroso. Per cui oltre all’articolo di Stampa che abbiamo scelto di presentarvi, fra i molti che parlano della manifestazione, andiamo a spiluccare notizie, qui e là, volendo cogliere quanto di più allettante troviamo. Al centro di Taobuk c’è  la letteratura: come tutti gli anni, si è individuato un tema attorno al quale dibattere con i maggiori protagonisti della scena culturale, sia internazionale che italiana. Il tema del 2018 è quello delle “rivoluzioni”. Sentiamo perché: «Il 2018 è l’anno in cui ricorrono gli anniversari della scomparsa di Bob Kennedy, Mahatma Gandhi e Martin Luther King; il centenario dalla nascita di Nelson Mandela; l’anniversario della Carta dei Diritti dell’Uomo e della Costituzione Italiana; il cinquantesimo anniversario dai moti del Sessantotto. La storia dell’umanità è costellata da trasformazioni che ne hanno determinato il progresso, il rinnovamento. Ma rivoluzioni sono anche i piccoli cambiamenti che quotidianamente influenzano le nostre esistenze, preludio di ben altri radicali mutamenti della Grande Storia». A questo punto vale chiedersi: che cos’è una rivoluzione? Lo spiegherà, con una lectio magistralis, Amos Oz che si considera un evoluzionista più che un rivoluzionario. Questa è una delle prospettive sotto cui guardare il termine di rivoluzione. Non mancheranno, infatti altre prospettive: la rivoluzione personale di Elizabeht Strout, o la rivoluzione come movimento stellare o come destino di un intero Paese, trattati dal filosofo Fernando Savater; oppure la rivoluzione prodotta dei contenuti dei libri, raccontata da un infaticabile lettore, scrittore e giornalista come Matteo Collura.

Ma le rivoluzioni si possono raccontare anche a viva voce, non solo per iscritto, attraverso gli eventi che hanno fatto la storia. In una prospettiva differente si può osservare la rivoluzione delle idee, ponendo l’interrogativo: come il pensiero, l’arte e la letteratura leggono il cambiamento? In fondo, – dicono gli organizzatori di TaoBuk, coordinati da Antonella Ferrara, presidente e direttore artistico –  è il potere rivoluzionario della narrazione quello da cui tutto parte e a cui tutto si riduce: si può riassumere con quella necessità antropologica innata dell’uomo di raccontare e sentir raccontare storie. Naturalmente non mancheranno, come ogni anno, le tavole rotonde: saranno due, dedicate a editoria e giornalismo. Taobuk è anche arte. Quale arte? «Con la mostra di libri antichi e di pregio “Geografie Sentimentali” il festival vuole valorizzare l’immenso archivio librario proveniente dalla Biblioteca Regionale di Messina, un fondo antico che conserva incunaboli e manoscritti e un patrimonio librario di centinaia di migliaia di volumi sulla storia siciliana arcaica. In mostra ci saranno testi antichi, atlanti, mappe, incisioni e libri con moltissimi riferimenti alla storia della Sicilia antica e al ruolo nevralgico di Messina tra il Medioevo e l’inizio dell’Età Moderna». Insomma le sezioni che compongono questa variegata manifestazione sono molte. Non abbiamo ancora parlato di Arti Visive, Fud Hub, Cinema, TaoKids e neppure degli ospiti, tanti personaggi di primo piano del mondo culturale, editoriale, dello spettacolo. Si ritroveranno tutti sul palco del Teatro Antico e nelle più suggestive location di Taormina per offrire al pubblico la Ottava Edizione del Festival, con l’augurio di trasformare la città in un salotto a cielo aperto della letteratura e delle arti.

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RIVOLUZIONE. Il termine rivoluzione (dal latino revolutio -onis, “rivolgimento, ritorno”, derivato dal verbo revolvĕre “rovesciare”) nel suo significato più ampio indica qualsiasi cambiamento radicale nelle strutture sociali come quello operato ad esempio dalla rivoluzione industriale, da quella tecnologica o in particolare da quella culturale come auspicavano gli illuministi nel secolo XVIII con la redazione dell’Encyclopédie: «Quest’opera produrrà certamente, col tempo, una rivoluzione negli animi ed io spero che i tiranni, gli oppressori, i fanatici e gli intolleranti non abbiano a trarne vantaggio. Avremo reso un servigio all’umanità». (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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CORRIERE DELLA SERA

Omaggio alla creatività ribelle
Tutte le rivoluzioni di Taobuk

Innovazioni del XX secolo: paste colorate e paste glutinate

 


In Francia, all’inizio del Novecento (nel periodo della Belle époque), si diffusero le cosiddette “paste neve”. Erano scagliette leggerissime di pasta. Così raffinate e introvabili da costare dieci volte un’aragosta.

LA PASTA COLORATA
Poiché, invece, gli italiani preferivano le paste condite con pomodoro o con verdure, furono create le paste colorate, tra cui quelle con nell’impasto il 10% di liquido di pomodoro (pasta rossa) o di spinaci (pasta verde). Nel XX secolo, quindi, prese piede anche l’usanza di colorare la pasta, principalmente per dare la sensazione dell’uovo. Inizialmente con lo zafferano, dopo con il cardamomo e adesso con coloranti chimici. I coloranti, già da allora, erano denunziati direttamente sulle etichette o sulle confezioni. L’usanza italiana, tuttavia, non piacque al mercato americano, la cui produzione evitava coloranti (forse per distinguersi nella concorrenza).
Tra le altre sperimentazioni, in Sicilia si diffuse la “pasta a mano, uso Palermo”. La sua caratteristica era quella di non seccare “mai”. In pratica nell’impasto veniva aggiunto più sale (130 grammi di sale ogni chilo di semola), che permetteva di mantenere la morbidezza per lungo tempo.
Il settore delle paste ripiene rappresentò per lungo tempo una sezione mista a sé stante. Essa univa alla preparazione a mano le semplificazioni meccaniche. In pratica si produceva la sfoglia già ritagliata a macchina, a cui succedeva la lavorazione manuale, in genere femminile. Questo venne superato negli anni ‘20, quando apparvero sul mercato le prime macchine per la produzione integrale di ravioli, tortellini e cappelletti.

LA PASTA GLUTINATA
Nello stesso periodo entrano in scena le paste speciali con la presenza di particolari sostanze, ad esempio con l’aggiunta di glutine, diastasate e a uso medicinale. In realtà le proprietà medicinali del glutine erano conosciute da tempo. Nel 1728, infatti, Jacopo Bartolomeo Beccari scrisse un testo sulle sue qualità terapeutiche. Già allora era usanza aggiungere all’impasto della pasta un 10 o 15 % di glutine. Esse sono mirate in particolar modo al mercato dei bambini piccoli, o dei malati e convalescenti. In genere vengono utilizzate come paste da brodo e hanno formati diversi, spaghettini o pastina da minestra.
Il glutine sin dagli inizi, essendo considerato salutare e fortificante, era pubblicizzato sul mercato come tale. Il glutine, comunque, aumentava il valore nutritivo, un ottimo metodo per rinforzare i bambini piccoli e per i deboli di stomaco. Accadeva, a volte, che dei pastai a corto di semole, aggiungessero alla farina bianca del glutine per dargli consistenza.

 

Ricciardetto – Coniugava l’esprit de géométrie con l’esprit de finesse

Oggi non abbiamo ipocritamente deciso di batterci il petto e di prendere a leggere “L’Osservatore Romano”. Avremmo preferito richiamare il puntuale articolo di Carlo Nordio che ritrae la figura di Ricciardetto sulle pagine del Messaggero, ma il quotidiano romano non lo presenta al pubblico se non in versione cartacea. Per rispetto editoriale ci rivolgiamo, quindi, al Quotidiano della Santa Sede, che dell’articolo coglie solo la parte relativa alla “religiosità” di un giornalista e scrittore che si professava convintamente laico e che si adirava con certi lettori più critici ed estremi in fatto di religione, rimproverando loro che per definirsi “atei” occorre aver studiato molto, cercando e ricercando. Questo era il suo cruccio maggiore e lo esprime nel saggio “Quaesivi et non inveni”, ho cercato e non ho trovato. Già dalla copertina del libro, edito da Mondadori, apprendiamo del suo dibattito interiore: «Che cosa sarà di me? Ho il diritto di essere ateo senza aver dedicato una parte della mia vita allo studio del problema supremo?». È un’opera ormai irreperibile, scritta da «un uomo di cultura sovrana e di stile inconfondibile», rammenta Carlo Nordio nel suo articolo. Un laico in continua ricerca della fede, che forse trovò, dicunt, sul punto di morte. «Non sono un credente perché non credo nel dogma cristologico e in altri dogmi. Ma sono cristiano perché sono nato e vissuto in questa civiltà cristiana, e so quanta parte della mia formazione, direi di me stesso, debba a questa civiltà di cui sono figlio, e che, ahimè! volge al tramonto. Per capire che cosa sia stato Gesù per l’umanità, basta pensare che cosa saremmo noi se Egli non fosse esistito, la figura più sublime che sia apparsa nella storia di tutti i tempi e di tutti i popoli».

Oggi ormai dimenticato (dagli anziani, quelli che non lo hanno mai letto, e dai giovani, che per poco ancora saranno giovani) Ricciardetto, pseudonimo di Augusto Guerriero, è stato una grande firma del Corriere della Sera del dopoguerra, all’altezza di un Indro Montanelli. «La sua genialità risiedeva nella frase asciutta e incisiva, che improvvisamente si elevava alla solennità di una sentenza filosofica. Chi leggeva un suo articolo, fosse sulla guerra di Corea o sui missili di Cuba, sulla musica di Bach o sui manoscritti di Qumran, lo finiva di un fiato, e si domandava come fosse possibile riassumere tanti concetti in così poco spazio e così bene. La risposta è che Guerriero aveva avuto come maestro Blaise Pascal, e sapeva coniugare l’esprit de géométrie con l’esprit de finesse» (Carlo Nordio). In vecchiaia (come capita agli anziani che “se la sentono per le ossa”, dicono a Roma) prese a trattare i temi più avanzati dell’esegesi neotestamentaria, soprattutto nelle “Conversazioni coi lettori” che seguivano, sulle pagine del settimanale Epoca, la sua rubrica politica denominata “Italia domanda”. A questo proposito, citiamo ancora Nordio: «La Sorte gli negò anche l’ultima consolazione: la corrispondenza con i lettori, che lo inondavano di lettere, talvolta critiche, assai più spesso affettuose. Nei primi anni settanta il Corriere virò repentinamente a sinistra, e lo cacciò via. La vecchia guardia liberale si raccolse attorno a Montanelli e al suo nuovo quotidiano, ma il disarmato Guerriero subì anche l’umiliazione di esserne estromesso. Anni dopo chiesi a Montanelli il perché di tale emarginazione: la risposta fu che Ricciardetto pretendeva di scrivere di teologia. Non era vero. La politica estera era monopolio di Enzo Bettiza, e non c’era spazio per due primedonne». In realtà, Bettiza a parte, tra Montanelli e Guerriero emersero sicuramente divergenze politiche, tanto che i due decisero percorsi diversi, dal momento che Guerriero era favorevole al compromesso storico, soluzione anticipatrice e fortemente contrastata, mentre Montanelli ne fu tenacemente oppositore. La storia ha fatto il suo corso e a noi non resta che leggerla o rileggerla.

AUGUSTO GUERRIERO, noto anche con lo pseudonimo di Ricciardetto (Avellino, 16 agosto 1893 – Roma, 31 dicembre 1981), è stato un giornalista e saggista italiano, autore di monografie storiche rivolte al grande pubblico. Augusto Guerriero è figlio di un medico. Frequenta il liceo di Avellino con il suo amico Guido Dorso. Con lui collabora a Irpinia democratica. Nel 1914 si laurea in giurisprudenza all’Università di Napoli con una tesi su ”L’anarchismo di Leone Tolstoi”. In questo periodo si dedica alla letteratura e pubblica una prefazione ad un’edizione italiana del Maurice Maeterlinck: Tre drammi. All’avvento della prima guerra mondiale è neutralista e ritiene che il Presidente del Consiglio Salandra commetta un tragico errore intervenendo nel conflitto. Ancora sconosciuto, nel 1917 invia un articolo critico dell’interventismo alla Critica Sociale di Filippo Turati che lo pubblica (firmato A. G.). Ne pubblicherà altri due, con alcuni tagli della censura. In essi prevede la crisi politica del dopoguerra che porterà al fascismo. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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L'OSSERVATORE ROMANO

Ricciardetto cercatore di Dio

Borghi of Italy – Come concepire uno spazio “free and safe”

 

Quella che riportiamo di seguito è la scheda ufficiale come compare sul sito delle News della Biennale di Venezia di quest’anno, in relazione ai 12 Eventi Collaterali alla Biennale Architettura 2018. Fra questi “eventi collaterali” c’è l’argomento Borghi, già è tanto che se ne parli, ma ora sono chiamati “aree interne”: la sostanza non cambia, perché sono ugualmente a rischio. Rischio sismico, ma anche di spopolamento, perché non intervenire nel modo giusto significa ridurre questi spazi di storia antica, progressivamente, a ruderi. Scrive bene Pierluigi Panza nell’articolo che fornisce spunto alla pagina di FLIP: «Le aree interne sono i danni collaterali del Capitalismo estetico (quello della finanza, delle smart city, archistar, social, gated community) che le recupera solo in chiave rural-chic».

Borghi of Italy – NO(F)EARTHQUAKE

L’inedito progetto espositivo Borghi of Italy – NO(F)EARTHQUAKE è dedicato alla prevenzione antisismica e alla messa in sicurezza del patrimonio artistico e architettonico, e alla rivitalizzazione dei luoghi simbolo dell’architettura del nostro Paese: i borghi italiani. Il concetto di Freespace lanciato dalle Curatrici della Biennale Architettura 2018 è qui legato all’idea di uno spazio “free and safe”, in cui coloro che ne fruiscono e lo vivono, i residenti in primis, possano sentirsi “liberi”: liberi dalla paura del terremoto e liberi di ritornare ad abitare nei luoghi più caratteristici dell’Italia che in questo momento storico rischiano di essere completamente abbandonati, in favore di nuovi centri urbani – nuove civitas – costruiti lontano dal loro luogo di origine, spesso proponendo forme e consistenze avulse dal contesto storico. “Borghi of Italy” presenta inoltre il progetto del Concilio Europeo dell’Arte “BorgoAlive!” per la rivitalizzazione sostenibile di un borgo e del suo territorio, in cui la salvaguardia e il recupero di un edificio-simbolo di quel borgo sia l’occasione per il riutilizzo e la rigenerazione del centro storico danneggiato e/o abbandonato e la riconversione del suo patrimonio abitativo storico urbano; un’occasione per valorizzare le risorse artistiche e culturali dei centri urbani minori e dell’entroterra, per l’innalzamento delle opportunità di crescita sociale ed economica, di sviluppo turistico delle comunità locali e il ripopolamento dei borghi italiani.
Sede: InParadiso Gallery, Giardini della Biennale, Castello, 1260
Promotore: Concilio Europeo dell’Arte
www.borghiofitaly.org
www.concilioeuropeodellarte.org

 

LA MOSTRA INTERNAZIONALE DI ARCHITETTURA (o Biennale di architettura) di Venezia si svolge ogni due anni alternandosi all’Esposizione internazionale d’arte di Venezia. Fu istituita dalla Fondazione della Biennale di Venezia nel 1980. Sono allestite durante gli anni settanta, presso i Magazzini del Sale e le Zattere, le prime mostre di architettura della Biennale all’interno del settore Arti visive. La prima Mostra internazionale di architettura curata da Paolo Portoghesi, intitolata La Presenza del Passato, viene allestita nella Strada Novissima delle Corderie dell’Arsenale. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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CORRIERE DELLA SERA

La Biennale di Architettura ridà speranza all’Italia dei borghi

Paris Gallery Weekend – Una Fondazione e 44 gallerie per l’arte di domani

 

(Foto Riccardo Piaggio)

 

Oggi FLIP è tra le Gallery di Paris per il Weekend. Virtualmente, s’intende. L’iniziativa d’arte contemporanea che troviamo nei vecchi luoghi Bourgeois Bohémiens è spiegata da Riccardo Piaggio per il Sole 24 Ore. Quartieri rinati ormai da quasi mezzo secolo, ma chi nel Marais passeggiava negli anni Settanta del Novecento trovava in questo cuore di Parigi vecchie case e qualche bistrot, con anziani che giocavano a carte e bevevano vino. Però – in esecuzione della legge Malraux del 1962 per la protezione dei siti storici e in attuazione del piano del 1993 per la salvaguardia e la valorizzazione – il Marais è letteralmente resuscitato. Certo, non dimentichiamo l’effetto traino prodotto dal Centro Georges-Pompidou, poco distante, inaugurato il 31 gennaio 1977 tra le smorfie di molti intellettuali, che all’epoca erano una schiera più numerosa di quella odierna. Col Beaubourg (così lo chiamano i francesi), su progetto di Piano e Rogers, la cultura delle arti visive – design, architettura, fotografia ed, oggigiorno, opere multimediali – è entrata nel tessuto urbano di questi luoghi a un tiro di schioppo dalla Senna, che quando tracimava li rendeva simili ad una “palude”, perché questo è l’origine del nome Marais.

Non meraviglia, quindi, che 44 gallerie diano vita a “Paris Gallery Weekend”, iniziativa curata da un collettivo di galleriste che riunite nell’associazione Choises in questo fine settimana presentano un fiume straripante di exhibitions, openings, performances, concerti, screening, talks. La parola d’ordine è “Evidenziare l’arte moderna e contemporanea a Parigi in primavera”. Entrate sul sito ufficiale per documentarvi sul programma, c’è di tutto e di più. Citiamo solo uno degli incontri più simpatici, una visita guidata quale iniziazione ideale ad allenare l’occhio in modo giocoso per diventare “un collezionista”. E poi c’è il “gioco”, perché sabato e domenica, ci si può lanciare in una ricerca artistica attraverso le 44 gallerie per provare a vincere duemila euro utili per acquistare una delle opere d’arte in mostra. Basterà seguire e identificare i 5 indizi sparsi in 5 gallerie (quali fra tutte?) e infine trovare la scatola misteriosa col premio.

Dare vita ad una manifestazione di tutto rispetto significa, però, avere alle spalle validi sostegni finanziari rappresentati dall’intervento pubblico (nello specifico dal Ministero della Cultura e dalla Mairie come dire la municipalità parigina) e da quello privato espresso qui dalla nuova Fondation d’Entreprises Lafayette. La Fondazione s’impegna in attività d’appoggio attraverso il proprio braccio operativo costituito da Lafayette Anticipations, primo centro multidisciplinare in Francia nato per offrire ad artisti, designer e performeur condizioni e strumenti individuali per orientarsi nel proprio lavoro. Lo slogan è significativo: «Nel montaggio qualcosa sta sempre succedendo».

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FONDATION D’ENTREPRISE GALERIES LAFAYETTE. Creata nel mese di ottobre 2013 dal Groupe Galeries Lafayette, Lafayette Anticipations – Fondation d’entreprise Galeries Lafayette ha aperto le sue porte a marzo 2018 al n. 9 di rue du Plâtre, nel quartiere del Marais, a Parigi, in un edificio riabilitato da Rem Koolhaas e dalla sua agenzia di Architettura OMA . Questa fondazione d’interesse generale mira a sostenere gli artisti e i creatori del nostro tempo. Aperta al design e della moda, riconosce il pensiero singolare di tutti i creatori nella loro capacità di partecipare al cambiamento sociale e anticiparlo. La Fondazione è presieduta da Guillaume Houzé e il suo amministratore delegato è François Quintin. La Fondazione è operativa dal 2013 attraverso il programma di prefigurazione Lafayette Anticipations(Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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IL SOLE 24 ORE

Un weekend tra le Paris Gallery

Robert Indiana – Il suo “LOVE” è colorato, poliedrico, riproducibile da tutti

La cosa più divertente è che, magari, c’è chi ha negli occhi l’immagine ma non conosce chi l’abbia realizzata. In una parola l’immagine è diventata iconica; si è cioè sviluppato un “rapporto iconico”, nel senso che il segno è diventato un tutt’uno con l’oggetto significato. La parola in questione oggi su FLIP è “Love”, che tradotta significa (chi non lo sa?) amore. L’amore è universale e così è stato per l’opera realizzata dall’artista pop statunitense Robert Indiana, che nel 1964 dispose in un quadrato le quattro lettere della parola “Love”, con la lettera O inclinata. L’immagine fu ideata per una cartolina natalizia del Museum of Modern Art di New York (meglio conosciuto con l’acronimo di MoMA). Nel 1973 la stessa immagine fu ripresa per un francobollo celebrativo da otto centesimi emesso dal Servizio postale degli Stati Uniti. Da allora le molteplici versioni scultoree sono state collocate in moltissimi spazi interni ed esterni: dalla Sixth Avenue a New York al quartiere NishiShinjuku di Tokyo, su Wikipedia l’elenco è lungo. Dal 29 settembre 2016 al 19 febbraio 2017, ad esempio, il Chiostro del Bramante a Roma ha ospitato la mostra “LOVE. L’arte contemporanea incontra l’amore”, a cura di Danilo Eccher. Molte opere dai linguaggi fortemente esistenziali hanno coinvolto il pubblico nelle differenti manifestazioni del sentimento più naturale del mondo, come l’amore: a partire da quello infantile, per approdare all’amore corrisposto, negato, ignorato, ambiguo, trasgressivo. Al centro dell’attenzione era la scultura di Robert Indiana con i significati poliedrici che suggerisce. Robert Indiana nel corso della sua vita artistica ha sempre utilizzato segni universalmente condivisi, dal profondo significato esperienziale perché indirizzato a proporre un’arte immediata e d’impatto, comprensibile da tutti di primo acchito. L’autore è scomparso nei giorni scorsi, all’età di 89 anni, ma la sua opera “Love”, realizzata quand’era trentaseienne, non ha età e neppure limiti imposti dai diritti d’autore. Ci si può amare, finora, senza timori.

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ROBERT INDIANA, all’anagrafe Robert Clark (New Castle, 13 settembre 1928 – Vinalhaven, 19 maggio 2018), è stato un artista, scenografo e costumista statunitense, associato al movimento della Pop Art. Indiana si trasferì a New York nel 1954 e si unì al movimento della Pop Art, usando caratteristici disegni di immagini per realizzare approcci di arte commerciale mescolati con l’esistenzialismo, che evolsero gradualmente verso ciò che Indiana chiama “poesie scultoree”. L’opera di Indiana spesso consiste di immagini audaci, semplici, iconiche, in particolare numeri e parole brevi come “EAT”, “HUG” e “LOVE”. È noto anche per aver dipinto lo straordinario campo da pallacanestro un tempo usato dai Milwaukee Bucks nel palazzetto dello sport di quella città, lo U.S. Cellular Arena, con una grande forma ad M che occupa le due metà del campo. La sua scultura nell’atrio del grattacielo Taipei 101, chiamata 1-0 (2002, alluminio), usa numeri multicolori per suggerire la conduzione del commercio mondiale e i modelli della vita umana. Indiana è stato scenografo e costumista teatrale, come nella produzione realizzata nel 1976 dalla Santa Fe Opera de La madre di tutti noi (The Mother of Us All) di Virgil Thomson, basata sulla vita della suffragetta statunitense Susan B. Anthony. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, Indiana produsse una serie di Dipinti della pace (Peace Paintings), che furono esposti a New York nel 2004. Indiana visse come residente nella città isola di Vinalhaven, Maine, dal 1978. Apparve nel film Eat (1964) di Andy Warhol, che consiste in un’unica ripresa da 45 minuti di Indiana che mangia un fungo. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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CORRIERE DELLA SERA

Morto Robert Indiana, l’artista pop che rese un’icona la parola «LOVE»

Philip Roth – Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando

 

A Philip Roth il premio Nobel non lo hanno mai dato ed è morto pure nell’anno in cui è stato deciso di non assegnarlo a nessuno, in ragione del noto scandalo che ha macchiato persino il prestigioso riconoscimento mondiale. Anche qualora lo avesse ricevuto, questo Nobel, ora che è morto che cosa ne avrebbe fatto? Un premio serve per i vivi, per evidenziare i migliori, quelli che aiutano a guardare la realtà, così com’è, non per come la vorremmo. Per questo c’è tutto il resto della letteratura oziosa o irrilevante. Ma chi era Philip Roth? Rispondere “uno scrittore” parrebbe semplicistico. Se lo avessimo chiesto a lui stesso, avrebbe chiarito semplicemente: «Smonto frasi. È la mia vita. Scrivo una frase e poi la smonto. Poi la rileggo e la smonto di nuovo». E ancora: «Scrivo cose inventate e mi dicono che sono autobiografiche. Scrivo cose autobiografiche e mi dicono che sono inventate. Visto che sono così confuso e loro sono così acuti, lasciamo che decidano loro». Chi sono “loro”? Sono i critici. Sui giornali di oggi, a due giorni dalla morte, i paginoni si sprecano, per cui fareste meglio a leggere quegli articoli anziché queste poche righe. Tutti concordano che era un gigante della letteratura contemporanea americana, evidenziano quanto abbia inciso sulla cultura. Lui non ne era affatto convinto, ammesso che fosse davvero sincero. Aveva ancora i capelli neri, nel 1984, quando concesse un’intervista a Hermione Lee per la rivista Paris Review: «Mi chiedi se i miei romanzi abbiano cambiato qualcosa nella cultura, e la risposta è no. Senza dubbio hanno fatto un po’ di scalpore, ma la gente si fa scandalizzare in continuazione: è uno stile di vita. Non significa niente. Se mi stai chiedendo se avessi voluto cambiare in qualche modo la cultura coi miei romanzi, la risposta è ancora no. Quel che voglio è possedere i miei lettori mentre leggono il mio libro: a riuscirci, vorrei possederli in modi inarrivabili agli altri scrittori. Poi li lascerei ritornare, com’erano prima, in un mondo dove chiunque altro sembra lavorare per cambiarli, convincerli, prendersi cura di loro e controllarli». Anticipava i nostri giorni. In tutti i sensi. Per esempio, leggerete le note biografiche che riportiamo da Wikipedia; ma lo sapete voi che, nel 2012, proprio Wikipedia non ha corretto quanto lo scrittore chiedeva? Si riferiva al suo romanzo The Human Stain (La Macchia Umana). «Io, Roth, non ero una fonte credibile», dovette concludere! Sulla diatriba Roth spedì una lettera aperta al New Yorker. La riportiamo di seguito. Queste sono le sue conclusioni: «La scrittura romanzesca è per il romanziere un gioco a fingere. Come la maggior parte degli altri romanzieri che conosco, una volta ottenuto ciò che Henry James chiamava “il germe” ho continuato a fingere e ad inventare». Nel caso di Philip Roth, però, il suo processo di scrittura porta noi lettori a domandare: quando dall’invenzione affiora di nuovo la realtà?

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PHILIP MILTON ROTH (Newark, 19 marzo 1933 – New York, 22 maggio 2018) è stato uno scrittore statunitense. È stato uno dei più noti e premiati scrittori statunitensi della sua generazione, considerato tra i più importanti romanzieri ebrei di lingua inglese, una tradizione che comprende Saul Bellow, Henry Roth, E. L. Doctorow, Bernard Malamud e Paul Auster. È conosciuto in particolare per il racconto lungo Goodbye, Columbus, poi unito ad altri 5 più brevi in volume (premiato con il National Book Award), ma è diventato famoso con Lamento di Portnoy, da alcuni considerato scandaloso. Da allora si è ritagliato un posto di grande interesse, e attesa a ogni titolo, con una produzione lunga e costante ed estimatori (ma anche periodici attacchi per il linguaggio considerato da alcuni troppo aperto e scurrile), che l’hanno proposto più volte per il Premio Nobel, premiandolo nel frattempo con molti altri riconoscimenti. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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LA REPUBBLICA

È morto Philip Roth, gigante della letteratura privato del Nobel

Socrate – Vivere o morire, quale sia migliore è cosa oscura a tutti

 

Nel FLIP di oggi poniamo in evidenza il giudizio di una delle grandi firme del “Corriere della Sera”, come Paolo Mieli, che recensisce il saggio di un’altra grande firma del “Corriere” e de “la Lettura” qual è Mauro Bonazzi autore di “Processo a Socrate”, pubblicato da Laterza. Bonazzi, che insegna Storia della filosofia antica presso l’Università di Utrecht e l’Università Statale di Milano, pone la domanda delle domande, ovvero quella che ogni studente di filosofia di liceo, interessato al grande filosofo greco, in cuore suo si è posto: E se fosse stato Socrate stesso a decidere di morire? A sentire Platone e Senofonte, due degli allievi del filosofo, se fosse stato un tantino più conciliante avrebbe potuto ottenere l’assoluzione. Il fatto è che il settantenne Socrate – secondo Aristofane, che ne tratteggia figura e pensiero nella sua celebre commedia «Le Nuvole» (423 a.C.) – non solo era strambo, come poteva essere un “sofista”, ma rappresentava «il peggio della nuova cultura», soprattutto per due motivi. Il primo: era sospetto di ateismo, poiché negava l’idea stessa di divinità. Il secondo: corrompeva i giovani, sovvertendo in loro lo schema tradizionale riguardante l’autorità, da quella familiare all’intera organizzazione sociale. Bonazzi nel suo libro spiega quello che sarebbe da interpretare come «uno scontro tra la filosofia e la democrazia». Da una parte c’è Socrate, che rivendica autonomia e indipendenza contro conformismo e pregiudizi; dall’altra c’è Atene, che lo accusa di cospirare contro le istituzioni democratiche. Socrate rifiuta la difesa offerta da Lisia, preferendo l’autodifesa. Rispetto a coloro che sostengono la tesi politica, Bonazzi suggerisce cautela poiché mancano consistenti indizi in tal senso e la figura di Socrate è «difficilmente riducibile negli schemi tutti politici dell’opposizione tra oligarchi e democratici».

Riassumiamo i momenti salienti del processo come li sintetizza Mieli: «L’uditorio era composto da 501 giudici e da un folto pubblico. Socrate scelse di preparare da solo i suoi due (forse tre) discorsi di difesa, rifiutando l’aiuto del già citato Lisia, uno dei più celebri oratori dell’Atene dell’epoca. Il processo poi aveva norme garantiste: se, ad esempio, un imputato fosse stato assolto, gli accusatori rischiavano di essere puniti. “A ulteriore conferma”, nota Bonazzi, “del fatto che non mancavano strumenti per impedire che si intentassero processi con troppa disinvoltura”. Ciò che in quel frangente il filosofo temeva di più era il boato del pubblico, che effettivamente fu usato contro di lui (ne parla Platone per stigmatizzarlo). Comunque la prima votazione si risolse in favore sì dell’accusa, ma con uno scarto tutto sommato ridotto: 280 voti contro 221, e Socrate si lasciò persino andare a qualche dileggio nei confronti di chi lo aveva trascinato in giudizio. Ma la seconda votazione, quella in cui si doveva decidere tra una sentenza di morte e il pagamento di un’ammenda, si concluse con una maggioranza a favore della pena capitale. Una maggioranza netta».

Cosa dettò l’andamento sfavorevole di questo processo che portava in tribunale l’intera esistenza del filosofo? La risposta di Bonazzi è inequivocabile: un «doppio fallimento». Quello della democrazia ateniese «incapace di ascoltare il tafano che cercava di risvegliarla dal torpore dei suoi pregiudizi», ma anche il fallimento dello stesso Socrate, incapace di trovare «le parole giuste per far capire le sue ragioni». In realtà la linea di difesa adottata dal filosofo fu alquanto incomprensibile, preferendo la provocazione alla pacificazione. Socrate propose come soluzione del processo (quasi a mo’ di sberleffo) «di essere mantenuto a vita nel Pritaneo a spese dello Stato, un privilegio normalmente riservato agli orfani di guerra e ai vincitori delle gare olimpiche». In alternativa il pagamento di una cifra irrisoria. Non è irritando giudici che si può evitare una punizione dura ed esemplare, come la pena capitale. È vero, oggi possiamo condividere le parole di Mauro Bonazzi, piene di grandi idealità, quando sostiene che in qual senso Socrate è il vincitore morale del processo, in quanto «è riuscito nell’impresa di far finire sul banco degli imputati Atene, la città che non aveva saputo accettare la sua sfida e per questo aveva scelto di ripiegarsi su sé stessa e sui propri pregiudizi». Pur condannato a morte dal Tribunale di Atene, Socrate è stato «assolto e premiato da quello della storia». Vale domandarsi, però, se ne è valsa la pena e se un’assoluzione, scaturita da un chiarimento fra le parti, non avrebbe ugualmente premiato le ragioni della ragione. Che Aristofane avesse per caso un pizzico di ragione?

LEGGI PER INTERO IL LIBRO DI PLATONE “APOLOGIA DI SOCRATE”

SOCRATE, figlio di Sofronisco del demo di Alopece (Atene, 470 a.C./469 a.C. – Atene, 399 a.C.), è stato un filosofo greco antico, uno dei più importanti esponenti della tradizione filosofica occidentale. Il contributo più importante che egli ha dato alla storia del pensiero filosofico consiste nel suo metodo d’indagine: il dialogo che utilizzava lo strumento critico dell’elenchos (ἔλεγχος, “confutazione”) applicandolo prevalentemente all’esame in comune (ἐξετάζειν, exetάzein) di concetti morali fondamentali. Per questo Socrate è riconosciuto come padre fondatore dell’etica o filosofia morale. Per le vicende della sua vita e della sua filosofia che lo condussero al processo e alla condanna a morte è stato considerato, dal filosofo e classicista austriaco Theodor Gomperz, il «primo martire per la causa della libertà di pensiero e d’investigazione». (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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CORRIERE DELLA SERA

Socrate provocò la giuria del processo Quasi cercando la condanna a morte