Il gusto fantastico e orrido di Ensor nella bottega di souvenir

di Sergio Bertolami

7 – Il Simbolismo in Belgio: James Ensor.

Dopo la maschera mondana di Fernand Khnopff ci soffermeremo su altre maschere, come quelle dipinte da James Ensor, simboli della solitudine piuttosto che dell’eleganza, dell’inquietudine, della crisi identitaria, metafore con le quali quest’altro grande maestro del Simbolismo belga ha coltivato un terreno fertile alle avanguardie del primo Novecento europeo. Le Maschere davanti alla morte (1888), la Sorpresa della maschera Wouse (1889), Maschere bizzarre (1892), sono queste tra le sue maschere più celebri. Chi conosce Ensor, anche solo di sfuggita, non lo confonderebbe mai con Khnopff. Il primo istintivo, vibrante, coloristicamente violento, il secondo levigato, affettato, allusivo. Evidentemente, non era dello stesso avviso Ensor, che giunse ad accusare Khnopff di plagio per un dipinto presentato nel 1886 in una esposizione del gruppo Les XX. L’opera in questione è Ascoltando Shumann (1883) dove la madre di Khnopff, seduta in poltrona, appoggia assorta il capo su di una mano. Solo il titolo allude alla musica di un pianoforte, che delle dita sulla tastiera stanno appena sfiorando, in un angolo del dipinto. Nella Musica russa, Ensor mette, invece, al centro della tela, la pianista che il padre del pittore sta ascoltando. L’idea del pianoforte rievocava la sua passione per la musica e gli suggeriva il ricordo di ciò che non poteva più essere. Per lui, che visse e concluse la vita a Ostenda, i ricordi erano necessari, quanto le opere dalle quali non riusciva a separarsi, quanto il proprio ambiente familiare.

Fernand Khnopff, Ascoltando Schumann, 1883
James Ensor, La Musica russa, 1883, Musée Royaux des Beaux-Arts, Bruxelles

Come Fernand Khnopff scelse la sua villa, in questo stesso modo James Ensor rimase fedele alle proprie intime stanze. Nel 1880 installò lo studio nell’attico della casa dei genitori. Dalla finestra della camera da letto dipinse alcuni dei suoi grandi paesaggi. Nel soggiorno ambientò le scene dei suoi dipinti e, a loro volta, i suoi dipinti invenduti costituirono le decorazioni delle pareti della sua casa. Una “mise en abyme” con la quale duplicare la narrazione della propria esistenza. Basti immaginare che dopo il 1900, quando la sua espressività fenderà la fantasia del pubblico più colto, tornerà persino a copiare le composizioni più famose della sua arte. E poi c’era il negozio di famiglia, che per tradizione era occupata nel commercio di souvenir e di curiosità. Tutti i suoi parenti avevano negozi a Ostenda: i genitori, ma anche i nonni, gli zii e le zie. Vendevano cartoline, conchiglie, coralli, rane impagliate, sirene, ventagli, modellini di navi, cineserie, maschere. Sì, maschere, proprio maschere, che formeranno quell’universo di meraviglie al quale il pittore non vorrà mai sottrarsi. Non rappresentano, però, immagini allegre e facete. Lo compresero subito i venti artisti belgi che a Bruxelles nel 1884 – analogamente a quanto accadeva a Parigi con il Salon degli Artisti Indipendenti – inaugurarono il Salon des XX col quale organizzare esposizioni annuali.

James Ensor, L’entrata di Cristo a Bruxelles, 1888, Getty Museum, Los Angeles

Vi facevano parte Octave Maus e Théo van Rysselberghe, che lo avevano promosso, ma anche architetti come Henry van de Velde, scultori come George Minne o pittori come Jan Toorop e Félicien Rops. C’era anche Fernand Khnopff, suo compagno al corso Portaels nell’Accademia reale di Belle arti di Bruxelles. Ensor cominciò col prestare attenzione alle qualità espressive della luce, della linea, del colore, ai motivi grotteschi e macabri, come quelle maschere e quegli scheletri che ogni anno animavano le sfilate carnevalesche lungo le strade di Ostenda all’approssimarsi della Quaresima. Per questo Ensor nel 1887 propose al Salon des XX i risultati della sua ultima ricerca con la serie di disegni intitolati Visions. Le aureole di Cristo o la sensibilità della luce, perché solo la figura luminosa del Salvatore poteva riflettere, a suo avviso, tutti gli stati d’animo: “allegro” o “crudo” o “triste e rotto” o “intenso” o “radioso”. Il gruppo belga dei pittori aveva lodato le ricerche luministiche di Una domenica pomeriggio sull’isola della Grande-Jatte del francese Seurat, che i parigini al contrario avevano disdegnato all’Esposizione degli Impressionisti del 1886. Invece, i disegni di Ensor non suscitarono in loro nessun entusiasmo. Ensor stesso scriverà: «Sono stato collocato, a torto, tra gli impressionisti, millantatori della pittura en plein air, affezionati ai toni chiari. Prima di me, nessuno aveva compreso la forma della luce e le deformazioni che essa fa subire alla linea».

Ensor nel suo studio mentre suona l’armonium, sulla parete possiamo vedere “Cristo a Bruxelles”

La delusione divenne ancora più scottante quando lo stesso Salon des XX, proprio l’associazione di artisti che aveva contribuito a fondare, rifiutò L’entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889. Il dipinto fu considerato blasfemo e per tutta la vita gli toccò esporlo su di una parete dello studio. Oggi (proprietà del Getty Museum di Los Angeles) è celebrato come il suo capolavoro, precursore dell’Espressionismo del Ventesimo secolo. Ensor vi rappresenta la grande parata carnevalesca del Mardi Gras. In contrapposizione al puntinismo francese, utilizzò non solo spatole, ma entrambe le estremità del suo pennello, per applicare macchie di colore con grande libertà espressiva. «Queste maschere mi piacevano – scriverà – anche perché “stropicciavano” quel pubblico che mi aveva accolto così male». In particolar modo quei critici che non lo avevano fino ad allora compreso e la borghesia che non lo apprezzava affatto. Ecco allora rappresentata una calca scomposta di esseri ridicoli, un mare caotico di maschere ghignanti e deformi, pagliacci e volti caricaturali. «Vive Jesus le Roi de Bruxelles», gridano ovunque. Una fanfara strombazzante precede il corteo. Cristo monta un asino, perso come uno dei tanti tra una moltitudine indifferente. È riconoscibile dalla sua aureola dorata. Cristo, portavoce politico di poveri e oppressi. Umile leader della vera religione, in contrasto al riformatore sociale ateo Emile Littré, in abiti vescovili con in mano la bacchetta di un tamburo maggiore, che guida la folla festosa e scriteriata, pronta ad accogliere il figlio di Dio e poi tradirlo. Su di un enorme striscione rosso campeggia lo slogan “Vive la sociale”, in tal modo evidenziando le opinioni politiche del pittore a favore delle riforme e del suffragio universale. Una scritta quanto mai indicativa: stabilisce un primo legame tra manifesti politici e manifesti artistici.

La casa di Ensor a Ostenda

A partire dal 1896, Ensor cominciò a promuoversi come scrittore, pubblicando interventi su giornali come Le Coq Rouge e La Ligue artistique. Franz Hellens – prolifico romanziere e critico belga, quattro volte designato al Premio Nobel per la letteratura – ha steso nel 1974 la prefazione in una delle edizioni degli Écrits, designando come “il vero Ensor” quello che usava la penna più che il pennello, «l’Ensor armato di spada e miele, mordace e irriverente, ingenuo e cinico. Il più grande enfant terrible che la pittura abbia mai conosciuto, un bambino in tutte le connotazioni autentiche e terribili della parola». Viene da chiedersi come si vedesse Ensor, la cui figura d’artista attraverserà tutta la prima metà del Ventesimo secolo. In numerosi discorsi si definì un precursore del Luminismo, del Fauvismo, del Cubismo, dell’Espressionismo, del Futurismo e del Surrealismo. Ma non fu solo questo, perché Ensor attribuì sempre una grande importanza anche alla musica e alle sue produzioni musicali. Nel 1911 s’impegnò per La Gamme d’amour, una messa in scena per la quale scrisse libretto e musiche, oltre a disegnare scene e costumi. Dal 1917 l’artista si trasferì nella casa ereditata dallo zio, in Vlaanderenstraat/Rue de Flandre, dove visse ancora per oltre quarant’anni. Oggi la casa ospita il museo a lui dedicato. All’ingresso si affianca una perfetta ricostruzione del negozio di souvenir dello zio. A chi entra sembra quasi che il tempo si sia fermato.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

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