In questo breve e rapido excursus riguardante il gruppo stretto intorno a Matisse non rimane che accennare ai tre di Le Havre. Lo formano protagonisti eccellenti come Othon Friesz, Raul Dufy e Georges Braque. I primi due sono nati nell’importante città famosa per il suo porto, affacciato sulla Manica, secondo solo a Marsiglia. Il terzo artista, Georges Braque, è in verità di Argenteuil, ma la famiglia si trasferisce ben presto Le Havre, dove vi rimarrà per circa un decennio. Tutti e tre seguono i corsi serali della locale scuola di belle arti. Dipingono i primi paesaggi a Trouville e Honfleur e infine fanno il grande salto stabilendosi a Parigi per completare i propri studi artistici. Il primo impatto naturalmente è quello con lo stile degli impressionisti, ma quando fanno amicizia con Matisse, non resistono ai suoi convincimenti e aderiscono alla pittura dei Fauves.
Othon Friesz (Le Havre 1879 – Parigi 1949) desiste dagli studi liceali per frequentare, assieme a Braque e Dufy, la Scuola di Belle Arti. Nel 1898, grazie a una borsa di studio, si trasferisce a Parigi, dove conosce Matisse, Rouault, Marquet e contribuisce ad avviare il linguaggio fauve (Ritratto di Fernand Fleuret, 1907, Parigi, Musée National d’Art Moderne). Nonostante ciò, dopo il 1908, con la scoperta della pittura di Cézanne mette in atto una tavolozza terrosa e una solida struttura delle forme, attraverso una grafia ad arabesco di richiamo liberty (Cassis, 1909, Zurigo, Kunsthaus). È un modo per tornare ad esercitare una pittura più costruita come in Lavori d’autunno (Oslo, Museo). Nel 1906 con Braque si reca ad Anversa, e dopo il 1908 esegue una serie di paesaggi ambientati sulle coste del Mediterraneo. Chi dimentica che il padre di Othon Friesz era un capitano di mare? e che i suoi racconti di viaggi e di paesi lontani lo avevano affascinato sin dall’infanzia? Viaggia in Italia, in Portogallo, in Algeria, e ovunque trae interessanti occasioni per i suoi dipinti. Scavalcati gli anni della guerra (alla quale partecipa), si stabilisce definitivamente a Parigi, dove a partire dal 1924 insegna all’Accademia scandinava. Nel 1937 collabora con Dufy alla decorazione del palazzo di Chaillot. In questi anni dipinge nature morte, nudi e ritratti.
Raoul Dufy (Le Havre 1877-Forcalquier, Provenza, 1953) impiegatosi, per volontà del padre, sin dall’età di quattordici anni, dal 1895 frequenta i corsi serali della Scuola di belle arti, dove incontra Friesz e Braque. Nel 1900 a Parigi, grazie ad una borsa di studio, si iscrive alla Scuola nazionale superiore di Belle Arti e dall’anno successivo inizia ad esporre in pubblico. È in questo periodo che subisce l’influenza di Matisse e si interessa agli effetti di colore, come nel dipinto 14 luglio, del 1907. Ma si avvicina anche a Cézanne e a Braque. In breve, l’incontro di Dufy con la pittura dei Fauves è concomitante, né più né meno, con varie altre influenze attraverso le quali cerca spunti per avviare un percorso artistico personale. Eccolo dunque confrontarsi con gli espressionisti del gruppo Cavaliere Azzurro, oppure con i cubisti che l’amico Braque gli propone. La svolta avviene dopo il 1910, quando scopre le costiere del Mediterraneo, in particolare Nizza. È la definitiva maturazione stilistica. Dopo la Prima guerra mondiale compie viaggi in Provenza, Sicilia e Marocco, e soggiorna in varie località francesi, da Parigi, a Marsiglia, a Nizza. Sono gli anni in cui i suoi soggetti spaziano dagli ippodromi, ai caffè, ai locali notturni, ai teatri e sale da concerto. Non manca il mare, con vedute dai colori brillanti e dal disegno fluido e armonioso. Quando abita a Vence con Matisse, dipinge molti dei suoi quadri migliori come le Bagnanti, le Corse di cavalli, scorci di Venezia e di Nizza, piene di freschezza e di colori. Dufy è ricordato non solo come pittore, ma anche come decoratore e scenografo. Già attorno al 1910, si dedica all’arte decorativa, quale disegnatore di stoffe e di arazzi (per il sarto Poiret predispose cliché in legno per lo stampaggio di tessuti) si occupa di ceramica e d’illustrazioni editoriali. Attività artistiche in piena ascesa, che gli consentono di esaltare le sue tonalità squillanti, che mettono in luce un tocco grafico palpitante e allusivo. S’interessa altresì d’incisione: vale ricordare i modelli in legno per il Bestiaire di Apollinaire o le litografie per i Madrigali di Mallarmé. Nel corso degli anni a venire curerà pure costumi e scene per varie opere teatrali come Palm Beach (Ballets de Paris, 1926). Nel 1937 esegue per l’Esposizione universale di Parigi il grande dipinto dell’Electricité.
Concludo con Georges Braque (Argenteuil 1882-Parigi 1963). Anche per lui, come per i suoi amici di Le Havre, l’esperienza maturata tra i Fauves è un punto di partenza per sviluppare le proprie attitudini. Senz’altro è un’esperienza che gli permette di emanciparsi dagli insegnamenti ricevuti in ambito accademico, come all’Académie Humbert, che frequenta dal 1902 al 1904, appena trasferitosi a Parigi. Opere quali Port Miou oppure L’imbarcadero del porto di L’Estaque sono distinte da un’atmosfera solare che restituisce armonia d’animo. Espone per la prima volta al Salon des Indépendants nel 1906. Il periodo Fauve di Braque è piuttosto breve e si limita ad un paio d’anni, quando lavora con Friesz ad Anversa, a L’Estaque, infine a La Ciotat. L’anno successivo, la mostra commemorativa di Cézanne e l’incontro con Picasso mettono in crisi le sue certezze, stimolandolo ad intraprendere la nuova strada del Cubismo. Il 1907 è, infatti, l’anno in cui l’amico Picasso realizza Les demoiselles d’Avignon, una svolta nell’arte del primo Novecento. Ma questa è un’altra storia e a questo contesto torneremo.
Charles Camoin (Marsiglia 1879 – Parigi 1965) arriva a Parigi da Marsiglia e con Matisse, Marquet e Rouault, frequenta lo studio di Moreau nei pochi mesi che precedono la morte del maestro. Durante il servizio militare, nel 1899, conosce Cézanne rimanendo con lui in corrispondenza epistolare. La stretta amicizia con Cézanne porta Camoin a moderare le sue tendenze espressive orientate ai Fauve, fino a farlo avvicinare a Manet, in quanto a composizioni (Ritratto di Albert Marquet, 1904; Parigi, Museo Nazionale d’Arte Moderna). Nel 1903 espone per la prima volta al Salon des Indépendants e l’anno successivo apre la sua prima mostra personale alla galleria di Berthe Weil a Parigi.
Trasferitosi nel 1905 a Saint-Tropez, località che molto aveva influenzato i pittori fauves, vi trascorre gran parte della propria vita dipingendo principalmente paesaggi, nature morte, marine e ritratti: tutte opere di gusto tardo-impressionista nelle quali recupera alcuni elementi dell’arte di Renoir. Se gli esordi artistici di Camoin erano stati caratterizzati dall’uso vigoroso del colore, ora le sue opere possono dirsi caratterizzate per un certo equilibrio di toni soprattutto riguardo alla distribuzione della luce dagli effetti estremamente delicati. Legato a Matisse da sincera amicizia, in sua compagnia, tra il 1912 e il 1913, compie un viaggio in Marocco, da cui ricava nuovi spunti per i suoi dipinti.
In questi stessi anni che precedettero la guerra accadde un fatto rimasto alla memoria come “l’affare Camoin”. Il pittore, alla ricerca di una forma espressiva artisticamente più appagante, lacerò una sessantina di tele che non lo soddisfacevano e ne gettò i brandelli nel bidone della spazzatura del suo palazzo. Uno straccione, uso a raccattare tra i rifiuti gli scarti degli abitanti del quartiere, li raccolse e dopo averli ricomposti alla bene in meglio se li rivendette al marché aux puces, mercato alla periferia di Parigi in cui si trovano beni da rigattiere e abiti di seconda mano. Lo stesso Apollinaire sul Paris-Journal del 25 luglio 1914 raccontava l’episodio: “Il pittore Camoin, insoddisfatto dei suoi dipinti, voleva distruggerli. Li ha tagliati in quattro e li ha buttati via. Ma il loro destino non era finito perché sono stati raccolti e venduti da un dilettante che li ha fatti riadattare… Questi dipinti sono tra le opere più interessanti di questo pittore…”. L’archivio che raccoglie l’opera di Camoin ha finora potuto identificare 15 dipinti che riportano i segni distruttivi camuffati da restauratori più o meno esperti, tra cui “L’indochinoise” dipinto intorno al 1905 attualmente in una collezione privata, “Le Moulin Rouge aux fiacres” del 1910 attualmente depositato presso il Museo di Belle Arti di Mentone, e un Autoritratto del 1910 di proprietà privata.
Nel 1925 il pittore fu messo a conoscenza che alcune sue opere erano state ricostruite e vendute da Francis Carco, giornalista e scrittore, ricordato per i suoi romanzi, reportages, souvenirs, raccolte di poesie, ed opere teatrali. Reclamò in tribunale i diritti sulle sue opere protette, a suo avviso, da copyright. Con sentenza della Corte di Cassazione del 26 febbraio 1919, fu stabilito che “la proprietà letteraria non è suscettibile di possesso materiale”. In tal senso si è pronunciato il Tribunale Civile della Senna, con sentenza del 15 novembre 1927. Con tale sentenza veniva riconosciuto a Charles Camoin che i diritti di sfruttamento di un’opera artistica rimangono all’autore, finché non li avrà ceduti, anche nel caso non avesse più l’opera materialmente in mano.
Anche Jean Puy (Roanne 1876 – Roanne 1960) approda al Fauvismo attraverso il rapporto con Matisse. Nato sulla Loira, dopo gli studi di architettura a Lione, si trasferisce a Parigi nel 1898 e studia dapprima all’Accademia Jiulian, poi nell’atelier di Eugène Carrière. Entrato in rapporti di amicizia con Matisse e Derain, si orienta verso la pittura dei fauves e dal 1901 al 1908 espone regolarmente al Salon des Indépendants, al Salon d’Automne e in altre collettive, distinguendosi per qualità di impostazione formale ed esuberanza cromatica non troppo eccessiva (Paesaggio di Saint-Alban-les-Eaux, 1904, Parigi, Musée National d’Art Moderne).
Nel 1907 presenta le sue opere nella prima mostra personale tenuta alla galleria Eugène Blot di Parigi, alla quale faranno seguito molte altre esposizioni in varie città francesi. La sua formazione è influenzata da principio dall’Impressionismo, quindi dai Nabis, per essere coinvolto infine dallo stile dei Fauves, come dimostra col quadro Il pittore la modella sotto il parasole a Belle-Ile del 1905. Pur tuttavia le soluzioni formali non valicano i limiti della pittura naturalistica. Anche i colori vivaci, che ritroviamo sulle tele dei suoi compagni Fauves, si presentano più contenuti lasciando spazio ad atmosfere velate da tinte più fredde. Negli anni successivi al conflitto, a partire dal 1920 la sua visione artistica verrà influenzata dall’intimismo di Vuillard. Le sue forme saranno semplificate e il sapiente uso dei colori puri tenderà a rivelare un rinnovato interesse d’impianto Nabis.
In questo breve e veloce ritratto del gruppo stretto intorno a Matisse potrei continuare a citare altri nomi, non è possibile però non parlare dei tre di Le Havre e con loro concludere queste veloci puntate sui Fauves (Continua).
Georges Rouault (Parigi 1871 – Parigi 1958). Da adolescente è apprendista e poi impiegato presso il pittore di vetrate Émile Hirsch. Allo stesso tempo, segue le lezioni serali presso l’École Nationale Supérieure des Arts Décoratifs di Parigi. Dal 1891 è ammesso all’École des Beaux-Arts di Parigi nel corso di Jules-Élie Delaunay e, alla sua morte, in quello di Gustave Moreau del quale diviene l’allievo prediletto. Alla scomparsa del maestro, non a caso, è nominato curatore del museo Gustave-Moreau, a Parigi, aperto nel 1898. Durante gli anni di Accademia fa amicizia con Matisse, Marquet, Manguin. Tenta due volte il Prix de Rome, ma senza successo. Nel 1901 frequenta l’Abbazia di Ligugé e conosce Joris-Karl Huysmans. Profondamente cattolico, come quest’ultimo, riconosce nell’umanità sofferente il volto di Cristo. Per questo, pur seguendo la lezione dei Fauves si orienta verso temi legati a un’osservazione critica della società: giudici, avvocati, aule giudiziarie, indigenti, emigranti, latitanti. Per modalità d’esecuzione e partecipazione morale, queste opere assumono essenzialmente una valenza espressionista.
Importante per il suo percorso esistenziale sarà la frequentazione a Versailles del filosofo cattolico Jacques Maritain. Con i Fauves partecipa alle maggiori mostre pubbliche, di cui il Salon d’Automne del 1905 rimane il momento centrale. Si sposa nel 1908 con Marthe Le Sidaner (sorella del pittore Henri Le Sidaner) e ha quattro figli.
Nel 1910 Rouault allestisce la sua prima personale alla galleria Druet. Da questa data, collezionisti e commercianti, in particolare Maurice Girardin o Ambroise Vollard, sono attratti dalla grande forza espressiva del suo lavoro. Lo stesso Vollard, nel 1917, acquista tutte le tele dal suo studio, ben 770. Rouault è sempre incerto su ciò che realizza, per cui molti dei lavori acquistati dal mercante d’arte non sono completati. Ha il permesso di farlo, ma nel 1939 gli eredi di Vollard, stanchi di attendere, confischeranno le opere incompiute del pittore. Nel dopoguerra cerca ispirazione nei soggetti sacri e tema centrale diviene la passione di Cristo. L’opera più importante di questo periodo è un ciclo di grafiche denominato “Miserere”, incentrato sulla miseria della guerra e dei profughi.
Kees van Dongen (Delfshaven 1877 – Monaco in Costa Azzurra 1968). Irrequieto e vivacissimo artista olandese frequenta saltuariamente Parigi dal luglio 1897. Qui collabora a riviste satiriche, continuando l’attività come disegnatore di servizi di cronaca, esercitata a Rotterdam, sulla linea di Toulouse-Lautrec (ma anche di Steinlen e Forain). Si stabilisce, infine risolutivamente nella capitale dal 1900, frequentando il Bateau Lavoir e stringendo amicizia con Picasso. Assapora con lui la vita di bohème. Insieme vendono quadri come artisti di strada a 20 franchi l’uno. All’epoca van Dongen si ispira liberamente alle opere di Gauguin e dei Nabis. Nel 1904 realizza la sua prima mostra personale presentata alla galleria di Ambroise Vollard: una opportunità che gli permette di farsi conoscere e di avvicinarsi al gruppo dei pittori che espone stabilmente al Salon des Indépendants. Dipinge opere dalle tinte vivaci, esasperando il disegno elegante e ricco di emozioni. Il cromatismo deforma, nei contrasti, le immagini in forte tendenza espressionistica (Il clown rosso, 1905, Parigi, collezione privata). Con questa pittura entra a far parte del gruppo dei Fauves e con questi prende parte al famoso Salon d’Automne del 1905. Ma, attraverso l’amicizia con Picasso, tiene saldi nel contempo i legami con i cubisti e con gli espressionisti. Tali legami gli permettono di aderire ad alcune mostre in Germania, che influenzano persino i membri del Cavaliere azzurro.
Tra il 1905 e il 1912 Kees van Dongen esprime il massimo della sua arte (Donna alla balaustra, 1907-10, Saint-Tropez, Musée de l’Annonciade). Diviene il pittore «dell’effimero e del pittoresco della città, dell’immagine femminile nel panorama urbano (il circo, il cabaret…) cui imprime, peraltro, non la tensione emotiva e distruttiva propria, per dire, di un Kirchner (i cui temi sono assai simili), ma una carica di dolce, provocante erotismo, che esprime una verve scintillante e con una profusione di colore luminoso e aggressivo» (Lara-Vinca Masini). Conclusa la guerra alterna vari soggiorni tra Parigi e Costa Azzurra. La sua opera pittorica è ormai dedita alla facile ritrattistica mondana rispondente alla vita lussuosa e raffinata dell’alta borghesia francese.
Scorreremo velocemente altri nomi nelle prossime pagine (Continua).
L’iniziatore e animatore ufficiale del gruppo dei Fauves, come si sa, èHenri Matisse. Al suo nome è consuetudine associare almeno quelli di Marquet, Derain, de Vlaminck, di cui ho già scritto nelle pagine precedenti. Poche note sommarie, si capisce, perché per approfondimenti non mi stancherò mai di rimandare alle fonti originali, quanto ai copiosi saggi critici. Derain e de Vlaminck sono gli artisti di Chatou, l’isola della Senna a un tiro da Parigi, dove hanno stabilito studio e residenza. Matisse di loro dice che usano il colore come “cartucce di dinamite”. Ma già dai primi anni del 1900 Matisse, aveva attratto a sé anche altri compagni. Quelli dei primi passi nell’atelier Moreau e nell’Académie Carrière, dove avevano fatto amicizia Rouault, Camoin, Manguin, Puy. A questi, aggiungono il proprio entusiasmo i tre giovani ex-impressionisti provenienti da Le Havre (Friesz, Braque, Dufy). Il denominatore comune dei Fauves si ricapitolava nella rivendicazione della libertà totale dell’artista di fronte ai fatti della natura. Di qui si apriva ogni nuova visione, a cominciare dalle possibilità da esplorare da parte dell’Espressionismo, del Cubismo, del Futurismo, dell’Astrattismo: cioè di quella serie di correnti alternative al fauvismo stesso che nel giro di soli sei anni, con decisione, prenderanno il sopravvento. Questo perché la lezione comune dei Fauves tendeva a sgretolarsi, per via delle diverse sensibilità artistiche manifestate all’interno di un gruppo niente affatto coeso. Non mancò di ravvisarlo Apollinaire, che riferendosi alla personale ricerca di Derain spiegava le compenetrate istanze fauviste e cubiste dell’artista suo amico con il recupero di un certo realismo classicista. Vista dall’esterno, la difficoltosa ricerca di una espressività autonoma può suscitare confusioni, facili e insorgenti equivoci. Non solo il pubblico, ma anche la letteratura critica, tende spesso a segmentazioni nette, rivelando incertezze di fronte ai ripensamenti dei singoli artisti. Le correnti non sempre riescono ad aggregare gli animi irrequieti.
Louis Valtat (Dieppe 1869 – Parigi 1952), ad esempio, è considerato un precursore dei Fauves, perché inizia usare tinte forti e vivaci fin dei primi anni del 900, influenzato com’era dal rapporto con i pittori Nabis, che frequentava al Caffè Volpini di Parigi. Aveva trascorso l’infanzia a Versailles, iscrittosi poi all’Académie Jullian, s’era legato a Nabis e ai pointilistes. Tra il 1899 e il 1913 aveva preso a dividere il proprio tempo fra Parigi e Anthéor. Qui, riassumendo i temi agresti suscitati dagli splendidi paesaggi che la natura esprimeva, li aveva restituiti attraverso una straordinaria tavolozza dai colori brillanti e luminosi. Colori che lo faranno collocare fra i precorritori del movimento nato nell’ideale “cage” del Salon d’Automne. Perché ideale? Semplicemente perché le cinque opere che Valtat aveva presentato vennero esposte nella sala XV, insieme a quelle di Kandinskij, Jawlensky e altri artisti. Tuttavia, la critica le accomunerà a quelle dei Fauves della sala VII. Le bestie feroci ruggivano, dunque, anche fuori della gabbia. Tuttavia, per l’artista Valtat, i colori brillanti e solari dei suoi paesaggi servivano a trasmettere sensazioni avvertite di serenità e pace interiore di fronte agli spazi ampi e assolati. A suo vantaggio concorreranno in seguito anche i luoghi in cui vivrà, dopo la Prima guerra mondiale, ovvero la Bretagna e la Normandia. Lo ispireranno ad opere lontane dagli influssi delle avanguardie, quanto piuttosto legate ad un linguaggio naturalistico, libero e personale.
Henri Manguin, Le stampe, 1905Henri Manguin, Dormire, 1907Henri Manguin, Natura morta esotica, pompelmo, 1912Henri Manguin, Veduta su Grimand, 1920
Henri Manguin (Parigi 1874-Saint-Tropez 1948) è uno dei primi ad abbandonare la descrizione realistica, per avvicinarsi ad un uso libero e disinvolto dei colori, distinguendosi comunque per una maggiore coscienza della forma. Dal 1902 espone al Salon des Indépendants e dal 1904 al Salon d’Automne (Davanti alla finestra, 1904, Parigi, collezione L. Manguin). Anche nel suo caso, come in altri pittori del gruppo, il suo cromatismo vivace ha valenza espressiva ed emotiva, dapprima ispirato al puntinismo di Paul Signac, che Manguin ha conosciuto nel 1905 durante un soggiorno a Saint-Tropez. Vi trascorre le estati, lavorando alacremente “dal vero”, con l’utilizzo di tonalità più tenui rispetto al gruppo fauve, laddove prevalgono aranci e violetti, colori più adatti a rendere l’intensa luminosità dei paesaggi del Mezzogiorno francese (14 luglio a Saint-Tropez, 1905; Honfleur: il piccolo porto, 1924). Sono colori che continuerà a utilizzare anche quando la fase fauve si sarà affievolita. Così come manterrà anche i medesimi temi paesaggistici espressi con libertà di segno e di tratto. Non ha, però, il convincimento di proseguire fino in fondo la rivoluzione dimostrata dal movimento e, in quasi tutte le sue opere, mantiene la traccia di una tradizione convenzionale, che la critica riscontra immancabilmente nelle sue opere.
Altri nomi li scorreremo velocemente nelle prossime pagine (Continua).
Di Maurice de Vlaminck ho già accennato parlando di Derain. La sua unione con i fauves fu fragile e breve, come per molti altri del gruppo che dopo il 1907 intraprenderanno, chi più chi meno, un percorso autonomo.
Maurice de Vlaminck, Chiatte sulla Senna (Bateaux sur la Seine), 1905-06
Maurice de Vlaminck, La Senna a Chatou, 1906
Maurice de Vlaminck, Le bassin à Chatou (Il bacino diChatouconbarca a vela bianca), 1907
Il sodalizio con André Derain fu per Maurice de Vlaminck determinante, per gli sviluppi artistici che lo imposero all’attenzione come una delle personalità più forti e tenaci del gruppo. Conobbe l’amico Derain il 18 giugno 1900, in occasione del deragliamento di un treno per pendolari. L’anno successivo, visitando nella galleria Bernheim una retrospettiva dedicata a Vincent van Gogh sceglie la pittura come percorso privilegiato di vita. Fino a quel momento, pur di lavorare, aveva fatto un po’ di tutto: prima il meccanico, poi il corridore di bicicletta, poi il musicista suonando il violino nelle orchestrine della domenica. Infine, decise di unirsi a Derain e impiantare un proprio atelier artistico a Chatou, nell’antica Maison Levanneur, che attualmente ospita il Centre National Édition Art Image (Cneai).
Vista notturna della Maison Levanneur com’è oggi. Importante centro culturale di Chatou, che ospita la casa dei pittori Cneai (Centro nazionale per l’edizione, l’arte e l’immagine) del XIX secolo
Un anno dopo Derain lo lasciò a sé stesso, perché chiamato a prestare il servizio militare, ma tenne col giovane uno stretto rapporto epistolare. Si apriva un periodo da bohémien per l’artista, con una famiglia da mantenere, costretto a raschiare vecchi dipinti per recuperare le tele. Alla pittura accomunò la scrittura di due romanzi dall’estetica decadente e i contenuti piuttosto spinti per l’epoca. La passione verso l’arte primitiva e il fauvismo, che lo coinvolse completamente, gli permisero di inserirsi a pieno titolo fra gli artisti emergenti. Alla ricca cultura di Matisse de Vlaminck contrapponeva il suo istintivo entusiasmo di chi scopre il mondo da autodidatta. Si vantava di non essere un frequentatore di musei, ma di «amare van Gogh più di suo padre».
Maurice de Vlaminck, Paesaggio con alberi rossi, 1906
Matisse lo invitò a presentare lavori alla galleria di Berthe Weil e al Salon des Indépendants del 1905. Qualche mese dopo al Salon d’Automne. Lo scandalo smosse il mondo delle gallerie. Il mercante d’arte Ambroise Vollard fu affascinato dal lavoro di de Vlaminck. Lo sostenne con acquisti e nel 1908 gli dedicò una mostra personale. Non fu però l’unico mercante d’arte, perché anche Daniel-Henry Kahnweiler si interessò a lui. Sono questi gli anni, prima della guerra, in cui la pittura di Maurice de Vlaminck è incentrata su violenti toni puri (Il ponte di Chatou, Soleure, collezione privata; Paesaggio con alberi rossi, 1906, Parigi, Musée d’Art Moderne). Trascorsa, però, la stagione fauve, l’artista si accostò alla costruzione pittorica di Paul Cézanne (Autoritratto, 1912), passando poi a interessi condivisi dalla ricerca contemporanea (H. Rousseau e l’arte negra) fino ad intraprendere qualche sperimentazione cubista.
Maurice de Vlaminck, Autoritratto, 1912
Maurice de Vlaminck, Village, 1912 circa
Con la guerra venne assegnato a una fabbrica nella regione di Parigi e non spedito al fronte, avendo allora una moglie e tre figlie. Quando a conclusione del conflitto il peggio fu superato, divorziò e si risposò con Berthe Combe, che gli diede altre due figlie. L’arte fauves era ormai alle spalle e l’artista preferì concentrarsi su di una figurazione realistica, dai forti accenti espressionistici, con paesaggi dai colori cupi e densi. Dal 1925 si stabilirà a Rueil-la-Gadelière fino alla morte.
André Derain (a sinistra) e de Vlaminck (a destra), nel 1942
Abbiamo letto nella puntata scorsa che Fernand Léger descriveva così Salon des Indépendants (ripeto la citazione per comodità, vostra e mia): «È soprattutto una fiera di pittori per pittori, una fiera di dimostrazioni d’arte, il suo eterno rinnovamento, che è poi la sua ragion d’essere. Il Salon des Indépendants è un salone per dilettanti, il salone degli inventori. I borghesi che vengono a ridere di queste palpitazioni non sospetteranno mai che si stia recitando un dramma completo, con tutte le sue gioie e le sue storie. Se ne fossero consapevoli, perché in fondo sono brave persone, vi entrerebbero con rispetto, come in una chiesa».
Albert Marquet
A rileggere le fonti, sorprende come siano ricorrenti alcuni termini, accompagnati a immagini suggestive, come questo della chiesa, riferito da Léger. Scriveva, infatti, Vauxcelles: «È stata istituita una cappella, officiano due preti superbi. MM. Derain e Matisse; poche decine di catecumeni innocenti hanno ricevuto il battesimo». Solo che i nomi che enumera non sono quelli battezzati come fauves nell’articolo d’apertura del Salon d’Automne. In questo caso, il critico del quotidiano Gil Blas, affermava esserci «una quantità di Indipendenti», come Marquet e compagni. Di Marquet ho già accennato, ma vorrei aggiungere qualche parola.
Albert Marquet, Autoritratto, 1904
Albert Marquet
Lo abbiamo già conosciuto, quando con l’amico Matisse iniziò un percorso comune ai tempi in cui praticavano regolarmente lo studio di Gustave Moreau. Seguendo l’incitamento del maestro, Marquet percorreva in lungo e largo la città per appuntare sul suo taccino schizzi di banchine e ponti, sul lungosènna. Disegnava di tutto, velocemente, con maestria, riprendendo chiatte e lavandaie, scene di strada e passanti, carrozze, ciclisti, caffè-concerto. Usava pastelli a colori vivaci, ma anche pennelli. Quando racimolava qualcosa, affittava una stanza di servizio o una stanza d’albergo, per farne uno studio momentaneo.
Albert Marquet, La Senna e l’abside di Notre-Dame, 1902
Albert Marquet, Notre-Dame sous la neige, 1905
Come al 25 quai de la Tournelle nel 1902 per dipingere scorci di Notre-Dame oppure al 1di rue Dauphine vedute della Senna nel 1904. Di nuovo nel 1906 dipinge il panorama dalla Torre Eiffel all’Île de la Cité. Fonte d’ispirazione era Monet con la serie delle cattedrali di Rouen. A conti fatti, Marquet fa l’esperienza fauvista, espone insieme ai compagni. Ammira Matisse, ma non lo segue del tutto nelle sue sperimentazioni. Naturalmente la critica lo percepisce e lo fa notare, perché i suoi dipinti, pur usando i colori puri, resistono a certe forzature coloristiche dei suoi compagni. Gustave Coquiot gli rimprovera «un fauvismo castigato capace di piacere al grande pubblico», che, in verità, ai grandi felini preferisce i «gatti di casa» (Tériade).
Albert Marquet, Fécamp (The Beach at Sainte-Adresse), 1906
Dal 1905, meglio dal 1906, avviene la svolta che lo scioglie dalle endemiche difficoltà finanziarie. Lo Stato acquista alcuni suoi dipinti (Les Arbres à Billancourt nel 1904, e l’anno successivo Notre-Dame, soleil e nel 1906 Le Port de Fécamp). Espone al Salon belga de La Libre Esthétique. A Parigi è presente nelle gallerie di Berthe Weill e Bernheim-Jeune. Firma un contratto di esclusiva con Eugène Druet che gli assicura così di che vivere. Ora può viaggiare, e dipingere anche fuori di Parigi. Gli piace divertirsi, ha una vita sociale interessante. Ama il bigliardo e molto meno le discussioni intellettuali. Piuttosto preferisce i bordelli, che frequenta con Charles Camoin o George Besson. Riprende in questo modo, nell’inverno 1908-1909, gli studi di nudo trascurati dai tempi delle Accademie. Proseguirà così fino allo scoppio della guerra. Modella preferita è Ernestine Bazin, in arte Yvonne, alla quale si lega fino al 1922. È giovane, bella, vivace e impertinente. Soprattutto, davanti allo stesso carattere scontroso di suo padre che ogni tanto riemerge, Ernestine sa come farlo ridere. Chiaramente, gli ispira pose meno convenzionali delle modelle ritratte nelle sessioni di studio accademico.
Albert ed Ernestine-Yvonne intorno al 1910, quai Saint-Michel
Albert Marquet, Disegno da L’Académie des Dames
Quando viene dichiarata la guerra, anche Marquet è mobilitato, ma dimesso subito dopo per motivi di salute. Passeggiando tra una riva e l’altra della Senna o per il Quartiere Latino con Matisse e Van Dongen, attendono momenti migliori dandosi da fare a favore degli amici al fronte. Certo dal tempo dei fauves era passato qualche anno. Nell’ambito del movimento, Marquet aveva sviluppato uno stile personale, differenziandosi per un cromatismo meno marcato.
Albert Marquet, Vesuvius, c. 1909
Albert Marquet, Le Pont St. Michel, 1910
Dal 1909 alla violenza dei contrasti prediligeva toni grigi e sommessi, attraverso cui tradurre luci e atmosfere del paesaggio urbano (Il ponte Saint-Michel, Grenoble, Musée de Peinture et de Sculpture). Ora i suoi interessi si indirizzavano verso i grandi spazi di acqua e di cielo, come le sue vedute dei porti di Fécamp, Algeri, Napoli, Amburgo, Stoccolma. Aveva cominciato dopo il 1905, sulle orme di Matisse, ad intraprendere viaggi di studio in Francia, ora lo faceva anche all’Estero e continuerà per tutta la vita con questa passione dei viaggi: in Algeria e in Egitto, in Romania, Russia e Scandinavia.
Albert Marquet, La femme blonde (Femme blonde sur un fond de châle espagnol),1919
La mostra al Salon d’Automne del 1905, aperta al Grand Palais di Parigi, destò, dunque, scandalo. Colpì per l’audacia nell’uso dei colori veementi. Lo scrittore Camille Mauclair disse che «un barattolo di vernice era stato buttato in faccia al pubblico» e col termine “vernice” intendeva proprio il materiale adoperato dagli imbianchini per tinteggiare le pareti di uno stabile. Si può chiamare comunemente pittore un imbianchino, ma fare il contrario, chiamare imbianchino un pittore, è sicuramente segno di disprezzo. Né più né meno che denominare fauves questi pittori in mostra, come fece Louis Vauxcelles. Scrisse che il candore dei busti marmorei presenti nella medesima sala – come il candore delle imbiancature delle maestranze, sottintese da Mauclair – sorprendevano «in mezzo all’orgia dei toni puri», quanto Donatello tra le bestie feroci. Matisse facilmente avrebbe potuto ottenere l’approvazione del pubblico, che nell’applaudirlo come a teatro lo avrebbe incitato con bene! … bravo! e magari esortato al bis! Aveva, invece, preferito farsi sbranare dalle belve del circo come una verginella. Derain, dal canto suo, s’era rivelato «più un artista di manifesti che un pittore». Ho provato a descrivere la ricerca espressiva di Matisse e Derain in quella calda estate del 1905 a Collioure. Ma chi erano gli altri pittori saltati all’occhio critico di Vauxcelles? Marquet era il primo. Gli facevano compagnia i signori de Vlaminck, Ramon Pichot, Girieud, Manguin, Camoin. Fra tanti uomini, non mancava una donna, Jelka Rosen.
Jelka Rosen, Frederick Delius nel giardino della sua casa a Grez-sur-Loing,
Jelka Rosen
Comincerei da lei, perché incontrare un’artista donna che ufficialmente espone al Grand Palais non è certo consueto. Infatti, Vauxcelles le dedica poco meno di un accenno: «La signorina Jelka Rosen usa colori ribes molto acidi, la sua fantasia è comunque decorativa». Influenzata delle sue radici impressionistiche, frammiste ormai all’estetica del puntinismo, l’artista dipinge i fiori del giardino della sua casa a Grez sur Loing; ma anche suo marito, il musicista Frederick Delius, ha evocato quello stesso giardino nel poema sinfonico In a Summer Garden (1908).
Jelka Rosen, Ritratto di Frederick Delius, 1912
Hélène Sophie Emilie Rosen, amichevolmente chiamata Jelka, nata nel 1868 a Belgrado (importante centro dell’Impero Austro-Ungarico), era figlia di un diplomatico prussiano e, da parte di madre, nipote di un noto compositore. Aveva trascorso gran parte della sua infanzia in Vestfalia, in Germania, e già dalla prima infanzia parlava tre lingue. Quando nel 1891, accompagnata dalla madre appena rimasta vedova, Jelka si stabilì a Parigi per studiare arte affittò una stanza nel quartiere di Montparnasse e qui conobbe musicisti come Maurice Ravel – compositore del famosissimo Boléro – o artisti come Auguste Rodin, Paul Gauguin, Henri Rousseau, Edvard Munch, le cui opere orneranno più tardi la sua casa da sposata.
Ida Gerhardi, Autoritratto, 1905Camille ClaudelJelka Rosen
Conobbe anche donne come Camille Claudel o Ida Gerhardi, i cui contributi artistici non sono sovente riportati nelle comuni Storie dell’arte. Questo a dimostrazione dell’eccezionalità di trovare una donna in ambienti tipicamente maschili. Scrivere, infatti, che a Parigi Jelka Rosen studiò arte, sottintende che frequentò privatamente uno dei tanti studi che preparavano a sostenere l’esame di accesso all’Académie des Beaux-Arts. Una conquista culturale ottenuta da poco, perché solo dal 1900 – ben undici anni dopo la prima formale richiesta di ammissione alle Beaux-Arts presentata da Madame Bertaux – le donne potevano seguire un laboratorio loro riservato all’interno dell’Accademia. Dal 1903, le donne furono persino autorizzate a presentare domanda per concorrere al prestigioso Prix de Rome. Jelka Rosen studiò solo all’Accademia dello scultore italiano Colarossi, ma non entrò mai alle Beaux-Arts. l’Académie Colarossi, come l’Académie Julian, aveva corsi misti. Insegnamenti privati, dunque, che offrivano possibilità di sviluppare i propri interessi artistici anche alle donne, ma a costi elevati: solitamente il doppio di quelli richiesti agli studenti maschi.
Jelka Rosen e Ida Gerhardi nella classe di pittura dell’Accademia Colarossi a Parigi intorno al 1892/93
Dell’arte di Jelka Rosen non avremmo parlato affatto se non l’avessimo incontrata nella sala VII del Salon d’Automne del 1905, perché dopo qualche anno abbandonerà gradualmente la pittura. Sposatasi nel 1903, si dedicherà alla casa e al marito ammalato, come sovente accadeva. Ma come si era trovata fra gli artisti della mostra scandalo? Semplice, attraverso le sue esposizioni al Salon des Indépendants. Jelka Rosen rappresentava paesaggi ariosi – tutt’altro che fauves – con colori pastello ispirati dalle sue vacanze in Inghilterra e Norvegia, oppure attratta dai colori dei fiori del suo giardino. Dipingeva in compagnia di Ida Gerhardi. Le due donne trascorrevano l’estate applicandosi insieme (com’era uso fra gli artisti) e in alcune occasioni avevano esibito le loro opere in mostre pubbliche, dove erano state accolte con successo. In particolare, l’annuale Salon des Indépendants, dove Matisse l’aveva notata e invitata a frequentare la sua cerchia di artisti che a lui facevano capo. Il Salon des Indépendants era un trampolino di lancio per molti e lo fu anche per Jelka Rosen. Fernand Léger – pittore anche lui indipendente che sceglierà il cubismo – raccontava il Salon così: «È soprattutto una fiera di pittori per pittori, una fiera di dimostrazioni d’arte, il suo eterno rinnovamento, che è poi la sua ragion d’essere. Il Salon des Indépendants è un salone per dilettanti, il salone degli inventori. I borghesi che vengono a ridere di queste palpitazioni non sospetteranno mai che si stia recitando un dramma completo, con tutte le sue gioie e le sue storie. Se ne fossero consapevoli, perché in fondo sono brave persone, vi entrerebbero con rispetto, come in una chiesa». Jelka Rosen, anche se per breve tempo, entrò a fare parte di questa chiesa.
Seppure legati da chiare analogie e da reciproci rapporti, gli espressionisti francesi, che molti preferiscono distinguere come Fauves, hanno visibilmente sostanziali differenze con gli espressionisti tedeschi: quelli della Brücke, ad esempio. Edonisti raffinati i primi, passionali e protestatari i secondi, i quali antepongono alla bellezza dell’immagine dei francesi le asprezze e le irritazioni che scaturiscono loro da una viva partecipazione emotiva verso una società in mutamento. Organizzati e coesi i tedeschi, sciolti e disinvolti i francesi. Denominatore comune è, comunque, una ricerca che supera la realtà oggettiva degli impressionisti, favorendo l’idea che l’arte sia espressione della visione interiore dell’artista. Gli uni e gli altri si rispecchiano nella definizione di Selvaggi, se non altro per i vivacissimi ed eccitati colori che caratterizzano le loro opere. Sono però dei Selvaggi intellettualmente raffinati. Matisse – a Collioure, ad un passo dalla Catalogna, o a Parigi, cuore della Francia e dell’Europa – predilige circondarsi di amici intellettuali, non necessariamente artisti, e di opere d’arte antica e moderna, di stoffe preziose, di quelle sculture in cui i neri della Guinea, del Senegal e del Gabon hanno raffigurato con schiettezza le proprie passioni più paniche. Incroci di sensibilità moderne e primitive. È a Collioure che Matisse si misura, non solo in una nuova pittura, ma anche in una nuova scultura: «Al tono che avevo in passato – evidenzia – ne succederà un altro che, con densità maggiore, lo sostituirà con vantaggio, sebbene sia meno piacevole all’occhio». E per condurre ancora più avanti l’opera di affinamento, fa notare Herbert Read, (Le sculpteur, Hommage a Henri Matisse) l’artista sceglie la scultura, la più “solida” delle arti. A Collioure lo fa lavorando a quattro mani con Aristide Maillol.
André Derain, subito dopo il servizio militare. Foto del 1904
Matisse non ama affatto isolarsi, ma partecipare, condividere. Insiste perché André Derain lo raggiunga per dipingere insieme dal vero, sia paesaggi sia ritratti. Dapprima Derain rifiuta l’invito con il pretesto di essere a corto di soldi, poi scrive che i suoi genitori si rifiuteranno di lasciarlo andare fino all’altro capo della Francia. Alla fine, Matisse vince la resistenza dell’amico. Naturalmente, giunto a Collioure, Derain corre a stabilirsi da Rosette, la locandiera dell’Hôtel de la Gare, la quale, «quando vide questa specie di gigante, magro, tutto vestito di bianco, con baffi lunghi e sottili, occhi da gatto e un berretto rosso in testa, ingombro di una quantità di bagagli e di un parasole più alto dell’ombrello di un doganiere, si rifiutò categoricamente di avere a che fare con questo spettacolo vestito come per il carnevale, ordinando in catalano al suo unico dipendente, Mateu Muxart, di buttarlo fuori. Per fortuna quest’ultimo, che parlava francese, prese le difese dello straniero, un tipo simpatico, sottolineando la sua cortesia, dicendo che si era rivolto a lui gentilmente e gli aveva persino dato familiarmente del “tu”. Rosette farà un’eccezione per il nuovo arrivato. Gli affitta una stanza al primo piano, con vista sul cortile ombreggiato da un fico, un’acacia e un pergolato. Resta inteso che il pasto sarà consumato nell’ampia sala al piano terra che funge da sala da pranzo». Dettagli raccontati da scrittori locali, che via via vengono fuori oggigiorno: Claude Lamboley, dell’Académie des Sciences et Lettres de Montpellier, li riprende da Hilary Spurling, che a sua volta si rifà alla testimonianza di François Bernardi, che ha sentito parlare di questa storia molto tempo dopo i fatti.
Andre Derain, Autoritratto con cappello, 1905
Derain, che allora aveva 25 anni, era, per sua stessa ammissione, alquanto depresso. Ma non passa molto che Amélie Matisse comunica per lettera: «Il signor Derain è con noi da otto settimane e, con mio marito, lavorano sodo nonostante il caldo forte. Quando vieni a trovarci? Ci stiamo divertendo sempre di più qui e abbiamo già fatto diverse escursioni; siamo stati anche in Spagna e siamo felicissimi del nostro soggiorno». Matisse aveva conosciuto Derain nel 1901, quando i due si impratichivano copiando opere dei maestri al Museo del Louvre. Interessato fin dagli esordi alle variazioni di luce e colore, Matisse si era formato alla scuola di Moreau, da cui aveva appreso l’incanto delle immagini, che producevano in lui un grande compiacimento visivo. Quali angosce ed “urli” tedeschi. Benché fosse solo un casaro che faceva anche gelati, il padre di Derain lo avrebbe voluto ingegnere, ma lui, dopo avere compiuto gli studi classici al liceo Chaptal di Parigi, nel 1898 preferì iscriversi all’Accademia Julian.
Andre Derain, Dintorni di Chatou, 1904
L’anno dopo passa all’Académie Camillo, diretta da Eugène Carrière, amico di Pierre Puvis de Chavannes. Nel 1900, viaggiando su di un treno come pendolare, conosce de Vlaminck; l’anno seguente, Matisse, e poi via via, Jean Puy, Albert Marquet, Georges Rouault, che lo convincono tutti ad occuparsi esclusivamente di pittura. Per questo, con Maurice de Vlaminck, Derain affitta una stanza a basso prezzo sull’Ile de Chatou, sulla Senna, dov’era nato. Il giovane de Vlaminck, che all’epoca ha appena sedici anni, lo segue dappertutto, entusiasta ed inquieto. La vecchia casa di pescatori era chiamata Maison Levanneur: fino ad allora ospitava un ristorante e un bar per accogliere gitanti che venivano a godersi la calma dell’isola. Ai piani superiori alcuni ambienti ospitavano inquilini e qualche artista. Derain e de Vlaminck, si stabiliscono nell’edificio ormai abbandonato da “papà Levanneur” dopo la morte del proprietario. Senza un soldo, realizzano i loro primi dipinti. Per riscaldarsi bruciano le sedie inutilizzate del ristorante. In breve, la vecchia casa risalente al 1775 torna a rianimarsi. Molti amici e belle ragazze vi soggiornano, e trasformano l’atelier dei due giovani pittori in uno dei poli fovisti di Parigi.
Andre Derain, Il porto di Collioure, 1905
De Vlaminck e Derain si muovono e dipingono per l’isola e lungo le rive della Senna, da Chatou a Carrières, paesaggi con colori puri, senza neppure mescolare i colori del tubetto. Risale a questo periodo la prima opera importante di Derain: il Ballo a Suresnes (Museo di Saint-Louis, 1903). Il 1905 è l’anno della svolta. Espone al Salon des Indépendants e al Salon d’Automne, ritrovandosi improvvisamente incluso tra i Fauves. Anche se già nelle prime opere, Derain non è del tutto convinto di aderire, pienamente, alla nuova corrente. Ma ne ha un vantaggio: lo stesso anno 1905 firma il contratto col mercante d’arte Ambroise Vollard ( Bougival , olio su tela, 41 × 33 cm , 1905, museo di Le Havre), che lo consiglia di recarsi in Inghilterra. Derain il 24 novembre 1905 gli vende tutto il suo studio (89 fra dipinti e acquerelli) e parte nei primi giorni del marzo successivo. Il progetto imbastito tra artista e mercante prevede di dipingere una cinquantina di vedute di Londra e del Tamigi, che Vollard provvederà a piazzare al suo ritorno. Durante questo primo soggiorno, nella capitale inglese, Derain visita le collezioni del British Museum e della National Gallery. Tuttavia, dipinge molto poco sul posto, per cui i quadri saranno realizzati in massima parte al rientro, nel suo studio di Parigi. Trenta saranno completati tra la primavera del 1906 e la primavera del 1907. A Londra scopre anche l’arte primitiva. Acquista qualcosa, come una scultura lignea dei Fang, un gruppo etnico bantu tra Guinea e Gabon in Africa. Di ritorno, insieme a de Vlaminck inizia a collezionare quella che allora chiamano “arte negra”, oggetti eterogenei di arte popolare, madonne lignee, modellini di navi, strumenti musicali, bronzi del Luristan e del Benin. Ma non si limita a raccogliere esemplari esotici. Prova la scultura a intaglio su legno, interesse che allarga all’incisione e alla pittura su ceramica, conosciuta nell’atelier di André Metthey ad Asnières.
Andre Derain, Donna in camicia, 1906
È sicuramente per Derain un momento di grande rivolgimento artistico. Dipinge Donna in camicia (1906), dal frizzante sensualismo, che anticipa la magistrale Marzella di Kirchner (1909). Intraprende una corrispondenza epistolare con Matisse, che lo indurrà a sperimentare una nuova ricerca espressiva incentrata su linea, colore, forma, luce, e sulla concordanza tra emozioni e sensazioni secondo una modalità armonica musicale. All’inizio del 1907 soggiorna nuovamente a Londra, per la terza volta, e passa poi l’estate a Cassis. Daniel-Henry Kahnweiler diventa il suo nuovo mercante. Sempre nel 1907 incontra anche Braque, Picasso, André Salmon, interessati inizialmente al movimento dei Fauves, ma che presto apriranno la nuova strada del Cubismo. «Mi sento muovere verso qualcosa di meglio, dove il pittoresco conterebbe meno dell’anno scorso per affrontare solo la questione della pittura – scrive a de Vlaminck – cose più raffinate, meno primitive». Per questo motivo ritorna alle sue grandi composizioni decorative (La strada rotante a L’Estaque, Houston Museum) e in autunno riprende ad interpretare i temi preferiti di Cézanne. Il critico Louis Vauxcelles non aveva tutti i torti quando lo rimproverava di “marmorizzare” il maestro di Aix-en-Provence.
Andre Derain, Ritratto di Alice Géry, 1920-1921
Per stare più vicino ai suoi nuovi amici, l’anno successivo si trasferisce a Montmartre e comincia a frequentare il Bateau-Lavoir, sulle pendici della collina, nel quartiere di Clignancourt, dove s’è formato un quartiere d’artisti – non solo pittori e scultori francesi o stranieri, ma anche mercanti d’arte, scrittori e gente di teatro – che vi risiedono e vi svolgono la loro attività. È qui a Montmartre che, a ottobre, incontra per la prima volta Alice Géry, allora sposata con il matematico e teorico del cubismo Maurice Princet. La collezionista Gertrude Stein nelle sue Mémoires la descrive come una «Madonna con i capelli sciolti». Posa come modella per Picasso. Organizza insieme a suo marito produttive serate durante le quali Apollinaire, Max Jacob, Picasso stesso, confrontano modi di vedere e si abbandonano al piacere dell’oppio e dell’hashish. Commentava Maurice de Vlaminck: «Ho assistito alla nascita del cubismo, alla sua crescita, al suo declino. Picasso era la partoriente, Guillaume Apollinaire la levatrice, Princet il padrino» (Comédia, 1942). Più che a Princet, Derain è interessato a sua moglie. Dipingerà più volte il suo volto severo ed elegante. Alice diventerà presto la sua compagna e nel 1926, una volta separata dal marito, i due si uniranno in matrimonio.
Nel corso dell’estate 1909, a Montreuil-sur-mer, prepara le incisioni per il primo libro di Kahnweiler come editore, L’incantatore putrescente (L’enchanteur pourrissant) di Guillaume Apollinaire: colori accesi e smaglianti, senza ombre o chiaroscuri. A settembre Kahnweiler allestisce una mostra che riunisce Derain, Braque e van Dongen. Con Braque ha appena dipinto a Carrières-Saint-Denis. Tirando le somme, Derain, affianca fauves e cubisti, ne sperimenta i toni e le forme, ma non aderisce pienamente ai movimenti. La critica lo descrive come un uomo di cultura vasta e profonda, ammiratore delle opere dei grandi maestri antichi, che in fin dei conti continuano ad influenzare l’armonia della sua composizione. Anche quando, nel 1910, trascorre alcuni giorni con Alice a Cadaques insieme a Picasso e Fernande Olivier, non cede alle audaci tecniche del cubismo. Era reduce dalle esposizioni al Salon des Indépendants di Parigi e al Salon de la Toison d’or di Mosca. Al Salon d’Automne dell’anno precedente aveva presentato una nuova versione monumentale di Baigneuses. Aveva trascorso alcuni mesi a Martigues, per dipingere una nuova serie di paesaggi, eppure in una lettera a Matisse confessava: «Vado a fare paesaggi, ma a malincuore. Ho un’emozione molto bella, molto nobile di fronte al paesaggio che scelgo. Ma nel profondo della mia comprensione, non vedo alcun collegamento tra la visione diretta di questo paesaggio, la sua rappresentazione e l’emozione che provo».
Andre Derain, L’ultima cena, 1911
Derain si svincola dalle correnti. Nel 1911 partecipa a svariate esposizioni a Colonia, Amsterdam, Berlino. Nel 1912 è presente alla mostra Blaue Reiter di Monaco e Berlino, quindi alla mostra internazionale Sonderbund di Colonia. Dal 1911 avvia il periodo detto “gotico”, durante il quale rappresenta figure ieratiche e severe nature morte, come il Sabato (Museo d’arte occidentale di Mosca), le Due sorelle, la Cena, le Saline di Martigues, il Ritratto di Paul Poiret. Sono dipinti ormai lontani dai Fauves e dai Cubisti. Nondimeno, continua a scrivere a Matisse e a dipingere con Braque durante l’estate del 1913 a Sorgues e con Picasso l’estate dopo ad Avignone e Montfavet.
Andre Derain, Les salins de Martigues, 1913
Quando nel 1914 Derain è richiamato alle armi, come artigliere, Picasso accompagna lui e Braque alla stazione di Avignone. Dipinge pochissimo durante la guerra (Ritratto di Paul Poiret , 1916, Museo di Grenoble) e ha problemi finanziari. Matisse aiuta Alice, rimasta a Parigi, a trovare acquirenti interessati alla sua pittura. Dal fronte, Derain scrive a de Vlaminck nel 1917: «Dipingo quadri solo con l’immaginazione. Vorrei fare solo ritratti, ritratti veri, con le mani, i capelli: tutta la mia vita». Ad Alice, nel 1918, confessa il suo sconforto: «La mia testa è piena di gente che non vuole uscire». Saranno proprio Alice e l’amico Apollinaire ad aprirgli la nuova strada del dopoguerra, organizzando la prima personale alla galleria Paul Guillaume ad ottobre del 1916. Derain è ormai tornato alla figurazione classica, lasciando di nuovo spazio al disegno. Si è riconciliato con una pittura chiaroscurata, si rivolge alla migliore cultura italiana e francese, tenendo sempre presente la lezione di Cézanne. «Derain ha studiato appassionatamente i maestri – elogia Apollinaire nella prefazione del catalogo – Allo stesso tempo, e con impareggiabile audacia, è andato al di là delle cose più audaci dell’arte contemporanea per riscoprire con semplicità e freschezza i principi dell’arte e le discipline che da essi scaturiscono».
42 – Notes d’un peintre: principi artistici e filosofia di vita di Henri Matisse
Fra i dipinti presentati al Salon d’Automne del 1905 il più famoso è quello di Matisse, Donna con cappello (Femme au chapeau). L’opera raffigura la moglie dell’artista, Amélie Parayre, vestita in modo borghese. Il tocco libero, la luce frontale, l’uso acceso dei colori, ne fanno uno dei migliori esempi di fauvismo. I collezionisti Gertrude e Leo Stein, americani appassionati d’arte francese, acquistarono l’opera poco dopo la sua esposizione. Per il proprio piacere, e quello degli amici in visita, il quadro era appeso nel loro appartamento in rue de Fleurus a Parigi. Questo risollevò il morale di Matisse, che spesso aveva sofferto per le critiche caustiche al suo lavoro. Donna con cappello suscitò scalpore durante e continuò anche dopo la mostra del 1905, per la sua «volgare» mancanza di rappresentazione realistica, per l’insolita posa di Madame Matisse, ritratta di spalle, rivolta di tre quarti verso lo spettatore. Soprattutto per il modo di utilizzare il colore, che dai punti cromatici dei divisionisti si dilatava fino a formare vere e proprie chiazze. La tavolozza virava dal verde al giallo, dal blu al viola, dal bianco al rosso, tutto ciò affinché il volto di Amélie prendesse volume, superando ogni consueto effetto chiaroscurale.
Henri Matisse, Femme au chapeau, 1905
«Un pittore che si rivolge al pubblico non solo per presentare le sue opere, ma per svelare alcune delle sue idee sull’arte della pittura, si espone a diversi pericoli». È l’incipit del breve e intenso saggio, che Matisse decide di scrivere nel 1908 per rispondere agli attacchi che nel corso degli anni gli sono stati rivolti, per legittimare un modo di dipingere ritenuto sconcertante e scandaloso. S’intitola Appunti d’un pittore (Notes d’un peintre) e rappresenta il primo testo di Matisse a chiarimento della propria arte, «matrice delle successive osservazioni che l’artista farà, soprattutto a partire dagli anni Trenta, davanti a critici e dilettanti», come recita la nota del libro rieditato di recente dalle edizioni del Centro Pompidou di Parigi, con una prefazione di Cécile Debray, curatrice del Museo Nazionale d’Arte Moderna.
Henri Matisse, Notes d’un peintre. In questo testo pubblicato il 25 dicembre 1908 su La Grande Revue, Matisse risponde alle critiche dei suoi dipinti esposti al Salon d’Automne nel 1905.
La prima edizione vide luce il 25 dicembre 1908 su La Grande Revue. Il testo fu immediatamente tradotto in tedesco e russo, tanto l’interesse suscitato nel mondo dell’arte. Appunti di un pittore era in realtà un’influente dichiarazione d’intenti, un insieme di principi artistici su elementi fondamentali come espressione, colore, composizione, tecnica. Ma al tempo stesso una filosofia di vita. Faceva seguito ad un lungo articolo del pittore simbolista Josephin ‘Sar’ Péladan che aveva criticato Matisse e i Fauves di non dipingere onestamente, laddove, per onesto, intendeva il rispetto all’ideale e alle regole. Ma quale ideale e quali regole, si domandava Matisse? Per la verità Péladan, conosciuto come Sar Mérodack Joséphin Péladan, oltre che un artistoide era anche un eccentrico esoterista, che aveva fondato prima l’Ordine Cabalistico dei Rosacroce, quindi l’Ordine della Rosa-Croce Cattolica ed Estetica del Tempio e del Graal. Le sue conoscenze erano più brillanti che solide, gli rinfacciava Oswald Wirth, un altro esoterista come lui: «Péladan fu inebriato dal successo del suo Vizio Supremo e dalla curiosità che suscitava nei salotti, dove si sforzava di creare scalpore. Il titolo di Mago non gli bastava più, si promosse a Sar, che in Assiro significa Re». Come Sar lo appellerà Matisse a conclusione del saggio, rispondendo alle sue acide critiche. L’articolo di riferimento è “Le Salon d’Automne et ses Retrospectives”, uscito su La Revue Hébdomadaire, del 17 ottobre 1908.
Partendo da una citazione tratta dall’Institution chrétienne di M. Jean Calvin, Péladan si scaglia contro i pittori ignoranti: «La creatura crea, come il Creatore, a sua immagine, e l’interesse delle immagini, affreschi sublimi o stampe grezze, non si limita alla storia dei costumi. Un modo di vestire risulta da un modo di pensare. La forma manifesta sostanza; nasce da un lavoro incessante, da una spinta dall’interno verso l’esterno». Ecco perché, continua Péladan, «ogni anno diventa più difficile parlare di queste persone che nei comunicati di stampa si definiscono “les fauves”. Sono curiosi da vedere accanto alle loro tele. Corretti, piuttosto eleganti, li si prenderebbe per dei capireparto di grandi magazzini. Ignoranti e pigri, cercano di offrire al pubblico l’incolore e l’informe». Matisse non si scompone e risponde a tono: «Un artista trae sempre profitto dalle informazioni su sé stesso e sono felice di aver appreso qual è il mio punto debole. Monsieur Péladan nella Revue Hébdomadaire rimprovera un certo numero di pittori, tra i quali credo di dovermi collocare, di chiamarsi “fauves” e nondimeno si vestono come tutti, in modo che non si notino tra i frequentatori in un grande magazzino. Il genio conta così poco? Se fosse solo una questione riguardante me stesso, a tranquillizzare la mente del signor Péladan, domani mi chiamerei Sar e mi vestirei da negromante».
Ritratto di Joséphin Péladan dipinto da Alexandre Séon (1892 circa)
Una decina di pagine a seguire Péladan rafforza la critica: «Il pubblico, insensibile al difficile sforzo di raggiungere la bellezza, chiede solo buffonate. Un clown fa la fortuna di un circo e migliaia di artisti imitano Chocolat; solo (che qui) è la tela a ricevere calci in faccia colorati. La Verità, la più disperata delle Muse, l’inorridita Verità ci direbbe: “Supponiamo che Monsieur Matisse dipinga onestamente, non sarebbe che quasi sconosciuto; si esibisce come in fiera e il pubblico (al contrario) lo conosce. Onestamente – intendo dire nel rispetto dell’ideale e delle regole – non c’è speranza, né pane, per l’artista. Sia detto in difesa di questi sfortunati tatuatori del pannello». Un linguaggio già sentito altrove, che tende a relegare questi “scarabocchi infantili” in libri e camere per bambini. Lo stesso Péladan scrive: «L’Associazione “Arte a scuola” ha un devoto, Monsieur Georges Moreau, che ha raccolto in un bel volume alcuni esemplari molto curiosi di disegni per l’infanzia, ci sono schizzi di bambini dai sei ai sedici anni, nessuno dei quali è dotato se non di sincerità: sarebbero maestri e vocazioni per un Salon d’Automne e generalmente ben al di sopra della media dei fauves». Matisse, di nuovo, non si scompone e risponde: «Nello stesso articolo questo eccellente scrittore afferma che non dipingo onestamente, e sarei giustamente arrabbiato se non avesse qualificato la sua affermazione dicendo: “Intendo onestamente rispetto all’ideale e alle regole”. Il guaio è che non menziona dove sono queste regole. Sono disposto a farle sussistere; ma se fosse possibile impararle quali artisti sublimi avremmo! Le regole non esistono al di fuori degli individui: altrimenti un buon professore sarebbe un grande genio come Racine».
Matisse elude abilmente l’avversario: sa bene che le regole sono riportate in centinaia di testi scritti a favore delle accademie. Lui, però, non vuole limitarsi alle massime, né tantomeno ai sofismi dialettici o letterari. «Molti amano pensare alla pittura come un’appendice della letteratura e quindi vogliono che esprima, non idee generali adatte a mezzi pittorici, ma idee specificamente letterarie». È pienamente consapevole che il miglior portavoce di un pittore è il suo lavoro. Nelle sue pagine, dovrà dunque spiegare al pubblico la trasformazione della sua pittura, che si è evoluta con l’evolversi del suo pensiero. Attesta fermamente: «Quello che cerco, soprattutto, è l’espressione». La spiegazione di questa affermazione può fare comprendere come l’Espressionismo di Matisse sia ben distante da quanto manifestato dai suoi contemporanei tedeschi. «L’espressione, per me, non risiede nelle passioni che brillano in un volto umano o manifestate da movimenti violenti. L’intera disposizione del mio quadro è espressiva: il posto occupato dalle figure, i vuoti che le circondano, le proporzioni, ogni cosa ha la sua parte. La composizione è l’arte di disporre in modo decorativo i diversi elementi a disposizione del pittore per esprimere i suoi sentimenti. In un’immagine ogni parte sarà visibile e svolgerà il ruolo assegnato, sia esso principale o secondario. Tutto ciò che non è utile nell’immagine, ne consegue, è dannoso. Un’opera d’arte deve essere armoniosa in direzione loro come mostra di più nella sua interezza: ogni dettaglio superfluo sostituirebbe qualche altro dettaglio essenziale nella mente dello spettatore».
Henri Matisse, Paesaggio a Collioure, 1905
L’espressione per Matisse è legata ai sentimenti. Riportarli sulla tela è reso possibile ricorrendo alla composizione e all’armonia dell’insieme. Ci sono due modi di rappresentare: o brutalmente o procedendo attraverso una evocazione artistica. Superando, ad esempio, l’idea di rappresentare la realtà del movimento, otterremo una maggiore bellezza e grandezza. Come nelle statue egizie, solo in apparenza rigide, capaci invece di restituire l’immagine di un corpo pronto a muoversi all’improvviso. «Devo definire con precisione il carattere dell’oggetto o del corpo che voglio dipingere. Per farlo, studio molto da vicino il mio metodo […] Se su una tela bianca pongo alcune sensazioni di blu, di verde, di rosso, ogni nuovo tratto sminuisce l’importanza dei precedenti […] È necessario che i vari segni che uso siano equilibrati in modo che non si distruggano a vicenda. Per fare questo devo organizzare le mie idee; le relazioni tra i toni devono essere tali da sostenerle e non distruggerle […] Dal rapporto che ho trovato in tutti i toni deve risultare una viva armonia di colori, un’armonia analoga a quella di una composizione musicale». Tutto si concentra all’atto del concepimento. Avere una visione chiara sin dall’inizio significa definire l’ordine e la chiarezza espressiva, come in Cézanne, dove «tutto è così ben disposto che non importa a quale distanza ti trovi o quante figure sono rappresentate».
Henri Matisse, La Finestra aperta, 1905
«La funzione principale del colore – continua Matisse – dovrebbe essere quella di servire l’espressione nel miglior modo possibile […] Per dipingere un paesaggio autunnale non cercherò di ricordare quali sono i colori adatti a questa stagione, mi ispiro solo alla sensazione che la stagione suscita in me: la purezza gelida del cielo azzurro e acido esprimerà la stagione, così come le sfumature di fogliame. La mia stessa sensazione può variare, l’autunno può essere morbido e caldo come una continuazione dell’estate, o piuttosto fresco con un cielo freddo e alberi giallo limone che danno un’impressione gelida e già annunciano l’inverno». La natura non deve essere, perciò, copiata, ma interpretata, sottomessa allo spirito che si vuole esprimere nel quadro. Ecco perché la nuova visione di Matisse non può più assecondare le teorie del puntinismo. «La mia scelta dei colori non si basa su alcuna teoria scientifica; si basa sull’osservazione, sulla sensibilità, sulle esperienze vissute. Ispirato da alcune pagine di Delacroix, un artista come Signac è preoccupato per i colori complementari, e la conoscenza teorica di essi lo porterà a usare un certo tono in un determinato luogo. Al contrario, io cerco semplicemente di mettere giù i colori che rendono la mia sensazione».
Henri Matisse, Autoritratto con maglietta a righe, 1906
Per Matisse la stessa teoria dei colori complementari non è affatto assoluta. Il divisionismo non gli appartiene più, e questo perché «chi lavora in uno stile preconcetto, voltando deliberatamente le spalle alla natura, perde la verità». Matisse non è certo un artista di paesaggio, né è interessato alle nature morte. Quando sorge una discussione se sia meglio lavorare d’immaginazione o prendere spunti dalla natura, risponde che il primo metodo non esclude il secondo: in entrambi i casi l’artista potrà arrivare a quella totalità che costituisce il suo quadro. La verità è che l’artista deve sempre essere «in grado di organizzare le sue sensazioni per continuare il suo lavoro con lo stesso stato d’animo per giorni diversi, e sviluppare queste sensazioni; questo potere dimostra che è sufficientemente padrone di sé stesso per sottoporsi alla disciplina». E anche quando decidesse di discostarsi dalla natura dovrà farlo con la convinzione d’interpretarla più pienamente.
Henri Matisse, Le bonheur de vivre, 1906
«Quello che sogno è un’arte dell’equilibrio, della purezza e della serenità, priva di argomenti preoccupanti o deprimenti, un’arte che potrebbe essere per ogni lavoratore mentale, per l’uomo d’affari così come per l’uomo di lettere, ad esempio, un calmante, un sedativo mentale, qualcosa come una buona poltrona che fornisce relax dalla fatica fisica». È vero, chi legge e si aspetta opinioni ben più pregnanti sulla pittura, forse potrebbe dire che Matisse se n’è uscito sciorinando luoghi comuni. È l’artista stesso che lo presume. «A questo risponderò che non ci sono nuove verità. Il ruolo dell’artista, come quello dello studioso, consiste nel cogliere verità attuali, spesso a lui ripetute, ma che assumeranno per lui un nuovo significato e che farà proprie quando ne avrà colto il significato più profondo». Cogliere le verità attuali, fare ordine e chiarezza, organizzare le sensazioni – anche quelle più fugaci come fascino, leggerezza, freschezza – mantenere lo stesso stato d’animo fino alla conclusione dell’opera: questo è il nucleo del pensiero formulato negli Appunti. «C’è stato un tempo in cui non lasciavo mai i miei quadri appesi al muro perché mi ricordavano momenti di sovreccitazione e non mi piaceva rivederli quando ero calmo. Oggi cerco di mettere serenità nelle mie immagini e di rielaborarle finché non ci sono riuscito». Non c’è modo migliore per esprimere le sensazioni avvertite mentre si percorre una nuova strada: occorre solo aver chiaro sin dall’inizio cosa certare. «Quello che cerco, soprattutto, è l’espressione», l’espressione indistinta della gioia di vivere, Le bonheur de vivre, tra il sentimento che si prova per la vita e il modo giusto per tradurla in pittura.
41 – Henri Matisse e André Derain fra gli artisti del Roussillon
Il fauvismo – occorre evidenziarlo subito – è una fase effimera nella lunga e sfaccettata storia dell’arte del Novecento. Matisse ne parlerà come di una “prova del fuoco” dalla quale uscirà temprato. Bene aveva intuito il critico Louis Vauxcelles che, su Gil Blas, riportava la sua visita al Salon d’Automne del 1905: Matisse avrebbe potuto ottenere facili riconoscimenti, ma preferiva vagare in una ricerca appassionata, chiedere al puntinismo qualcosa di più, come vibrazioni o luminosità. Quella ricerca appassionata si era fatta strada durante l’estate del 1905, a Collioure, con la stimolante compagnia del giovane Derain. Non a caso, quando Vauxcelles, più tardi, si riferirà all’istituita congrega dei fauves, dove secondo il critico officiavano come in una confraternita due preti superbi, farà proprio il nome di Derain e Matisse. Solo che lo scrive nel 1907, allorché il gruppo sta per separarsi, con l’idea d’inseguire principalmente il Cubismo, iniziato da Picasso e, soprattutto, da quel Braque che era stato accolto come fauve. L’effetto più vantaggioso, però, era che al Salon d’Automne gli esponenti di quella congrega erano emersi all’attenzione, una volta per tutte, e all’improvviso Matisse aveva acquisito la celebrità del capofila. Con la mostra interessò collezionisti d’avanguardia, come gli americani della famiglia Stein, Leo Stein col fratello Michael e la sorella Gertrude, e più avanti i russi Stschoukine e Morosov, tutti collezionisti che da quel momento acquistarono da lui regolarmente, fino allo scoppio della guerra, con lungimiranza e ammirazione degne di nota.
Di Henri Matisse, Vista di Collioure, 1905
Collioure, nel Sud estremo della Francia al confine con la Spagna, è stato il catalizzatore che ha contribuito alla nascita del fouvisme. Nulla l’avrebbe fatto presagire, perché il piccolo paese di pescatori, all’inizio del Novecento, era conosciuto per le sue acciughe: pescate, lavorate in modesti laboratori di salagione e conservate in botti di legno. Per il resto, un bellissimo paesaggio mediterraneo di aranci e limoni, di sole e cielo terso, erano gli effetti speciali che potevano coinvolgere lo spirito di poeti e pittori. Paul Signac ci aveva soggiornato diciott’anni prima, nel 1887. Per un po’ aveva affittato una stanza sopra un droghiere, poi aveva preferito partire per Saint-Tropez. Gli straordinari paesaggi offerti dal Var e dalla Costa Azzurra erano fra i preferiti dei pittori. Nell’estate del 1905, Marquet e Manguin svolgevano a Saint-Tropez le loro ricerche, favoriti da Signac loro nume tutelare. Anche Camoin li raggiunse un paio di mesi dopo, proveniente da Aix e da Cassis dove aveva seguito le orme dell’anziano Cézanne. Ai tempi, però, la situazione economica di Matisse era delicata e Saint-Tropez troppo costosa. Nella mostra collettiva di aprile la gallerista Berthe Weill annotava sul suo registro: «Camoin è in testa alle vendite; segue, al secondo posto, Marquet». Matisse, che aveva presentato sei dipinti, languiva. Al Salon des Indépendants, gli Stein avevano giudicato le opere puntiniste di Matisse come «insoddisfacenti» e avevano comprato un Nudo di Manguin. L’anno precedente Matisse aveva seguito la scelta d’obbligo, fermandosi a Saint-Tropez, e qui aveva conosciuto Signac e Cross. Ma la pittura puntinista, che prima lo aveva esaltato, ormai tendeva a deluderlo. Dopo Luxe, calme et volupté (Lusso, calma e voluttà), aveva scritto: «Tutte le tele di questa scuola producono lo stesso effetto: un po’ rosa, un po’ azzurro, un po’ verde, una tavolozza molto limitata con la quale non mi sento a mio agio». Ricercava paesaggi che potessero ispirarlo. Li aveva cercati ad Agay, Cannes, Nizza, Monaco, Mentone. Infine, era stato proprio Signac a consigliargli di andare a Collioure: cittadina francese sulla costa catalana, ricca di spunti artistici e certamente più economica di Saint-Tropez.
Henri Matisse, Luxe, Calme et Volupté, 1904
Il 16 maggio 1905 Henri Matisse giunge a Collioure da Perpignan dove si trovava con la famiglia, in visita a sua cognata Berthe. Lo raggiungeranno pochi giorni dopo la moglie Amélie – prediletta modella di quegli anni – e i figli. Fu così che Collioure poté contare il suo secondo pittore “straniero” dopo Signac. All’epoca i forestieri erano davvero pochi, per lo più viaggiatori di commercio o impiegati delle ferrovie. La famiglia Matisse trovò alloggio all’Hôtel de la Gare, unica locanda del paese, a 200 metri dalla stazione. La proprietaria, la vedova Paré, chiamata Rosette, che come tutti i locali parlava soltanto catalano e non aveva nessuna fiducia nei forestieri, si lasciò sedurre dall’aria rispettabile di Monsieur Henri. Con la barba e gli occhiali da insegnante, il suo vestito pulito ed ordinato, che non lo facevano assomigliare per niente ad un artista. Rosette si fece perfino effigiare da Matisse in un ritratto scolpito su di un pezzo di legno. Con i suoi modi affabili, Matisse riusciva a stringere amicizia e a integrarsi. Quando a luglio, su insistenza di Matisse, lo raggiungerà pure Derain, anche lui decorerà una porta dell’albergo con le figure di Don Chisciotte e Sancho Panza. Prima del suo arrivo, Matisse ha già stretto legami un po’ ovunque. Con Paul Soulier, viticoltore e appassionato fotografo amatoriale che lo aiuta a reperire una piccola stanza affacciata sulla spiaggia del Faubourg, un quartiere di pescatori, che il pittore usa come atelier e, da luglio, una villa bifamiliare con terrazzo con vista sulla spiaggia di Voramar vicino alla chiesa. Il 20 maggio Matisse scrive a Manguin: «Abbiamo trovato un albergo economico (150 franchi al mese per noi quattro) […] e ho affittato sulla banchina chiamata Faubourg una stanza con vista mare dove lavoro con tutto il mio agio. Ho come frequentazione abituale quella di un pittore degli Indépendants, amico di Luce, che si chiama Terrus e che è una piacevole compagnia».
LE ROUSSILLON A L’ORIGINE DE L’ART MODERNE 1894-1908. Esposizione presentata alla Salle Maillol del Palais des Congrès di Perpignan, dal 4 luglio al 27 settembre 1998
Ètienne Terrus è un pittore locale, anarcoide, amico di Maximilien Luce, puntinista, che s’era installato nell’atelier del quai Saint-Michel, lasciato sfitto a Parigi da Matisse. Terrus faceva parte di piccolo gruppo di artisti follemente innamorati di Gauguin. Un gruppo che oggi sta cominciando ad essere conosciuto e a riscuotere il merito che gli spetta. Stralcio dal catalogo della mostra presentata alla Salle Maillol, Palais des Congrès, Perpignan, dal 4 luglio al 27 settembre 1998, col titolo 1894-1908. Le Roussillon à l’origine de l’art moderne: «Fu durante l’estate del 1905, a Collioure, che Matisse venne a conoscenza dell’onnipotente aiuto che Gauguin, morto alle Isole Marchesi due anni prima, poteva portargli. “Incontro” capitale – Gauguin non mise mai piede nel Roussillon – perché quell’estate nacque il Fauvismo. Un “legame”, quindi, unisce questi due maestri, che si potrebbe dire “mancante”, tanto poco è stato individuato nella storia dell’arte. Lontano da Parigi e dalle mode, si compongono artisti locali, alcuni famosi, altri meno: Aristide Maillol, lo scultore di Banyuls; il suo amico pittore di Elne, Etienne Terrus; Il confidente di Gauguin, Georges-Daniel de Monfreid, che si stabilì a Corneilla-de-Conflent». Proprio quest’ultimo, Georges-Daniel de Monfreid, pittore, scultore, ceramista e maestro vetraio, era un amico di Gauguin. Lo aveva conosciuto a Parigi prima che partisse per Tahiti e rimarrà in contatto epistolare, divenendone l’esecutore testamentario alla sua morte, nel 1903. A Matisse, de Monfreid mostra la sua collezione di opere di Gauguin, che comprende ceramiche, sculture in legno e il famoso manoscritto-testamento Noa Noa. Secondo M. C. Valaison, non c’è dubbio che sia stato de Monfreid, che conosceva Matisse dal 1896, a svolgere un ruolo fondamentale nell’accoglierlo a Collioure e introdurlo nella ristretta cerchia degli artisti del Roussillon. Alcuni sono poco più che dei dilettanti della domenica, ma in questa piccola cerchia troviamo anche nomi di pittori interessanti. È il caso proprio di Étienne Terrus, che vive a Elne e che ha appena esposto, come Matisse, diversi dipinti all’ultimo Salon des Indépendants, nel marzo-aprile 1905. In uno di questi, Le Racou, una spiaggia di Argelès-sur-Mer, non esita a giustapporre il rosso violento del tetto di una capanna con l’azzurro intenso del mare. Sembra un Fauve prima dei Fauves.
Étienne Terrus, Le Racou
Attraverso Terrus, Matisse conosce lo scultore Aristide Maillol nella sua fattoria a Banyuls-sur-Mer e lo aiuta a modellare in gesso La Méditerranée. Al di là delle biografie idilliache, il rapporto fra i due artisti presenta i suoi contrasti, se Matisse scrive: «Noi non eravamo fatti per capirci. Lui lavorava partendo dalla massa, come gli Antichi, mentre io partivo dall’arabesco, come i Rinascimentali. Maillol non amava il rischio, mentre io ne subivo il fascino». Ma è con l’arrivo di André Derain che è possibile seguire quello che negli anni a venire Matisse chiamerà “un nuovo metodo di pittura”. Entusiasta di questo inaspettato luogo, che non si limita al sole e al mare, ma gli permette di essere coinvolto calorosamente fra la gente del Roussillon, Matisse scriveva, il 25 giugno 1905, all’amico Derain: «Non posso essere troppo insistente per convincerti che un soggiorno qui è assolutamente necessario per il tuo lavoro – saresti nelle condizioni più vantaggiose e trarresti benefici pecuniari dal lavoro svolto. Sono certo che se mi ascolterai ti troverai bene. Perciò, te lo ripeto, vieni».
Aristide Maillol, La Méditerranée, 1905
Matisse, quando arriva Derain, lavora ancora per pochi giorni sulla terrazza vista mare della camera lungo la banchina del Faubourg, sopra il Café Olo dove vanno a bere i pescatori. Poi si trasferirà vicino alla chiesa di Voramar. Insieme dipingono vedute di Collioure. Derain è preso dalla frenesia: produce una trentina di dipinti a olio, il doppio di Matisse. Derain scrive a de Vlaminck: «Qui le luci sono molto forti, le ombre molto chiare. L’ombra è tutto un mondo di chiarezza e luminosità che si oppone alla luce del sole: quelli che vengono chiamati riflessi». A Collioure hanno trovato finalmente materia per risolvere i dubbi e ubriacarsi di colore. Matisse dipinge di rosso la spiaggia di Collioure e confessa all’amico: «Senza dubbio sarai sorpreso di vedere una spiaggia di questo colore. In effetti, era di sabbia gialla. Mi sono reso conto di averla dipinta di rosso […] Il giorno dopo, ho provato con il giallo. Non andava per niente bene, per questo ho rimesso il rosso…». Chi pensa che le soluzioni nascano per caso e senza travaglio, si sbaglia. Lo testimoniano la quantità di lettere scambiate fra i protagonisti. Derain a de Vlaminck: «Lavorando accanto a Matisse, imparo a estirpare tutto ciò che caratterizza la divisione del tono. Lui continua su questa strada, io invece sono rinsavito e non la uso quasi più. Ha senso in un arazzo o in un pannello luminoso e armonioso. Ma nuoce a tutto ciò che trae vigore dalle disarmonie intenzionali. Insomma, è un universo che si distrugge da solo quando lo si dipinge all’eccesso». Quelle disarmonie intenzionali sono per Derain il modo per slacciarsi dalle metodiche categoriche di Signac e del suo gruppo ristretto, in barba al loro principio sulla complementarità dei colori.
André Derain, Barche a Collioure, 1905
Non è così per Matisse, che lavora sulle molteplici varianti del punto di colore. Lo testimonia l’antologia delle variazioni sul tema del punto declinato in tratto, virgola, tassello, macchia, che ritroviamo in un dipinto come I tetti di Collioure. In realtà il divorzio di Matisse dal Pointillisme è una macerazione tutta interna al suo spirito. Il porto d’Abail può essere un esempio. Un dipinto senza dubbio puntinista. Matisse l’inizia a Collioure, lo lascia incompleto, poi lo termina a Parigi. Il 19 agosto aveva scritto a Manguin che l’opera era «abortita». Henri Edmond Cross aveva risposto il 18 luglio con alcune osservazioni sul lavoro: «il bozzetto del vostro Port deCollioure [d’Abail] mi sembra presentarsi bene; l’equilibrio compositivo è perfetto; qualità che dovete cercare di conservare aggiungendo colori e studiando gamme tonali. Credo che, all’inizio di un lavoro, sia bene guardarsi dal fare troppo affidamento sul tracciato lineare della composizione. Bisognerebbe, invece, avere ben chiaro in mente l’effetto da raggiungere, che nel nostro caso è il colore. Per me un dipinto è un’armonia di tinte e toni; tale armonia deriva da uno o più nuclei legati tra loro da armoniosi contrasti». Anche Signac, interpellato, fornisce i suoi consigli. Lo fa con una citazione da Cézanne, spedendogli una cartolina: «Disegno e colore non sono due cose distinte. Man mano che dipingiamo, disegniamo: più il colore è armonico, più il disegno si chiarisce. Quando il colore è usato in tutta la sua ricchezza, la pienezza della forma e completa». Il vecchio maestro è la stella polare di Matisse per trovare il suo porto. Non all’interno del Pointillisme, come avrebbe voluto Signac, ma contraddicendolo in tutto e per tutto.
Matisse, Le Port d’Abail, 1905
Questa ricerca sulla linea-colore che Matisse discute con slancio, crea qualche dissapore con Derain, che in una lettera a de Vlaminck scrive: «al momento, attraversa una crisi creativa. Ma resta comunque una persona straordinaria, più di quanto pensassi, dal punto di vista logico e delle speculazioni psicologiche». Alla fine di agosto, con l’idea dei prossimi impegni, Derain rientra a Parigi: «Se non fosse stato per questo sacro Salon d’Automne, non sarei tornato affatto». Parte da Collioure per Marsiglia con un battello proveniente da Algeri. Matisse torna a Parigi, con la famiglia, all’inizio di settembre, via Avignone. A fine mese scrive a Signac: «È la prima volta nella vita che sono contento di esporre le mie cose, forse non importantissime, ma che hanno il merito di esprimere in maniera purissima le mie sensazioni, cioè quello che sto cercando di ottenere da quando dipingo».
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