Gli amici Fauves di Matisse: André Derain

di Sergio Bertolami

43 – I protagonisti

Seppure legati da chiare analogie e da reciproci rapporti, gli espressionisti francesi, che molti preferiscono distinguere come Fauves, hanno visibilmente sostanziali differenze con gli espressionisti tedeschi: quelli della Brücke, ad esempio. Edonisti raffinati i primi, passionali e protestatari i secondi, i quali antepongono alla bellezza dell’immagine dei francesi le asprezze e le irritazioni che scaturiscono loro da una viva partecipazione emotiva verso una società in mutamento. Organizzati e coesi i tedeschi, sciolti e disinvolti i francesi. Denominatore comune è, comunque, una ricerca che supera la realtà oggettiva degli impressionisti, favorendo l’idea che l’arte sia espressione della visione interiore dell’artista. Gli uni e gli altri si rispecchiano nella definizione di Selvaggi, se non altro per i vivacissimi ed eccitati colori che caratterizzano le loro opere. Sono però dei Selvaggi intellettualmente raffinati. Matisse – a Collioure, ad un passo dalla Catalogna, o a Parigi, cuore della Francia e dell’Europa – predilige circondarsi di amici intellettuali, non necessariamente artisti, e di opere d’arte antica e moderna, di stoffe preziose, di quelle sculture in cui i neri della Guinea, del Senegal e del Gabon hanno raffigurato con schiettezza le proprie passioni più paniche. Incroci di sensibilità moderne e primitive. È a Collioure che Matisse si misura, non solo in una nuova pittura, ma anche in una nuova scultura: «Al tono che avevo in passato – evidenzia – ne succederà un altro che, con densità maggiore, lo sostituirà con vantaggio, sebbene sia meno piacevole all’occhio». E per condurre ancora più avanti l’opera di affinamento, fa notare Herbert Read, (Le sculpteur, Hommage a Henri Matisse) l’artista sceglie la scultura, la più “solida” delle arti. A Collioure lo fa lavorando a quattro mani con Aristide Maillol.

André Derain, subito dopo il servizio militare. Foto del 1904

Matisse non ama affatto isolarsi, ma partecipare, condividere. Insiste perché André Derain lo raggiunga per dipingere insieme dal vero, sia paesaggi sia ritratti. Dapprima Derain rifiuta l’invito con il pretesto di essere a corto di soldi, poi scrive che i suoi genitori si rifiuteranno di lasciarlo andare fino all’altro capo della Francia. Alla fine, Matisse vince la resistenza dell’amico. Naturalmente, giunto a Collioure, Derain corre a stabilirsi da Rosette, la locandiera dell’Hôtel de la Gare, la quale, «quando vide questa specie di gigante, magro, tutto vestito di bianco, con baffi lunghi e sottili, occhi da gatto e un berretto rosso in testa, ingombro di una quantità di bagagli e di un parasole più alto dell’ombrello di un doganiere, si rifiutò categoricamente di avere a che fare con questo spettacolo vestito come per il carnevale, ordinando in catalano al suo unico dipendente, Mateu Muxart, di buttarlo fuori. Per fortuna quest’ultimo, che parlava francese, prese le difese dello straniero, un tipo simpatico, sottolineando la sua cortesia, dicendo che si era rivolto a lui gentilmente e gli aveva persino dato familiarmente del “tu”. Rosette farà un’eccezione per il nuovo arrivato. Gli affitta una stanza al primo piano, con vista sul cortile ombreggiato da un fico, un’acacia e un pergolato. Resta inteso che il pasto sarà consumato nell’ampia sala al piano terra che funge da sala da pranzo». Dettagli raccontati da scrittori locali, che via via vengono fuori oggigiorno: Claude Lamboley, dell’Académie des Sciences et Lettres de Montpellier, li riprende da Hilary Spurling, che a sua volta si rifà alla testimonianza di François Bernardi, che ha sentito parlare di questa storia molto tempo dopo i fatti.

Andre Derain, Autoritratto con cappello, 1905

Derain, che allora aveva 25 anni, era, per sua stessa ammissione, alquanto depresso. Ma non passa molto che Amélie Matisse comunica per lettera: «Il signor Derain è con noi da otto settimane e, con mio marito, lavorano sodo nonostante il caldo forte. Quando vieni a trovarci? Ci stiamo divertendo sempre di più qui e abbiamo già fatto diverse escursioni; siamo stati anche in Spagna e siamo felicissimi del nostro soggiorno». Matisse aveva conosciuto Derain nel 1901, quando i due si impratichivano copiando opere dei maestri al Museo del Louvre. Interessato fin dagli esordi alle variazioni di luce e colore, Matisse si era formato alla scuola di Moreau, da cui aveva appreso l’incanto delle immagini, che producevano in lui un grande compiacimento visivo. Quali angosce ed “urli” tedeschi. Benché fosse solo un casaro che faceva anche gelati, il padre di Derain lo avrebbe voluto ingegnere, ma lui, dopo avere compiuto gli studi classici al liceo Chaptal di Parigi, nel 1898 preferì iscriversi all’Accademia Julian.

Andre Derain, Dintorni di Chatou, 1904

L’anno dopo passa all’Académie Camillo, diretta da Eugène Carrière, amico di Pierre Puvis de Chavannes. Nel 1900, viaggiando su di un treno come pendolare, conosce de Vlaminck; l’anno seguente, Matisse, e poi via via, Jean Puy, Albert Marquet, Georges Rouault, che lo convincono tutti ad occuparsi esclusivamente di pittura. Per questo, con Maurice de Vlaminck, Derain affitta una stanza a basso prezzo sull’Ile de Chatou, sulla Senna, dov’era nato. Il giovane de Vlaminck, che all’epoca ha appena sedici anni, lo segue dappertutto, entusiasta ed inquieto. La vecchia casa di pescatori era chiamata Maison Levanneur: fino ad allora ospitava un ristorante e un bar per accogliere gitanti che venivano a godersi la calma dell’isola. Ai piani superiori alcuni ambienti ospitavano inquilini e qualche artista. Derain e de Vlaminck, si stabiliscono nell’edificio ormai abbandonato da “papà Levanneur” dopo la morte del proprietario. Senza un soldo, realizzano i loro primi dipinti. Per riscaldarsi bruciano le sedie inutilizzate del ristorante. In breve, la vecchia casa risalente al 1775 torna a rianimarsi. Molti amici e belle ragazze vi soggiornano, e trasformano l’atelier dei due giovani pittori in uno dei poli fovisti di Parigi.

Andre Derain, Il porto di Collioure, 1905

De Vlaminck e Derain si muovono e dipingono per l’isola e lungo le rive della Senna, da Chatou a Carrières, paesaggi con colori puri, senza neppure mescolare i colori del tubetto. Risale a questo periodo la prima opera importante di Derain: il Ballo a Suresnes (Museo di Saint-Louis, 1903). Il 1905 è l’anno della svolta. Espone al Salon des Indépendants e al Salon d’Automne, ritrovandosi improvvisamente incluso tra i Fauves. Anche se già nelle prime opere, Derain non è del tutto convinto di aderire, pienamente, alla nuova corrente. Ma ne ha un vantaggio: lo stesso anno 1905 firma il contratto col mercante d’arte Ambroise Vollard ( Bougival , olio su tela, 41 × 33  cm , 1905, museo di Le Havre), che lo consiglia di recarsi in Inghilterra. Derain il 24 novembre 1905 gli vende tutto il suo studio (89 fra dipinti e acquerelli) e parte nei primi giorni del marzo successivo. Il progetto imbastito tra artista e mercante prevede di dipingere una cinquantina di vedute di Londra e del Tamigi, che Vollard provvederà a piazzare al suo ritorno. Durante questo primo soggiorno, nella capitale inglese, Derain visita le collezioni del British Museum e della National Gallery. Tuttavia, dipinge molto poco sul posto, per cui i quadri saranno realizzati in massima parte al rientro, nel suo studio di Parigi. Trenta saranno completati tra la primavera del 1906 e la primavera del 1907. A Londra scopre anche l’arte primitiva. Acquista qualcosa, come una scultura lignea dei Fang, un gruppo etnico bantu tra Guinea e Gabon in Africa. Di ritorno, insieme a de Vlaminck inizia a collezionare quella che allora chiamano “arte negra”, oggetti eterogenei di arte popolare, madonne lignee, modellini di navi, strumenti musicali, bronzi del Luristan e del Benin. Ma non si limita a raccogliere esemplari esotici. Prova la scultura a intaglio su legno, interesse che allarga all’incisione e alla pittura su ceramica, conosciuta nell’atelier di André Metthey ad Asnières.

Andre Derain, Donna in camicia, 1906

È sicuramente per Derain un momento di grande rivolgimento artistico. Dipinge Donna in camicia (1906), dal frizzante sensualismo, che anticipa la magistrale Marzella di Kirchner (1909). Intraprende una corrispondenza epistolare con Matisse, che lo indurrà a sperimentare una nuova ricerca espressiva incentrata su linea, colore, forma, luce, e sulla concordanza tra emozioni e sensazioni secondo una modalità armonica musicale. All’inizio del 1907 soggiorna nuovamente a Londra, per la terza volta, e passa poi l’estate a Cassis. Daniel-Henry Kahnweiler diventa il suo nuovo mercante. Sempre nel 1907 incontra anche Braque, Picasso, André Salmon, interessati inizialmente al movimento dei Fauves, ma che presto apriranno la nuova strada del Cubismo. «Mi sento muovere verso qualcosa di meglio, dove il pittoresco conterebbe meno dell’anno scorso per affrontare solo la questione della pittura – scrive a de Vlaminck – cose più raffinate, meno primitive». Per questo motivo ritorna alle sue grandi composizioni decorative (La strada rotante a L’Estaque, Houston Museum) e in autunno riprende ad interpretare i temi preferiti di Cézanne. Il critico Louis Vauxcelles non aveva tutti i torti quando lo rimproverava di “marmorizzare” il maestro di Aix-en-Provence.

Andre Derain, Ritratto di Alice Géry, 1920-1921

Per stare più vicino ai suoi nuovi amici, l’anno successivo si trasferisce a Montmartre e comincia a frequentare il Bateau-Lavoir, sulle pendici della collina, nel quartiere di Clignancourt, dove s’è formato un quartiere d’artisti – non solo pittori e scultori francesi o stranieri, ma anche mercanti d’arte, scrittori e gente di teatro – che vi risiedono e vi svolgono la loro attività. È qui a Montmartre che, a ottobre, incontra per la prima volta Alice Géry, allora sposata con il matematico e teorico del cubismo Maurice Princet. La collezionista Gertrude Stein nelle sue Mémoires la descrive come una «Madonna con i capelli sciolti». Posa come modella per Picasso. Organizza insieme a suo marito produttive serate durante le quali Apollinaire, Max Jacob, Picasso stesso, confrontano modi di vedere e si abbandonano al piacere dell’oppio e dell’hashish. Commentava Maurice de Vlaminck: «Ho assistito alla nascita del cubismo, alla sua crescita, al suo declino. Picasso era la partoriente, Guillaume Apollinaire la levatrice, Princet il padrino» (Comédia, 1942). Più che a Princet, Derain è interessato a sua moglie. Dipingerà più volte il suo volto severo ed elegante. Alice diventerà presto la sua compagna e nel 1926, una volta separata dal marito, i due si uniranno in matrimonio.

Nel corso dell’estate 1909, a Montreuil-sur-mer, prepara le incisioni per il primo libro di Kahnweiler come editore, L’incantatore putrescente (L’enchanteur pourrissant) di Guillaume Apollinaire: colori accesi e smaglianti, senza ombre o chiaroscuri. A settembre Kahnweiler allestisce una mostra che riunisce Derain, Braque e van Dongen. Con Braque ha appena dipinto a Carrières-Saint-Denis. Tirando le somme, Derain, affianca fauves e cubisti, ne sperimenta i toni e le forme, ma non aderisce pienamente ai movimenti. La critica lo descrive come un uomo di cultura vasta e profonda, ammiratore delle opere dei grandi maestri antichi, che in fin dei conti continuano ad influenzare l’armonia della sua composizione. Anche quando, nel 1910, trascorre alcuni giorni con Alice a Cadaques insieme a Picasso e Fernande Olivier, non cede alle audaci tecniche del cubismo. Era reduce dalle esposizioni al Salon des Indépendants di Parigi e al Salon de la Toison d’or di Mosca. Al Salon d’Automne dell’anno precedente aveva presentato una nuova versione monumentale di Baigneuses. Aveva trascorso alcuni mesi a Martigues, per dipingere una nuova serie di paesaggi, eppure in una lettera a Matisse confessava: «Vado a fare paesaggi, ma a malincuore. Ho un’emozione molto bella, molto nobile di fronte al paesaggio che scelgo. Ma nel profondo della mia comprensione, non vedo alcun collegamento tra la visione diretta di questo paesaggio, la sua rappresentazione e l’emozione che provo».

Andre Derain, L’ultima cena, 1911

Derain si svincola dalle correnti. Nel 1911 partecipa a svariate esposizioni a Colonia, Amsterdam, Berlino. Nel 1912 è presente alla mostra Blaue Reiter di Monaco e Berlino, quindi alla mostra internazionale Sonderbund di Colonia. Dal 1911 avvia il periodo detto “gotico”, durante il quale rappresenta figure ieratiche e severe nature morte, come il Sabato (Museo d’arte occidentale di Mosca), le Due sorelle, la Cena, le Saline di Martigues, il Ritratto di Paul Poiret. Sono dipinti ormai lontani dai Fauves e dai Cubisti. Nondimeno, continua a scrivere a Matisse e a dipingere con Braque durante l’estate del 1913 a Sorgues e con Picasso l’estate dopo ad Avignone e Montfavet.

Andre Derain, Les salins de Martigues, 1913

Quando nel 1914 Derain è richiamato alle armi, come artigliere, Picasso accompagna lui e Braque alla stazione di Avignone. Dipinge pochissimo durante la guerra (Ritratto di Paul Poiret , 1916, Museo di Grenoble) e ha problemi finanziari. Matisse aiuta Alice, rimasta a Parigi, a trovare acquirenti interessati alla sua pittura. Dal fronte, Derain scrive a de Vlaminck nel 1917: «Dipingo quadri solo con l’immaginazione. Vorrei fare solo ritratti, ritratti veri, con le mani, i capelli: tutta la mia vita». Ad Alice, nel 1918, confessa il suo sconforto: «La mia testa è piena di gente che non vuole uscire». Saranno proprio Alice e l’amico Apollinaire ad aprirgli la nuova strada del dopoguerra, organizzando la prima personale alla galleria Paul Guillaume ad ottobre del 1916. Derain è ormai tornato alla figurazione classica, lasciando di nuovo spazio al disegno. Si è riconciliato con una pittura chiaroscurata, si rivolge alla migliore cultura italiana e francese, tenendo sempre presente la lezione di Cézanne. «Derain ha studiato appassionatamente i maestri – elogia Apollinaire nella prefazione del catalogo – Allo stesso tempo, e con impareggiabile audacia, è andato al di là delle cose più audaci dell’arte contemporanea per riscoprire con semplicità e freschezza i principi dell’arte e le discipline che da essi scaturiscono».

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IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Matisse: “È tutto nel concepimento. Devo quindi avere una visione chiara sin dall’inizio”

di Sergio Bertolami

42 – Notes d’un peintre: principi artistici e filosofia di vita di Henri Matisse

Fra i dipinti presentati al Salon d’Automne del 1905 il più famoso è quello di Matisse, Donna con cappello (Femme au chapeau). L’opera raffigura la moglie dell’artista, Amélie Parayre, vestita in modo borghese. Il tocco libero, la luce frontale, l’uso acceso dei colori, ne fanno uno dei migliori esempi di fauvismo. I collezionisti Gertrude e Leo Stein, americani appassionati d’arte francese, acquistarono l’opera poco dopo la sua esposizione. Per il proprio piacere, e quello degli amici in visita, il quadro era appeso nel loro appartamento in rue de Fleurus a Parigi. Questo risollevò il morale di Matisse, che spesso aveva sofferto per le critiche caustiche al suo lavoro. Donna con cappello suscitò scalpore durante e continuò anche dopo la mostra del 1905, per la sua «volgare» mancanza di rappresentazione realistica, per l’insolita posa di Madame Matisse, ritratta di spalle, rivolta di tre quarti verso lo spettatore. Soprattutto per il modo di utilizzare il colore, che dai punti cromatici dei divisionisti si dilatava fino a formare vere e proprie chiazze. La tavolozza virava dal verde al giallo, dal blu al viola, dal bianco al rosso, tutto ciò affinché il volto di Amélie prendesse volume, superando ogni consueto effetto chiaroscurale.

Henri Matisse, Femme au chapeau, 1905

«Un pittore che si rivolge al pubblico non solo per presentare le sue opere, ma per svelare alcune delle sue idee sull’arte della pittura, si espone a diversi pericoli». È l’incipit del breve e intenso saggio, che Matisse decide di scrivere nel 1908 per rispondere agli attacchi che nel corso degli anni gli sono stati rivolti, per legittimare un modo di dipingere ritenuto sconcertante e scandaloso. S’intitola Appunti d’un pittore (Notes d’un peintre) e rappresenta il primo testo di Matisse a chiarimento della propria arte, «matrice delle successive osservazioni che l’artista farà, soprattutto a partire dagli anni Trenta, davanti a critici e dilettanti», come recita la nota del libro rieditato di recente dalle edizioni del Centro Pompidou di Parigi, con una prefazione di Cécile Debray, curatrice del Museo Nazionale d’Arte Moderna.

Henri Matisse, Notes d’un peintre.
In questo testo pubblicato il 25 dicembre 1908 su La Grande Revue, Matisse risponde alle critiche dei suoi dipinti esposti al Salon d’Automne nel 1905.

La prima edizione vide luce il 25 dicembre 1908 su La Grande Revue. Il testo fu immediatamente tradotto in tedesco e russo, tanto l’interesse suscitato nel mondo dell’arte. Appunti di un pittore era in realtà un’influente dichiarazione d’intenti, un insieme di principi artistici su elementi fondamentali come espressione, colore, composizione, tecnica. Ma al tempo stesso una filosofia di vita. Faceva seguito ad un lungo articolo del pittore simbolista Josephin ‘Sar’ Péladan che aveva criticato Matisse e i Fauves di non dipingere onestamente, laddove, per onesto, intendeva il rispetto all’ideale e alle regole. Ma quale ideale e quali regole, si domandava Matisse? Per la verità Péladan, conosciuto come Sar Mérodack Joséphin Péladan, oltre che un artistoide era anche un eccentrico esoterista, che aveva fondato prima l’Ordine Cabalistico dei Rosacroce, quindi l’Ordine della Rosa-Croce Cattolica ed Estetica del Tempio e del Graal. Le sue conoscenze erano più brillanti che solide, gli rinfacciava Oswald Wirth, un altro esoterista come lui: «Péladan fu inebriato dal successo del suo Vizio Supremo e dalla curiosità che suscitava nei salotti, dove si sforzava di creare scalpore. Il titolo di Mago non gli bastava più, si promosse a Sar, che in Assiro significa Re». Come Sar lo appellerà Matisse a conclusione del saggio, rispondendo alle sue acide critiche. L’articolo di riferimento è “Le Salon d’Automne et ses Retrospectives”, uscito su La Revue Hébdomadaire, del 17 ottobre 1908.

Partendo da una citazione tratta dall’Institution chrétienne di M. Jean Calvin, Péladan si scaglia contro i pittori ignoranti: «La creatura crea, come il Creatore, a sua immagine, e l’interesse delle immagini, affreschi sublimi o stampe grezze, non si limita alla storia dei costumi. Un modo di vestire risulta da un modo di pensare. La forma manifesta sostanza; nasce da un lavoro incessante, da una spinta dall’interno verso l’esterno». Ecco perché, continua Péladan, «ogni anno diventa più difficile parlare di queste persone che nei comunicati di stampa si definiscono “les fauves”. Sono curiosi da vedere accanto alle loro tele. Corretti, piuttosto eleganti, li si prenderebbe per dei capireparto di grandi magazzini. Ignoranti e pigri, cercano di offrire al pubblico l’incolore e l’informe». Matisse non si scompone e risponde a tono: «Un artista trae sempre profitto dalle informazioni su sé stesso e sono felice di aver appreso qual è il mio punto debole. Monsieur Péladan nella Revue Hébdomadaire rimprovera un certo numero di pittori, tra i quali credo di dovermi collocare, di chiamarsi “fauves” e nondimeno si vestono come tutti, in modo che non si notino tra i frequentatori in un grande magazzino. Il genio conta così poco? Se fosse solo una questione riguardante me stesso, a tranquillizzare la mente del signor Péladan, domani mi chiamerei Sar e mi vestirei da negromante».

Ritratto di Joséphin Péladan dipinto da Alexandre Séon (1892 circa)

Una decina di pagine a seguire Péladan rafforza la critica: «Il pubblico, insensibile al difficile sforzo di raggiungere la bellezza, chiede solo buffonate. Un clown fa la fortuna di un circo e migliaia di artisti imitano Chocolat; solo (che qui) è la tela a ricevere calci in faccia colorati. La Verità, la più disperata delle Muse, l’inorridita Verità ci direbbe: “Supponiamo che Monsieur Matisse dipinga onestamente, non sarebbe che quasi sconosciuto; si esibisce come in fiera e il pubblico (al contrario) lo conosce. Onestamente – intendo dire nel rispetto dell’ideale e delle regole – non c’è speranza, né pane, per l’artista. Sia detto in difesa di questi sfortunati tatuatori del pannello». Un linguaggio già sentito altrove, che tende a relegare questi “scarabocchi infantili” in libri e camere per bambini. Lo stesso Péladan scrive: «L’Associazione “Arte a scuola” ha un devoto, Monsieur Georges Moreau, che ha raccolto in un bel volume alcuni esemplari molto curiosi di disegni per l’infanzia, ci sono schizzi di bambini dai sei ai sedici anni, nessuno dei quali è dotato se non di sincerità: sarebbero maestri e vocazioni per un Salon d’Automne e generalmente ben al di sopra della media dei fauves». Matisse, di nuovo, non si scompone e risponde: «Nello stesso articolo questo eccellente scrittore afferma che non dipingo onestamente, e sarei giustamente arrabbiato se non avesse qualificato la sua affermazione dicendo: “Intendo onestamente rispetto all’ideale e alle regole”. Il guaio è che non menziona dove sono queste regole. Sono disposto a farle sussistere; ma se fosse possibile impararle quali artisti sublimi avremmo! Le regole non esistono al di fuori degli individui: altrimenti un buon professore sarebbe un grande genio come Racine».

Matisse elude abilmente l’avversario: sa bene che le regole sono riportate in centinaia di testi scritti a favore delle accademie. Lui, però, non vuole limitarsi alle massime, né tantomeno ai sofismi dialettici o letterari. «Molti amano pensare alla pittura come un’appendice della letteratura e quindi vogliono che esprima, non idee generali adatte a mezzi pittorici, ma idee specificamente letterarie». È pienamente consapevole che il miglior portavoce di un pittore è il suo lavoro. Nelle sue pagine, dovrà dunque spiegare al pubblico la trasformazione della sua pittura, che si è evoluta con l’evolversi del suo pensiero. Attesta fermamente: «Quello che cerco, soprattutto, è l’espressione». La spiegazione di questa affermazione può fare comprendere come l’Espressionismo di Matisse sia ben distante da quanto manifestato dai suoi contemporanei tedeschi. «L’espressione, per me, non risiede nelle passioni che brillano in un volto umano o manifestate da movimenti violenti. L’intera disposizione del mio quadro è espressiva: il posto occupato dalle figure, i vuoti che le circondano, le proporzioni, ogni cosa ha la sua parte. La composizione è l’arte di disporre in modo decorativo i diversi elementi a disposizione del pittore per esprimere i suoi sentimenti. In un’immagine ogni parte sarà visibile e svolgerà il ruolo assegnato, sia esso principale o secondario. Tutto ciò che non è utile nell’immagine, ne consegue, è dannoso. Un’opera d’arte deve essere armoniosa in direzione loro come mostra di più nella sua interezza: ogni dettaglio superfluo sostituirebbe qualche altro dettaglio essenziale nella mente dello spettatore».

Henri Matisse, Paesaggio a Collioure, 1905

L’espressione per Matisse è legata ai sentimenti. Riportarli sulla tela è reso possibile ricorrendo alla composizione e all’armonia dell’insieme. Ci sono due modi di rappresentare: o brutalmente o procedendo attraverso una evocazione artistica. Superando, ad esempio, l’idea di rappresentare la realtà del movimento, otterremo una maggiore bellezza e grandezza. Come nelle statue egizie, solo in apparenza rigide, capaci invece di restituire l’immagine di un corpo pronto a muoversi all’improvviso. «Devo definire con precisione il carattere dell’oggetto o del corpo che voglio dipingere. Per farlo, studio molto da vicino il mio metodo […] Se su una tela bianca pongo alcune sensazioni di blu, di verde, di rosso, ogni nuovo tratto sminuisce l’importanza dei precedenti […] È necessario che i vari segni che uso siano equilibrati in modo che non si distruggano a vicenda. Per fare questo devo organizzare le mie idee; le relazioni tra i toni devono essere tali da sostenerle e non distruggerle […] Dal rapporto che ho trovato in tutti i toni deve risultare una viva armonia di colori, un’armonia analoga a quella di una composizione musicale». Tutto si concentra all’atto del concepimento. Avere una visione chiara sin dall’inizio significa definire l’ordine e la chiarezza espressiva, come in Cézanne, dove «tutto è così ben disposto che non importa a quale distanza ti trovi o quante figure sono rappresentate».

Henri Matisse, La Finestra aperta, 1905

«La funzione principale del colore – continua Matisse – dovrebbe essere quella di servire l’espressione nel miglior modo possibile […] Per dipingere un paesaggio autunnale non cercherò di ricordare quali sono i colori adatti a questa stagione, mi ispiro solo alla sensazione che la stagione suscita in me: la purezza gelida del cielo azzurro e acido esprimerà la stagione, così come le sfumature di fogliame. La mia stessa sensazione può variare, l’autunno può essere morbido e caldo come una continuazione dell’estate, o piuttosto fresco con un cielo freddo e alberi giallo limone che danno un’impressione gelida e già annunciano l’inverno». La natura non deve essere, perciò, copiata, ma interpretata, sottomessa allo spirito che si vuole esprimere nel quadro. Ecco perché la nuova visione di Matisse non può più assecondare le teorie del puntinismo. «La mia scelta dei colori non si basa su alcuna teoria scientifica; si basa sull’osservazione, sulla sensibilità, sulle esperienze vissute. Ispirato da alcune pagine di Delacroix, un artista come Signac è ​​preoccupato per i colori complementari, e la conoscenza teorica di essi lo porterà a usare un certo tono in un determinato luogo. Al contrario, io cerco semplicemente di mettere giù i colori che rendono la mia sensazione».

Henri Matisse, Autoritratto con maglietta a righe, 1906

Per Matisse la stessa teoria dei colori complementari non è affatto assoluta. Il divisionismo non gli appartiene più, e questo perché «chi lavora in uno stile preconcetto, voltando deliberatamente le spalle alla natura, perde la verità». Matisse non è certo un artista di paesaggio, né è interessato alle nature morte. Quando sorge una discussione se sia meglio lavorare d’immaginazione o prendere spunti dalla natura, risponde che il primo metodo non esclude il secondo: in entrambi i casi l’artista potrà arrivare a quella totalità che costituisce il suo quadro. La verità è che l’artista deve sempre essere «in grado di organizzare le sue sensazioni per continuare il suo lavoro con lo stesso stato d’animo per giorni diversi, e sviluppare queste sensazioni; questo potere dimostra che è sufficientemente padrone di sé stesso per sottoporsi alla disciplina». E anche quando decidesse di discostarsi dalla natura dovrà farlo con la convinzione d’interpretarla più pienamente.

Henri Matisse, Le bonheur de vivre, 1906

«Quello che sogno è un’arte dell’equilibrio, della purezza e della serenità, priva di argomenti preoccupanti o deprimenti, un’arte che potrebbe essere per ogni lavoratore mentale, per l’uomo d’affari così come per l’uomo di lettere, ad esempio, un calmante, un sedativo mentale, qualcosa come una buona poltrona che fornisce relax dalla fatica fisica». È vero, chi legge e si aspetta opinioni ben più pregnanti sulla pittura, forse potrebbe dire che Matisse se n’è uscito sciorinando luoghi comuni. È l’artista stesso che lo presume. «A questo risponderò che non ci sono nuove verità. Il ruolo dell’artista, come quello dello studioso, consiste nel cogliere verità attuali, spesso a lui ripetute, ma che assumeranno per lui un nuovo significato e che farà proprie quando ne avrà colto il significato più profondo». Cogliere le verità attuali, fare ordine e chiarezza, organizzare le sensazioni – anche quelle più fugaci come fascino, leggerezza, freschezza – mantenere lo stesso stato d’animo fino alla conclusione dell’opera: questo è il nucleo del pensiero formulato negli Appunti. «C’è stato un tempo in cui non lasciavo mai i miei quadri appesi al muro perché mi ricordavano momenti di sovreccitazione e non mi piaceva rivederli quando ero calmo. Oggi cerco di mettere serenità nelle mie immagini e di rielaborarle finché non ci sono riuscito». Non c’è modo migliore per esprimere le sensazioni avvertite mentre si percorre una nuova strada: occorre solo aver chiaro sin dall’inizio cosa certare. «Quello che cerco, soprattutto, è l’espressione», l’espressione indistinta della gioia di vivere, Le bonheur de vivre, tra il sentimento che si prova per la vita e il modo giusto per tradurla in pittura.

Henri Matisse, La Danse (first version), 1909

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Henri Matisse a Collioure: un’estate fauves di linee e colori

di Sergio Bertolami

41 – Henri Matisse e André Derain fra gli artisti del Roussillon

Il fauvismo – occorre evidenziarlo subito – è una fase effimera nella lunga e sfaccettata storia dell’arte del Novecento. Matisse ne parlerà come di una “prova del fuoco” dalla quale uscirà temprato. Bene aveva intuito il critico Louis Vauxcelles che, su Gil Blas, riportava la sua visita al Salon d’Automne del 1905: Matisse avrebbe potuto ottenere facili riconoscimenti, ma preferiva vagare in una ricerca appassionata, chiedere al puntinismo qualcosa di più, come vibrazioni o luminosità. Quella ricerca appassionata si era fatta strada durante l’estate del 1905, a Collioure, con la stimolante compagnia del giovane Derain. Non a caso, quando Vauxcelles, più tardi, si riferirà all’istituita congrega dei fauves, dove secondo il critico officiavano come in una confraternita due preti superbi, farà proprio il nome di Derain e Matisse. Solo che lo scrive nel 1907, allorché il gruppo sta per separarsi, con l’idea d’inseguire principalmente il Cubismo, iniziato da Picasso e, soprattutto, da quel Braque che era stato accolto come fauve. L’effetto più vantaggioso, però, era che al Salon d’Automne gli esponenti di quella congrega erano emersi all’attenzione, una volta per tutte, e all’improvviso Matisse aveva acquisito la celebrità del capofila. Con la mostra interessò collezionisti d’avanguardia, come gli americani della famiglia Stein, Leo Stein col fratello Michael e la sorella Gertrude, e più avanti i russi Stschoukine e Morosov, tutti collezionisti che da quel momento acquistarono da lui regolarmente, fino allo scoppio della guerra, con lungimiranza e ammirazione degne di nota.

Di Henri Matisse, Vista di Collioure, 1905

Collioure, nel Sud estremo della Francia al confine con la Spagna, è stato il catalizzatore che ha contribuito alla nascita del fouvisme. Nulla l’avrebbe fatto presagire, perché il piccolo paese di pescatori, all’inizio del Novecento, era conosciuto per le sue acciughe: pescate, lavorate in modesti laboratori di salagione e conservate in botti di legno. Per il resto, un bellissimo paesaggio mediterraneo di aranci e limoni, di sole e cielo terso, erano gli effetti speciali che potevano coinvolgere lo spirito di poeti e pittori. Paul Signac ci aveva soggiornato diciott’anni prima, nel 1887. Per un po’ aveva affittato una stanza sopra un droghiere, poi aveva preferito partire per Saint-Tropez. Gli straordinari paesaggi offerti dal Var e dalla Costa Azzurra erano fra i preferiti dei pittori. Nell’estate del 1905, Marquet e Manguin svolgevano a Saint-Tropez le loro ricerche, favoriti da Signac loro nume tutelare. Anche Camoin li raggiunse un paio di mesi dopo, proveniente da Aix e da Cassis dove aveva seguito le orme dell’anziano Cézanne. Ai tempi, però, la situazione economica di Matisse era delicata e Saint-Tropez troppo costosa. Nella mostra collettiva di aprile la gallerista Berthe Weill annotava sul suo registro: «Camoin è in testa alle vendite; segue, al secondo posto, Marquet». Matisse, che aveva presentato sei dipinti, languiva. Al Salon des Indépendants, gli Stein avevano giudicato le opere puntiniste di Matisse come «insoddisfacenti» e avevano comprato un Nudo di Manguin. L’anno precedente Matisse aveva seguito la scelta d’obbligo, fermandosi a Saint-Tropez, e qui aveva conosciuto Signac e Cross. Ma la pittura puntinista, che prima lo aveva esaltato, ormai tendeva a deluderlo. Dopo Luxe, calme et volupté (Lusso, calma e voluttà), aveva scritto: «Tutte le tele di questa scuola producono lo stesso effetto: un po’ rosa, un po’ azzurro, un po’ verde, una tavolozza molto limitata con la quale non mi sento a mio agio». Ricercava paesaggi che potessero ispirarlo. Li aveva cercati ad Agay, Cannes, Nizza, Monaco, Mentone. Infine, era stato proprio Signac a consigliargli di andare a Collioure: cittadina francese sulla costa catalana, ricca di spunti artistici e certamente più economica di Saint-Tropez.

Henri Matisse, Luxe, Calme et Volupté, 1904

Il 16 maggio 1905 Henri Matisse giunge a Collioure da Perpignan dove si trovava con la famiglia, in visita a sua cognata Berthe. Lo raggiungeranno pochi giorni dopo la moglie Amélie – prediletta modella di quegli anni – e i figli. Fu così che Collioure poté contare il suo secondo pittore “straniero” dopo Signac. All’epoca i forestieri erano davvero pochi, per lo più viaggiatori di commercio o impiegati delle ferrovie. La famiglia Matisse trovò alloggio all’Hôtel de la Gare, unica locanda del paese, a 200 metri dalla stazione. La proprietaria, la vedova Paré, chiamata Rosette, che come tutti i locali parlava soltanto catalano e non aveva nessuna fiducia nei forestieri, si lasciò sedurre dall’aria rispettabile di Monsieur Henri. Con la barba e gli occhiali da insegnante, il suo vestito pulito ed ordinato, che non lo facevano assomigliare per niente ad un artista. Rosette si fece perfino effigiare da Matisse in un ritratto scolpito su di un pezzo di legno. Con i suoi modi affabili, Matisse riusciva a stringere amicizia e a integrarsi. Quando a luglio, su insistenza di Matisse, lo raggiungerà pure Derain, anche lui decorerà una porta dell’albergo con le figure di Don Chisciotte e Sancho Panza. Prima del suo arrivo, Matisse ha già stretto legami un po’ ovunque. Con Paul Soulier, viticoltore e appassionato fotografo amatoriale che lo aiuta a reperire una piccola stanza affacciata sulla spiaggia del Faubourg, un quartiere di pescatori, che il pittore usa come atelier e, da luglio, una villa bifamiliare con terrazzo con vista sulla spiaggia di Voramar vicino alla chiesa. Il 20 maggio Matisse scrive a Manguin: «Abbiamo trovato un albergo economico (150 franchi al mese per noi quattro) […] e ho affittato sulla banchina chiamata Faubourg una stanza con vista mare dove lavoro con tutto il mio agio. Ho come frequentazione abituale quella di un pittore degli Indépendants, amico di Luce, che si chiama Terrus e che è una piacevole compagnia».

LE ROUSSILLON A L’ORIGINE DE L’ART MODERNE 1894-1908. Esposizione presentata alla Salle Maillol del Palais des Congrès di Perpignan, dal 4 luglio al 27 settembre 1998

Ètienne Terrus è un pittore locale, anarcoide, amico di Maximilien Luce, puntinista, che s’era installato nell’atelier del quai Saint-Michel, lasciato sfitto a Parigi da Matisse. Terrus faceva parte di piccolo gruppo di artisti follemente innamorati di Gauguin. Un gruppo che oggi sta cominciando ad essere conosciuto e a riscuotere il merito che gli spetta. Stralcio dal catalogo della mostra presentata alla Salle Maillol, Palais des Congrès, Perpignan, dal 4 luglio al 27 settembre 1998, col titolo 1894-1908. Le Roussillon à l’origine de l’art moderne: «Fu durante l’estate del 1905, a Collioure, che Matisse venne a conoscenza dell’onnipotente aiuto che Gauguin, morto alle Isole Marchesi due anni prima, poteva portargli. “Incontro” capitale – Gauguin non mise mai piede nel Roussillon – perché quell’estate nacque il Fauvismo. Un “legame”, quindi, unisce questi due maestri, che si potrebbe dire “mancante”, tanto poco è stato individuato nella storia dell’arte. Lontano da Parigi e dalle mode, si compongono artisti locali, alcuni famosi, altri meno: Aristide Maillol, lo scultore di Banyuls; il suo amico pittore di Elne, Etienne Terrus; Il confidente di Gauguin, Georges-Daniel de Monfreid, che si stabilì a Corneilla-de-Conflent». Proprio quest’ultimo, Georges-Daniel de Monfreid, pittore, scultore, ceramista e maestro vetraio, era un amico di Gauguin. Lo aveva conosciuto a Parigi prima che partisse per Tahiti e rimarrà in contatto epistolare, divenendone l’esecutore testamentario alla sua morte, nel 1903. A Matisse, de Monfreid mostra la sua collezione di opere di Gauguin, che comprende ceramiche, sculture in legno e il famoso manoscritto-testamento Noa Noa. Secondo M. C. Valaison, non c’è dubbio che sia stato de Monfreid, che conosceva Matisse dal 1896, a svolgere un ruolo fondamentale nell’accoglierlo a Collioure e introdurlo nella ristretta cerchia degli artisti del Roussillon. Alcuni sono poco più che dei dilettanti della domenica, ma in questa piccola cerchia troviamo anche nomi di pittori interessanti. È il caso proprio di Étienne Terrus, che vive a Elne e che ha appena esposto, come Matisse, diversi dipinti all’ultimo Salon des Indépendants, nel marzo-aprile 1905. In uno di questi, Le Racou, una spiaggia di Argelès-sur-Mer, non esita a giustapporre il rosso violento del tetto di una capanna con l’azzurro intenso del mare. Sembra un Fauve prima dei Fauves.

Étienne Terrus, Le Racou

Attraverso Terrus, Matisse conosce lo scultore Aristide Maillol nella sua fattoria a Banyuls-sur-Mer e lo aiuta a modellare in gesso La Méditerranée. Al di là delle biografie idilliache, il rapporto fra i due artisti presenta i suoi contrasti, se Matisse scrive: «Noi non eravamo fatti per capirci. Lui lavorava partendo dalla massa, come gli Antichi, mentre io partivo dall’arabesco, come i Rinascimentali. Maillol non amava il rischio, mentre io ne subivo il fascino». Ma è con l’arrivo di André Derain che è possibile seguire quello che negli anni a venire Matisse chiamerà “un nuovo metodo di pittura”. Entusiasta di questo inaspettato luogo, che non si limita al sole e al mare, ma gli permette di essere coinvolto calorosamente fra la gente del Roussillon, Matisse scriveva, il 25 giugno 1905, all’amico Derain: «Non posso essere troppo insistente per convincerti che un soggiorno qui è assolutamente necessario per il tuo lavoro – saresti nelle condizioni più vantaggiose e trarresti benefici pecuniari dal lavoro svolto. Sono certo che se mi ascolterai ti troverai bene. Perciò, te lo ripeto, vieni».

Aristide Maillol, La Méditerranée, 1905

Matisse, quando arriva Derain, lavora ancora per pochi giorni sulla terrazza vista mare della camera lungo la banchina del Faubourg, sopra il Café Olo dove vanno a bere i pescatori. Poi si trasferirà vicino alla chiesa di Voramar. Insieme dipingono vedute di Collioure. Derain è preso dalla frenesia: produce una trentina di dipinti a olio, il doppio di Matisse. Derain scrive a de Vlaminck: «Qui le luci sono molto forti, le ombre molto chiare. L’ombra è tutto un mondo di chiarezza e luminosità che si oppone alla luce del sole: quelli che vengono chiamati riflessi». A Collioure hanno trovato finalmente materia per risolvere i dubbi e ubriacarsi di colore. Matisse dipinge di rosso la spiaggia di Collioure e confessa all’amico: «Senza dubbio sarai sorpreso di vedere una spiaggia di questo colore. In effetti, era di sabbia gialla. Mi sono reso conto di averla dipinta di rosso […] Il giorno dopo, ho provato con il giallo. Non andava per niente bene, per questo ho rimesso il rosso…». Chi pensa che le soluzioni nascano per caso e senza travaglio, si sbaglia. Lo testimoniano la quantità di lettere scambiate fra i protagonisti. Derain a de Vlaminck: «Lavorando accanto a Matisse, imparo a estirpare tutto ciò che caratterizza la divisione del tono. Lui continua su questa strada, io invece sono rinsavito e non la uso quasi più. Ha senso in un arazzo o in un pannello luminoso e armonioso. Ma nuoce a tutto ciò che trae vigore dalle disarmonie intenzionali. Insomma, è un universo che si distrugge da solo quando lo si dipinge all’eccesso». Quelle disarmonie intenzionali sono per Derain il modo per slacciarsi dalle metodiche categoriche di Signac e del suo gruppo ristretto, in barba al loro principio sulla complementarità dei colori.

André Derain, Barche a Collioure, 1905

Non è così per Matisse, che lavora sulle molteplici varianti del punto di colore. Lo testimonia l’antologia delle variazioni sul tema del punto declinato in tratto, virgola, tassello, macchia, che ritroviamo in un dipinto come I tetti di Collioure. In realtà il divorzio di Matisse dal Pointillisme è una macerazione tutta interna al suo spirito. Il porto d’Abail può essere un esempio. Un dipinto senza dubbio puntinista. Matisse l’inizia a Collioure, lo lascia incompleto, poi lo termina a Parigi. Il 19 agosto aveva scritto a Manguin che l’opera era «abortita». Henri Edmond Cross aveva risposto il 18 luglio con alcune osservazioni sul lavoro: «il bozzetto del vostro Port de Collioure [d’Abail] mi sembra presentarsi bene; l’equilibrio compositivo è perfetto; qualità che dovete cercare di conservare aggiungendo colori e studiando gamme tonali. Credo che, all’inizio di un lavoro, sia bene guardarsi dal fare troppo affidamento sul tracciato lineare della composizione. Bisognerebbe, invece, avere ben chiaro in mente l’effetto da raggiungere, che nel nostro caso è il colore. Per me un dipinto è un’armonia di tinte e toni; tale armonia deriva da uno o più nuclei legati tra loro da armoniosi contrasti». Anche Signac, interpellato, fornisce i suoi consigli. Lo fa con una citazione da Cézanne, spedendogli una cartolina: «Disegno e colore non sono due cose distinte. Man mano che dipingiamo, disegniamo: più il colore è armonico, più il disegno si chiarisce. Quando il colore è usato in tutta la sua ricchezza, la pienezza della forma e completa». Il vecchio maestro è la stella polare di Matisse per trovare il suo porto. Non all’interno del Pointillisme, come avrebbe voluto Signac, ma contraddicendolo in tutto e per tutto.

Matisse, Le Port d’Abail, 1905

Questa ricerca sulla linea-colore che Matisse discute con slancio, crea qualche dissapore con Derain, che in una lettera a de Vlaminck scrive: «al momento, attraversa una crisi creativa. Ma resta comunque una persona straordinaria, più di quanto pensassi, dal punto di vista logico e delle speculazioni psicologiche». Alla fine di agosto, con l’idea dei prossimi impegni, Derain rientra a Parigi: «Se non fosse stato per questo sacro Salon d’Automne, non sarei tornato affatto». Parte da Collioure per Marsiglia con un battello proveniente da Algeri. Matisse torna a Parigi, con la famiglia, all’inizio di settembre, via Avignone. A fine mese scrive a Signac: «È la prima volta nella vita che sono contento di esporre le mie cose, forse non importantissime, ma che hanno il merito di esprimere in maniera purissima le mie sensazioni, cioè quello che sto cercando di ottenere da quando dipingo».

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Venezia: Alla Scala Contarini del Bovolo “Invisible Passages” dell’artista cinese Cen Long

Prolungata la Mostra che interpreta i drammi causati dall’esasperazione dell’antropocentrismo
attraverso la ricerca della pace e dell’amore
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Venerdì 8 aprile visita guidata e incontro presso la splendida Scala del Bovolo: La speranza e
l’amore negli invisibili passaggi dell’artista Cen Long
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INVISIBLE PASSAGE

Cen Long, The Passing, 2020

Venerdì 8 aprile 2022 ore 17.30 a Palazzo Contarini Del Bovolo – Scala Contarini del Bovolo, S. Marco 4303 a Venezia si terrà una speciale visita guidata che sarà condotta da Metra Lin, Curatrice della Mostra Invisible Passages a cui seguirà un incontro dal titolo: La speranza e l’amore negli invisibili passaggi dell’artista Cen Long.

Partecipano all’incontro: la stessa Metra Lin, curatrice della Mostra; Francesca Ruth Brandes, giornalista e poeta; Moderatore: Davide Federici, giornalista.

La Mostra, che riesce a sorprendere per la splendida location dove è ubicata e per le opere figurative e fortemente espressive di Cen Long che dialogano con alcuni capolavori della collezione permanente fra cui “Il Paradiso” di Tintoretto, inevitabilmente in questa fase drammatica e ancora in pieno corso non ha potuto godere della visibilità che si merita e di conseguenza è stata prolungata fino al 14 aprile.

Al contempo è stato organizzato l’evento di venerdì 8 aprile per partecipare al quale è consigliabile prenotare confermando via e-mail a info@fg-comunicazione.it. L’ingresso è libero fino ad esaurimento posti in base alle normative sul Covid. Per maggiori informazioni cell. 331 52651249.

La persistente ricerca della verità, della bellezza e dell’armonia estetica ha determinato continui cambiamenti nel mondo. L’Artista Cen Long ha dedicato decenni a scavare nei significati profondi dei valori della vita attraverso una rappresentazione del quotidiano e dei volti umili che lo costituiscono. Come seguace della luce, porta in vita le lotte di chi combatte contro le fatiche e le ansie quotidiane con immagini oneste ed emotive, e così facendo, riflette e ricostruisce le realtà che esistono in questo vasto mondo.

In questa mostra, i quadri ad olio di Cen Long sono mostrati in dialogo con due ritrovate reliquie del quindicesimo secolo, una scultura lignea della Santa Madre ed Angeli ed il prezioso e impareggiabile capolavoro del grande maestro del Rinascimento, “Il Paradiso” di Tintoretto (1518-1594). La filosofia curatoriale è quella di collegare il quindicesimo secolo con l’epoca moderna evidenziando in questo modo la ricorrente e costante resurrezione dello spirito di purezza e di grazia. Attraverso il dialogo tra opere d’arte provenienti da differenti periodi, speriamo di mostrare la verità per la quale l’arte riesce a colmare le distanze spirituali di tempi e spazi.

Cen Long – breve biografia

Nato nel 1957 a Guangzhou, Cina. Il suo approccio artistico consiste in uno stile semplice, pennellate sofisticate, composizione rigorosa, colorazione stratificata e solida. Queste tecniche generano grande forza nei suoi dipinti; ogni pezzo contiene un significato più profondo sotto le sue qualità superficiali. Insieme, questi attributi esprimono valori che possono resistere alla prova del tempo e affascinare l’immaginazione. Le sue opere evocano un senso di chiarezza e serenità nello spettatore, incoraggiando chi è gravato dal trambusto della vita moderna a ri-sperimentare l’estetica della tranquillità, per tornare ad uno stato più fondamentale dell’essere.


Artista|Cen Long

Curatrice|Metra Lin

Organizzatore | Crux Art Foundation

Co-Organizzatore | Fondazione Venezia Servizi alla Persona Direzione|Hann Art Agency

Data della Mostra | 10 Marzo – 14 Aprile 2022

Orario di Apertura | 10:00AM-6:00PM

Ingresso | 8 euro intero – 6 euro per studenti fino a 26 anni e per over 65 – Residenti nel comune di Venezia e bambini under 12 gratuiti.

UFFICIO STAMPA
FG COMUNICAZIONE – Venezia

Davide Federici +39 331 5265149

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A Bucha fra i morti abbandonati nelle piazze con il piede straniero sopra il cuore

L’insulsa e sistematica negazione dei fatti da parte russa non può oscurare l’orrore generalizzato contro una intera Nazione. Da noi, si produrranno nuove diatribe televisive e si solleveranno spelacchiati dubbi accademici. Tutto per spiegare dove stia la verità. Contro il positivismo, basato sulla certezza dei fatti, Nietzsche replicava che «no, i fatti proprio non esistono, bensì esistono solo interpretazioni». Per questo vogliamo dare qualche esempio di come questa mattina sulle pagine dei quotidiani, nazionali e internazionali, l’interpretazione sia unanime. Vorremmo, però, anche aggiungere che la guerra è sempre orrore: oggi e in passato. Con questi versi, Salvatore Quasimodo testimoniava sommessamente come il silenzio, in momenti particolari, sa fare molto rumore.

Alle fronde dei salici
«E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento».

(Salvatore Quasimodo, da Giorno dopo giorno)

IN PRIMA PAGINA

Una selezione dei quotidiani di oggi Lunedì 4 aprile 2022 in Italia e all’Estero
come compaiono sul sito web IL GIORNALONE

Al Grand Palais di Parigi il critico Vauxcelles in gabbia tra le bestie feroci

di Sergio Bertolami

40 – L’affermazione dei Fauves al Salon d’Automne del 1905

Chi ricorda il critico d’arte Louis Vauxcelles? Colui che offrì lo spunto per definire cage aux fauves (gabbia delle belve) la sala nella quale erano esposte 39 scandalose tele dipinte da un gruppo di giovani artisti francesi? Gli organizzatori della terza edizione del Salon d’Automne di Parigi – che tenne aperti i battenti del Grand Palais dal 18 ottobre fino al 25 novembre del 1905 – decisero di unire nella stessa sala VII le opere di numerosi ex allievi di Moreau. L’allestimento dell’esposizione era curato dall’architetto Charles Plumet, che pensò bene di usare un criterio di ripartizione stilistica. Criterio che garantì il successo della manifestazione. Nella sala contigua alla VII, spiccava invece un dipinto di Henri Rousseau il Doganiere dal titolo significativo Il leone affamato si getta sull’antilope.

Henri Rousseau il Doganiere, Il leone affamato si getta sull’antilope, 1905

Più che i soggetti ad impressionare per la loro aggressività era l’uso di colori violenti – come fece notare il Journal de Rouen – accostati in modo stridente, lontani da ogni realtà oggettiva. La veemenza cromatica e la libertà d’espressione saltavano agli occhi. Tele tanto scandalose che persino Emile Loubet, Presidente della Repubblica francese, si rifiutò d’inaugurare l’esposizione. In un’atmosfera di scandalo sapientemente orchestrato, la sala VII, in cui si trovavano le opere sotto accusa, fu ritenuta inaccettabile da tutta la critica. La stampa battezzò quelle opere – firmate Henri Matisse, Albert Marquet, André Derain, Maurice de Vlaminck, Kees van Dongen, Charles Camoin, Henri-Charles Manguin, Jean Puy – nei modi più fantasiosi. Camille Mauclair ebbe l’impressione di “un barattolo di vernice gettato in faccia al pubblico”, Marcel Nicolle le paragonò a “giochi barbari e ingenui” di bambini, altri – nomi meno illustri, giornalisti improvvisati e di provincia – parlarono di “campioni informi”, di “pennelli deliranti”, di “un miscuglio di cera di bottiglia e piume di pappagallo”. La nota più mirata fu quella del supplemento dedicato all’evento da L’Illustration del 4 novembre che concludeva con una frecciata: «purtroppo manca il colore», inconveniente che il bianco e nero della rivista non rendeva l’abuso coloristico, impossibile colmare con le sole parole. (Le due pagine della rivista)

Collocato al centro della sala, solo un piccolo busto in marmo, classicheggiante, modellato con delicata sapienza da Albert Marque, fece scrivere al critico Louis Vauxcelles: “È Donatello tra le bestie”. L’espressione divenne così popolare che la sala fu presto ribattezzata “la gabbia degli animali selvatici” e, per estensione, la pittura degli artisti che vi esponevano fu definita fauvista. Così il termine fauvisme prese ad indicare il movimento artistico francese che ricevette il battesimo ufficiale proprio a quel Salon d’Automne di Parigi dell’anno 1905. Dell’articolo, uscito sul supplemento al quotidiano Gil Blas del 17 ottobre 1905 – il giorno prima dell’apertura ufficiale, per invitare gli spettatori alla visita – i libri parlano, ma pochi lo hanno letto. Sono andato perciò a reperire quel numero. Non è stato difficile trovare le due pagine dedicate al Salon, rispetto alle otto dell’intero giornale, e ho tradotto il testo riguardante la famigerata sala VII per leggerlo insieme. 

Stralcio dal supplemento a
Gil Blas del 17 ottobre 1905


Sala VII

«Sala arci-chiara, degli audaci, degli oltraggiosi, dei quali vanno decifrate le intenzioni, lasciando il diritto di ridere ai furbi e agli stupidi, critica troppo facile. E c’è una quantità di Indipendenti, Marquet e compagnia, un gruppo che si tiene così fraternamente unito come, nella generazione precedente, Vuillard e i suoi amici.

Raggiungiamo senza indugio M. Matisse [nota: M. sta per Monsieur, come dire il signor Matisse]. Ha coraggio, perché il suo invio – lo sa del resto – avrà la sorte di una vergine cristiana consegnata alle bestie del Circo. M. Matisse è uno dei pittori più espressivamente dotati di oggi, avrebbe potuto ottenere facili “bravo!” [applausi]: preferisce affondare, vagare in una ricerca appassionata, chiedere al puntinismo più vibrazioni, luminosità. Ma la preoccupazione per la forma ne risente.

M. Derain [il signor Derain] sussulterà; spaventa gli Indipendenti. Penso che sia più un artista da manifesti che un pittore. Il pregiudizio del suo immaginario virulento, la facile giustapposizione di elementi complementari, sembrerà ad alcuni un’arte volutamente infantile; riconosciamo, però, che i suoi Battelli abbellirebbero allegramente la parete della cameretta di un bambino. M. de Vlaminck epinalizza [nota: il signor de Vlaminck riproduce immagini colorate come quelle di Epinal ]; la sua pittura, che sembra terribile, è in fondo da bravissimo bambino. M. Ramon Pichot si distingue dai coloristi cupi o allegri della Spagna, suoi compatrioti, che non hanno affatto il senso del caricaturale; la cosa più fastidiosa è che difficilmente comprendiamo se è un caricaturista di proposito; si diverte, è un Dewambez, un Jean Veber madrileno; eppure, il suo Notturno è grazioso ed esatto.

La signorina Jelka-Rosen usa colori ribes molto acidi, la sua fantasia è comunque decorativa. M. Girieud è un lirico che stilizza ingrandendole ortensie, peonie, zinnie e physalis del Jardin des Suppliçes [nota: Il giardino dei supplizi, romanzo ironico di Octave Mirbeau]; ama i tessuti sontuosi, i mosaici, i personaggi leggendari. La sua tavolozza è sgargiante. Di quale luce è bagnata questa donna

seminuda che sonnecchia su un divano di vimini! Il sole di Saint-Tropez accarezza la sua pelle pallida e umida; il suo corpo pesante riposa, beato, all’aria aperta, vivificato dal soffio salato del mare che si intravede attraverso i rami.

Nessuno esimerà M. Marquet dal rimprovero di ripetersi: la sua gioiosa serie di Agay, di Saint-Tropez, di Antehor, non ricorda in alcun modo le sponde desolate che ha fatto ammirare al Salon des Indépendants. Ecco le rocce rosse, di Agay e di Trayas, che puntano nell’azzurro glauco del mare, e i pini di un verde metallico, e le colline dell’Esterel, le barche a vela del porto di Saint-Tropez, le case rosa. La fattura è grossa, grassa, di taglio originale, e che difficilmente ricorda (tranne un quasi inevitabile riavvicinamento con le Rocce Rosse di Guillaumin), l’ambientazione nella cornice delle altre analisi del Sud. Eppure, ho trovato i “Marquets” di Parigi più profondi e commoventi; la dura aridità di questo Sud di cartone mi urta. Forse M. Marquet è il miglior narratore degli aspetti settentrionali.

M. Camoin, anche lui se n’è andato a Saint-Tropez. Sono volati tutti lì, come uno stormo di uccelli migratori. Era la primavera del 1905, una valorosa piccola colonia di pittori che dipingevano e chiacchieravano in questo paese incantato: Signac, Cross, Manguin, Camoin, Marquet; vicino a loro, a Cagnes, d’Espagnat e il maestro Renoir. M. Camoin costruiva quadri traboccanti di sano e denso vigore; è il brulicante mercato della cittadina marittima, il taglio quasi giapponese dei graniti di Agay, il porto di Cassis e lo sfarfallio arancione dei riflessi tremolanti nell’acqua azzurra. Audaci e sicure opposizioni; una franchezza netta, diretta, di un colore che non tradisce; e, a volte, fantasie divertenti, questo Ombrellone, sotto il quale sorride una coraggiosa principessa circondata da un alone di luci policrome, mollemente intorpidita nel prendere il sole.

Al centro della sala, un torso di bambino, e un piccolo busto in marmo, di Albert Marque, che modella con delicata scienza. Il candore di questi busti sorprende, in mezzo all’orgia dei toni puri: Donatello tra le bestie».

Ora, finalmente, possiamo parlare con cognizione di causa. Abbiamo letto che la critica troppo facile che sfocia in risata Vauxcelles la lascia ai pettegoli e agli stupidi. In questa sala VII sono raccolte le opere di un gruppo di amici fraternamente unito, una quantità di pittori Indipendenti, che fanno capo ad Albert Marquet. Nella primavera precedente gli stessi pittori erano presenti al Salon des Indépendents, esposizione d’arte annuale che dal 1884 offriva visibilità agli artisti di Parigi in assenza di una giuria e, per contro, senza alcun premio. Il riferimento a Marquet è solo di comodo per il critico, perché dire Marquet è come dire Henri Matisse. Si erano conosciuti nell’ottobre del 1892 frequentando i corsi alla Scuola di Arti Decorative di Parigi. Avevano fatto presto amicizia e Matisse, di cinque anni più grande, aveva preso sotto la sua ala protettrice questo giovane forestiero come lui (Marquet di Bordeaux e Matisse di Le Cateau-Cambrésis), un po’ complessato, canzonato per il suo accento e soprannominato l’inglese per via dei suoi occhiali particolari. I due amici avevano poi abbandonato le arti decorative per migrare alle Beaux-Arts di Parigi, seguendo l’insegnamento libero di Gustave Moreau, che si definiva un vecchio simbolista interessato soprattutto alla tecnica pittorica. Scriveva Roger Marx sulla Revue Encyclopédique del 25 aprile 1896: «Tutti coloro che intendono svilupparsi secondo la propria individualità si sono riuniti sotto l’egida di Gustave Moreau». Con Moreau i due amici si legano ad alcuni di quei pittori che ritroviamo nella nostra sala VII: con Henri Manguin e soprattutto Charles Camoin. Gli altri li incontrano per la prima volta, dopo la morte di Moreau, nelle aule di disegno dell’Académie Julian, dell’Académie Carrière o dell’accademia privata Camillo, in rue de Rennes: sono André Derain, Pierre Laprade, Jean Puy, Maurice de Vlaminck. Nel 1925 Matisse ricorderà questi anni di apprendistato e di povertà: «Non avevamo abbastanza per pagarci una birra». Quando, ad esempio, si legge che Marquet e Matisse collaborarono alle decorazioni del Grand Palais per l’Esposizione di Parigi del 1900 – quella descritta all’inizio di queste pagine sull’Arte del Novecento – bisogna focalizzare l’idea che i due amici avevano accettato, chiarisce sempre Matisse, di «spazzolare chilometri di ghirlande sui soffitti del Grand Palais». Una mansione estenuante e sottopagata, tanto da non potere, tolte le spese alimentari, neppure acquistare certi colori costosi come i gialli e rossi di cadmio per dipingere, nel tempo libero dal lavoro, le proprie tele.

Gustave Moreau, Autoritratto (1850)

Vauxcelles, dunque, cita Marquet, ma lascia fuori Monsieur Matisse, che giudica esplicitamente uno dei pittori espressivamente più dotati da ottenere facili approvazioni da parte della critica specializzata. La sua recensione ondeggia tra l’elogio e l’ironia. Matisse è encomiabile per il suo coraggio col quale si spinge in modo vago in una ricerca appassionata della novità. Una novità che chiaramente non convince il critico di Gil Blas, che preferirebbe il candore classicheggiante del piccolo busto ispirato a Donatello piuttosto che quel macello di colori sgargianti. Matisse, si ostina a fare parte di questo Circo, rischiando di essere sacrificato come una vergine cristiana votata al martirio e consegnata alle bestie feroci. Derain, gioca troppo facilmente con i suoi colori, sembra un pittore da manifesti con cui arredare una stanza per bambini. Similmente de Vlaminck sembra un colorista che usa stampini, come gli artigiani indaffarati a colorare le stampe di Epinal che tanto successo riscuotono, fra gli amanti delle arti popolari. Manguin sembra fare, invece, enormi progressi, ma subisce ancora la fascinazione di Cézanne, anzi non si è ancora tolto di dosso il suo odore.

Louis Vauxcelles, schizzo di Jules Chéret, 1909

Gli articoli, come quelli del sarcastico Vauxcelles e dei suoi pari, ebbero l’esito inaspettato di unire in una corrente degli artisti che non avevano alcuna intenzione di fondare un movimento unitario come in Germania la Brücke. Artisti che non avevano un programma d’intenti, ma solo affinità espressive. Avevano un denominatore comune da intravvedere nella componente pointilliste, nell’influsso di Gauguin, nelle mostre d’arte islamica e dei primitivi, indirizzati verso una ricerca individuale dagli effetti cromatici utilizzati con libertà totale. Ecco allora distinguere una nuova formazione costituita dall’accorpamento di almeno tre gruppi. Il primo è formato, sicuramente, dagli allievi dell’atelier di Gustav Moreau e della serie di successive accademie frequentate. Nel secondo gruppo distinguiamo Derain e de Vlaminck che avevano preso sede a Chatou sulle rive della Senna. Appartengono al terzo gruppo tutti coloro di Le Havre che si aggiunsero a breve, come Friesz, Dufy, Braque. Tra quelli rimasti staccati, il più vicino ai Fauves è Kees van Dongen. Ma possiamo includere anche Valtat, Rouault, lo scultore Maillot, Pascin e persino un giovanissimo Picasso che ben presto metterà in crisi l’intero fauvismo. Quasi come programma del nuovo sodalizio scriveva Othon Friesz: «Dare l’equivalente della luce solare con una tecnica fatta di orchestrazioni colorate, trasposizioni passionali (che hanno come punto di partenza l’emozione diretta sulla natura) le cui verità e le cui teorie si elaborano attraverso ricerche ardenti ed entusiasmanti».

Al Grand Palais di Parigi il Salon d’Automne del 1905

Quando Vauxcelles si accorse di avere dato una spinta unificatrice non mancò di descrivere di nuovo i Fauves: «Un movimento che ritengo pericoloso (nonostante la grande simpatia che nutro per i suoi autori) sta prendendo forma in un piccolo gruppo di giovani. È stata istituita una cappella, officiano due preti superbi. MM. Derain e Matisse; poche decine di catecumeni innocenti hanno ricevuto il battesimo. Il loro dogma è uno schematicismo vacillante che vieta modellazioni e volumi in nome dell’astrazione pittorica del non so cosa. Questa nuova religione non mi attrae che a malapena. Io non credo in questo Rinascimento […] M. Matisse, fauve-in-chief; M. Derain, sostituto fauve; MM. Othon Friesz e Dufy, fauves presenti […] e M. Delaunay (un allievo quattordicenne di M. Metzinger…), fauvelet infantile. (Vauxcelles, Gil Blas, 20 marzo 1907)».

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IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Alessandro Mancuso inaugura una nuova impresa editoriale e la collana Circuitus Siciliae

Un agricoltore assai smozzicato, tutto sulla vita e l’opera del pittore e scultore Libero Elio Romano.
Il libro, scritto da Vittorio Ugo Vicari, inaugura la nuova impresa editoriale del fotografo messinese Alessandro Mancuso. La collana Circuitus Siciliae interamente dedicata agli studi d’arte nell’Isola

Alessandro Mancuso è un editore e fotografo messinese di consolidata esperienza (nel suo curriculum la casa editrice Magika e la rivista «Karta»). Con il volume Un agricoltore assai smozzicato. Formazione fiorentina e residenza siciliana di Libero Elio Romano egli inaugura una nuova impresa editoriale e una collana (Circuitus Siciliae) interamente dedicata agli studi d’arte nell’Isola.

Il libro, scritto da Vittorio Ugo Vicari, docente di Storia dell’arte contemporanea presso l’Accademia di Belle arti di Catania, analizza la vita e l’opera del pittore e scultore Libero Elio Romano (1909-1996) autore tra i più significativi del Novecento siciliano, titolare della cattedra di Pittura presso l’Accademia etnea nella sua tarda età.
Si tratta dello spaccato esemplare di una biografia formatasi a cavallo tra le due guerre tra Catania, Roma e Firenze, che durante il ventennio maturò una maniera in bilico tra istanze artistiche internazionali, congiunture italiane e forme compiute di ‘resistenza culturale’ al regime fascista. Una vita apparentemente appartata nell’enclave di Morra, contrada dell’ennese, che invece cela avventure, militanze e passioni molto intense, assumendo a tratti le sembianze di un romanzo neorealista.

Nella stesura del volume l’autore si è avvalso di molte fonti documentarie e della collaborazione diretta dei figli e nipoti dell’artista. Le opere in esso presentate vengono quasi esclusivamente da quell’intima cerchia e sono perlo- più inedite o poco note. La prefazione del testo è stata affidata a Giuseppe Frazzetto che fu tra i suoi amici più cari, recensore della sua opera in molte occasioni e curatore dell’ultima sua mostra antologica, nel 1995 a Castello Ursino di Catania.

Libero Elio Romano emerge dal libro con lo statuto dell’eretico; il suo ritiro nelle campagne dell’entroterra siciliano durante e dopo la guerra, poeticamente corrisponde con la volontà di rifiuto che il suo amico Eugenio Montale ci lascia in pochi versi scarni. Romano vivrà larga parte della sua vita in disparte perché sa ciò che non è, ciò che non vuole e silenziosamente, magistralmente, dipinge ciò che più conta: la terra, i cicli della vita, le nature morte, le donne, le colline, il mare. La sua maniera pittorica ricorda la scultura, una “costruzione quasi geologica” del paesag- gio fatto di forre, sbalanchi, cretti, quando nella Sicilia interna primeggiavano i seminativi da raccolto, i maggesi e il lavoro dei campi era un’impresa titanica. Modellati di creta sembrano anche i corpi delle modelle nude, espressione di sensualità e abbandono alla vita ferace, stagliate su fondi che somigliano agli orizzonti alluvionali d’autunno, quando l’azzurro del cielo è costantemente smentito da venti forti e algidi che rovesciano sulle terre nuvole improv- vise e improvvisi temporali. Modellate nella creta sono, infine, le sue nature morte, che vibrano in un canto come le povere cose di Giorgio Morandi, appena rotte dal cromatismo acceso e carnale di un fiore selvatico o di un frutto campestre.

Per questo insieme di ragioni, Un agricoltore assai smozzicato va considerato un libro necessario. Esso consente il transito di un artista del novecento siciliano dalla dimensione della critica a quella della storia dell’arte, collocando Libero Elio Romano al definitivo posto che gli compete: tra i grandi della sua generazione.

Vittorio Ugo Vicari, Un agricoltore assai smozzicato. Formazione fiorentina e residenza siciliana di Libero Elio Romano, Alessandro Mancuso Editore, Venaria Reale 2021.

IMMAGINE DI APERTURA  – Copertina del libro