Regina Vittoria – La fotografia era la sua passione Reale

 

La regina Victoria con in mano un ritratto dal principe Albert, negativo luglio 1854; stampa 1889. Bryan Edward Duppa and Gustav William Henry Mullins, carbon print. Royal Collection Trust / © Her Majesty Queen Elizabeth II 2013

 

Sulla Regina Vittoria sono state scritte intere biblioteche di libri. Il 20 giugno del 1837, appena diciottenne, succedeva a re Guglielmo IV. Di quella mattina Vittoria annota sul diario: «Sono stata svegliata alle 6 dalla mamma, che mi ha detto che l’Arcivescovo di Canterbury e Lord Conyngham erano qui e desideravano vedermi. Scesi dal letto e andai nel mio salotto (indossando solo la mia vestaglia) e, da sola, li incontrai. Lord Conyngham poi mi fece sapere che il mio povero zio, il re, non c’era più, e che era spirato 12 minuti dopo le 2 di questa mattina, e di conseguenza che io sono la regina». Iniziava quello che fino al nove settembre del 2015 è stato il regno più lungo della storia. La Regina Elisabetta ha infatti superato il record della trisavola rimasta in trono per 63 anni e 216 giorni. Di quegli anni la storia ha una documentazione di prim’ordine grazie all’invenzione (inizi 1839) di un nuovo mezzo come la fotografia, annunciato prima a Parigi da Louis-Jacques-Mande Daguerre, poi a Londra da William Henry Fox Talbot. La Great Exhibition inaugurata nel 1851 al Crystal Palace di Londra fa conoscere per la prima volta a tutti in cosa realmente consista questo nuovo modo di raffigurare persone e cose. Già però dal 1842 la regina e suo marito, il principe Albert, vanno raccogliendo fotografie. Insieme i reali hanno accumulato una delle prime raccolte fotografiche, dove ritroviamo opere di famosi fotografi come Roger Fenton, Gustave Le Gray, Julia Margaret Cameron. Victoria & Albert, nel 1852, fondano il museo in Cromwell Road a Londra, che ancora oggi porta il loro nome. È la più importante esposizione mondiale dedicata alle arti applicate. Arte applicata è anche la fotografia, della quale Vittoria coltiva una passione “reale”.

La sua vita è continuamente registrata dalla macchina fotografica: una risorsa preziosa per gli storici e un accesso agli scatti privati, quotidiani, che incuriosisce anche i non specialisti. Le fotografie in un primo momento sono soltanto riservate e per nulla destinate alla distribuzione pubblica. Vi appare una Victoria amorevole come moglie e premurosa come madre, meno formale dei ritratti imperiali che conosciamo di lei. Sono dagherrotipi al calotype o all’albumen silver print. Ci sono alcune stampe corrette o addirittura dove il suo volto è stato dalla regina stessa cancellato. Dal 1860 Vittoria concede di far riprodurre e pubblicare suoi ritratti ufficiali, da sola o in gruppo con gli altri membri della famiglia reale. In questi anni le persone distinte, e non solo quindi i monarchi, usano farsi fotografare nelle “cartes de visite”, i biglietti da visita alla maniera parigina. Possedere un biglietto fotografico della regina è un onore per i suoi sudditi. Per questo motivo furono venduti in tutto il mondo quasi quattro milioni di biglietti da visita con l’immagine di Vittoria. Quando nel 1861 il principe Albert muore a soli 42 anni, Vittoria, ritiratasi dalla vita pubblica a Balmoral, appare come una regina in lutto, questa è l’immagine che fa circolare sulla stampa. Dopo essere stata insignita del titolo d’imperatrice dell’India, nel 1876, le stampe fotografiche della regina Victoria acquisiscono una caratura imperiale, costante testimonianza del senso di potere e responsabilità che in ogni parte del mondo, da allora in poi, la dovranno contraddistinguere.

VISITA LA MOSTRA DEL 2014 AL “THE J. PAUL GETTY MUSEUM”: A Royal Passion: Queen Victoria and Photography

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VITTORIA (Alexandrina Victoria; Londra, 24 maggio 1819 – Isola di Wight, 22 gennaio 1901) è stata regina del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda dal 20 giugno 1837 e Imperatrice d’India dal 1876 fino alla sua morte. Il suo lunghissimo regno viene anche conosciuto come epoca vittoriana. Vittoria era la figlia del principe Edoardo, duca di Kent e Strathearn, quarto figlio del re Giorgio III. Sia il duca e sia il re morirono nel 1820, e Vittoria crebbe sotto la supervisione di sua madre, la principessa tedesca Vittoria di Sassonia-Coburgo-Saalfeld. Ereditò il trono a diciotto anni, dopo la morte senza discendenza legittima dei suoi tre zii paterni. Il Regno Unito era già in quell’epoca una monarchia parlamentare stabile, nella quale il sovrano aveva pochi poteri politici diretti. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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IL SOLE 24 ORE

La Regina dello scatto

Esperienze: museo della Civiltà Romana e spazio urbano

 

Il Museo della Civiltà Romana ha una fisionomia peculiare nel vasto e articolato panorama dei Musei di Roma. Infatti, il materiale in esso conservato – la cui attuale consistenza è il risultato della combinazione di quanto raccolto in occasione della Mostra Archeologica del 1911, del Museo dell’Impero Romano e della Mostra Augustea della Romanità – si compone in massima parte di riproduzioni: calchi di statue, di busti, di iscrizioni, di rilievi e di parti di edifici a grandezza naturale; plastici che ricostruiscono monumenti e complessi architettonici di Roma e delle provincie dell’impero romano; testimonianze della cosiddetta “cultura materiale” (suppellettili, oggetti di uso domestico, strumenti di lavoro e così via). Il Museo della Civiltà Romana venne aperto al pubblico, nella sede attuale, il 21 aprile 1955.

SUL WEB: visita il Museo della Civiltà Romana

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La Statua della Libertà – Il monumento nazionale di una società multietnica

 

La statua «la liberté éclairant le monde», questo il suo nome originale, è un dono offerto dai francesi agli americani. La sua inaugurazione sull’isola di Beldoe è stata celebrata nell’ottobre 1886 (Rue des Archives / © MEPL / Rue des Archives).

 

Il 19 giugno del 1885 la Statua della Libertà, la scultura colossale ideata e realizzata da Auguste Bartholdi con l’ausilio dell’ingegnere Gustave Eiffel, che ne ha progettato la struttura reticolare interna in acciaio, sbarca a New York. La fregata Isère è accolta dai colpi augurali dell’artiglieria e dagli applausi di una traboccante folla festante che assiepa il molo. È solo il primo carico dell’opera costruita a Parigi, che giunge in America sezionata. Dalla capitale ha viaggiato su rotaia fino al porto di Rouen, poi imbarcata sull’Isère ha attraversato l’Atlantico. A bordo la coppia Bartholdi e la coppia Gaget, in rappresentanza delle officine Gaget e Gauthier che hanno materialmente realizzato l’ambizioso progetto. Un articolo pubblicato su Le Figaro l’8 luglio 1885, intitolato “Figaro in America”, restituisce ai parigini il clima di entusiasmo all’arrivo della statua di Bartholdi. La folla applaude e intona il ritornello della Marsigliese. Le vie sono decorate ovunque col tricolore francese. Bartholdi è l’eroe del giorno. Gli abitanti non sanno più come esprimere la loro gioia da quando hanno saputo che saranno sbarcate trecento casse contenenti i primi pezzi della famosa statua, già battezzata “La Libertà che illumina il mondo”. La voce che si rincorre di bocca in bocca è una sola: quando la statua apparirà completata sull’isola di Bedloe, e la sua torcia risplenderà nel porto di New York, l’effetto sarà magico.

Per vederla così, scrive il corrispondente da New York, ci vorrà un po’ di pazienza; e questo lo fa stare male. Per montare la statua occorrerà, infatti, costruire un piedistallo degno del lavoro artistico. Sebbene il finanziamento della statua e le spese di viaggio siano a carico dei francesi, l’astronomico costo dell’assemblaggio dovrà essere sopportato dagli americani. Occorre anzitutto finanziare l’immenso piedistallo, per il quale non sono stati raccolti in tempo i fondi necessari. I giornali additano il governo degli Stati Uniti, che non vuole impegnarsi. Ma, in realtà, il progetto franco-americano è un’opera privata. Le Figaro del 7 aprile 1885 spiega ai suoi lettori che il Congresso ha accettato il dono della statua con riferimento alla legge del 22 febbraio 1877, che prevede soltanto «le spese per l’inaugurazione e il mantenimento del monumento in una destinazione ben precisa», che è quella di faro elettrico. Gli americani hanno costituito un fondo, sostenuto dai giornali, per finanziare l’opera, che si prevede di completare in due o tre anni. Di fronte all’iniziale riluttanza è, infatti, il magnate Joseph Pulitzer a lanciare una grande campagna di abbonamenti dalle colonne del suo quotidiano “The World”. Sollecita l’orgoglio nazionale.

Per il momento, comunque, l’attenzione è tutta rivolta ai festeggiamenti. Ufficiali ed equipaggio dell’Isère, conserveranno un ricordo eccellente dell’accoglienza riservata loro. Dall’arrivo a New York, è un susseguirsi di banchetti, sfilate, presentazioni. Con un pizzico di polemica il corrispondente del quotidiano parigino informa che proprio nel momento in cui la fregata Isère era in procinto di attraccare in porto, il console generale francese a New York, Monsieur Lefaivre, è dovuto partire; ma fortunatamente è stato sostituito dall’eccellente console francese a Chicago, Monsieur Bruwaert. Ora bisognerà attendere che dall’Isère le trecento enormi casse, nelle quali hanno viaggiato impacchettati i pezzi della gigantesca statua, siano scaricati. Rimarranno smantellati e conservati sull’isola di Bedloe fino al completamento dei lavori. Nel frattempo, i festeggiamenti si trasferiscono a Washington dove gli uomini dell’Isère renderanno omaggio al Presidente della Repubblica Grover Cleveland (1837-1908). Da allora, la Statua della Libertà è il simbolo universale dell’emancipazione dall’oppressione, rappresentata dalle catene spezzate della schiavitù che si trovano ai suoi piedi. Nel 1927, il monumento è stato dichiarato monumento nazionale dagli Stati Uniti e dal 1984 è stato inserito dall’UNESCO nel patrimonio dell’umanità. Il suo faro di civiltà ha continuato ad accogliere milioni di immigrati, come già avveniva dall’inizio del secolo XIX, contribuendo all’essenza democratica e multietnica del popolo statunitense.

LEGGI L’ARTICOLO SU LE FIGARO: 17 juin 1885, la Statue de la Liberté débarque à New York

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LA STATUA DELLA LIBERTÀ (Statue of Liberty), inaugurata nel 1886, è un monumento simbolo di New York e degli interi Stati Uniti d’America, uno dei monumenti più importanti e conosciuti al mondo. Situata all’entrata del porto sul fiume Hudson al centro della baia di Manhattan, sulla rocciosa Liberty Island. Il nome dell’opera è La Libertà che illumina il mondo (Liberty Enlightening the World in inglese, La Liberté éclairant le monde in francese). Fu realizzata dal francese Frédéric Auguste Bartholdi, con la collaborazione di Gustave Eiffel, che ne progettò gli interni; la statua è costituita da una struttura reticolare interna in acciaio e all’esterno rivestita da 300 fogli di rame sagomati e rivettati insieme, poggia su un basamento granitico grigio-rosa che si è a lungo pensato fosse di provenienza sarda[1], benché recenti ricerche abbiano smentito la provenienza della roccia dall’isola della Maddalena e l’abbiano ricondotta alla cava di Stony Creecy nel Connecticut. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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STATUE OF LIBERTY MUSEUM

A New Way to Experience History

Nuovi linguaggi per un dizionario gastronomico generico

 

Raffigurazione di Maestro Martino

 

La sperimentazione in cucina su nuove ricette di pasta con sempre nuovi formati, comporta l’ideazione di un qualcosa che poteva essere descritto solo con un vocabolario gastronomico, per i tempi del tutto generico. Maestro Martino, nel XV secolo, sfrutta parole come “vivande di pasta” o “minestre di pasta”. Il maccherone per lui consiste in un formato di pasta lunga, con sezione tonda o cava, ma anche in nastri di pasta a lunghezza variabile. Bartolomeo Scappi, nel XVI secolo, ad esempio, descrive una ricetta che lui chiama “minestra di maccheroni detti gnocchi”. Il cuoco marchigiano Antonio Nebbia, nel XVIII secolo, scrive un libro intitolato “De maccaroni e gnocchi”. Invece nel testo descrive solo piatti di lasagne e gnocchi di tutti i tipi. In effetti il vocabolario gastronomico attuale, nascerà solo nel XIX secolo, con i grandi trattati di cucina (vedi Artusi).
Il termine “pasta” entra in sordina nel vocabolario gastronomico e se ne disconosce il creatore, in quanto riferito genericamente alla lavorazione di un impasto e, perciò, è inclusivo di diverse attività manuali che lo prevedono. Tipo per sfoglie, torte di pasticceria, pane e focacce. Inoltre, i due termini, pasta e maccheroni, inizialmente sono considerati tra loro come sinonimi di pasta alimentare. In tale senso vengono utilizzati nel testo “Memorie di mangiar di pasta” (un trattato di scalcheria), scritto da Giovambattista Rossetti, nel 1584.
In questo stesso periodo, nascono due termini, nel Mezzogiorno, che indicano due metodi di lavorazione, a macchina o manuale. È il caso di “pasta di ingegno” e “pasta da ferro”. In quest’ultimo caso, si intende indicare una lavorazione manuale con un ferretto, su cui si modellano i maccheroni cavi detti, “alla siciliana”. Con il primo termine (“pasta di ingegno”) si distingue, invece, la pasta secca, prodotta con trafilatura al bronzo, direttamente a macchina.
Generalmente la pasta secca, fatta con semola di grano duro, è stata sempre alimento dei poveri. Quando a Napoli è introdotta la cosiddetta “pasta di ingegno”, essendo una nuova tecnologia, quindi, all’avanguardia, è ben accetta e gradita dai nobili della città. Giusto il tempo di superare la nuova moda del momento.

 

Christo – The Floating Piers, dopo due anni rimane solo il ricordo

 

The Floating Piers collega Montisola a Sulzano e all’Isola di San Paolo (nella foto)

 

«Caduto il fiore resiste l’immagine della peonia». È un delicato haiku del poeta giapponese Yosa Buson (1716-1784). Ci ricorda l’installazione artistica temporanea di Christo. The Floating Piers è stata aperta il 18 giugno 2016 sul Lago d’Iseo e fino al 3 luglio ha richiamato migliaia di visitatori. Se ne prevedevano 500 mila e ne sono arrivati quasi tre volte tanto. Amanti dell’arte o semplicemente curiosi? Era un’opera d’arte o una grande operazione di marketing? Sulle sponde bresciana e bergamasca del lago d’Iseo ancora oggi si raccoglie l’eredità dell’affluenza turistica lasciata dall’artista americano di origini bulgare. “Sia lodato Christo”, osannano a Sulzano, Monte Isola, Sale Marasino, Iseo, Marone, Sarnico. Lovere. Da pochi giorni a Sulzano si celebra «Albori Music Festival: cittadella indipendente», il primo degli eventi che fino al 30 giugno evocheranno a due anni di distanza «The Floating Piers». Un ricco cartellone di eventi. Se tutto questo richiamo serve a scoprire il Lago, ben venga. Ora, passati due anni, torna imperativa la domanda dello storico Mimmo Franzinelli: «Entreremo davvero – come tanti profetizzano – nella storia dell’arte, o non piuttosto nel catalogo del Kitsch, per il proverbiale quarto d’ora di celebrità?». Torniamo qui a richiamare l’attenzione sull’idea di installazione come opera d’arte. Un’arte evanescente come la peonia di Yosa Buson, che sfiorisce in un breve arco di tempo senza lasciare tracce tangibili se non l’immagine del proprio ricordo.

Dagli anni ’60 del Novecento, artisti di tendenze diverse, legati al minimalismo, all’arte processuale, all’arte povera, all’arte concettuale, hanno sintetizzato le proprie esperienze direttamente nello spazio, anziché scegliere una tela o una parete. Hanno utilizzato linguaggi e mezzi espressivi propri della contemporaneità (videoinstallazioni o installazioni visive, sonore, computerizzate, interattive) che trovano il loro denominatore comune nello spazio-tempo. Un luogo specifico utilizzato in un tempo definito. Julia Kristeva pone l’accento sulla “teatralità” dell’installazione, dove l’opera si compie nel momento della sua rappresentazione: «È uno spettacolo, ma senza palcoscenico; un gioco, ma anche un’attività quotidiana; un significante, ma anche un significato. Come la scena del carnevale, dove non c’è scena, non “teatro”, è allo stesso tempo scena e vita, gioco e sogno, discorso e spettacolo». L’installazione può essere proposta, smontata, rimontata in ambienti espositivi differenti, adattandola di volta in volta come la scenografia in un teatro, purché si mantenga inalterato il senso dell’opera. Nel caso specifico dell’opera di Christo, tuttavia, l’installazione è progettata espressamente per uno spazio ben determinato, dove il contesto è attivamente e indissolubilmente parte dell’opera stessa. Per questo motivo si parla di “site specific”.

L’artista sognava di realizzare la passerella sin dal 1970, ma non ha ottenuto le autorizzazioni pubbliche nei luoghi che gli parevano i più adatti, come in Argentina o Giappone. Ha coronato la sua idea in Italia. Qui ha costruito l’opera scegliendo i materiali idonei allo scopo, come uno scultore cinquecentesco sceglieva un “marmo pario”. I materiali sono importanti, ma non sono l’opera d’arte. Christo stesso lo spiega: «L’opera d’arte non è il tessuto; il tessuto è soltanto il materiale che le dà forma e vita. L’opera d’arte è anche l’acqua, sono le case su Montisola. Tutto questo è l’opera d’arte. E siccome l’opera d’arte è in acqua, abbiamo dovuto trovare un tessuto che potesse cambiare colore. E abbiamo usato un tipo di nylon molto sensibile all’umidità dell’aria. Ecco perché è come un dipinto astratto». Come scrivevamo su Experiences due anni fa, l’opera stimola il desiderio di camminare – quasi involontariamente, meglio se a piedi scalzi – per abbandonarsi al sole, all’umidità del lago, alla pioggia o al vento. In un altro haiku di Yosa Buson leggiamo: «Brezza primaverile, lungo cammino sull’argine e la casa è lontana». Ci piace pensare che l’argine sia quello sul Lago d’Iseo, la brezza l’opera nel presente. La casa lontana il senso dell’arte temporanea che conservi solo nel ricordo, se prima lo avevi conosciuto.

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CHRISTO E JEANNE-CLAUDE, o più spesso semplicemente Christo, è il progetto artistico comune dei coniugi statunitensi Christo Yavachev (Христо Явашев, Gabrovo, 13 giugno 1935) e Jeanne-Claude Denat de Guillebon (Casablanca 13 giugno 1935 – New York, 18 novembre 2009), fra i maggiori rappresentanti della Land Art e realizzatori di opere su grande scala (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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THE FLOATING PIERS è stata un’installazione artistica temporanea dell’artista Christo, concepita come una passerella che attraversava le sponde del lago d’Iseo. L’opera era costituita da una serie di passerelle installate sulla sponda bresciana del lago d’Iseo, che permettevano ai visitatori di camminare appena sopra la superficie dell’acqua del lago da Sulzano, sulla terraferma, sino alle isole di Monte Isola e San Paolo, dal 18 giugno al 3 luglio 2016. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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IL GIORNO

Sulzano, via al cartellone di eventi ricordando Floating Piers

Architettura Parassita. Passato presente futuro

 

Il testo di questa tesi di laurea, dice Alberto Minero che ne è l’autore, è da intendersi come un punto di partenza per un progetto più ampio, un progetto cioè di rinnovo urbano e di densificazione mutualistica, per coinvolgere tutti coloro che – per un motivo o per un altro – si trovano a leggere questo studio. I contenuti qui descritti sono frutto di lavoro e ricerche, ed in quanto tali chiunque voglia utilizzare tali contenti può contattare l’autore, anche solo per scambiare un’opinione o per far nascere una eventuale collaborazione.

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Nicolas De Staël – Non sappiamo dove andava o da dove veniva

Nicolas de Staël

 

Un artista del tutto particolare, Nicolas de Staël. Non aveva interesse per i soldi, per la gloria, per i premi, per le mostre, né per il successo. Leggeva solamente i poeti. Non leggeva, invece, riviste d’arte, né gli interessavano le recensioni dei critici. Uno fra questi, il più sottile e acuto dei suoi tempi, Roland Barthes, ha scritto di lui: «Tutto de Stael è in due centimetri quadrati di Cézanne». Mai critica nei suoi confronti è stata così tagliente. Barthes, non gli riconosce nulla se non un paragone con Cézanne dal quale lo fa uscire sconfitto senza pietà. Eppure Nicolas chiedeva ai critici di essere giudicato per quello che era, «sans bétises», senza stupidaggini. Non si richiama espressamente ai maestri come Braque, Courbet, Velasquez, oppure Cézanne, benché come quest’ultimo abbia vissuto gli ultimi anni della sua vita nel Sud luminoso della Francia. Staël scrive un giorno al suo gallerista Jacques Dubourg: «un bon tableau est celui dont on peut dire qu’on ne sait pas où il va ni d’où il vient », un buon quadro è quello di cui si può dire che non si sa né dove va né da dove venga». Ha vissuto quasi sempre di miseria e nobiltà, perché era un barone russo. La produzione sviluppata in Provenza, negli ultimi anni, gli permette di affermarsi definitivamente. A dire dei critici, la sua vita di pittore è durata solo dieci anni e la sua gloria appena tre: gli ultimi tre, prima del suicidio. Nella notte tra il 16 e il 17 marzo 1955 Nicolas, in preda ad una crisi depressiva, spalanca la finestra della sua casa di Antibes e salta nel vuoto. L’epilogo tragico di una vita durata solo 41 anni. Ha scritto poco prima del suicidio: «Ci sono persone che deliberatamente vanno sulla luna perché sanno che non possono, e sicuramente non possono, sapere cosa sta succedendo a casa».

Ora l’ultimo di suoi quattro figli, Gustave, e la nipote, Marie du Bouchet, autrice della sua biografia, hanno raccolto in una mostra ad Aix-en-Provence 71 dipinti e 26 disegni. Delineano gli anni d’oro dell’artista. Racchiudono le sue “impressioni”, con quelle macchie larghe di colore impressioniste: paesaggi di luce e nudi stilizzati. Come il bellissimo nudo di Jeanne. La incontra nel ’52. Quasi come fosse naturale Nicolas chiede all’amico e poeta René Char di concedergli la sua donna: «Dónamela, l’amo troppo». E lui, in modo altrettanto naturale e libertino, gliel’ha donata. È Jeanne – Jeanne Mathieu, coniugata Polge e madre di due figli – che non ha voluto lasciare René per vivere con lui. Sono anni dalla pittura febbrile, Staël viaggia e dipinge. Scrive a Jeanne: «Ti amo da urlare. Ti amo da morire Ti amo da vedere la complessità più infernale, limpida nel tuo amore. Ti amo da amare il tuo amore come ti amo. Ti amo nel rischio, nella pace di un istante, con tutto il mio sangue, con tutte le mie lacrime, con tutta la mia follia, con te, con me, ti amo in ogni granello di polvere che tocca il tuo cuore». Nel ’53 visita anche l’Italia, la Sicilia: Palermo, Selinunte, Agrigento, Ragusa, Siracusa, Catania, Taormina. Scrive a Char: «Sono divenuto, anima e corpo, un fantasma che dipinge templi greci e un nudo così adorabilmente ossessivo, senza modello, che si ripete e finisce con l’annebbiarsi di lacrime. Non è davvero atroce, ma spesso si raggiunge il limite. Quando penso alla Sicilia, che è essa stessa un paese di veri fantasmi, dove solo i conquistatori hanno lasciato delle tracce, mi dico che sono racchiuso in un cerchio di stranezze dal quale non si esce mai».

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NICOLAS DE STAËL (San Pietroburgo, 5 gennaio 1914 – Antibes, 16 marzo 1955) è stato un pittore russo naturalizzato francese. Il padre Vladimir era un barone russo baltico, della stessa famiglia del marito della celebre Madame de Staël, e la madre era una pianista. A seguito della Rivoluzione Bolscevica la famiglia si trasferì in Polonia. Alla morte dei genitori, (1921-1922) visse con le sorelle a Bruxelles presso la famiglia Fricero. Fu introdotto all’arte, dapprima nel collegio dei Gesuiti e in un secondo tempo grazie alla frequentazione dell’Accademia di Belle Arti di Bruxelles.(Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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IL GIORNALE DELL'ARTE

L’ultimo de Staël innamorato del sole

Giochi d’altri mondi: svaghi universali per allargare orizzonti

 

Questo e-book sui “Giochi d’altri tempi” è stato ideato e realizzato da Apes (Associazione Pace e Scoutismo) nell’ambito del progetto “Giocare oltre i confini” vincitore di un Premio Bando contributi ed Associazioni No-profit 2011 del Comune di Segrate. L’Associazione Pace e Scoutismo (APeS) è nata a Segrate nel 2006 da un gruppo di persone (scout, ex scout e non) che mettono a disposizione il proprio tempo e le proprie energie per contribuire a migliorare la qualità della vita nella direzione della corresponsabilità democratica, della sobrietà e della convivenza rispettosa delle differenze. Spazio privilegiato per la pratica di questo percorso, che è anche ricerca individuale e collettiva, è il territorio comunale e in particolare i quartieri di Rovagnasco, Villaggio Ambrosiano e Mulini. A Experiences fa piacere diffondere questo positivo apporto alla solidarietà.

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James Joyce – Discuteremo per secoli su quello che intendeva con l’Ulisse

 

Ulysses nell’edizione originale del 1922

 

Trieste, Genova, naturalmente Dublino e tante altre città il 16 giugno celebrano il Bloomsday, ovvero il giorno di Leopold Bloom, ebreo irlandese, piccolo borghese, indaffarato a tradire la moglie Molly dalla quale è a sua volta tradito. Leopold Bloom è il protagonista di Ulisse, capolavoro di James Joyce. La vicenda ricorda, in termini moderni, quella dell’Ulisse di Omero, che approda di luogo in luogo nel Mediterraneo, tradendo sua moglie Penelope ad ogni piè sospinto, mentre Penelope tesse la tela respingendo (fino a che punto?) le profferte dei Proci, ben 108 nobili di Itaca e dell’hinterland che si contendono non solo il letto di Ulisse ma soprattutto il suo trono. Il 16 giugno 1904 è il giorno scelto da James Joyce per circoscrivere il tempo narrativo. In verità, è stato scelto dal grande scrittore irlandese perché sembra sia stato il giorno in cui la sua futura moglie, Nora Barnacle, ha capito di essere innamorata di lui. Cose della vita che si trasfigurano nelle opere letterarie! Ecco come Louis Menand, saggista americano, descrive sul “New Yorker”, riprendendola dallo stesso Joyce, la prima passeggiata intima fra il giovane James e Nora. Lei veniva da Galway e lavorava come cameriera al Finn’s Hotel, a Dublino. James la vide camminare lungo Nassau Street, in un modo che suggeriva alla fantasia una qualche disponibilità a farsi avvicinare. Lui con tatto le chiese un appuntamento. Lei fu d’accordo, ma lo piantò in asso. Lui non desistette e la contattò con un biglietto. «Sono tornato a casa piuttosto abbattuto – scrisse – Mi piacerebbe incontrarti di nuovo. Spero che sarai così gentile da fissarmi un appuntamento, se non mi hai dimenticato!». S’incontrarono, finalmente. Passeggiarono fino a Ringsend, sulla riva sud del Liffey, dove lei gli mise una mano dentro i pantaloni e lo masturbò. Era il 16 giugno 1904 e quel giorno Joyce impostò Ulisse. Quando le persone celebrano il Bloomsday, questo è ciò che stanno celebrando, precisa Menand.

Da allora il 16 giugno è ricordato ogni anno in una giornata speciale, nel corso della quale si celebrano una serie di eventi per rievocare le pagine del libro, che descrivono Leopold mentre percorre in lungo e largo la Dublino dei primi anni del Novecento, immerso nei pensieri e sommerso da tanti piccoli impegni quotidiani. Stuart Gilbert, che ha curato le “Lettere di James Joyce”, ci porta a conoscenza che una prima menzione della celebrazione si trova addirittura in una lettera di Joyce a Miss Weaver. La data è quella del 27 giugno 1924, e lo scrittore si riferisce ad «un gruppo di persone che osserva quello che chiamano il giorno di Bloom». L’idea del Bloomsday, l’evento che da allora si celebra con cadenza annuale, è scaturita nel 1954, volendo celebrare il 50° anniversario della giornata descritta nel libro. Una festa itinerante, per ripercorrere i passi di Leopold Bloom per le strade di Dublino. Si racconta che il primo gruppo di ammiratori, quel 16 giugno del 1954, mosse dalla torre Martello a Sandycove (laddove inizia il romanzo), visitando via via le scene del romanzo. Il programma prevedeva di terminare di notte nel quartiere in cui un tempo si trovavano le case di tolleranza della città, la zona che Joyce aveva ribattezzato nel romanzo Nighttown, la città della notte.

Il “pellegrinaggio” fu interrotto a metà strada, quando i partecipanti cedettero all’ubriachezza al pub Bailey, nel centro città, che nel 1967 installò la porta del numero 7 di Eccles Street, salvata dalla demolizione. Quella era la porta del locale in cui Leopold Bloom fece colazione. Osserviamolo: «Mr Leopold Bloom mangiava con gran gusto le interiora di animali e di volatili. Gli piaceva la spessa minestra di rigaglie, gozzi piccanti, un cuore ripieno arrosto, fette di fegato impanate e fritte, uova di merluzzo fritte. Più di tutto gli piacevano i rognoni di castrato alla griglia che gli lasciavano nel palato un fine gusto d’urina leggermente aromatica». Abbiamo capito che questi appassionati di Joyce restituiscono il loro entusiasmo di lettori coinvolgendo quanti più curiosi è possibile. Questa festa nella capitale irlandese è accolta ogni anno con grande partecipazione. Per l’occasione sono organizzate letture, drammatizzazioni dell’Ulisse, e molte altre attività culturali collaterali. Alcuni organizzatori e fan indossano abiti in stile edoardiano per riprodurre le atmosfere del tempo. Si visitano i diversi luoghi del romanzo, come il Davy Byrne’s pub frequentato da Joyce. Ma la festa non è più soltanto irlandese. Trieste, ad esempio, è una delle città in cui in Italia si commemora libro e scrittore, poiché qui è stata scritta la prima parte di Ulisse. Ovunque il Bloomsday sia celebrato, una cosa è certa: dal mattino si tira fino alle tarde ore della notte. Buon divertimento.

LEGGI ANCHE SUL NEW YORKER: Can’t Get Through ‘Ulysses’? Digital Help Is on the Way

LEGGI SOPRATTUTTO IL ROMANZO: Ulysses by James Joyce

 

JAMES AUGUSTINE ALOYSIUS JOYCE, noto semplicemente come James Joyce (Dublino, 2 febbraio 1882 – Zurigo, 13 gennaio 1941), è stato uno scrittore, poeta e drammaturgo irlandese. Benché la sua produzione letteraria non sia molto vasta, è stato di fondamentale importanza per lo sviluppo della letteratura del XX secolo, in particolare della corrente modernista. Soprattutto in relazione alla sperimentazione linguistica presente nelle opere, è ritenuto uno dei migliori scrittori del XX secolo e della letteratura di ogni tempo. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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ULISSE (in inglese Ulysses) è un romanzo scritto da James Joyce. Viene considerato uno dei romanzi più importanti della letteratura del XX secolo ed è una delle pietre miliari nella genesi del romanzo moderno. Lo stile narrativo viene variato su tutti i registri: dal parodistico al dottrinale. Molte parti del racconto sono sviluppate secondo quella particolare tecnica di scrittura, chiamata “monologo interiore”, che descrive il flusso di coscienza, in cui i pensieri del protagonista scorrono senza punteggiatura, per definire la contemporaneità e l’intricato procedimento cognitivo che sottostà ai processi mentali dell’io narrante.(Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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IL LIBRAIO

Come leggere l’Ulisse di Joyce
grazie ad alcuni “escamotage digitali”

Giochi e merende d’altri tempi: semplici, sostenibili, attuali

 

Questo e-book sui “Giochi d’altri tempi” è stato ideato e realizzato da Apes (Associazione Pace e Scoutismo) nell’ambito del progetto “Intersezioni” vincitore del Premio Progetto Condiviso 2010 del Comune di Segrate. L’Associazione Pace e Scoutismo (APeS) è nata a Segrate nel 2006 da un gruppo di persone (scout, ex scout e non) che mettono a disposizione il proprio tempo e le proprie energie per contribuire a migliorare la qualità della vita nella direzione della corresponsabilità democratica, della sobrietà e della convivenza rispettosa delle differenze. Spazio privilegiato per la pratica di questo percorso, che è anche ricerca individuale e collettiva, è il territorio comunale e in particolare i quartieri di Rovagnasco, Villaggio Ambrosiano e Mulini. A Experiences fa piacere diffondere questo positivo apporto alla solidarietà.

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