Gleeson White – I libri per i bambini e loro illustratori

 

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Gleeson White è stato uno scrittore d’arte inglese. A New York dal 1890 ha diretto per un paio d’anni la rivista Art Amateur (1891-92), per poi ritornare in Inghilterra, dove assume l’incarico di direttore editoriale di The International Studio, fondato da Charles Holme nel 1893. Due anni dopo, Holme stesso prende il posto di editor, anche se Gleeson White, per il resto della sua vita, continuerà a fornire contributi. White si dedica allo scrivere d’arte e fra i suoi libri che riscuotono maggiore successo è questo sui “Libri dei bambini e i loro illustratori”, pubblicato in un numero speciale della rivista The International Studio con la quale continua a collaborare. Come spiega lo stesso autore nelle pagine introduttive, White prende spunto dall’editoria contemporanea sull’argomento specifico dell’evoluzione del libro per l’infanzia. Il suo interesse è nato per caso, sfogliando un “volume ammirevole” che affronta il tema a partire dai tempi precedenti alla conquista normanna fino ai suoi stessi anni. Il libro in questione è intitolato “Il bambino e il suo libro”, di Mrs. EM Field, progettato per scopi didattici, come molti dei manuali legati alla letteratura destinata a impressionare con racconti fantastici. White evidenzia, però, che la sua iniziale curiosità è stata attratta da un eccellente capitolo riguardante “Alcuni illustratori di libri per bambini”. Ecco quindi l’idea del suo progetto editoriale, lo scopo principale che desidera raggiungere: non parlare dei contenuti letterari dei libri, ma concentrarsi sulle illustrazioni. A suo avviso, infatti, i nove decimi dei buoni libri illustrati sono dovuti al miglioramento apportato dall’artista e dall’editore, anche se è ovvio che le illustrazioni implicano qualcosa da illustrare e, di norma, migliore è il testo e migliori sono le immagini che ne scaturiscono. Basti fare l’esempio di bravissimi autori per bambini, come Charles Kingsley o Lewis Carroll, che forniscono il testo giusto per spronare l’artista a ottenere i suoi migliori risultati. In effetti, anche se potrebbe risultare impopolare progettare un libro come quello pensato e realizzato, ci si deve rendere conto, asserisce White, che il vero potere educativo del libro illustrato è sugli adulti, più che sui bambini, poiché aiuterà a elevare lo standard del gusto domestico nei riguardi dell’arte.

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JOSEPH WILLIAM GLEESON WHITE (Christchurch 1851–1898), often known as Gleeson White, was an English writer on art. He was educated at Christ Church School and afterward became a member of the Art Workers Guild. He moved to New York City in 1890 where he conducted the Art Amateur (1891–92). He returned to England in 1893. He was the first serving editor of The Studio, founded by Charles Holme in 1893 (Lewis Hind had acted as editor for four months before the launch of the magazine). In 1895 Holme took over as editor himself, although Gleeson White continued to contribute for the rest of his life. He also edited during his last years the “Ex Libris Series”; the “Connoisseur Series”; the “Pageant”; and, with Edward F. Strange, Bell’s “Cathedral Series.” (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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THE INTERNATIONAL STUDIO

Children’s Books and Their Illustrators

Kazuo Ishiguro: uno degli scrittori più originali della letteratura di oggi

 

 

“Perché Ishiguro è uno degli scrittori più originali della letteratura contemporanea?” se lo chiede Ilenia Zodiaco su ilLibraio.it, che dice: Da “Quel che resta del giorno” a “Il gigante sepolto”, passando per “Un artista del mondo fluttuante” e “Non lasciarmi”. Un viaggio nell’opera del premio Nobel Kazuo Ishiguro: “C’è sempre qualcosa di ‘strano’ nelle sue narrazioni, qualcosa che rende i suoi protagonisti fuori posto, non del tutto ancorati alla realtà in cui vivono bensì naufraghi che galleggiano sulla superficie dei loro ricordi”

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Paul Klee – L’arte rende visibile ciò che non sempre lo è

 

Paul Klee, Kairouan, davanti alla porta (1915, olio su tela)

 

Si è spento il 29 giugno 1940 uno dei maggiori esponenti dell’astrattismo, il pittore tedesco Paul Klee di origine svizzera. A fine gennaio del 2018 si è chiusa una mostra a lui dedicata dalla Fondazione Beyeler di Basilea, in Svizzera. “Un centinaio di opere che superano la forma e in cui si ritrovano le peggiori angosce del Novecento”, apre così la pagina de “la Lettura”, il supplemento domenicale del Corriere della Sera, che nell’edizione cartacea affida alla penna sottile di Arturo Carlo Quintavalle di commentare l’esposizione e alla pagina web (che abbiamo scelto per FLIP) brevi velocissime note di Marco Bruna. Cosa dice Quintavalle? «Sono i segni la chiave per capire il linguaggio di Klee e lo mostrano le opere nei quattro capitoli della rassegna “Paul Klee. The Abstract Dimension”: Natura, Architettura, Musica, Segni; segni che poi, alla fine del percorso dell’artista, assumono un forte significato politico». L’astrattismo svolge un ruolo centrale nell’opera pittorica di Klee; nonostante ciò, non lo ha mai adottato come unica forma d’espressione, dando ai segni la libertà di evocare e di rappresentare il proprio mondo delle forme e delle idee. La sua personalità è dotata di innumerevoli interessi che lo portato a spaziare ben oltre alle discipline artistiche, per approdare alla filosofia, alle scienze naturali, come alla poesia e immancabilmente alla musica. Lontano da ogni intento di mimesi della natura, adottata sotto aspetti differenti dalle tutte le correnti che lo hanno preceduto, Klee approfondisce i differenti risvolti della creatività, perché con l’arte può accostarsi proprio alla natura, ma nel tentativo di svelare le leggi della creazione. Passa perciò dal figurativo all’astratto, conservando nelle proprie immagini una levità e una leggerezza affidate al richiamo della memoria.

«Ma di quale memoria si tratta? – si chiede Quintavalle –  Sempre in mostra un acquarello Kairouan, davanti alla porta (1914) ci offre una risposta: il pittore scompone i colori, il giallo e il bruno delle dune, il cielo azzurro che entra nei volumi; Klee dunque ha visto a Parigi i dipinti del Cubismo analitico di Braque e Picasso, ha visto Robert Delaunay e le sue Tour Eiffel, i suoi Dischi simultanei e lì, a Parigi, non in Tunisia, come racconterà più tardi, “scopre” il colore». Tutto questo non è casuale, ma il prodotto di una stratificazione lenta e progressiva. È figlio di due musicisti e sposa Lily Stumpf, anche lei musicista; è orientato verso la pittura, ma entra in contatto con le avanguardie storiche soltanto dopo i ventisette anni, quando espone alle mostre internazionali della Secessione a Monaco (1906) e poi a Berlino (1909); quando nel 1911 conosce gli artisti del “Cavaliere Azzurro” (Alfred Kubin, August Macke, Wassily Kandinskij e Franz Marc). Nella mostra di «Der Blaue Reiter» (1912) espone ben 17 lavori, per cui Klee è considerato a tutti gli effetti appartenente alla corrente. Nel corso dell’anno conosce a Parigi Robert Delaunay, pittore cubista, ed è con lui che si avvia ad esplorare colore e luce. Il viaggio a Tunisi, nel 1914, è determinante. Da questo momento Klee trova le basi solide della sua attività artistica; ma deve battere il passo ancora una volta, perché è richiamato alle armi con lo scoppio del primo conflitto mondiale. Dal 1918 in avanti la strada intrapresa è in ascesa non solo perché ormai esprime la completezza del proprio stato d’animo, ma perché si apre un’occasione irrinunciabile e fondante. Walter Gropius lo chiama ad insegnare alla Staatlitches Bauhaus, scuola di architettura, arte e design.

È il 1920, Klee ha modo di organizzare una vera e propria sistematica della propria visione artistica. Dieci anni fertili: dal 1921 alla Bauhaus di Weimar, poi a Dessau dal 1926, fino a quando è costretto a interrompere il lavoro tutto incentrato sulla sua ricerca e pressoché estraneo ad ogni attività sociale e politica. I nazisti spingono per la chiusura della scuola. Quando il sindaco, mette ai voti la cessazione delle attività della Bauhaus, le componenti socialdemocratiche che fino ad allora l’hanno sostenuta si astengono, facendo prevalere il giudizio negativo condiviso dalla cittadinanza, conforme alla nuova e trionfante cultura del nazismo. Il Bauhaus cessa ogni attività a fine settembre del 1932. Klee assume la docenza all’Accademia di Düsseldorf e non segue Mies van der Rohe che a Berlino apre il “Libero istituto per l’insegnamento e la ricerca”. Il nuovo Istituto si manterrà non più con i contributi pubblici, ma con le sole rette degli studenti. L’anno successivo la Bauhaus chiude definitivamente ed anche Klee è costretto alle dimissioni dall’Accademia di Düsseldorf. Il regime giudica come “arte degenerata” la sua produzione e quella degli artisti che hanno condiviso il suo stesso percorso artistico. Decide di trasferirsi definitivamente in Svizzera, nel Canton Berna dove era nato a Münchenbuchsee nel 1879. Continua a dipingere nonostante le sue pessime condizioni di salute. Scrive Quintavalle di questi ultimi penosi anni: «Ormai la pittura di Klee diventa sempre più cupa e il suo ultimo racconto è una rivolta contro gli spettri del nazismo; basta vedere un dipinto rimasto senza titolo Griglia e linee ad onda attorno (1939) dove il significato è dato dal rosso dominante e dalla figura, un volto, su cui incombe, come allora sull’Europa, una griglia, una prigione nera. Il segno di Klee, tanto diverso rispetto alle origini, adesso racconta l’angoscia. Klee, dunque, impegnato fino alla morte, nel 1940, anche se consunto da una dura malattia, contro la trionfante Germania nazista».

LEGGI ANCHE L’ENCICLOPEDIA TRECCANI: Paul Klee

 

ERNST PAUL KLEE (Münchenbuchsee, 18 dicembre 1879 – Muralto, 29 giugno 1940) è stato un pittore tedesco nato in Svizzera da padre tedesco e madre svizzera, ambedue musicisti. Figura eminente dell’arte del XX secolo, nel periodo della sua formazione Paul Klee si occupò di musica, poesia, pittura, scegliendo infine quest’ultima forma di espressione come ambito privilegiato e dando così inizio ad una tra le più alte e feconde esperienze artistiche del Novecento. Si mantenne comunque anche con i proventi derivati dalla sua attività di strumentista presso l’Orchestra di Berna. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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LA LETTURA/CORRIERE DELLA SERA

Paul Klee, la scoperta del colore

Riconosciamo al FAI (Fondo per l’ambiente italiano) la sua forza nascosta

 

Presentiamo il Notiziario del FAI, e vi sollecitiamo a sfogliarlo ogni mese per conoscere eventi ed occasioni per valorizzare il patrimonio culturale italiano. Leggiamo la scheda su Wikipedia: – Fondo Ambiente Italiano è una fondazione italiana fondata nel 1975 con lo scopo di agire, senza scopo di lucro, per la tutela, la salvaguardia e valorizzazione del patrimonio artistico e naturale italiano attraverso il restauro e l’apertura al pubblico dei beni storici, artistici o naturalistici ricevuti per donazione, eredità o comodato. Promuove l’educazione e la sensibilizzazione della collettività alla conoscenza, al rispetto e alla cura dell’arte e della natura e l’intervento sul territorio in difesa del paesaggio e dei beni culturali italiani. >>> Continua su Wikipedia.

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Vincent Van Gogh – Quando rubarono tre delle sue tele da dieci miliardi di lire

 

Vincent van Gogh, Contadina seduta

 

Nella notte tra mercoledì e giovedì del 28 giugno 1990 a Den Bosch, nei Paesi Bassi, tre dipinti di Vincent van Gogh spariscono senza che il sistema di allarme entri in funzione. Sono tre opere, olii su tela del cosiddetto periodo olandese, dipinte negli anni Ottanta dell’Ottocento: “Contadina seduta” di proprietà dello Stato, “Il mulino di Gennep” appartenente ad una collezione privata ma affidata al museo, e “Contadina che zappa vista di spalle” di proprietà del museo. I tre quadri sono considerati dagli esperti “opere minori” del pittore. Se così non fosse stato sarebbero rimaste attaccate alla parete, dal momento che non è la prima volta che opere di Vincent van Gogh sono rubate da musei olandesi. Tuttavia, data la loro celebrità, si sono rivelate invendibili, se non a qualche collezionista disposto a chiuderle in un caveau piuttosto che esporle nella propria residenza. Così, dopo qualche mese, le autorità hanno sempre trovato il modo di riportarle a casa in cambio di un occultato riscatto. Le opere trafugate a Den Bosch, invece, riguardano il periodo iniziale dell’attività artistica di Vincent. È il periodo dei “mangiatori di patate”, quando il pittore abita nel piccolo borgo di Neunen e dipinge contadini e artigiani. Vincent è nato da queste parti, a Zundert, nella provincia del Brabante Settentrionale. Clima inclemente, paesaggi aspri, orizzonti chiusi, volti orgogliosi e duri, profili asciutti: tutti elementi che hanno segnato la sua poetica dell’immagine. La relazione tra artista e luogo d’origine è delineata negli schizzi e nelle tele. Se escludiamo un introverso autoritratto con pipa del 1886, scorriamo nature morte, paesaggi, episodi di vita rurale, testimonianza una ispirazione legata alla vita degli ultimi che porterà van Gogh a creare quel capolavoro universale intitolato “I mangiatori di patate”. A questo periodo si riconducono anche tutti gli altri lavori esposti ed ammirati oggi a Den Bosch – che gli olandesi denominano ‘sHertogenbosch e noi italiani chiameremmo città ducale – cittadina nella quale nacque e morì un altro grandissimo pittore fiammingo: Hieronymus Bosch.

 

VINCENT WILLEM VAN GOGH (Zundert, 30 marzo 1853 – Auvers-sur-Oise, 29 luglio 1890) è stato un pittore olandese. Fu autore di quasi novecento dipinti e più di mille disegni, senza contare i numerosi schizzi non portati a termine e i tanti appunti destinati probabilmente all’imitazione di disegni artistici di provenienza giapponese. Tanto geniale quanto incompreso in vita, Van Gogh influenzò profondamente l’arte del XX secolo. Dopo aver trascorso molti anni soffrendo di frequenti disturbi mentali, si suicidò all’età di 37 anni. In quell’epoca i suoi lavori non erano molto conosciuti né apprezzati. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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LA REPUBBLICA

Il sistema d’allarme non scatta rubate tre tele di Van Gogh

Frank O Gehry libera un nuovo ordine di forme dalle ceneri del vecchio

 

Paolo Fabbri si occupa di progettazione editoriale, direzione artistica e progettazione grafica. Dedica questo suo lavoro a Frank O Gehry traendolo da un passato elaborato universitario recentemente ridisegnato Per vedere il progetto completo è possibile raggiungere le sue specifiche pagine su Behance.net. Per conoscere notizie su Frank Owen Gehry, notissimo, architetto canadese basterà andare su Wikipedia.

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Il Bancomat – Distribuisce denaro invece che barrette di cioccolato

 

«Non è facendo le scale che t’accorgi d’essere anziano e neanche dal fatto che dormi meno o che senti poco quando ti parlano. È di fronte al bancomat che la senilità si manifesta in tutta la sua spietatezza». La battuta spiritosa del conduttore radiofonico e televisivo Marco Presta, sintetizza una realtà tutta italiana: la difficoltà ad utilizzare i servizi automatici. Scrive il Sole 24 ore che in un anno un olandese usa strumenti di pagamento alternativi al contante più di 400 volte; un francese più di 300; un italiano soltanto 100. La stessa Bce, conferma che gli italiani pagano cash l’86% delle transazioni, e solo per il 14% usano bancomat, carte di credito, bonifici, Rid e assegni. Oggi, però, ci soffermiamo sull’invenzione e l’utilizzo dei primi bancomat, perché il 27 giugno del 1967 presso la Barclays Bank di Enfield Town, a nord di Londra, è stato installato il primo sportello automatico per il prelievo di contanti. Dunque, bancomat sì, ma per i prelievi, evitando lunghe file agli sportelli. Sorge la domanda: chi è stato quel geniale inventore che ha permesso di risparmiare… se non denaro, almeno tempo? Per la verità gli inventori sono due, uno fortunato e l’altro un po’ meno. Quello fortunato è John Shepherd-Barron, inventore scozzese che ha ideato il suo distributore automatico nel 1965; ma la storia comincia con l’inventore sfortunato, Luther George Simjian, un americano originario dell’Armenia, che ha brevettato il suo Bankograph nel lontano 1939. La macchina di Simjian viene installata dalla City Bank di New York per essere utilizzata durante gli orari di chiusura. Sei mesi dopo è smantellata perché pochissimi l’hanno utilizzata.

L’idea deve nascere al momento giusto, in sintonia con i tempi, che risentono in modo latente l’esigenza di una invenzione: un attimo prima non la condivide nessuno, un attimo dopo qualcuno ha già avuto l’idea. Non è stato così per John Shepherd-Barron. Il lampo inventivo gli è balenato mentre era immerso nella vasca da bagno: «Stavo pensando a un distributore di cioccolata, e immaginai di rimpiazzare le barrette con le banconote». Ventotto anni dopo il primo distributore meccanico di contanti, quello di Simjian, la società De La Rue di Barron installa la nuova macchina alla Barclays Bank di Londra. Non esistono ovviamente card magnetiche, per cui per procedere al prelievo occorre inserire nella macchina un voucher monouso, al quale è associato un numero identificativo. La prima operazione di prelievo è, dunque, eseguita il 27 giugno 1967. In Italia la macchina è installata, invece, nel 1976 dalla Cassa di Risparmio di Ferrara, grazie  al suo direttore, Alberto Pezzini, che l’ha scoperta nel corso di un congresso in Marocco. Il caso rimane isolato ancora per qualche anno. Nel 1982 la Cassa di Risparmio di Torino pubblicizza su “La Stampa” il servizio “Prontabanca”: «uno sportello per prelevare 24 ore su 24, ogni giorno, tutto il denaro che vi serve». Da quel momento tutti gli altri Istituti bancari si adeguano e finalmente nella primavera del 1983, danno vita ad un circuito unico nato dall’accordo iniziale di 275 banche nazionali. Il sistema prende nome di Bancomat, che sta per banco (variante di banca) e (aut)omat(ico). Un nome che ormai usiamo quale sinonimo di sportello automatico, tant’è che in inglese il sistema è identificato come ATM (acronimo di Automated Teller Machine), in francese come distributeur, in spagnolo cajero automático, in tedesco Geldautomat.

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LO SPORTELLO AUTOMATICO, o cassa bancaria automatica e anche sportello automatico di banca, è il sistema per il prelievo automatico di denaro contante dal proprio conto corrente bancario, attraverso l’uso di una carta di debito nei distributori collegati in rete telematica, anche fuori dagli orari di lavoro degli istituti di credito e in località diverse dalla sede della banca presso cui si intrattiene il rapporto di conto corrente. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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DATAROOM/CORRIERE DELLA SERA

Perché pagare in contanti non conviene a nessuno

Analisi di temi ed aspetti del design italiano e del modo di pensare

 

Sfogliamo, guardiamo e leggiamo, questa “analisi logica” di oggetti del design italiano che hanno cambiato il nostro modo di pensare curata da Michele Albera Accompagniamo poi il libro, con un interessante articolo di Repubblica, intitolato “Al Triennale Design Museum le storie del design italiano”. La sfida della mostra: scegliere le creazioni imprescindibili di un museo del design. Scorriamone le prime battute: «Eccola lì, la “parolaccia”: icona. Parolaccia perché ormai sembra impossibile occuparsi di design senza inciampare in qualche icona. A tirarla fuori questa volta è il Triennale Design Museum. Che, dopo dieci edizioni in cui ha esplorato temi e aspetti specifici, al punto da offrire del termine museo una nuova definizione, quest’anno ci parla di storia del design italiano e, appunto, di icone, termine inflazionato ma difficile da sostituire. Ma perché cambiare? E soprattutto perché tornare all’antico, almeno all’apparenza? Ne parliamo con la direttrice Silvana Annicchiarico (leggi qui l’intervista completa)».

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Joanne K. Rowling – Bisogna essere cauti coi desideri, potrebbero avverarsi

 

 

Nel 2017 è diventato maggiorenne, poiché “Harry Potter and the Philosopher’s Stone” ha compiuto vent’anni da quando il 26 giugno 1997 è stato pubblicato per la prima volta nel Regno Unito. È il primo volume di una saga che ha messo in subbuglio il mondo della letteratura fantasy. Ha formato una nuova generazione di giovani lettori, ma anche di meno giovani. Naturalmente ha sconvolto la vita dell’autrice, Joanne K. Rowling, che ha appassionato milioni di fan di ogni età, rendendola ricchissima, tanto da superare persino le entrate della regina Elisabetta. Sulla nascita della “pietra filosofale” si può raccontare di una scrittrice disoccupata, che abita ad Edimburgo, scrive in un bar sotto casa perché non ha abbastanza denaro per pagare i riscaldamenti. Ha una bambina piccola, Jessica, nata nel 1993 dal matrimonio con il giornalista portoghese Jorge Arantes, dal quale ha poi divorziato. L’idea della storia fantastica è nata tre anni prima, quando Joanne fa in treno la spola con Manchester dove programma di trasferirsi con il fidanzato. Durante uno dei suoi viaggi concepisce il personaggio di Harry Potter, il maghetto con la cicatrice a forma di fulmine sulla fronte. Rientra a casa e quella sera stessa comincia a scrivere le prime pagine, che non compariranno mai sull’edizione finale del libro, ma che serviranno comunque ad avviare il racconto. Dopo la morte della madre e la nascita di Jessica, Joanne spedisce a varie case editrici le bozze del libro. È un rito che bene conoscono gli scrittori. Riceve come risposta ben dodici rifiuti prima di scovare un agente che presenta la sua “pietra filosofale” alla casa editrice Bloomsbury, la quale, lungimirante, accetta di pubblicare il romanzo, che diviene un evento editoriale.

Eppure, all’atto della pubblicazione l’editore mostra qualche perplessità, perché consiglia di usare uno pseudonimo aggiungendo davanti al cognome Rowling due lettere “misteriose”. Ne viene fuori J.K. Rowling che serve a far credere che il libro è scritto da un uomo, quando in effetti “J.” sta per Joanne e “K.” sta per Kathleen, nome della nonna paterna. Non c’è bisogno, però, di altri marchingegni perché “Harry Potter and the Philosopher’s Stone”, da subito, si trasforma in un esplosivo fenomeno sociale di livello planetario. In Italia ad afferrare le possibilità di successo del maghetto dai prodigiosi poteri è la Salani, che traduce il testo e lo edita con il titolo di “Harry Potter e la pietra filosofale”. È il 29 maggio del 1998, undici mesi dopo l’uscita dell’edizione inglese. Anche nel nostro Paese diventa un’esplosione di vendite e di ristampe. L’avventura letteraria, nata dalla fantasia di Joanne K. Rowling, si è trasformata col tempo in una saga in 7 volumi che ha venduto, a conti fatti e in continuo aumento, 450 milioni di copie in tutto il mondo, di cui 11 milioni soltanto in Italia. La saga è pubblicata in 200 Paesi e la troviamo tradotta in 79 lingue. Nel Regno Unito i primi quattro volumi vedono la luce un anno dopo l’altro e gli altri tre a distanza di due anni ciascuno. Nelle librerie italiane approdano, in genere, otto mesi dopo. A caricare le attese per ogni evento editoriale si aggiungono le versioni cinematografiche. Il primo film, prodotto dalla Warner, è del 2001; protagonista nella parte di Harry Potter è il giovanissimo Daniel Radcliffe. Scoppia una vera e propria Potter-mania che tiene incollati i fan alle pagine dei romanzi ambientati soprattutto nella Hogwarts School, in Scozia, dove si insegnano magia e stregoneria. Le scene si svolgono in un castello al centro di una catena montuosa, raggiungibile esclusivamente da parte degli studenti dotati di poteri magici, prendendo il treno Espresso per Hogwarts da un binario del tutto particolare della stazione di King’s Cross a Londra: quello che porta il numero di 9 e ¾. Da questo binario qualsiasi lettore – anche quello più riluttante alla lettura e per nulla dotato di poteri magici – può iniziare il viaggio nel mondo fantastico di Harry Potter.

 

JOANNE ROWLING (Yate, 31 luglio 1965) è una scrittrice, sceneggiatrice e produttrice cinematografica britannica. La sua fama è legata alla serie di romanzi di Harry Potter, che ha scritto firmandosi con lo pseudonimo J. K. Rowling (in cui “K” sta per Kathleen, nome della nonna paterna), motivo per cui la scrittrice è spesso indicata impropriamente come Joanne Kathleen Rowling. Nel 2013 pubblica la sua prima opera con lo pseudonimo di Robert Galbraith[3]. Nel 2011 è stata inserita da Forbes nella classifica delle donne più ricche del Regno Unito. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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HARRY POTTER E LA PIETRA FILOSOFALE (titolo originale in inglese: Harry Potter and the Philosopher’s Stone) è il primo romanzo della saga high fantasy Harry Potter, scritta da J. K. Rowling e ambientata principalmente nell’immaginario Mondo magico durante gli anni Novanta del XX secolo. Ideato proprio nei primi anni Novanta, Harry Potter e la Pietra Filosofale fu pubblicato poi nel 1997. Tradotto in 77 lingue, tra cui il latino e il greco antico, resta una delle più popolari opere letterarie del XX secolo con una vendita globale di 120 milioni di copie. Nel 2001 ne è stato tratto un adattamento cinematografico distribuito da Warner Bros e diretto da Chris Columbus, che ha incassato più di 974 milioni di dollari al botteghino mondiale, inserendosi così al trentunesimo posto nella classifica dei film di maggiore incasso della storia del cinema. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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LA STAMPA

Harry Potter, un mito nato 20 anni fa. Il 26 giugno 1997 usciva “La pietra filosofale”

La pasta negli antichi trattati di cucina

 

Essendo i trattati, i ricettari e i manoscritti di cucina medievali, redatti per i nobili, vertevano soprattutto su ricette con pasta fresca. L’analisi di questi testi ha individuato, comunque, una decina di ricette realizzate con pasta secca, nei formati allora in commercio, quali tria, vermicelli e maccheroni. Una di queste ricette di “pasta da ferro”, che li considera, prevede una portata per 12 persone, senza però specificare se con pasta fresca o secca. Altri due manuali, che si evidenziano dagli altri, sono il Liber de coquina e il libro tria genovesi per li ‘nfermi. In essi vi sono ricette di tria, pasta secca lasciata essiccare.

In un altro testo, redatto da Martino, si parla di maccheroni siciliani e di maccheroni alla genovese, ma realizzati, esplicitamente come pasta fresca, tanto che l’autore descrive con cura la loro fattura. Si parte da farina di grano tenero con aggiunta di acqua e bianco d’uovo. Tuttavia, arrivati alla fase del modellaggio, l’autore specifica che questi maccheroni possono essere essiccati per mangiarli anche più in là nel tempo, per almeno tre anni. L’essiccazione, comunque, deve essere fatta in estate, poiché vanno realizzati nel periodo della luna di agosto. Ugualmente vale per i maccheroni alla “zenovese”, in pratica dei tagliarini, che però possono essere mangiati anche subito. Anch’essi sono lavorati con una sfoglia di pasta all’uovo, tirata con il mattarello, arrotolata e tagliata orizzontalmente, per realizzare i taglierini.

In questo periodo vi era diffidenza verso l’uso di pasta essiccata, perché se ne disconosceva la fonte, la data di confezionamento, le condizioni di trasporto e di immagazzinaggio. I grandi cuochi professionisti dell’epoca, perciò, preferivano la pasta fresca, mentre quella secca veniva acquistata dagli speziali del posto. Essendo i cuochi, sovente, anche autori di testi di cucina, nella manualistica del tempo, rimane questa diffidenza, dimostrata dalle poche ricette con pasta secca presenti nei loro trattati. Inoltre, i cuochi professionisti, che lavoravano al servizio dei nobili, come, ad esempio, mastro Martino, che cucinò per gli Sforza e poi per il patriarca di Aquileia, non avendo necessità di stoccaggio delle merci, preferivano i prodotti freschi e non essiccati o affumicati, oppure carni o pesci salati. Tutte cose, invece, che facevano parte essenziale della sussistenza delle classi più povere. Quando però, anche se raramente, i cuochi professionisti operavano con pasta alla siciliana, che aveva la caratteristica d’essere secca, mettevano in evidenza la loro abilità nel cucinarla.