I viaggiatori stranieri, che visitano l’Italia, nel XVII e XVIII secolo, oltre ai monumenti, annotano sui loro diari l’amore per la pasta degli italiani, cibo prevalentemente locale e popolare, evidentemente già molto diffuso. A Sanremo, Padre Giambattista Labat mangia per la prima volta la pasta di Genova, già rinomata. Il piatto non gli piace molto, ma annota l’esperienza e soprattutto si guarda intorno. Anche un altro viaggiatore, Jouvin de Rochefort, è colpito dall’attaccamento e dal particolare modo di dire popolare: ”Maccheroni bene mio”.
La pasta secca ha come vantaggio di essere pronta all’uso. sia per quanto riguarda la semplicità della preparazione, ma anche, essendo secca, per la possibilità di approntare un pasto su due piedi.. facendo fronte ad ogni evenienza. A testimoniarlo è Giacomo Casanova, celebre personaggio del ‘700 veneziano. Egli ci racconta come, in compagnia di una bellissima donna, in un viaggio da Firenze a Bologna, arrivò di notte ad una sperduta locanda. Essendo ora tarda, l’oste non aveva da offrire loro da mangiare. Casanova, non perdendosi d’animo, gli ordinò di preparare un piatto di maccheroni secchi, che fece poi condire con burro, uova e parmigiano. Sempre verso la fine del XVIII secolo, Il prete, Felice Libera, in uno scritto di cucina descrive alcune ricette di pasta. La particolarità è che compone il testo in Trentino. Se ne desume l’incredibile diffusione della pasta, pur inventata al Sud, in ogni zona d’Italia.
Questo accadeva al Nord. A Napoli, invece, il consumo della pasta era così ampio da essere cibo diffuso ed essenziale per la popolazione. Ce lo attesta Jérôme de Lalande, viaggiatore francese, nel 1765-66. Tuttavia, la pasta secca, pur avendo un costo basso e conveniente, non era ancora diffusa in maniera totale. Le persone in condizioni miserabili continuavano la loro vita di sopravvivenza. Basti pensare che la pasta in brodo dei signori, per il popolo si realizzava con acqua e grasso di maiale, con sopra un po’ di formaggio grattugiato.
Goethe, forse il più importante tra i viaggiatori, tornando dalla Sicilia a Napoli, nel 1787, appunta sul suo diario, la facilità di mangiare i maccheroni. Si potevano acquistare ovunque. Sul posto la pasta viene cotta e servita con sopra del parmigiano. Scrive: Si cuociono di solito in semplice acqua e il formaggio grattugiato dà al piatto grasso e gusto”. Il luogo comune che vuole i napoletani mangiare gli spaghetti con le mani, nasce da una descrizione di Giuseppe Gorani, del 1793. Davanti a lui un popolano, che “afferra i maccheroni avvolgendoseli sulle dita con abile gesto che forestieri sanno imitare”.
Questo aspetto fece parte del folklore napoletano. Successivamente, infatti, nel XIX secolo, Andrea de Jorio, in uno dei suoi libri, trattando di Napoli, consiglia a chi vuole qualche tocco di colore pittoresco di interpellare un tavernaro, lungo la Marinella, per farsi insegnare a mangiare la pasta alla napoletana, cioè, direttamente con le mani. La popolazione napoletana in ristrettezza economica imparò a mangiare la pasta ma non molto a condirla. I piatti di pastasciutta della tradizione culinaria della città sono, infatti, semplici ed essenziali, e forse per questo più difficili da realizzare.
Nel XVIII secolo il timballo di maccheroni in Italia non era stato ancora inventato, anche se esisteva qualche ricetta del genere in precedenza. Nella fantasia di allora esistevano, comunque, diversi modi di mangiare i maccheroni, in variante paté o farcia.
Padre Labat scoprì, con grande sorpresa, in Sicilia, il paté di maccheroni, molto simile al timballo, descrivendone attentamente la fattura. Crisci, invece, ne segnalò l’uso come farcia di calzoni preparati con pasta da pizza e cotti al forno. Antonio Latini ci riporta di un gallo disossato con un ripieno di pasticcio di maccheroni, definibile come un paté d’uso a Napoli.
Nella grande cucina napoletana, Vincenzo Corrado, nel suo libro, Cuoco galante, presenta diverse ricette di timballi e sartù, come i maccheroni alla Pompadour, favorita di Luigi XV di Francia. Il termine sartù deriva proprio dal francese Surtout (una decorazione di centrotavola). Propone, inoltre, una sua ricetta, che prevede una base di pasta sfoglia con sopra un pasticcio di maccheroni. Il tutto da cuocere in forno.
Giovanni Vialardi e Francesco Chapusot, altri cuochi del periodo, ma del Nord, presentano nel loro ricettario numerosi piatti di pasta, in particolare timballi di maccheroni. Essendo piemontesi, creano la ricetta del timballo di taglierini alla monglas, che era una salsa francese.
Nel XIX secolo, nell’Italia risorgimentale e in Francia, dall’Impero alla Restaurazione, il timballo rappresenta l’apice della cucina italiana. Il cuoco francese Antonin Carême, si rifà intensamente ad essa. Tesse le lodi della pasta italiana, insuperabile, come qualità superiore, aspetto e tenuta di cottura. Molti sono i notabili che la consumano volentieri, come Dumas, Rossini e Grimond de la Reynière.
Pur essendo presente sin dagli inizi della storia della pasta, la variante secca, realizzata con grano duro, si è sviluppata in età più tarda, raggiungendo la sua piena affermazione, con lo sviluppo dei pastifici industriali nel XX secolo. La cucina oggi comprende le due varianti, secca e fresca, in un ampio ricettario che raccoglie preparazioni storiche e moderne.
Al contrario, nel XVII secolo, Guglielmino da Prato scrive un breve trattato di economia domestica dove critica largamente l’uso della pasta secca. Non è solo frutto dei pregiudizi dell’epoca, ma lui stesso la ritiene fatta di ingredienti popolari, con farine vecchie, per cui il suo consumo potrebbe essere indicato solo in periodi di grande carestia. Non è alimento per nobili (in particolare del Nord), i quali dovranno preferire di mangiare pasta fresca, appena fatta in famiglia. Tali pregiudizi, col tempo, divengono un luogo comune. Prodotta principalmente nelle regioni del Mezzogiorno, la pasta secca è ritenuta infatti alimento vile e popolare. Non stupisce se tali presupposti finiscono per creare il soprannome dei napoletani come “mangiamaccheroni”.
Ma se nel XVII secolo, abbiamo cuochi che disprezzano la pasta secca, ne abbiamo altri che, nonostante i pregiudizi, inseriscono questo tipo di pasta nel menù del proprio signore. È il caso del cuoco Giovan Battista Crisci, che spazia nel campo della pasta prodotta nelle regioni meridionali, cucinando maccheroni di Puglia, maccheroni di Palermo e tagliarini di Cagliari, oltre che vermicelli napoletani. Tutti tipi di pasta detta “d’ingegno”, prodotta con torchio e trafila. Crisci è un cuoco innovatore, che non ha paura del futuro e confeziona i suoi “vermicelli d’amido”, simili alla pasta cinese. Tuttavia, non avendo ulteriori informazioni, se non da lui stesso, è difficile comprenderne la fattura.
Sta di fatto, che nello stesso secolo, abbiamo l’Italia gastronomica divisa in due. Mentre nel Meridione la pasta arriva sulle tavole della nobiltà napoletana, al Nord si è ancora ostici nei suoi confronti. Abbiamo, infatti, nel XVII secolo, Bartolomeo Stefani, cuoco del Nord, che sembra disconoscere la pasta, non solo quella secca, ma, addirittura quella ripiena. Al Sud, invece, Antonio Latini, contemporaneamente, porta in tavola un brodo di cappone con maccheroni di Cagliari ed una spolverata di parmigiano.
Al di là delle differenze nel XVII secolo, tra Nord e Sud dell’aristocrazia gastronomica, il consumo e la “sperimentazione” continuò a produrre sempre nuove ricette con la pasta, dando vita a quella prolifica fantasia in cucina che abbiamo ereditato dal passato. A Napoli, in particolare, si creano infinite rielaborazioni, culminate con l’invenzione di timballi e sartù. Questo ricco tesoro di esperienze e varietà di ricette, andò oltre i confini locali, conquistando ampi mercati e, di conseguenza, una serie di riscontri letterari anche all’estero, come è d’esempio la trattatistica gastronomica francese.
Giovanni del Turco, cuoco dilettante, del XVII secolo, cucinerà diversi piatti di tortelli e di ravioli, con un ripieno, molto delicato, che primeggia sulla pasta stessa. Nel servizio settimanale dei cuochi, sono presenti piatti di magro e piatti di carne, richiesti dalle scadenze liturgiche della cristianità. Il venerdì era segnato di magro, quindi con verdure e pesce, mentre negli altri giorni si consumava carne, accompagnata sempre da verdure. Al venerdì si potevano gustare ravioli ripieni semplicemente con formaggio fresco o crema di formaggio. Nei giorni di grasso le possibilità erano numerose. Per lo più si consumava carne di maiale, pollame e in particolare cappone.
Dipendendo dal ripieno, ravioli o tortelli potevano essere sia di magro che di grasso. Esistevano, quindi anche i tortelli di Quaresima, confezionati con crema di formaggio unito a verdure e spezie. Il loro uso, tuttavia, non era rigidamente legato alla Quaresima, ma si cucinavano in qualsiasi giorno dell’anno. Per i tortelli di grasso, invece, il ripieno era realizzato con carne di maiale o pollame vario. In ogni caso, il ripieno poteva essere anche molto elaborato. Tra le antiche ricette ve n’è una molto ricca, con carne di maiale, formaggio, uova, datteri, uvetta secca, erbe aromatiche, zafferano e spezie varie. Un’altra è invece è composta di zucca unita a mandorle e aggiunta di zucchero. In pratica, i moderni ravioli di zucca mantovani.
Così come il ripieno era aperto alla fantasia, ciò valeva anche per il formato. Su tale aspetto non esistono documenti che ne trattino in particolare. Sappiamo che esistevano diversi formati, ma cucinati fritti. Per quanto riguarda ad uso di pasta, mastro Martino nella sua opera, ne cita diversi, perlopiù sul tondo o quadrato. Accenna anche all’uso di stampi.
I RAVIOLI IGNUDI
Ravioli e tortelli dovevano presentarsi con una pasta molto fine, per migliorare il gusto del ripieno. Si arriva anche a soluzioni particolari, come con i Ravioli senza sfoglia, citati da Salimbene da Parma, nel XIII secolo. Erano sostanzialmente ravioli senza involucro. Venivano indicati dall’autore come “raffinatezza della golosità umana”. I cosiddetti ravioli “ignudi”, si ritrovano nei testi successivi di Martino, Scappi e Romoli. Dal Rinascimento in poi, vengono utilizzati nei ricettari regionali soprattutto dell’Italia del Nord, con diverse ricette e varianti. Divennero, soprattutto, ad uso della cucina romagnola. La loro fattura fu consacrata, nel XIX secolo, nel libro di Pellegrino Artusi, che dà alcune ricette ad “uso di Romagna”. Volendo, però, utilizzare un taglio prettamente regionale, Artusi cita solo i ravioli romagnoli, ignorando tutte le altre tradizioni regionali, che riportano essenzialmente pasta ripiena. In un lento ma progressivo andamento, la pasta ripiena ha avuto una diffusione sempre più larga, anche oltrepassando i confini nazionali, come dimostra il loro successo in Francia.
Oggi quando si parla di pasta ripiena, ravioli e tortellini sono quelli ad involucro. Il consumo attuale si rifà a pochi tipi di formati, desunti soprattutto dalla tradizione dell’Italia del Nord, nati tra il XVI e XVII secolo. In particolare, della Lombardia dove venivano indicati, nel linguaggio popolare, come “annolini”, da cui il nome di agnolotti. Tuttavia, l’utilizzo della pasta ripiena, molto diffusa nelle Corti italiane, perse la sua importanza lentamente, al contrario che nella cucina francese, ed in genere europea. In Italia fu “riscoperta” agli inizi del XX secolo. Alcuni cuochi borghesi rilanciarono il loro consumo. L’iniziativa ebbe successo e portò, a metà del secolo, alla riscoperta della sua preparazione regionale. Tanto che, nel suo testo, Luigino Bruni suddivide la pasta tra “ricette storiche” e “ricette d’autore”.
Era un uomo spassoso, specialmente dopo desinare. Non già che bevesse troppo; ma quel po’ di vino che a un altro avrebbe appena appena confortato lo stomaco, a lui produceva una piacevolissima esaltazione, gli scioglieva lo scilinguagnolo. E allora il suo caratteristico e strano ritornello: Ci siamo? dava un sapore così piccante alle cose ch’egli diceva, che l’ora del chilo, tra un sigaro e l’altro, volava via quasi inavvertita.
Gilletti soleva dire:
— Martelli è un gran digestivo!
E spiegava, scientificamente, secondo lui:
— Le risate ch’egli provoca agiscono in modo meccanico con le continue scosse dello stomaco: diventano una specie di massaggio, che agevola l’opera di tutto l’apparecchio della digestione. Il giorno che Martelli ci mancasse, noi dovremmo ricorrere al Tot, al Fernet dei fratelli Branca, all’Amaro siciliano, al Ferro-China Bisleri, agli altri intrugli pretesi digestivi, che digerirebbero soltanto i nostri quattrini, e sarebbe un vero guaio. I nostri stomachi si sono ormai abituati a quella provocazione. Ecco: oggi che Martelli ritarda e mi fa temere un’assenza, io comincio a sentire un po’ d’imbarazzo stomacale….
Eravamo otto pensionanti nella trattoria di Pappataci e occupavamo una stanza riservata: quattro scapoli, tre ammogliati, uno vedovo, io; tutti impiegati. Due degli ammogliati avevano lasciato le famiglie in provincia, per economia, dicevano; e noi non avevamo nessuna ragione di dubitarne; il terzo, Martelli, era diviso dalla moglie per incompatibilità di carattere, abile modo di esprimere velatamente la sua disgrazia.
Infatti, perché una moglie scappi via dalla casa maritale e vada a convivere con… un altro, significa che dev’esserci qualche incompatibilità, almeno per parte di lei.
Martelli aveva preso la cosa in santa pace, dicendo:
— Il male non l’ha fatto a me, ci siamo? ma a se stessa. Ormai io conoscevo tutti i difetti della bestia e la compativo; e siccome so, che è affatto incapace di correggersi, si farà sùbito prendere in uggia, e sarà ridotta in mezzo a una strada. Ci siamo? Il mio uscio le è chiuso sempre; la chiave l’ho in tasca e il portinaio è avvertito: in caso di un tentativo di scasso… per opera di madama, correre ad avvertire i carabinieri della caserma vicina. Mi sento smaritato meglio che col divorzio, che non c’è. Ah! Ne ho viste in nove anni, da che eravamo sposati! Ma io sono buono, prudente; ho sopportato il sopportabile e il non sopportabile…. Dillo tu, Gilletti. Mi hai sentito, qualche volta, lamentare in ufficio delle cattive maniere di mia moglie? Mai! Mai! Dicono di Giobbe! Ma costui, ci siamo? Doveva essere un poco di buono se il Signore gli buttò addosso tanti malanni. Infatti ebbe la sfrontataggine fin di rivoltarsi, di mettersi a tu per tu con Domeneddio… E intanto lo portano come esempio di pazienza! Ci siamo? Il vero Giobbe sono stato io, nove fitti anni, senza un solo giorno di riposo! Vi meravigliate di vedermi qui tra voi, per consiglio di Gilletti? Che dovevo fare? Uno sterminio, e andarmene in galera pei begli occhi di lei?
— Bisognerebbe sentire tua moglie in contradittorio per sapere la verità vera — feci io quel giorno, che era tornato in ballo il discorso… di madama.
— Tu sei vedovo — mi rispose — e puoi dar ad intendere di rimpiangere la bon’anima. Io ti credo, perché la tua signora era eccellente persona, giovane, bella, caritatevole, l’idolo del vicinato. Lo so perché, due anni, siamo stati ad abitare nella stessa via e non molto distanti. Questo però non vuol dire. Io per esempio… ci siamo? Se mia moglie non avesse fatto quel che ha fatto, e Gesù Cristo se la fosse portata in Paradiso, non finirei di cantarne gli elogi in ogni occasione; anche per dispetto, se è vero che i morti vedono e sentono quel che fanno e dicono i vivi. Sarebbe un’atroce canzonatura, da far crepare di rabbia anche una morta, stizzosa come lei. In contradittorio, tu dici? Ma son sicuro che le dareste ragione, non fosse per altro, per farla star zitta. Figuratevi che una volta, dopo aver leticato un paio di giorni — anche la notte! — per certa stoffa di una veste ch’ella diceva indispensabile, ma che il mio povero bilancio mi faceva giudicare… ci siamo? se non superflua, inopportuna, vedendomi scappare via disperatamente di casa mi urlò dietro: — Ti sbarazzerò di questa sciupona, ti sbarazzerò! Non dubitare! Sarai contento! — E venne a urlarmelo dal pianerottolo, mentre scendevo le scale.
Quella mattina, in ufficio, ero una mosca senza capo, con la trista minaccia negli orecchi: incredulo dapprima, ma impensierito a poco a poco. Se tornando a casa, trovassi davvero?… Le donne sono capaci di tutto. Mi attendevo, di minuto in minuto, di veder comparire la donna spaventata: — La signora!… La signora!… — Ridete? Avrei voluto vedervi nel caso mio. Noi uomini siamo così sciocchi da voler bene alle mogli senza saperlo. E allora… ci siamo? Chiedo un permesso di urgenza al Capo ufficio, corro dal negoziante, compro la stoffa… Avevo dovuto, lì per lì, farmi prestare i quattrini da un usciere, che fa lo strozzino con gli impiegati… Salgo a quattro a quattro gli scalini di casa e inciampo nella donna che accorreva da me:
— La signora, oh, Dio!… La signora!…
Mi sentii morire!… Si contorceva, come una serpe, sul letto mezzo disfatto, lamentandosi con voce rauca… Io tenevo ancora sotto il braccio l’involto con la stoffa. Se ne accorse; balzò a sedere, cessando tutt’a un tratto di contorcersi, di lamentarsi… — Che rechi lì? — E si mise a disfare lestamente l’involto.
— È la stoffa! — balbettai.
— Ah! credevi davvero di trovarmi morta? L’hai comprata per scusarti, caso mai! Chi sa per chi sarebbe servita se fossi morta davvero!
E questo fu il bel ringraziamento, soltanto questo!… Ci siamo? So io quel che m’è costata quella mia imbecillità, con l’usciere che, ogni ventisette del mese: — Signor Martelli… almeno gli interessi. L’ottanta per cento: un disastro!… E Bacci dice: In contradittorio!… Ma io mi sento felice e m’importa un corno, se la gente ride e sparla. Badino agli affari loro. Ieri l’altro intanto…. ho avuto la soddisfazione d’intravederla da lontano con indosso quella stoffa; l’ho riconosciuta e mi è parso di averle fatto un’elemosina… Ci siamo?»
— Eppure — gli disse Gilletti giorni dopo — sembra che tu provi un certo piacere nel ragionare di lei. Confessalo: senti, è vero? che ti manca qualcosa….
— Sicuro! E spesso spesso anche non mi par vero che mi manchi, tanto stimo incredibile la mia buona sorte!… Arrivo fino a compiangere quel disgraziato….
— Ci siamo? — suggerì Giuntini, provocando nuove risate.
— Che volete farci? — rispose Martelli, ridendo anche lui. — È un riempitivo; mi scappa di bocca senza che io me ne accorga…. Ci siamo? Ecco!… La colpa è del mio Maestro di quarta. A ogni po’, spiegando le lezioni, ci domandava: — Ci siamo? — E intendeva di dire: — Avete capito? E noi ragazzacci, a coro: — Ci siamo! Ci siamo!
Mia moglie non mi poteva soffrire, quasi il Ci siamo? fosse stato un grave insulto per lei. Dopo sette anni avrebbe dovuto abituarsi, come io mi ero abituato ai suoi modi sgarbati! E dire che da ragazza sembrava la bontà, la cortesia, la gentilezza in persona! Siamo stati fidanzati diciotto mesi. Ogni atto, ogni parola, altrettante carezze! Paolino, qui! Paolino, là! Quasi non metteva un boccone in bocca — le domeniche desinavo in casa dei futuri suoceri — senza chiedermene il permesso. Ah! Gli scienziati perdono il loro tempo a fare…. Ci siamo? tante inutili scoperte, e non pensano a cercare un efficacissimo mezzo di impedire alle ragazze…. Sì, sì! qualche pastiglia, mettiamo, da dare alla fidanzata in un cartoccio di confetti per farle dire, suo malgrado, quel che realmente pensa del povero diavolo lusingato di esser voluto bene…. Sì! sì! Questa sarebbe la vera grande scoperta scientifica!… Ci siamo? A lei parrebbe di dire: — Quanto sei buono! — E, invece, direbbe: — Quanto sei imbecille, caro mio!… Sarei scappato più che di corsa e oggi non mi troverei costretto….
— Va là! Non ti dispiace poi tanto di essere tornato scapolo, di far vita di trattoria, — lo interruppe Cantelli.
— Ah! Intorno a questo, mentirei se dicessi che qualche volta il nostro Pappataci non me la faccia rimpiangere. Quella mala bestia era una cuoca… una cuoca!… Ci siamo?… Quando voleva ottenere qualche cosa mi prendeva metaforicamente per la gola. Tornavo a casa. — La signora? — È in cucina. — La risposta della donna significava: — A desinare avrà una cosa delicata! — E, attendendo la cosa delicata, riflettevo: — Quanto mi costerà? Ci siamo? Cosa, realmente, da leccarsene le dita. Non resistevo, preso proprio per la gola! Ma la scontavo e come! Mi conforto pensando che la sconti anche… l’altro!
— Ci siamo?
Giuntini gli faceva il verso: e così bene, che spesso Martelli ripeteva sùbito: — Ci siamo? — quasi per riparare una dimenticanza.
Ricorderò sempre il viso stupefatto con cui egli entrò nella nostra saletta da pranzo una mattina, a colazione. Lui, che prima di sedersi deponeva il cappello e soprabito e si lavava le mani, prese posto così come era entrato, brontolando parole incomprensibili.
— Che ti è accaduto? — gli domandammo parecchi.
— L’inesorabile! L’assurdo! Ci siamo? Ci siamo?
Fummo meravigliati di sentirgli ripetere il suo ritornello: Non gli era mai accaduto fino allora.
— Insomma…. che cosa? — fece Grilletti.
— Ero andato a comprare dei fazzoletti di filo… Mezza dozzina, perché la stiratrice…. Basta: ero intento a far la scelta e…. chi mi veggo allato? Mia moglie!… Proprio lei!… Ci siamo?… in carne e ossa!… Mi guarda e…. fa: — Buon giorno!… Stai bene; si vede!
Ero così sconvolto, col sangue tutto alla testa, col cuore che mi balzava! Ah! In certi momenti siamo proprio dei cretini!…
— Parla per tuo conto! — lo interruppi, sforzandomi di restar serio.
— Avresti risposto anche tu come me, là, davanti ai commessi e agli altri avventori:
— Buon giorno! Grazie! — Grazie di che? ora che ci ripenso. E lei ebbe la imprudenza…. ci siamo? di continuare — Che vuoi? Cose che accadono nella vita…. Se potessi spiegarti!
E non le voltavo nemmeno le spalle, non avevo il coraggio di piantarla là, in asso! Avrei dovuto schiaffeggiarla…. Intervenne il commesso: — La signora desidera?… — Vi sembra possibile che sia accaduto tutto questo?
— Tua moglie, se non altro, è una donna di spirito — disse Gilletti. — E poi?
— E poi?… È andata via, ripetendomi con tanto di faccia tosta: — Se potessi spiegarti!… — Attendeva la mia risposta; ma capì che stava per essere quale non l’avrebbe voluta…. Ci siamo? Perché uno può smarrirsi come un ragazzetto colto in fallo, ma…. un solo momento! Dovette leggermi negli occhi intorbidati…. Oh! È impossibile! È assurdo!
— Ma niente incredibile! Niente assurdo! — rispose Cantelli. — Intanto levati il cappello e il soprabito, e mangia la minestra che ti si fredda. Si tratta di sintomi buoni: prodromi di riconciliazione. Il pentimento è evidente. Tu dovresti passarti una mano su la coscienza e riconoscere quanto hai contribuito, da parte tua, a farle commettere la sciocchezza….
— La chiami sciocchezza? Ci siamo?
— Per la donna è una sciocchezza. Qualunque cosa una donna pensi e faccia, è una sciocchezza….
— Anche se disonora…. se ammazza?
— In questo caso poi è assai peggio che una sciocchezza. Le donne, secondo me, possono, devono qualche volta, essere ammazzate, ma ammazzare mai.
— Disonorare…. è più di ammazzare!… Lasciami mangiare in pace. Non voglio discutere le tue solite enormità. Prodromi di riconciliazione? Pentimento? Che m’importa ora del suo pentimento? Doveva pentirsi prima di fare il male…. Mi fai dire stupidaggini!… Ci siamo?
Due settimane dopo, ci trovammo una sera noi due soli, Martelli ed io, a desinare. Gli altri avevano un banchetto regionale.
Martelli entrò masticando nauseato, quasi avesse in bocca un sapore di cosa amara. Buttò là, rabbiosamente, soprabito e cappello esclamando:
— Quando si dice che uno è stato tirato proprio pei capelli si dice meno del vero! Ci siamo? Ma te la immagineresti tu una moglie…. come quella, che mi ferma in mezzo alla via, m’invita ad entrare in un caffè:
— Ragioniamo! Te ne prego! Sii gentile con una signora! — Così! Così!… Ed ha preso il mio braccio e mi ha trascinato dentro, in un angolo in fondo, mi ha fatto sedere, mi si è seduta accanto, e al cameriere ha ordinato tranquillamente: Due espressi! Così, così! Che potevo fare? Ci siamo? Te la immagineresti tu una moglie…. come quella, che nel tragico momento…. Giacchè lo capisci facilmente, il momento era tragico; avrei potuto saltarle al collo, strozzarla…. ero nel mio diritto; e poi eravamo soli…. Strozzarla e andarmene via zitto zitto…. Te la immagineresti tu una moglie…. come quella che prende con le mollette un quadrettino di zucchero e…. in quel tragico momento, ti domanda: — Tre pezzetti, è vero, Paolino?… Avrei voluto risponderle con rovesciarle addosso la tazza fumante…. Ci siamo? E, invece, ho risposto….
— Sì, tre!
— Precisamente!
— Da gentiluomo: non pentirtene.
— E allora…. Non la finì più: — Ah, Paolino! La mia disgrazia ha voluto così!… Ah, Paolino! Con la tua indifferenza, col tuo supremo disprezzo mi hai castigata abbastanza!… Ah, Paolino! Avrei potuto far peggio: fortunatamente non l’ho fatto! — Paolino! Come durante il nostro fidanzamento…. Non mi aveva mai più chiamato così! C’è voluta tutta la mia…. ci siamo?… grandezza di animo per resistere; a capo basso, sì, sorbendo lentamente il caffè, sì, picchiando col cucchiaino sul vassoio per chiamare il cameriere…. Lo crederai? Voleva pagar lei… — Ti ho invitato io! — insisteva. E appena il cameriere si fu allontanato: — Ah, Paolino!… Non mi dici una parola di conforto? Di speranza? Di perdono?… Ah, Paolino!… — dignitosamente le risposi: — Ne riparleremo, signora! — Tanto per troncare il discorso…. Ci siamo?
Avevo cominciato a fare un grande sforzo per non ridere e, di mano in mano, mi ero sentito invadere da profonda pietà per la miseria umana, di cui avevo sotto gli occhi un perfetto esemplare.
— Hai avuto torto — gli dissi. — Certi ragionamenti bisogna troncarli netti, in modo da non doverci ritornar su; o pure….
— Precisamente…. Ci siamo? quel che pensai sùbito…. Ma questa non è cotoletta!… — s’interruppe. — È suola da scarpe!… Da qualche tempo in qua, Pappataci abusa della nostra remissione!
Fece un gran rabbuffo al cameriere, leticò col padrone….
Esagerava; non era vero che la cotoletta fosse più immangiabile di quelle delle altre volte. Si calmò e riprese:
— Quel che pensai sùbito. E mi rimisi a sedere, e stetti ad ascoltarla guardandola in viso, per scrutarla…. Era sincera? Chi può mai dire quando una donna è sincera, dato che una donna possa mai essere sincera?… Ci siamo?
— Non fare il pessimista!
— È ravveduta, pentita…. Le son venute le lacrime agli occhi. Dice che quello, col pretesto di un affare urgente, è andato a Milano, a Torino, insomma, non si è fatto più vivo…. Che avresti fatto tu? Dimmelo, francamente; se ho sbagliato, sono ancora in caso di riparare…. Ci siamo? Che avresti fatto nei miei panni?
— Quel che tu hai fatto! Né più, né meno!
— Come lo sai?
— Ci vuol poco a capirlo.
— E mi approvi?
— Pienamente…. Almeno non mangerai più cotolette di cuoio.
— È strano, caro mio! Tu che sei vedovo, devi averlo provato meglio di me. Tua moglie era un angelo, era una santa…. Ma ci si abitua anche a una moglie demonio…. Ci siamo? E quando si è già contratta una abitudine…. È strano! Si rimpiange quel che ci faceva soffrire, disperare!… Ci siamo?… Domani riprenderò…. la mia croce…. Pago il conto a Pappataci. Tu mi scuserai con gli altri… Che ne dici? Che ne dici? Commetto un’imprudenza? Una debolezza? Una viltà?
— Un eroismo! — risposi.
Ed ero sincero.
Mi strinse la mano, lungamente, affettuosamente, e come conclusione di quel che non aveva saputo dirmi, soggiunse:
— Ci siamo?…
— Mettetevi nei miei panni! — esclamò Bozzani.
I tre amici, che vuotavano con lui spumanti bicchieri di birra in quell’angolo appartato del Caffè Nuovo, scoppiarono in una sonora risata. Erano tutti e tre grassi, con pance sporgenti, con facce piene, rotonde, da frati gaudenti; e lui, invece, era così magro, così esile che fin l’abito grigio, stretto, assestato, sempre abbottonato com’egli usava di portarlo, in certi momenti non sembrava lavorato su misura, ma comprato bell’è fatto in un negozio qualunque.
Bozzani, dopo un istante di sbalordimento per la inattesa risata, riprese:
— È un modo di dire; ma già voialtri non potete mettervi nei miei panni neanche moralmente. Pure vorrei sapere che avreste fatto nel caso mio, se non foste tutti e tre scapoli impenitenti. Ah! Ma non resta scapolo chi vuole. E noi ci crediamo stupidamente liberi di fare o di non fare, anche quando le circostanze ci impongono la loro violenta necessità, e ci fanno oprare tutt’all’opposto di quel che avremmo voluto. L’essere scapoli non garantisce. Voialtri, tutti e tre, avete tre amanti. È peggio di avere tre mogli. L’uomo è così sciocco da pretendere dall’amante l’assoluta fedeltà, che si crede in diritto di imporre alla moglie. Le conseguenze sono le stesse. Tu, Roggetti, hai fatto un duello, ti sei buscato una sciabolata al viso, che tenti inutilmente di dissimulare con la barba; proprio come ti saresti comportato se si fosse trattato del tuo onore coniugale. Tu, Bossi, meni una vita da cane con le finte gelosie di quella maliziosa cretina — scusa, è la verità — per la quale spendi tanti quattrini quanti basterebbero a mantenere non una ma parecchie mogli. Tu, Nelli, sei costretto a mutar di amante ogni tre mesi, per disperazione, come muti di vestiti ogni settimana…. Siete, forse, più tranquilli, non dico più felici, di me? Oh, sì! Tra le vostre amanti e voi non ci sono di mezzo il sindaco, il parroco. Che è per questo? Il vostro stupido amor proprio vi lega più che non faccia il nodo civile e religioso. Esagero? Sia. Ma sono stato scapolo anche io; ho avuto delle amanti anch’io; parlo per esperienza. Lasciamo andare; veniamo al caso mio. Che avrei dovuto fare? Credevo di aver preso tutte le precauzioni possibili. Nata di buona famiglia, educata in un istituto di monache; di carattere mite, sembrava; non bella da dar nell’occhio, da tentare, ma nello stesso tempo non brutta da riuscire poco interessante pel marito. Mi era parso di aver risolto un gran problema sposandola. Infatti a nessuno di voi è passato pel capo di rendermi il servizio che i più intimi si affrettano a regalare a un marito. Non vi ringrazio di questo. Probabilmente non vi è parso che mia moglie valesse la pena di intaccare un’amicizia d’infanzia non turbata mai dal più piccolo malinteso. Non so se, dopo quel che è accaduto, vi siate già pentiti di non aver approfittato dell’occasione avuta sotto mano. No? Tanto meglio. Ma veniamo all’importante.
Dopo due anni di matrimonio, e quando i miei affari andavano benissimo ed io ero nell’ansiosa aspettativa di un erede, che non si decideva a venire, ecco, comincio ad accorgermi di qualche mutamento di mia moglie. Un altro non si sarebbe messo in sospetto; anzi! Ma io non ero stato… noi due non eravamo stati innamorati nel preciso senso di questa parola. Nessun calcolo dall’una parte e dall’altra; ci eravamo piaciuti, sì, discretamente; niente smanie, però nessuna esaltazione; un affetto sincero, placido tra due persone per bene. A poco a poco, mia moglie diveniva, come dire? innamorata di me. — Diamine! Diamine! — pensavo. — Questo è contrario a tutte le leggi psicologiche che regolano il matrimonio. Non senza profonde ragioni è stato formulato l’assioma: Il matrimonio è la tomba dell’amore!
— Senti, caro Bozzani, — lo interruppe Roggetti, ed era buffo con quei mustacchi impiastricciati di spuma di birra. — Tu hai la cattiva abitudine di riflettere, di filosofare a proposito e a sproposito di tutto. Non vuoi persuaderti che niente è più irragionevole della vita: e così te la rendi assai peggiore di quella che è.
— Ora il filosofo lo fai tu, o almeno credi di farlo, — riprese Bozzani. — La vita è anzi ragionevolissima, se non lo sai. Tanto è vero, che va per conto suo, senza il nostro permesso, da conseguenza in conseguenza, con un ragionamento così filato da travolgerci nostro malgrado. Ma io voglio esporvi fatti, voglio spiegarvi perchè ho agito non come forse avreste agito voialtri e come agiscono tanti, cioè, con la più cieca irriflessione. Lasciatemi continuare. Sono in un buon momento di loquacità, di sincerità; non mi accade spesso. Dunque: Diamine! Diamine! — pensai. — Il fenomeno è strano. Ma tutto può darsi; il mondo è pieno di eccezioni! Mi faceva impressione però che quella eccezione, sebbene dovesse lusingare il mio amor proprio, venisse a capitare giusto a me. Come comportarmi? Mi atterriva l’idea che, assieme con l’amore, arrivasse subito la gelosia, il peggior guaio che possa colpire un marito.
Niente gelosia! Dolcezze, attenzioni delicate, premure squisitamente affettuose: — Non tardare per la colazione!… Copriti bene all’uscita dal club!… Divertiti anche per me al Caffè-concerto!… Io? Sta tranquillo; non m’annoio in casa; ho tanto da fare! — Non mi pareva vero. Avevo però un presentimento; non so come esprimermi. Perchè, da mite, da un po’ lenta nei movimenti, da parlatrice piana, dimessa, ella diveniva, di giorno in giorno, ardita, agile nelle mosse, vibrante nella parola, con negli occhi, nell’espressione del viso, qualcosa che prima non c’era e la rendeva quasi bella? Non osavo d’immaginare che quel miracolo lo producessi io. In questo caso avrei dovuto produrlo prima, durante i sei mesi di fidanzamento o, almeno, durante il primo anno di matrimonio, se è vero che il nuovo stato apporta grandi mutamenti nel fisico e nel morale di una signorina.
Fantasticavo, volevo indovinare, invece di chiedere qualche spiegazione. Il caso…. Noi diciamo: «il caso», perchè non sappiamo per quale concatenazione di piccoli, di quasi impercettibili fatti avviene l’imprevisto, l’imprevedibile che ci scombussola, ci fa cascare dalle nuvole e ci spinge a commettere una pazzia, un delitto… o una madornale sciocchezza. Esitai una settimana nell’alternativa tra il delitto e la sciocchezza. Ebbi però la forza di non tradirmi; e credo che quella settimana fu per me un vero stato di pazzia. Nessuno sa simulare o dissimulare meglio dei pazzi.
Avevo in mano una lettera che non mi permetteva più di dubitare della mia disgrazia. Sapevo non solamente che mia moglie mi tradiva, ma anche con chi mi tradiva. E il cambio, veramente, non faceva onore al suo gusto: qui stava il peggio.
— Vuol dire che tu eri superiore al suo…. come si dice…. ideale.
Bossi aveva l’intercalare di quel: come si dice.
— Ciò non consola, fa rabbia piuttosto — continuò Bozzani. — Mi turbinavano in mente i più feroci propositi di vendetta. Li esaminavo, li studiavo, uno per uno. — Ammazzarli! A colpi di rivoltella, come due cani! Non li avrei pagati un centesimo! — Ma fu appunto questo che mi distolse dal farlo. Proprio in quei giorni era stato discusso alle Assise il caso di un marito, che aveva fatto strage della moglie e dell’amante sorpresi in casa col solito tranello di un viaggio improvviso. Era stato arrestato e, dopo sei mesi di prigionia, veniva assolto. Prima; tutti ignoravano la sua sventura; ora i giornali ne erano pieni. Ecco il bel guadagno! Gli uccisi, se nell’altro mondo ci si ricorda di questo, dovevano ridere di lui!
Quell’assoluzione mi faceva rabbia. Come? Abbiamo abolito la pena di morte in una parte del Codice e la manteniamo vigliaccamente, a poche pagine di distanza, in un’altra? Ma sì, ma sì! Questo significa l’assoluzione dei mariti uccisori; si concede ad essi un diritto, che è stato tolto alla Giustizia. Hanno forse paura i signori Giurati, che un giorno capiti anche a loro quel che è capitato a colui che siede nella gabbia, là di faccia e pensano: — Siamo indulgenti: assolviamo, come vorremmo essere assolti trovandoci nello stesso caso di questo disgraziato? — C’è da supporlo, dopo certe inesplicabili assoluzioni. La provocazione? Va bene! La passione? Va benissimo! Il parziale difetto di mente? I periti, con rispetto della Scienza, ne inventano di ogni sorta.
Ma io, signori Giurati, vi confesso che ho calcolato ed eseguito freddamente il mio delitto; ho squartato, ho salato, come carne di maiale, il corpo di mia moglie; l’ho conservato in casa, sotto il letto matrimoniale, una settimana, e vi ho dormito sopra placidamente, quasi non si fosse trattato di nulla!… — E i signori Giurati rispondono: — Abbiamo inteso! Abbiamo inteso: che cosa pretendete? Una bella condanna a vita? Eh, via! Siete un presuntuoso, un vanitoso! Noi vi mandiamo libero, assolto, a riprendere, se vi piace, il vostro mestiere di sgozzatore di mogli. Ci pensino le mogli a riguardarsi, se mai!
Così è impossibile di ottenere la sodisfazione di una magnifica condanna, che ci dia coscienza del fiero gesto fatto ammazzando moglie ed amante, o il solo amante, o la sola moglie, secondo le circostanze. Vale proprio la pena di mettersi nel cimento di buscarsi un colpo di rivoltella da un amante, giacchè non tutti questi signori sono disposti a lasciarsi ammazzare dai mariti? Vale proprio la pena di aver preteso di compire un’alta funzione di vendetta, se dobbiamo poi sentirci dire: — Andate via! Vi siete dunque immaginato di aver fatto una gran cosa?
— Ma che modo di ragionare è questo? — lo interruppe Nelli. — Viene un imbecille qualunque, mi seduce la moglie, mi rende ridicolo davanti alla gente, disonora il mio nome intemerato; e, se mi faccio giustizia, con le mie mani, dovrò esser condannato alla galera per giunta? Oprano bene i Giurati. La colpa è del Codice che punisce gli adulteri con tre, quattro mesi di prigione soltanto. È ridicolo!
— Lo dico anch’io — rispose Bozzani. — Ma per me è più ridicolo e umiliante l’assoluzione del marito uccisore. Bisogna esser cretini per non capirlo.
— E per ciò tu….
— Io, caro Nelli, mi son vendicato più terribilmente; nessuno di voi immagina come.
Nelli, Bossi, Roggetti si guardarono in viso stupiti.
— Capisco — disse Bozzani — che la cosa vi sembrerà strana. Non avete più notato nessun cambiamento nel mio tenore di vita? Voglio sperare che non mi abbiate fatto l’offesa di credermi un… disgraziato rassegnato o contento.
— Inesplicabile, sì. E siamo stati un pezzo nell’angosciosa aspettativa di una… come si dice…
— Esplosione tragica — fece Bozzani, venendo in aiuto di Bossi, che si era arrestato al suo solito: come si dice.
— In certe circostanze, — soggiunse Nelli, — la discrezione è il primo dovere dell’amicizia.
— Avete fatto bene. Dopo lo sfogo di quella sera, ricordate? non vi ho più riparlato del mio tristissimo caso: — Puoi esserti ingannato! Calma! Calma!…
— Oh, non ho dimenticato le vostre esortazioni, i vostri consigli quella sera che il mio straordinario turbamento mi aveva fatto sfuggir di bocca la dolorosissima confessione.
Bozzani, quasi per acuire la curiosità dei suoi amici, prese in mano il bicchiere di birra rimasto intatto davanti a lui, bevve lentamente, ne ordinò un altro, e, sodisfatto dell’attenzione suscitata, riprese, con tono di solennità nella voce:
— Mi son vendicato, terribilmente, senza incorrere nel pericolo d’un processo e nella pettegola pubblicità dei giornali! Quella mattina mia moglie si era fatta più elegante del solito; era allegra, canticchiava, sembrava che la mia creduta cecità la mettesse di buon umore. La presi un po’ bruscamente per un braccio, la feci entrare nel mio studio e misi il paletto all’uscio.
— Vai dal tuo amante? — le dissi sforzandomi di mostrarmi indifferente. Spalancò gli occhi, impallidì. Avevo pronunciato quelle parole con lo stesso tono con cui avrei potuto domandarle: — Vai a messa? — Era domenica.
— Ernesto! Ernesto! — balbettò.
— Guarda! — proseguii prendendo in mano il revolver messo anticipatamente in mostra sul tavolino. — Potrei ammazzarti come una cagna arrabbiata….
— Ernesto! Ernesto!
Indietreggiò coprendosi il viso con le braccia, atterrita.
— Non aver paura! — soggiunsi. — Ormai, quel che è stato è stato. Non me n’importa niente. Tu non sei più mia moglie: sei l’amante di Tito Volpi; non dovrai esser altro da oggi in poi.
— Ernesto! Ernesto!… Perdonami!.. Sono stata pazza!….
— Peggio: ingrata, infame!… Ma, ormai!
Si era buttata ginocchioni, supplicante a mani giunte.
Io stesso mi meravigliavo della mia tranquillità. Avevo ruminato, una settimana, il castigo che volevo infliggere a lei e al suo amante e parlavo da giudice severo quasi si trattasse di un altro.
— Hai scelto tra me e lui: tientelo! Ma dovrà essere per sempre! Lo dirò anche a lui: — Per sempre! — Vi sorveglierò come un poliziotto. Andrai a trovarlo ogni giorno, alla stessa ora — so la via, il numero — alla solita ora! Ti ho seguita… Ho visto… Non ti scusare…. Non ti scusare!… Dovrà essere per sempre! Per sempre! Il giorno che credereste di finirla… allora! Peggio per tutti e due! Non mi sfuggireste! Allora!… Vai dunque. Sei attesa. Non tardare…. Come se io non sapessi niente…. E dillo prima tu a quel signore! Se si figura che tu possa essere un fuggitivo capriccio per lui…. Oh, no! Vi amerete, dovrete amarvi per tutta la vita… almeno finché vivrò io! E sappiate che ho intenzione di vivere a lungo….
Mia moglie mi guardava con crescente terrore. Dovevo sembrarle pazzo… Si addossava all’uscio, quasi tentasse di sparire a traverso il buco della serratura. La presi per una mano — tremava, era diaccia — e la feci sedere; non osò di resistere.
Le sue labbra balbettavano sommessamente: — Ernesto! Ernesto! — supplicava con gli occhi, strizzandosi le mani. Ero ferocemente contento di vedermela là davanti, prostrata a quel modo. Ripresi a parlare, ritto in piedi, con le braccia dietro la schiena.
— Da oggi in poi, tra te e me, in questa casa niente sarà mutato, all’infuori che tu vi sarai… ospite, nelle tue stanze, libera di andare e venire, come sei stata finora. Con l’unica differenza che, apparentemente, continuerai ad essere mia moglie; effettivamente sarai l’amante di Tito Volpi, quasi io non esistessi; col dovere, s’intende, di continuare ad usare le cautelose precauzioni messe in opra per ingannare me e la gente, che vi sono riuscite da un anno, forse da più di più di un anno; non m’importa di sapere la data precisa. Un anno o una settimana o un giorno, per me valgono lo stesso. Sei già pronta… in ritardo, credo; non voglio impedirti. Va’, va’! Non immaginare che io mediti altra vendetta; vivete sicuri, tranquilli su questo punto, tu e lui. La mia inesorabile punizione avverrebbe il giorno che voi cessereste di essere amanti. Ti inganneresti, lusingandoti di sfuggirmi; se ne persuada anche il tuo amante. Ti ripeto: vi sorveglierò, come un poliziotto! Dovrà essere per sempre! — Ed è stato così, cari miei. Se non che….
— La tua vendetta è durata poco?
— Una vera follia!
— Una balordaggine! Incredibile!
— Se non che — continuò Bozzani, senza curarsi delle interruzioni degli amici — quella punizione è stata più rapida, più tremenda che io non osassi di sperare.
Come avevo annunziato a mia moglie, mi presentai pure al suo drudo, impiegato in una Banca. — Sono a sua disposizione… — mi rispose. — Riconosco il mio torto! — Non so che farmi della vostra vita — gli dissi. — Avrei potuto ammazzarvi, cogliendovi sul fatto, se avessi voluto: non vi avrei pagati due soldi! — Gli ripetei freddamente quel che avevo espresso a mia moglie: — Dovrà essere per sempre! Per sempre! Come se io ignorassi! Stampatevelo bene in mente! — E gli voltai le spalle.
Ora mia moglie lo odia; egli la odia. Non si possono più soffrire. Si sentono legati a una catena di ferro, e non tentano di spezzarla. Senza che essi lo sospettino, ho affittato una stanza accanto a quella, modestissima, dov’essi si davano convegno, e che, secondo le mie ingiunzioni, non hanno cambiata. Da un buchino abilmente praticato nell’uscio intermedio, io ho assistito, montato su una seggiola, a parecchie delle loro tristi scene di rimproveri, di sdegni, di desolazione.
Non un bacio, non una stretta di mano! Egli si aggira per la camera, come un animale chiuso in gabbia; lei, coi gomiti sul tavolino e la testa tra le mani, gli lancia fiere occhiate di traverso. Ho udito spesso le loro parole: — Per te! — È vita questa? — Dovremmo finirla! — insiste lei. — Per fargli piacere? — risponde lui. — Se sapesse a che siamo giunti!
Ma passano ore senza che scambino una sola parola. Certi giorni, io sono feroce. Attendo che mia moglie sia pronta per uscire… e l’accompagno per via, come se andassimo insieme per una passeggiata. La gente che ci incontra non può immaginare. E il maggior tormento per lei è questo vedermi al suo fianco, muto, inesorabile, fino alla cantonata che lei deve svoltare!… Lei la vittima; io il giustiziere.
Talvolta qualche conoscente, qualche amico ci ferma. — A spasso? Come due sposini novelli. — Ella trambascia; mi sembra che debba mancare…. È dimagrita; sbiancata. Non ha coraggio d’implorare pietà. Attende forse che io mi plachi. È una gran tortura per lei il dover fingere in casa, davanti alla servitù, davanti alle poche amiche, che è costretta a ricevere, come io le ho imposto.
A tavola, io leggo il giornale, o mangio chino sul piatto, come un miope, le poche volte che non la lascio sola, perchè faccio colazione o desino fuori, col pretesto degli affari.
— È una punizione anche per te… — disse Nelli.
— La vendetta è il nèttare degli Dei, ha scritto un poeta. Io vivo di nèttare! — rispose Bozzani.
— Ma se quei due ti avessero preso su la parola? Se avessero continuato ad essere amanti col tuo bel permesso?
— Mi era passata pel capo anche questa ipotesi, ma la scartai subito. L’amore per forza? Andiamo!
Bozzani rise. Ai tre amici, però, che l’osservavano maravigliati, ma non più increduli come in principio, parve che in quel momento egli ridesse male, come se sotto il feroce cinismo nascondesse un dolore profondo, insanabile.
La storia di don Ciccio Curti l’ho sentita raccontare da parecchi e sempre in un modo diverso dall’altro. Ognuno di essi mi ha detto:
— Oh, caro don Felice, come posso saperla io!… Quasi dalla stessa bocca di don Ciccio; si figuri!
Ma, allora, vuol dire che la bocca di lui si divertiva a raccontare oggi una cosa, domani un’altra. Va’ a trovare qual è la verità vera tra tante! Vi sono dei punti sui quali tutti vanno d’accordo. Questo per esempio:
— Don Ciccio Curti era un galantuomo nel vero senso di questa parola.
Benissimo! Ciò però non ha impedito che commettesse una cattiva azione sposando per forza la bella figliuola dei Mandrà….
Per forza? Il mistero sta appunto qui.
Giusto ieri il dottor Colla, a cui avevo rivolto alcune domande, mi rispondeva:
— Che ve ne importa, caro don Felice?
— E la scienza? E la storia?
— Parole grosse, caro don Felice!
— Per chi non capisce — scusate — che un casoraro, rarissimo può dar la soluzione di parecchi problemi psicologici dietro cui gli scienziati si affaticano invano; per chi non capisce che la storia non è formata soltanto dai grandi avvenimenti, ma anche da tanti piccoli casi individuali….
— Parole grosse! Parole grosse!
Quel dottor Colla sarà — non ne dubito — un valentissimo chirurgo; ma levato dal bisturi, dal forcipe, dai tagli, dalle punture, da tutte queste utilissime però manualissime cose, è — sia detto tra noi, — una bestia.
E mettiamo che io agisca per pura curiosità! Non voglio calunniare nè denigrare nessuno, molto meno don Ciccio Curti, buona memoria.
Arrivar ad assodar se ha sposato per forza o no, può riuscire cosa onorifica per lui o, almeno, una scusa.
Come? Il Cavalier Daeli ignora chi è don Ciccio Curti? È la prima volta che lo sente nominare? Mi pare incredibile…. Tanto meglio. Voi, Cavaliere, che non avete preconcetti di sorta alcuna, siete in caso di giudicare spassionatamente.
Mi credete capace di dire bugie? D’inventare per comodo della mia tesi, — sì, tesi giacché quel che vi dirò vi contraddice, smentisce, annulla tante sciocche dicerie di certa gente — d’inventare un fatto di sana pianta per mio uso e consumo?
A che scopo? domando io, a che scopo?
Con voi, dunque, occorre che mi rifaccia da capo. Accendete il vostro sigaro, sdraiatevi sulla poltrona, così, comodamente, e abbiate la pazienza di ascoltarmi.
Io lo riconosco, ho il difetto di parlar molto, senza rifiatare e senza far rifiatare, me lo hanno rimproverato…. Mah! Non obbligo nessuno a starmi a sentire. Mi stuzzicano, mi punzecchiano, mi provocano. Voi ridete, perché siete una persona educata, non siete cavaliere di nascita per nulla, vi vedo già dispostoa starmi ad ascoltare benevolmente. Ecco, vengo sùbito a don Ciccio Curti.
Non dico: un bell’uomo, ma quasi. Figlio di contadini che lo avevano mandato a scuola dal «Domine» Speranza — allora si diceva così — avrebbe potuto prendere una professione; e si era arrestato a mezza via. Speziale, no! Agrimensore, no! Santo sacerdote servo di Dio, lo avrebbe voluto sua madre! Lui intanto non aveva fretta; aspettava la vocazione…. Quella di fannullone l’aveva già, come gli diceva suo padre. Le lavate però di capo del buon uomo a quel figlio unico non approdavano a niente. Gli parve, per ciò, di aver toccato il cielo con un dito quando lo seppe allogato come scritturale presso il Notaio «Brà-brà», così chiamato perché aveva il vezzo di fare continuamente «brà-brà» con le labbra, scrivendo o stando a sentire.
Il padre morì senza accorgersi di una specie di malattia di suo figlio. Durante la giornata era buono, tranquillo; ma, di mano in mano che s’inoltrava la sera, il giovane don Ciccio diveniva irrequieto, smanioso, intrattabile.
— Che hai?
— Niente!
— Va’ a fare due passi. Trova qualche amico.
— Do fastidio, forse?
— Non posso vederti aggirare per le stanze come una mosca senza capo.
— Me ne vado a letto; sarà meglio.
E a sua madre che andava a trovarlo in camera e tornava a domandargli con insistenza se si sentisse male, rispondeva soltanto:
— Fammi il piacere di chiudere a chiave l’uscio; così dormirò senza disturbi.
— Quali disturbi?
— Non so quel che dico, mezzo stordito dal sonno…. A doppia mandata, mamma!
La povera donna girava la chiave a doppia mandata nella toppa e spesso rimaneva a lungo a origliare. Lo sentiva voltarsi e rivoltarsi sul lettino coi trespoli, sospirare forte e anche borbottare. Fantasticava che il figlio fosse perseguitato da qualche «Spirdu» maligno e non volesse dirgliene niente per non metterle paura.
Poi, passata una certa ora, non si sentiva nessun rumore, nessun sospiro, nessun borbottamento; e la mattina dopo non si vedeva traccia di sofferenza e d’insonnia nel viso del giovane, che aveva ripreso la sua tranquillità, il suo umore allegro. A tavola imitava perfettamente il suo principale nell’atteggiamento indolente, nei brevi gesti, nel «brà-brà» ripetuto con sempre varie intonazioni. Ma, appena s’inoltrava la sera, ridiveniva irrequieto, smanioso, intrattabile. Pareva che soffrisse di non poter fare qualcosa che gli avrebbe dato gran piacere se gli fosse stato permesso di farla.
Chi glielo impediva?
E ogni sera si ripeteva, quasi parola per parola, lo stesso dialogo….
— Ma, insomma, che hai?
— Niente.
— Ti annoi, lo vedo; va a fare due passi; va a trovare qualche amico.
— Preferisco di andarmene a letto.
E alla madre, sopraggiunta col pretesto di dargli la buona notte, e che insisteva: — Ti senti male? — ripeteva:
— Fammi il piacere di chiudere l’uscio a chiave, a doppia mandata.
Tutte queste minuzie, caro cavalier Daeli, possogarantirvele con giuramento. Paiono sciocchezzole e sono importantissime per la personalità di don Ciccio Curti. Potrete dirmi: — Anche il lettino coi trespoli? — Sissignore, anche quello, perché non vi figuriate che la camera del giovane don Ciccio fosse mobigliata come la vostra di oggi, nè come la mia; e non vi lasciate ingannare neppure dal «don» troppo facilmente acquistato. Don Ciccio Curti rimase sempre un contadino…. ripulito. Ripulito esteriormente. Infatti, appena perdette i genitori, diè in affitto il podere paterno, smise di far lo scritturale presso il Notaio «Brà-brà», e cominciò quella sua vita vegetativa, di fannullone, di bighellone che parecchi amici gli rimproveravano.
— È meglio che io non faccia niente, invece di far del male… — rispondeva.
Il farmacista Milazzo si rammenta ancora di queste strane parole. Infatti lo rimbeccò— Perché dovreste far del male?
— Perché…. non saprei far altro. Dovrei tagliarmi le mani. Non le adopro; è quasi lo stesso.
E il farmacista Milazzo mi ha, più volte, raccontato che pronunziando queste parole don Ciccio diventava pallido, gli tremava la voce.
Supponendo che, innamorato non corrisposto, covasse nel cuore qualche vendetta, il farmacista lo ammoniva affettuosamente:
— Non vi perdete dietro alle donne, caro don Ciccio. Se dovete fare una sciocchezza — suol dirsi così, ma è cosa santa e giusta — prendete moglie!
— Le donne? Sciù! Per me sono come le mosche, le caccio via…. Sciù! In quanto alla moglie, se fosse cosa santa e giusta, l’avreste già presa da un pezzo….
Il farmacista l’avrebbe presa volentieri. Avevaperò addosso gli orfani di suo fratello avvocato, tre ragazze e due maschi….
Ma questo non c’entra.
L’importante è il sapere che, a trent’anni, don Ciccio Curti riteneva le donne simili alle mosche e che le cacciava via: Sciù! Sciù!
Eppure, come contadino ripulito, era quasi un bel giovane. Avrebbe trovato parecchie donne pronte a sposarlo. Dava occhiate di qua, occhiate di là; non era fatto di legno! Appena però si accorgeva che quelle occhiate potevano esser prese sul serio, smetteva.
Per un uomo di trent’anni, questo gran riserbo faceva specie.
Fece maggiormente specie quando si seppe che ogni sera una vecchierella, sua vicina di casa, era incaricata di chiudergli la porta a doppia mandata e di aprirgliela all’alba.
Durava da un bel pezzo senza che ne fosse trapelato niente; ma una mattina, aspetta aspetta….
Don Ciccio si affaccia alla finestra. Vede che la porta della casetta terrena della sua «carceriera» è ancora chiusa e si rassegna ad attendere fino a mezzogiorno.
Viene un parente della vecchia. Picchia, ripicchia. Nessuno risponde…. Per farla breve, nella nottata la vecchierella era morta di sincope…. E don Ciccio fu costretto a dire:
— Badate: a un chiodo dev’esserci appesa la chiave della mia porta…. Fatemi il favore….
Chi rideva, chi fantasticava tante cose. Si faceva chiudere la porta di casa a doppia mandata…. perché? Nessuno riusciva a indovinarlo. E se qualcuno glielo domandava, don Ciccio rispondeva con una spallucciata. Giacché morta la vecchia, egli aveva trovato sùbito un’altra «carceriera», attenta, paziente,ma non discreta quanto la prima; la serrata della porta, in poche settimane, era diventata un piccolo spettacolo pel vicinato. Don Ciccio, volendo evitare il pettegolezzo, aveva dovuto incaricare di quel confidenziale ufficio un uomo, il sagrestano di una chiesetta della via traversa. Ogni sera, egli andava a suonare le due ore di notte, e, al ritorno, passando davanti alla casa di don Ciccio — a quell’ora la via era deserta — dava una doppia mandata alla chiave della porta, poi la mattina all’alba, ripassando per andar a suonare la prima Messa, apriva lasciando nella toppa la chiave, che don Ciccio si affrettava a levar via.
Capite bene, caro cavaliere, che la curiosità degli sfaccendati era diventata vivissima. Si seppe anche del sagrestano; e allora don Ciccio non ebbe più pace.
— Perchè? Avete paura che vi scappino le pulci?
— La casa mia è pulita e pulci non ce ne sono.
— O dunque?
— Badate ai fatti vostri!…
E a qualcuno non diceva: «ai fatti vostri», ma una brutta parola.
I curiosi sono così: quando si accorgono che ogni loro insistenza non approda a niente, si stancano, cercano un nuovo pascolo alla loro stupida avidità. Per ciò, dopo qualche mese, nessuno si occupò più della serale chiusura a chiave della porta di don Ciccio. Se egli avesse avuto moglie, il fatto si sarebbe potuto interpretare per atto di gelosia. Quando si è gelosi, non si ragiona. Ma don Ciccio era solo.
Una vicina andava a fargli le faccende di casa, gli preparava il desinare, il letto. Alla cena, molto semplice, pensava lui. E, durante la giornata, eglibighellonava, si sedeva davanti a una merceria, a una bottega di barbiere, si divertiva a veder giocare al bigliardo, o a tresette nel mezzanino di Campoccia.
Se non che, da qualche tempo, non era più dell’umore allegro di una volta. Pareva che un pensiero triste, molto triste, lo affliggesse e lo facesse smaniare. Che gli mancava? Tutto gli andava bene! Nel suo podere, per caso, era stata scoperta una polla d’acqua che ne aumentava il valore. Un lontano parente gli aveva lasciato in eredità parecchie migliaia di lire, depositate presso una Banca. E la gente diceva che appunto tutte queste buone fortune lo facevano stare di malumore perchè don Ciccio era…. un egoista. Povero uomo!
Invece, si seppe da lì a poco ch’egli, improvvisamente, si era deciso a prender moglie.
Allora tutti s’interessarono del bel caso.
— È dunque vero? Bravo, don Ciccio….
— La vedova Sincona, don Ciccio? Un po’ matura, ma donna di casa…. Bravo!
— La nipote di mastro Stefano il crivellatore? Troppo giovane, don Ciccio. Badiamo!
Quasi avesse dovuto sposare, venti, trenta donne!
Ma i mesi passavano, e lui non sposava nessuna delle tante che gli venivano appioppate come future mogli.
Poi…. Qui comincia il mistero.
Mistero! L’ho detto anch’io, al pari di tanti altri. In questo momento però mi vien da riflettere che non c’è niente di misterioso nella condotta di don Ciccio. E se mi son lasciato scappar di bocca ch’egli ha commesso una cattiva azione sposando la bella figlia dei Mandrà, voglio riconoscere, caro cavaliere, davanti a voi, che ho avuto torto. Le cattive azioni consistono nell’intenzione. Uno sbaglio, — neconvenite? — non potrà mai esser detto cattiva azione. Sbagli ne può commettere l’uomo più onesto del mondo, senza cessare per ciò di essere onesto.
E rifletto: — Sbaglio? Perché? — Bisogna vedere in che senso la prendeva lui da principio. Se, dopo, le circostanze si sono mutate che colpa ne ha un galantuomo?
Pare che le cose siano andate così:
Don Ciccio aveva visto Fina, la bella figlia dei Mandrà il giorno della festa della Madonna degli Angeli, durante la processione. Come se non avesse mai visto una donna!
Otto giorni dopo, si presentava al padre della ragazza.
— Quattro e quattro fa otto, chiedo la mano di vostra figlia.
— Otto e otto fa sedici, non ho mano di figlia da darvi!
— Sedici e sedici fa trentadue, me la prenderò a vostro marcio dispetto….
E mantenne la parola.
Fu una violenza; ma in certi momenti mi si affaccia alla mente il sospetto che la ragazza si sia lasciata rapire volentieri.
Gli graffiò la faccia? Gli strappò una ciocca di capelli? Certamente, vedendosi afferrata all’improvviso, quantunque già sapesse della richiesta e della risposta del padre, non poteva accarezzarlo, attaccarglisi a un braccio.
Stupore generale! Nessuno si sarebbe atteso un atto di simile arditezza da don Ciccio Curti.
Fin qui, però, gli avvenimenti non hanno nulla di straordinario.
Massaio Mandrà strillò, minacciò il finimondo, non voleva affatto dare il suo consenso. Ma quando don Ciccio, per bocca del Notaio Brà-brà, che ci si era messo di mezzo, mandò a dirgli che rinunziava alla dote, benché la cosa potesse sembrare una canzonatura, perché la ragazza era figlia unica, si rabbonì, pur continuando a nicchiare.
Don Ciccio si era comportato da galantuomo, quantunque contadino. Dopo la prima sera del rapimento, aveva condotto la ragazza in casa del farmacista Milazzo, raccomandandola alla sua buona signora.
Avvenuto il matrimonio…. appena scorsa una settimana, ricevendo una visita della madre, le si era buttata tra le braccia piangendo:
— Ah! Mamma!… Mamma!
La mamma le aveva fatto un’interrogazione così brutale, che donna Fina aveva arrossito sino alla radice dei capelli.
— No! No, mamma! — protestava. — È pazzo…. non so!… Mi fa paura!
— Pazzo? Perché?
— Mi dice: Va’ a letto, vengo sùbito. E si mette ad andare su e giù per le tre stanze e la cucina. Gesticola, borbotta, non sembra lui; sposta seggiole, sposta oggetti, pesta i piedi. L’ho guardato dall’uscio della camera…. Mi fa paura!… Mamma!
— E poi?
— Poi, questa notte, sentendogli scendere cautamente le scale, ho aperto a fessura la finestra…. Andava via, come brancolando nel buio…. lo vedevo appena…. svoltò cauto…. E di lì a poco tornò, in fretta…. Portava qualcosa in una mano…. Io mi rimisi a letto…. Lo vidi entrare calmo. — Come? Non ti sei addormentata? — mi disse. — Io non ho potuto chiuder occhio, ma lui ha fatto tutto un sonno fino a stamattina….
Non vi stupite, caro cavaliere…. Vi annoio? No?Grazie…. Non vi stupite che io abbia potuto sapere questi intimi particolari; li ho saputi dopo parecchi anni, in gran confidenza, stavo per dire sotto sigillo di confessione. Perché i Mandrà sospettano tuttavia che don Ciccio Curti fosse un lupomannaro, e che fosse costretto dal suo male ad andare attorno quando faceva la luna, urlando, con la schiuma alla bocca…. Sciocchezza! Perché, egli andava fuori di casa ogni notte, assai prima della mezzanotte, e non urlava, non mandava schiuma dalla bocca…. Nè stava fuori più di un quarto d’ora, di mezz’ora al massimo, e tornava a casa tranquillo e dormiva tutt’un sonno fino alla mattina…. Ma i Mandrà sono contadini ignoranti.
Non vi riferisco, caro cavaliere, le minchionerie degli altri. Secondo parecchi, don Ciccio andava attorno con le Nonne. Faceva serrare a doppia mandata la porta di casa sua…. ma usciva e rientrava pel buco della serratura. E c’era chi giurava di averlo visto coi suoi propri occhi; e chi giurava di aver tentato di seguirlo, e tutt’a un tratto gli era sparito davanti. Minchionerie senza capo nè coda.
Figuratevi, caro cavaliere…. Vi annoio? No? Grazie; sto per finire…. Figuratevi quel che si fantasticò e si disse quando si seppe che donna Fina era scappata dalla casa del marito, rifugiandosi presso i genitori! I Mandrà non diedero a nessuno la sodisfazione di rispondere: È stato questo e questo! Don Ciccio poi pretendeva di far credere che sua moglie era andata dai suoi parenti per ragioni di salute…. Poteva dire la vera ragione? Chi gli avrebbe creduto, se non gli credeva neppure la moglie?
Vi confesso, cavaliere, che non oso di crederci nemmeno io! Eppure è la spiegazione più verosimile.
Una notte sua moglie, atterrita di quell’agitazione,di quella smania, avea voluto impedirgli di andar fuori; voleva, a ogni costo, sapere perché…. Voleva, soprattutto, sapere che significavano quei sassi che, ogni notte, egli riportava a casa, uno alla volta…. Ho dimenticato di dirvi ch’egli, ogni notte, tornava a casa con un grosso sasso in mano, e lo buttava in un canto del bugigattolo a pianterreno…. Quella cinquantina di sassi ammonticchiati là, la povera donna Fina li credeva cosa di magia, poiché suo marito sfuggiva di darle una spiegazione.
— Che te n’importa? — le rispondeva. — Mi servono per la fabbrica. — E rideva. — Non fanno ingombro.
Una notte, dunque, donna Fina aveva voluto impedirgli di andar fuori.
Dice — l’ho saputo dalla stessa bocca di lei, dopo la morte del povero don Ciccio — dice che egli, diventato più irrequieto, più smanioso, supplicava: — Lasciami andare; torno sùbito! — quasi con le lacrime agli occhi. Poi le si buttò ai piedi, singhiozzando.
— Perdonami! Perdonami!… Sono un gran ladro, d’istinto! Arrivata una cert’ora, di notte, dovrei andar a rubare, e soffro e smanio, perché la mia volontà dice di no, e…. un’altra volontà vorrebbe costringermi a commettere anche un delitto, pur di rubare!… Non mi riconosco io stesso in quei momenti. Ma ho vinto sempre io, sempre! Notte per notte, da anni!… Prima, per non uscire di casa, facevo chiudere a chiave la porta…. Ora non resisto più! Non potrei prender sonno se non rubassi…. qualcosa. Ed esco a rubare…. un sasso dal mucchio preparato per una fabbrica, laggiù!… Uno ogni notte!… E mi accheto, e posso dormire…. Ecco!… Non mi credi? — Era possibile? — concluse donna Fina. — E non gli ho creduto! E non ho più voluto stare con lui. Avevo paura! Lui dormiva,dopo di esser tornato a casa con uno di quei maledettissimi sassi; io non dormivo più…. Non ho saputo resistere…. Come a un confessore, don Felice!
— Ma questa del rubare è anche una vera malattia — le dissi.
— E se gli veniva quella di ammazzare la gente? Io avevo paura…. Soffrivo più di lui….
Come levarle dal capo che si trattava di pazzia e di magia? E lei e i suoi, intanto, non ne parlavano con nessuno per…. non disonorare la famiglia!
Io ora penso che don Ciccio Curti — se quel che egli disse alla moglie era vero — è stato più che un martire, un eroe! Ha dimostrato col suo esempio che non è difficile vincere anche un forte cattivo istinto, di quelli che la madre natura ha spesso il barbaro capriccio di regalarci fin dalla nascita.
E penso pure: Perché non dev’esser vero? Perché?
Ragiono bene, cavaliere? Eh! Cavaliere, che ne dite?
Il 6 luglio 1919 l’Airship britannico R-34 atterra a New York, portando a termine la prima traversata dell’Oceano Atlantico su di un dirigibile. Per gli inglesi era conosciuto come “Tiny”, che tradotto significa “piccolo”, ma piccolo non lo era affatto. Le cronache dell’epoca dicono che fosse grande come una corazzata e lo paragonano alla “Dreadnought”, entrata in servizio della Royal Navy britannica nel 1906 e, come esprimeva il suo nome, non temeva nulla. Il “Tiny” aveva una lunghezza complessiva da prua a poppa di 643 piedi, il doppio di un campo di calcio. La ditta di William Beardmore and Company Ltd. di Inchinnan, vicino a Glasgow, iniziò la fabbricazione del modello R34 il 9 dicembre 1917 per completarlo in poco più di un anno. Ogni accortezza moderna era stata adottata, persino la verniciatura dell’intera struttura serviva a prevenire la corrosione atmosferica che la “nave” avrebbe incontrato sull’Atlantico. La cabina di controllo era fornita di vetri di sicurezza “Triplex”. Ognuno dei cinque motori era un “Maori” di Sunbeam: un nuovo modello progettato per la Wolverhampton da un francese, Louis Coatalen, e destinato esclusivamente all’uso dei dirigibili. Non era, però, un motore Rolls Royce poiché alla fine della guerra nessuno dei motori Rolls Royce era disponibile in quanto prodotti solo per essere installati sugli aerei militari. Anche se il dirigibile R34 fu progettato durante il periodo bellico, non fu mai equipaggiato con armamento completo. Avrebbe potuto montare un considerevole carico di bombe ed anche un armamento pesante destinato alla difesa contro gli Zeppelin tedeschi. Nelle pagine del blog in inglese è possibile scorrere una serie di informazioni tecniche e le diverse prove che precedettero il viaggio transatlantico. La sera del 17 giugno 1919, ad esempio, l’R34 fu fatto sollevare per una prova adeguata prima del volo principale. L’idea era di fargli esplorare le coste baltiche tedesche. La nave svolse egregiamente le sue funzioni e volò anche in Danimarca, Norvegia e Svezia. Atterrò secondo le previsioni la mattina del 20 giugno dopo un viaggio di 54 ore. Il ministero dell’Aeronautica prese così la decisione di portare l’R34 negli Stati Uniti, e fu prevista anche l’alternativa di una rotta costiera verso nord nel caso in cui la nave aerostatica avesse esaurito il carburante. Due navi da guerra, la Renown e la Tigre, avrebbero seguito il volo come mezzi da rifornimento nel caso in cui il dirigibile si fosse trovato in difficoltà, supportando la trasvolata con rapporti meteorologici. Fu concordato che se si fosse trovato in difficoltà, l’R34 sarebbe stato rimorchiato. I piani organizzati a New York consistevano nella fornitura di idrogeno. Inoltre, un gruppo di 8 aviatori esperti fu inviato in America per organizzare e addestrare il personale di terra americano.
Il 1 ° luglio 1919 il dirigibile fu gassato al limite e caricato a pieno regime, e a fine serata era pronto. L’ora di partenza ufficiale è stato fissato alle 2:00 (GMT) del 2 luglio. Le previsioni del tempo erano favorevoli e, con qualche anticipo, alle 1.42 del mattino (GMT) fu dato il segnale di rilascio. L’R34 si alzò lentamente verso il nebbioso cielo notturno. La vita a bordo nei giorni successivi si è svolta secondo il programma prefissato, così i pasti e i tempi di riposo concordati. L’intrattenimento dell’equipaggio era assicurato da varietà di musiche jazz, che potevano essere ascoltate dal grammofono di bordo. Il viaggio procedette a un ritmo costante e una routine standard. Sembra che si sia verificato un solo problema. Alle 14.00 del primo giorno si scoprì che un clandestino era riuscito a salire a bordo del dirigibile e a nascondersi nel magazzino. Il numero delle persone a bordo non doveva superare le trenta unità, per necessità di peso e d’ingombro. Nonostante le disposizioni, due ore prima del volo, William Ballantyne riuscì a nascondersi approfittando dell’oscurità. Era uno degli addetti che aveva lavorato a terra, tant’è che portò con sé anche la mascotte dell’equipaggio, un gattino tabby chiamato “Whoopsie”. Le condizioni anguste e l’odore del gas, molto forte nella zona del magazzino, fecero insorgere una forte nausea, cosicché Ballantyne fu costretto ad uscire dal nascondiglio. Fu portato di fronte allo stato maggiore, ma fu deciso che nulla si poteva fare al riguardo. I presenti convennero che se avessero sorvolato la terra ferma, Ballantyne sarebbe stato espulso fuori bordo con il paracadute; ma dal momento che il prossimo approdo sarebbe stato in America, non si poteva che trattenerlo a bordo. Ballantyne fu impegnato come cuoco e per quanto riguarda il secondo clandestino, il gattino Whoopsie, servì ad offrire ulteriormente svago e conforto ai membri dell’equipaggio. Con un tempo instabile la traversata proseguì fino in America. L’R34 atterrò alle 9.54 del mattino del 6 luglio, dopo 108 ore e 12 minuti di volo. Quando fu revisionato il serbatoio, si constatò che c’erano 140 litri di carburante, sufficienti solo per altre 2 ore di volo a potenza ridotta. Il dirigibile sostò in America per 3 giorni prima di intraprendere il volo di ritorno. Durante questo periodo, come è facile immaginare, i membri dell’equipaggio hanno partecipato a una numerosa serie di eventi acclamati per la traversata storica.
LE TRAVERSATE TRANSATLANTICHE sono passaggi di persone e merci attraverso l’Oceano Atlantico tra l’America e l’Europa o l’Africa. I voli transatlantici superarono i viaggi a bordo dei transatlantici come modo predominante di attraversare l’atlantico nella metà del ventesimo secolo. Nel 1919 il Curtiss NC-4 divenne il primo aeroplano ad attraversare l’Atlantico seppur con più scali. Appena un anno dopo l’aereo inglese Vickers Vimy pilotato da Alcock e Brown fece il primo volo transatlantico senza scali da Terranova all’Irlanda. Sempre nel 1919 gli inglesi furono i primi ad attraversare l’Atlantico a bordo di un dirigibile. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).
«Il sogno di Olivetti è fare di Ivrea la capitale della cultura industriale italiana. Un progetto in cui far confluire cristianità e umanesimo, le scienze sociali e l’arte, la tecnologia e la bellezza». Scrive così Aldo Cazzullo nell’articolo del Corriere della Sera che presentiamo nel FLIP di oggi per commentare la notizia che «Ivrea, la città ideale della rivoluzione industriale del Novecento, è il 54esimo sito Unesco italiano. Un riconoscimento che va a una concezione umanistica del lavoro propria di Adriano Olivetti». Questa volta a parlare è il Ministro dei beni e delle attività culturali, Alberto Bonisoli, che ha annunciato l’iscrizione di “Ivrea Città Industriale del XX Secolo” nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO. La decisione è stata presa a a Manama in Bahrei durante i lavori del 42° Comitato del Patrimonio Mondiale, iniziati il 24 giugno e che termineranno il 4 luglio. Sin da ora Ivrea porta l’Italia in testa alla lista mondiale dei siti Unesco, organismo culturale dell’Onu: 54 sono quelli che rappresentano il nostro Paese, 52 quelli appartenenti alla Cina, 47 alla Spagna. Perché Ivrea? Con la fondazione della prestigiosa fabbrica di macchine per scrivere fondata nel 1908 da Camillo Olivetti, la città di Ivrea diviene un vero e proprio progetto industriale, sociale e culturale del XX secolo. Si sperimentano innovative idee sociali e architettoniche connesse a visionari processi industriali niente affatto scissi dal benessere della comunità locale. Questo spirito innovativo è colto nella sua essenza dalla scheda ufficiale che possiamo leggere per intero sulle pagine ufficiali dell’Unesco: «Il sito, che si trova in Piemonte e si estende per circa 72.000 ettari, è costituito da un insieme urbano e architettonico, di proprietà quasi esclusivamente privata, caratterizzato da 27 beni tra edifici e complessi architettonici, progettati dai più famosi architetti e urbanisti italiani del Novecento. Si tratta di edifici costruiti tra il 1930 ed il 1960 e destinati alla produzione, a servizi sociali e a scopi residenziali per i dipendenti dell’industria Olivetti. L’insieme rappresenta l’espressione materiale, straordinariamente efficace, di una visione moderna dei rapporti produttivi e si propone come un modello di città industriale che risponde al rapido evolversi dei processi di industrializzazione nei primi anni del ‘900».
ADRIANO OLIVETTI (Ivrea, 11 aprile 1901 – Aigle, 27 febbraio 1960) è stato un imprenditore, ingegnere e politico italiano, figlio di Camillo Olivetti (fondatore della Ing C. Olivetti & C, la prima fabbrica italiana di macchine per scrivere) e Luisa Revel e fratello degli industriali Massimo Olivetti e Dino Olivetti. Uomo di grande e singolare rilievo nella storia italiana del secondo dopoguerra, si distinse per i suoi innovativi progetti industriali basati sul principio secondo cui il profitto aziendale deve essere reinvestito a beneficio della comunità. Per tutelare e promuovere la figura di Adriano Olivetti e il suo pensiero gli eredi hanno costituito nel 1962 la Fondazione Adriano Olivetti con sede a Roma e a Ivrea. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).
Lasagne con formaggio grattugiato sopra (e varie spezie), sono tra i primi piatti di pasta consumati nel primo medioevo. Una lavorazione, quindi, semplicissima, dove è la pasta ad essere l’ingrediente principale. È in pratica una sfoglia sottile, ritagliata in quadrotti regolari. Le lasagne, in un’altra ricetta, erano cotte nel brodo di cappone e poi servite con grasso dello stesso cappone e formaggio. Questi riquadri, in alternativa erano presentati in strati sovrapposti, con un ripieno di noci. Nell’impasto potevano essere aggiunte chiare d’uovo o acqua di rose. Già nell’antichità la pasta si lavorava o meno colorata con zafferano. L’usanza durò fino al XVII secolo. Questa tecnica, in seguito, verrà riscoperta nell’età industriale.
In Italia la tendenza, già in epoca antica, fu quella di creare sempre nuovi formati. Così verranno realizzati I croseti, simili alle orecchiette pugliesi, o le formentine, somiglianti alle tagliatelle, citate nel 1337 e un secolo dopo dal cuoco Martino. Venivano consumate a Reggio Emilia. Le formentine erano dette, anche, pancardelle dai mantovani, forse simili alle attuali pappardelle. Queste rientrano nel menù di Domenico Romoli, cuoco professionista, impiegato al “servizio di bocca” nelle corti cardinalizie di Roma. Tra le sue ricette erano presenti le pappardelle alla lepre di Grosseto e di Arezzo, o pappardelle alla romana.
Alla fine del XV secolo, si trovano i longeti avantazadi, mentre, nel secolo seguente, appaiono i famosi strozzapreti, divenuti poi tradizionali a Napoli. Il cuoco Scappi cucina diversi piatti con formati vari, ma realizzati questa volta con semola di grano duro. Le sue ricette, ma in genere nel corso dell’intero secolo, tendono al dolce, come gusto predominante nella cucina dell’epoca. All’impasto viene, infatti, aggiunta una grande quantità di zucchero. Negli stessi impasti prende piede di inserire numerose uova.
Il cuoco Antonio Latini (nel XVII secolo) confeziona tagliolini con due uova intere più 2 tuorli. L’abbondanza di uova regna in una ricetta di Francesco Chapusot. Realizza, infatti, delle tagliatelle con ben otto tuorli in una libbra di farina, a cui viene aggiunto formaggio grattugiato (un’oncia) e burro fresco (mezza oncia). Una specie di tagliarini alla piemontese. Successivamente, nel XVII secolo, nell’impasto viene pure aggiunto del latte.
Nel 1610, Vittorio Lancellotti, cuoco professionista, presenta, in un banchetto, delle sfoglie di pasta ottenute con farina, latte, burro, rossi d’uova e pinoli. Le lasagne venivano, quindi, cotte e servite con una spolverata di parmigiano grattugiato. La stessa lavorazione è realizzata da Giovanni del Turco, musicista e quindi cuoco amatoriale, con un impasto di farina, latte e acqua tiepida. Esegue una ricetta di maccheroni alla veneziana, dalla forma dissimile da lunghi nastri o quadrati di pasta, di cui abbiamo parlato. Il piatto era portato in tavola, con un condimento composto da burro fresco, parmigiano grattugiato, con in più un tocco di cannella.
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