Il Premio Strega – La prima lettura affascina, la seconda… Strega

 

 

L’articolo della Stampa dal quale FLIP prende spunto risale, volutamente da parte nostra, al 2010 così non facciamo particolarità fra i quotidiani nazionali; d’altra parte la nota è sempre valida giacché tratteggia l’essenza del prestigioso premio. Le novità del 2018 si possono leggere, invece, su tutti i giornali, perché a Casa Bellonci, mercoledì 13 giugno, si è chiuso lo spoglio della prima votazione che designa i cinque finalisti dell’edizione 2018 del Premio Strega, promosso dalla Fondazione Maria e Goffredo Bellonci e da Liquore Strega con il contributo della Camera di Commercio di Roma e in collaborazione con BPER Banca e Fuis. La cinquina dei finalisti è resa pubblica. Eccola con i voti: Helena Janeczek con La ragazza con la Leica (Guanda) 256 voti, Marco Balzano con Resto qui (Einaudi) 243 voti, Sandra Petrignani con La corsara. Ritratto di Natalia Ginzburg (Neri Pozza) 200 voti, Lia Levi con Questa sera è già domani (Edizioni E/O) 173 voti, Carlo D’Amicis con Il gioco (Mondadori) 151 voti. Come si vede la prima novità dello Strega di quest’anno sono tre donne in finale; l’altra novità è il primo posto della cinquina conquistato da un editore che non fa parte del gruppo Mondadori-Einaudi-Rizzoli, poiché si tratta di Guanda. Per gli appassionati di premi letterari l’interesse è grande, in attesa fino al 5 luglio per la proclamazione del vincitore. La consistenza venale del premio è limitata, ma ciò che conta è il prestigio più per gli autori che per gli editori, poiché essendo quasi sempre quelli del gruppo di testa le vendite dei libri ricevono un incremento di cui spesso non hanno stretto bisogno.

Il Premio è legato fin dalla sua nascita nel 1947 alla casa produttrice del Liquore Strega, che ancora oggi lo sponsorizza. Allora il patron era Guido Alberti, comproprietario e amministratore della fabbrica di Benevento produttrice dei torroni Alberti e del Liquore Strega, ma noto al grande pubblico come attore televisivo e cinematografico. L’idea del premio si deve a Maria e Goffredo Bellonci, che hanno istituito l’omonima Fondazione per gestire e promuovere l’annuale manifestazione. La giuria dello Strega è formata da 400 “Amici della Domenica”. È l’appellativo con il quale Maria Bellonci chiamava gli ospiti del suo salotto negli anni di guerra, «tentativo di ritrovarsi uniti per far fronte alla disperazione e alla dispersione». Il primo vincitore di quel fatidico 1947 è stato Ennio Flaiano, con Tempo di uccidere, edito da Longanesi; su Wikipedia l’elenco dei vincitori successivi. La votazione avviene in diretta televisiva: durante la trasmissione si estrae ogni voto e si aggiorna la lavagna dei totali. Chi risulterà vincitore quest’anno? Proviamo a immaginarlo, ma intanto scorriamo le note biografiche e le schede editoriali dei cinque libri finalisti del Premio Strega LXXII edizione sulportale ufficiale della manifestazione.

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Cinquina Premio Strega 2018: (da sinistra) Helena Janeczek, Carlo D’Amicis, Marco Balzano, Lia Levi, Sandra Petrignani. Foto: Musacchio & Flavio Ianniello

 

IL PREMIO STREGA è un premio letterario che viene assegnato annualmente all’autore o autrice di un libro pubblicato in Italia, tra il 1º aprile dell’anno precedente ed il 31 marzo dell’anno in corso. Dal 1986 è organizzato e gestito dalla Fondazione Bellonci. È universalmente riconosciuto come il premio letterario più prestigioso d’Italia, oltre a godere di una consolidata fama in Europa e nel resto del mondo. Il Premio è stato istituito a Roma nel 1947 da Maria Bellonci e da Guido Alberti, proprietario della casa produttrice del Liquore Strega, che dà il nome al Premio e si ricollega alle storie sulla stregoneria a Benevento che risalgono ai tempi dell’antichità classica. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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LA STAMPA

Perché il Premio Strega fa tanto discutere?

Trasformazioni tecnologiche e di fruizione tra carta e digitale

 

Questo lavoro di tesi, di cui è autrice Beatrice Rachello, elaborato presso Iuav (Venezia) Magistrale in Design, Comunicazioni Visive e Multimediali, nasce con l’intento di fotografare quella che è la situazione delle riviste oggi, un periodo in cui il web e le tecnologie digitali sono entrate profondamente nel mondo della comunicazione e delle informazioni. Lo scopo della ricerca è quello di registrare come le riviste si metterlo in relazione con gli strumenti digitali e con Internet, come li integrano nelle proprie modalità di trasmissione delle informazioni fino a renderli parte intrinseca del proprio sistema. Pertanto si viene a realizzare un processo di trasformazione delle pubblicazioni periodiche, fruibili sul mezzo cartaceo, in piattaforme interrnet che hanno la possibilità di utilizzare diversi canali.

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L’Indice dei libri proibiti – La risposta alle nuove idee di Dio e di Chiesa

 

 

Il 14 giugno 1966 la Congregazione per la dottrina della fede (nota e nata come Santa Inquisizione o Sant’Uffizio) annuncia l’abolizione dell’Indice dei libri proibiti. Si tratta della bibliografia delle opere valutate negative, lesive degli interessi della Chiesa Cattolica o dello Stato, per le quali è intimata la proibizione di stampa e di lettura. Tali indici, che comprendono liste di libri, autori, generi, argomenti, sono stati compilati sin dalla prima istituzione da organismi prescelti per il controllo della censura. Una storia lunga che comincia con la Sorbona, che tra il 1544 e il 1556 redige sei cataloghi di libri proibiti, quasi contemporaneamente all’Università di Lovanio che, su ordine di Carlo V e Filippo II (padre e figlio), tra il 1546 e il 1558 ne redige tre. Fortunatamente questi indici non sono mai stati emanati, perché non mancarono le vive reazioni di quelli che oggi chiamiamo “organismi di categoria”, librai e tipografi. Tempo un anno e papa Paolo IV attraverso l’inquisizione romana (contraltare di quella spagnola) promulga nel 1559 il cosiddetto indice paolino considerato il più radicale e severo della storia. Il potere censorio è posto nelle mani del Sant’Uffizio e della propria rete, escludendo tutti gli altri organismi ecclesiastici, persino i Vescovi. Libri fondamentali, ieri come oggi, quali il Decameron di Boccaccio, l’intera opera di Machiavelli, di Rabelais e di Erasmo da Rotterdam, sono “messi all’indice”, e l’espressione divenne da allora comune per dire che certi particolari libri non possono essere né trovati in circolazione né letti. L’indice tridentino, il cui nome contraddistingue l’elenco promulgato sotto papa Pio IV nel 1564 si presenta meno intransigente. Ricordiamo, però, che siamo all’indomani della conclusione del Concilio di Trento, che avrebbe dovuto “conciliare” cattolici e protestanti, ma finì per istituire, dopo la caccia alle streghe, anche la caccia a luterani e calvinisti. Per cui l’indice paolino è rivisto e corretto in modo da colpire preferibilmente gli eretici, ovvero coloro che hanno fatto una “scelta diversa” dalla religione cattolica. L’indice tridentino rimane formalmente in vigore fino al 1596, applicato in Italia e in buona parte d’Europa, salvo che in Spagna, che a partire dal 1559 adotta un indice che segue i dettami dell’Inquisizione spagnola. I libri proibiti, ad ogni edizione dell’indice, si assommano ai precedenti, qualcuno fra questi può essere incluso in una lista meno severa. Tutto dipende dalle esigenze ecclesiali, dall’ottica pontificia e dal potere dei vescovi che soffrono a sottostare alle volontà dell’Inquisizione. Anche perché tale volontà si è sdoppiata in due congregazioni, quella del Sant’Uffizio e quella dell’Indice. Nel 1596 Clemente VIII promulga l’indice clementino, che persegue le linee del Concilio tridentino e vi aggiunge le registrazioni operate negli altri indici europei dopo il 1564.

Inizialmente la censura riguarda i libri di carattere religioso, ma sconfitta l’eresia riformistica l’obiettivo divengono da una parte i libri di magia dall’altra le opere di letteratura e scienza. Le aumentate esigenze di alfabetizzazione e soprattutto di autoistruzione impensieriscono le autorità religiose preposte. È proibito stampare e leggere, ma anche detenere in biblioteche private libri non proibiti, ma che rasentano la proibizione. Si tollerano i classici latini. Si allarga il controllo alla letteratura popolare. Una bolla di Pio IV, del 1564, impone il giuramento a tutti gli insegnanti, sottoposti a dichiarare al vescovo generalità, scuola nella quale insegnano, materie e testi utilizzati. Il potere religioso si allarga dai libri proibiti ai brani proibiti contenuti in libri leciti. Si vengono così a compiere espurgazioni dei passi sconvenienti. Si interviene sui libri di medicina e su quelli scientifici. A partire dagli anni Ottanta del Cinquecento si contrastano interpretazioni non allineate con la filosofia aristotelico-scolastica. Il 5 marzo 1616 la Congregazione dell’Indice bandisce trattati che sviluppano teorie “de mobilitate terrae et de immobilitate solis”. Si colpisce l’opera di Copernico diffusa ben settant’anni prima. Il 17 febbraio 1600 sale al rogo Giordano Bruno e nel 1633 si porta sotto processo Galileo. La parola d’ordine fra gli autori è “autocensura”. I libri proibiti sono stampati all’estero, per lo più in Olanda, e giungono in Italia di nascosto. Se ne trovano persino negli stessi collegi gesuitici. Aumentano le richieste per ottenere “patenti di lettura” a scopo di studio. Nel corso del Seicento tali licenze sono rilasciate dal Sant’Uffizio solo a studiosi anziani e di comprovata fede e cultura. Insomma, le norme lasciano spazio al carattere di discrezionalità e le licenze sono più facilmente ottenute da quanti frequentano gli ambienti ecclesiastici. Dopo la metà del secolo il rafforzamento dello Stato laico controbilancia il potere religioso. Il controllo diviene meno pressante e, nell’ambito dei salotti aristocratici, più un libro è interdetto più è richiesto o scambiato. Il 18° secolo segna il declino degli indici; si rafforza il carattere illuministico. Anche la Chiesa ritiene d’intraprendere una revisione delle norme, aprendosi alle riforme sociali dell’epoca. L’indice del 1758 limita le proibizioni e rimuove del tutto il divieto di lettura della Bibbia in lingue differenti dal latino. L’indice, comunque, sopravvive fino al 1966, quando è abolito da papa Paolo VI, con il Concilio Vaticano II. Oggi la Chiesa non pone più divieti, ma questi divieti sono posti dalla nostra stessa società, per perseguire libertà religiose o sociali: ne leggiamo un esempio nell’articolo di Libero che segue.

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L’INDICE DEI LIBRI PROIBITI (in latino Index librorum prohibitorum) fu un elenco di pubblicazioni proibite dalla Chiesa cattolica, creato nel 1559 da papa Paolo IV. L’elenco fu tenuto aggiornato fino alla metà del XX secolo e fu soppresso dalla Congregazione per la dottrina della fede il 4 febbraio del 1966. Dal 1571 al 1917 il compito della compilazione del catalogo dei libri proibiti fu di competenza della Congregazione dell’Indice. Sin dalle sue origini le lotte della Chiesa contro le eresie comportarono la proibizione di leggere o conservare opere considerate eretiche: il primo concilio di Nicea (325) proibì le opere di Ario, papa Anastasio I (399-401) quelle di Origene, nel 405 Innocenzo I scrisse una lista di libri apocrifi, papa Leone I (440-461) proibì i testi manichei. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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LIBERO

All’indice i libri di Euripide e Shakespeare

Museums in an Age of Migrations

 

This volume collects a series of essays that offer a starting point for the European project MeLa-European Museums in an age of migrations, an interdisciplinary research that reflects on the role of museums and heritage in relation to the contemporary global and multicultural world. International scholars and researchers interrogate themselves on issues of history, memory, identity and citizenship, and explore their effects on the organization, functioning, communication strategies, exhibition design and architecture of museums.

Questo volume raccoglie una serie di saggi che offrono un punto di partenza per il progetto europeo MeLa-European Museums in un’epoca di migrazioni, una ricerca interdisciplinare che riflette sul ruolo dei musei e del patrimonio in relazione al mondo globale e multiculturale contemporaneo. Studiosi e ricercatori internazionali s’interrogano su questioni di storia, memoria, identità e cittadinanza, ed esplorano i loro effetti sull’organizzazione, sul funzionamento, sulle strategie di comunicazione, sul design della mostra e sull’architettura dei musei.

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Alberto Giacometti – Faceva pittura e scultura per vederci meglio e capire

 

Busti e teste di uomo raffiguranti il fratello Diego eseguiti da Giacometti tra il 1954 e il 1956, in bronzo e gesso (foto Andrew Toth / Getty Images)

 

«Mi sorprende l’uomo della strada più di ogni scultura o dipinto. Ad ogni momento la folla scorre incessantemente per riunirsi e allontanarsi di nuovo. Senza posa, forma e riforma composizioni viventi di incredibile complessità. Ed è proprio la totalità di questa vita che desidero riprodurre in ogni cosa che faccio». Dall’8 giugno fino al 12 settembre, con oltre 175 opere in una mostra intitolata semplicemente “Giacometti”, il Solomon R. Guggenheim Museum di New York rende omaggio a questo artista svizzero, nato nel 1901 a Borgonovo vicino al confine italiano, protagonista imprescindibile del Novecento europeo. Il percorso espositivo comprende sculture, dipinti, disegni, fotografie d’archivio, oggetti, che abbracciano le creazioni elaborate nel corso di una vita, soffermandosi sul suo metodo di lavoro, documentato da istantanee, schizzi e diari. Attraverso le opere esposte è possibile cogliere anche la speciale “relazione storica” tra il Guggenheim stesso e l’artista Giacometti. Nel lontano 1955, in una sede provvisoria, il museo aveva già esposto al pubblico per la prima volta la sua produzione incentrata particolarmente sulla scultura. Dopo la sua scomparsa, nel 1974 gli rese ancora omaggio con una retrospettiva ospitata all’interno dell’avvolgente edificio realizzato da Frank Lloyd Wright. E molte, opere chiave dell’artista, è possibile ammirarle nella collezione permanente del museo. Visionario e introverso, Alberto Giacometti ha trascritto nell’arte del secondo dopoguerra, attraverso segni indelebili, il sentimento del proprio tempo. Ha convertito in materia artistica quanto di esistenziale scaturiva dall’angoscia e dal trauma di una società devastata dal conflitto: «Per me – asseriva – l’arte è il giusto mezzo per cercare di sapere com’è il mondo esterno. Quello che conta per me è solamente il soggetto, l’uomo». Le sue esili e filiformi figure umane – inconfondibili espressioni, alle quali si lega gran parte della sua celebrità – sono sparse lungo la rotonda del museo. Non manca il bronzo de ‘L’homme qui marche‘ (L’uomo che cammina), battuto da Sotheby’s nell’asta del 2010 per circa 75 milioni di euro, prezzo mai pagato al mondo per una scultura. Rappresenta l’essenza più intima dell’artista: un’esile figura, alienata, procede verso un futuro incerto, isolato in un contesto etereo e inesistente: «Ci vuole una energia straordinaria per far stare in piedi le mie figure, un istante dopo l’altro, c’è sempre nello spazio e nel tempo la minaccia di una caduta, della morte».

La mostra è stata curata da Megan Fontanella, specialista di “Modern Art and Provenance” del Guggenheim e Catherine Grenier, direttrice della Fondazione Giacometti di Parigi, con il sostegno di Mathilde Lecuyer-Maillé sempre della Fondazione Giacometti e Samantha Small, assistente curatrice dello stesso Guggenheim. La selezione ad opera del team curatoriale, dando forma a “Giacometti”, restituisce la ricerca della fragile essenza umana che l’artista ha sempre avuto necessità di esprimere. Le molteplici sculture presentate nel percorso di visita, alcune poste su piedistalli ed osservabili all’intorno, esprimono l’esemplare dimostrazione della sua indagine creativa. Grazie ad uno speciale focus, che espone sculture in gesso, fotografie, diari e schizzi – ovverosia i documenti importanti del “dietro le quinte”, quasi una estrapolazione del suo atelier – il visitatore è guidato progressivamente a comprendere l’universo creativo e compositivo di Giacometti. Agli ultimi 20 anni della sua vita artistica si riferiscono, invece, i lavori in gran parte ubicati nella High Gallery del museo. Tali opere sintetizzano le tre linee di ricerca sperimentate a conclusione della sua esistenza: i nudi femminili in piedi, le figure maschili che camminano e i busti scultorei che ritraggono amici e componenti della propria famiglia. «Io – commenta in questi anni – faccio pittura e scultura per mordere nella realtà, per difendermi, per nutrire me stesso… per tentare – con i mezzi che oggi mi sono propri – di vederci meglio, di capire meglio ciò che ho intorno, capire meglio per essere più libero, più forte possibile, per spendere, per spendermi il più possibile in ciò che faccio».

 

ALBERTO GIACOMETTI (Borgonovo di Stampa, 10 ottobre 1901 – Coira, 11 gennaio 1966) è stato uno scultore, pittore e incisore svizzero. Alberto Giacometti nacque a Borgonovo di Stampa, nel Canton Grigioni (Svizzera), il 10 ottobre 1901 da Giovanni Giacometti, un pittore post-impressionista svizzero, e da Annetta Stampa, svizzera discendente di rifugiati protestanti italiani. Giacometti cominciò a disegnare, a dipingere e a scolpire assai giovane. Tra l’altro fece spesso dei ritratti di suo cugino Zaccaria Giacometti, poi noto professore di diritto pubblico all’Università di Zurigo che visse con lui come «fratello maggiore». (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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CORRIERE DELLA SERA

Giacometti al Guggenheim

Storia, fasti, declino e nuove prospettive di Topolino in Italia

 

Topi e paperi – in maschera – hanno raccontato vizi e virtù degli italiani. Topolino ha attraversato gli ultimi settant’anni di storia del Belpaese, dal conflitto mondiale passando per la guerra fredda, fino alla crisi economica. I personaggi Disney sono diventati, in Italia, parte delle nostre famiglie, compagni di banco: intere generazioni sono cresciute leggendo le avventure di questi eroi di carta. Educazione, divertimento e satira, questa è stata la chiave di successo della multinazionale dell’intrattenimento. Esiste oggi ancora questo stretto rapporto fra il fumetto Disney e l’Italia contemporanea? È ancora capace di raccontare la Storia? Ha senso la sua esistenza? Andrea Tosti cerca di rispondere alle domande con uno studio sulla scuola di comics più famosa al mondo: un excursus storico e sociologico per appassionati o semplici lettori.

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Karl Elsener – Inventò il celebre coltellino rosso con la croce bianca

 

 

Il personaggio del FLIP di oggi probabilmente sfugge ai più: Karl Elsener. Il prodotto che ha inventato e brevettato il 12 giugno 1897 lo conoscono tutti. È il famoso “coltello da soldato”, maggiormente noto come “coltellino svizzero”. Il personaggio di cui, invece, parla l’articolo del quotidiano inglese “Indipendent” si riferisce a Carl Elsener, scomparso nel 2013: «uomo d’affari che ha trasformato il coltellino svizzero in un prodotto globale». Apparteneva alla terza generazione d’imprenditori che con il brand Victorinox hanno prodotto da fine Ottocento il famoso coltello multifunzionale dal manico rosso con la croce bianca svizzera. Croce bianca per così dire, perché le cronache recenti informano sulla pressione degli investitori e di gruppi musulmani in Svizzera che hanno portato le compagnie simbolo del paese, quali Swatch, Tissot e la chiaramente Victorinox, ad eliminare la croce bianca, se non altro, dalle pubblicità che compaiono nei paesi arabi e asiatici. La Victorinox, nello specifico, ha sostituito la croce con la lettera “V”. Autocensura. Per rimanere sul tema, aggiungiamo che dopo l’11 settembre 2001 a New York, le vendite hanno subito un calo del 40%. La Wenger, storica concorrente, è entra in crisi, tanto che ad aprile 2005 la società è stata acquistata dalla stessa Victorinox. La ragione è dovuta alla modifica delle norme di sicurezza aeroportuali che proibiscono di portare a bordo degli aerei, nel bagaglio a mano, coltelli tascabili in precedenza venduti nei negozi duty-free. Oggi fuori dagli aeroporti, dunque, possiamo acquistare indifferentemente i coltellini, pubblicizzati come “Original Swiss Army Knife” i Victorinox, e “Genuine Swiss Army Knife” i Wenger. Il cult ideato da Karl Elsener è richiestissimo ovunque, perché come diceva un vecchio slogan «nessuna attività umana è imprevista, per ogni imprevisto c’è il suo attrezzo». Il modello di punta, Swisschamp, assolve ad una miriade di funzioni differenti. Questo vale anche per l’intera gamma di circa 100 modelli, perché il coltellino si propone di soddisfare ogni necessità: cucchiaio, forchetta, bussola, cacciavite, apriscatole, seghetti per legno e metallo, stuzzicadenti, pinze e pinzette, forbici, portachiavi, lente d’ingrandimento, spatola farmaceutica, lima, altimetro, barometro, sveglia, termometro. Si trovano incorporati attrezzi inimmaginabili.

Inizialmente Karl Eisener apre nel 1884 a Ibach (dove ancora oggi risiede la fabbrica) un’attività per la produzione di posate. Rappresenta l’alternativa alla scelta di molti giovani svizzeri di emigrare nel Nuovo Mondo alla ricerca di lavoro. Necessitano, però, ingenti forniture e l’esercito potrebbe essere un buon committente. Fino ad allora aveva acquistato coltelli fabbricati in Germania. Come tutte le storie che si rispettano i primi tentativi di imporre sul mercato i suoi “coltelli da soldato” lasciano Karl Eisener coperto di debiti da saldare. Occorre correggere problemi di peso ed aumentare le funzionalità. Il nuovo progetto è registrato, come dicevamo, il 12 giugno 1897 e corrisponde al modello storico attualmente conosciuto. Questa volta il contratto con l’esercito svizzero va a buon fine e il nuovo prodotto incontra anche il favore del grande pubblico. Carl II, alla morte del fondatore, decide che è giunto il momento di fissare bene il carattere del prodotto. A cominciare dal marchio di fabbrica che si chiamerà come mamma Victoria. L’industria tramuterà, nel 1921, il nome in Victorinox, per evidenziare, con l’aggiunta della dicitura “inox”, l’utilizzo dell’acciaio inossidabile che contraddistingue a livello internazionale la qualità del materiale. Da allora l’espansione è continuata, come dimostra l’articolo di Phil Davison di seguito. Carl III è entrato a far parte dell’azienda come apprendista nel 1937, appena  lasciata la scuola. È subentrato al padre quale amministratore delegato nel 1950. All’epoca i coltelli erano ancora fatti a mano; ma per mantenere i livelli di produzione sono stati introdotti macchinari industriali. Ciò ha permesso di rispondere alle esigenze del dopoguerra provenienti dal personale dell’esercito, della marina e dell’aeronautica statunitensi con sede in Europa. E sono proprio gli americani che, riluttanti ad utilizzare per quel prodotto tanto funzionale il nome originale in lingua tedesca “Offiziersmesser” (vale a dire “coltellino”) cominciano a chiamarlo per la prima volta “Swiss Army Knife” coltellino dell’esercito svizzero. Oggi, nonostante le flessioni di fatturato a causa della “guerra al terrore”, dopo l’11 settembre, nuove linee di prodotto hanno aiutato a mantenere attiva l’azienda di famiglia, continuando a dare lavoro ad uno staff di 2.000 persone, che fabbricano giornalmente 60.000 coltelli venduti in più di 135 paesi.

 

KARL ELSENER (9 October 1860 – 26 December 1918) was a Swiss cutler, inventor and entrepreneur. Karl Elsener completed an apprenticeship as a knife maker in Zug. After some journeyman years he opened a factory in Ibach, Switzerland in 1884 for the manufacture of knives and surgical instruments.[3] He invented the Swiss army knife in 1891 and developed his knife manufacturing company into what has become Victorinox. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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INDEPENDENT

Carl Elsener: Businessman who transformed the Swiss Army Knife into a global product

I due tipi di pasta a confronto: quella secca e quella fresca

 

I due tipi di pasta, quella secca e quella fresca – la prima realizzata con semola di grano duro, e la seconda con farina bianca di grano tenero – hanno accompagnato sin dal medioevo, lo sviluppo del mercato. Storicamente, però, la pasta fresca ha sempre avuto la preferenza culinaria, mentre quella secca era limitata sostanzialmente al popolo. Nel secolo scorso, la pasta secca, con l’industrializzazione, ha conquistato il mercato e i consumi di tutti. Vi è stata un’esplosione di ricette che hanno evidenziato il prodotto stesso. La pasta all’uovo, pur commercializzata, è rimasta a livello domestico. Tuttavia, il mercato della pasta fresca, ultimamente, sta recuperando punti a suo favore, grazie a sempre nuovi formati, ma da consumare in pochi giorni. Evidentemente, il pubblico gradisce le “novità”.


Gli inizi medievali

Al tempo della classicità romana, esistevano solo due termini per indicarla: lagana e tracta, che consistevano in semplici sfoglie di pasta. Tuttavia, tutti gli storici, indicano gli arabi come gli inventori della pasta. Questa comunque, era rappresentata da una specie di spaghetti e dalla pastina da brodo.
La cucina italiana medievale, invece, sin dagli inizi, presenta una grande attenzione verso la pasta. Esistevano, già agli albori (tra XIV e XV secolo), ricettari di cucina ricchi di varianti nel prepararla. Si contavano almeno 120 ricette differenti. I ricettari medievali erano finalizzati esclusivamente alla cucina dei nobili, che prediligevano, soprattutto, la pasta fresca e quella ripiena. In ogni caso, era un cibo per ricchi e non per tutti. I ricettari, quindi erano scritti per i grandi cuochi professionisti.
Nello stesso periodo, nascono i primi formati di pasta. Nei ricettari vengono, altresì, descritte le modalità di fattura. O si ricavava dall’impasto una sfoglia tirata a mattarello, o si producevano con le mani dei piccoli formati, caratterizzati con le dita stesse. Nel primo caso, si ricavavano dalla sfoglia tagliarini, pancardelle, longeti, triti e formentine. Sempre dalla sfoglia, ma tagliata in formato piccolo, si ricavavano bindelle o stringhe per la creazione dei maccheroni. Nonostante quello che si pensi, sin dagli inizi, era presente anche la cosiddetta pasta ripiena, molto apprezzata anche a quel tempo, che aveva origine dal laganon. Il formato dei vermicelli era ancora poco citato nei ricettari medievali. Così come passava sotto silenzio la cosiddetta pastina graniforme da brodo, tanto sviluppata nel mondo arabo. Nei testi di Martino, del XV secolo, appaiono, però, i Millefanti, costituiti da palline di pane e farina, della grandezza di chicchi di grano (o di riso), da consumarsi nel brodo, o di manzo o di pollo. Se per il momento non possono essere considerati pasta a tutti gli effetti, ispireranno in seguito la pastina che noi tutti conosciamo. Infatti, nel XVI secolo, Bartolomeo Scappi, cuoco pontificio, crea i Millefanti fatti con la farina e poi essiccati. Quindi un primo formato di pasta, che in seguito darà origine alle pastine da minestra, chiamate sementine o semoline. Una vera e propria miniera di formati diversi, nel XVIII secolo. Si concretizzava, così, nel lungo tempo, l’influsso culturale dovuto al regno musulmano di Spagna.
Il brodo e le minestre avevano grande importanza nell’alimentazione medievale. Esiste, in particolare, una ricetta del XIV secolo, in un manoscritto anonimo, che ci fa capire il gusto delle pietanze medievali. È la ricetta dei “vermicelli a brodetto”. Essa era a base di brodo di carne o di pesce, con latte di mandorle, pezzi di salsiccia fritti e spezie varie. In esso tortelli cotti senza involucro.
Raro è il caso di trovare nei ricettari italiani del XIV e XV secolo, l’uso di pasta lunga nelle minestre. Questo perché l’attenzione in Italia, mirò alla creazione di piatti di pastasciutta, con ingredienti ed accostamenti innovativi. Migliorando e variando i condimenti, si diede vita ad una cucina impensabile ai loro tempi: quella della pasta attuale.

Antonio Meucci – Quando 10 dollari possono defraudare un’inventore

 

Antonio Meucci

 

Martedì 11 giugno 2002, a Washington, il congresso degli Stati Uniti, con la risoluzione 269, ha riconosciuto ufficialmente che Antonio Meucci è il vero inventore del telefono. Dopo la dichiarazione del congresso, si è mosso anche il museo Garibaldi-Meucci. Dal 1962, infatti, la fabbrica di candele di Antonio Meucci a Staten Island, New York – dove ha lavorato anche Giuseppe Garibaldi – è stata restaurata e i cimeli esposti al pubblico. «Per oltre 50 anni il museo ha svolto la sua missione di preservare le eredità di questi grandi uomini e di promuovere la comprensione del patrimonio italo-americano attraverso programmi e corsi culturali, artistici e educativi», così nella nota d’accoglienza. In virtù di ciò, la direttrice del museo Garibaldi-Meucci, Emily Gear, e il Comitato degli italo-americani, presieduto dal giudice della Corte Suprema Dominic R. Massaro, hanno chiesto in modo formale che anche nei libri di testo scolastici statunitensi la scoperta del telefono sia rettificata e attribuita correttamente ad Antonio Meucci e non all’americano Alexander Graham Bell. Lo scozzese passa, dunque, in secondo piano, anche se Meucci morì povero in canna, mentre Bell non solo assurse a gloria, ma accumulò una fortuna proprio grazie all’invenzione. Un caso esemplare che la storia ripete con ordinaria facilità.

Il fiorentino Meucci, non è un vero e proprio scienziato, ma un autentico e brillante inventore, titolare e depositario di ben 22 brevetti. Ne enumeriamo solo alcuni: filtri per la depurazione delle acque (1835), sistema per la doratura galvanica delle spade (1844), apparecchio per elettroterapia (1846), procedimento per la pietrificazione dei cadaveri (1849), metodo per decolorare il corallo rosso (1860), bruciatore per lampade a cherosene (1862). Ma chi è Meucci? La scheda che troviamo su Wikipedia (di seguito) è precisa, per cui vale descrivere solo i tratti salienti. Antonio Meucci nasce a Firenze nel 1808. Conclusi gli studi all’Accademia di Belle Arti, per sette anni svolge l’attività d’impiegato doganale, poi è assunto dal Teatro della Pergola quale aiuto attrezzista. Non si limita al lavoro ordinario, ma grazie alla sua creatività escogita strani macchinari di scena. La sua fama è tale da essere richiesto nel 1835 dal Teatro Tacon dell’Avana. Con lui parte la moglie Ester, che fa la costumista. Meucci idea un nuovo complesso di sipari e installa una macchina, importata dagli Stati Uniti, con la quale alzare e abbassare il livello del palco. Ben presto gli amici, a conoscenza delle sue elaborazioni, gli consigliano New York. Nel 1850 vi si trasferisce e qui conosce anche Giuseppe Garibaldi, che lo convince ad avviare una qualche attività e dare lavoro non solo a lui, ma anche agli altri esuli italiani. Meucci apre la prima fabbrica di candele steariche delle Americhe. Ricorderà Garibaldi: «Antonio si decise a stabilire una fabbrica di candele e mi offrì di aiutarlo nel suo stabilimento. Lavorai per alcuni mesi col Meucci, il quale non mi trattò come un lavorante qualunque, ma come uno della famiglia, con molta amorevolezza». Meucci ha però una invenzione da perfezionare, un chiodo fisso: quand’era ancora alla Pergola aveva già architettato un primitivo apparecchio: una sorta di tubo per comunicare dal palcoscenico. A Cuba, grazie ai suoi studi sull’elettricità, aveva poi scoperto il modo di trasmettere la voce. Una volta a New York gli esperimenti sono ora condotti in modo più sistematico. Il caso vuole che nel 1854 Ester, sua moglie, è immobilizzata a letto dall’artrosi deformante. Occorre concepire un sistema di comunicazione tra il laboratorio, posto nello scantinato dell’edificio, e la camera matrimoniale al secondo piano. Con qualche mezzo di fortuna idea il “teletrofono”: gli bastano una scatola di sapone da barba e un diaframma di metallo. È il vero prototipo del telefono. Le avversità, però, non mancano, perché nell’estate del 1871 è ferito ad una gamba dall’esplosione della caldaia, mentre è in viaggio sul traghetto Westfield, di collegamento fra Staten Island dove abita e New York. Non può camminare; perde il lavoro. La situazione economica precipita e si riduce al buon cuore degli amici.

Non si perde d’animo: a fine anno con tre italiani dà vita alla Telettrofono Company. La società si propone di portare avanti gli esperimenti, di estendere le attività in Europa e in altre parti del mondo. Occorre però depositare brevetti, ma non c’è la giusta disponibilità di capitale. Dissolte le chimere della società nell’arco di un anno, Meucci si presenta al Patent Office di New York e versa 20 dollari raggranellati con una colletta fra gli amici per un brevetto provvisorio. Come finisce l’illusione lo sintetizza la risoluzione 269 approvata dal congresso degli Stati Uniti. Meucci, vivendo di assistenza pubblica, non è in grado di rinnovare l’avvertenza dopo il 1874. A marzo del 1876, Alexander Graham Bell, che conosce gli esperimenti e i materiali di Meucci, conservati dopo il fallimento della Telettrofono Company, ottiene il brevetto definitivo che lo accredita quale inventore del telefono. Meucci, naturalmente, solleva il caso in Tribunale. Il 13 gennaio 1887, il brevetto sta per essere annullato per frode e falsa dichiarazione di Bell, avendo asserito che i progetti da lui presentati si riferiscono ad una “nuova invenzione”, mentre le prove portate da Meucci dimostrano che il telettrofono è largamente documentato. Meucci però muore nell’ottobre del 1889, mentre il brevetto concesso a Bell scade a gennaio del 1893. Quattro anni per avviare e consolidare il business. La fortuna gli arride del tutto: il caso è interrotto senza mai raggiungere un verdetto definitivo sulla questione di fondo: a chi riconoscere l’invenzione del telefono. Occorre aspettare il 2002, quando il congresso degli Stati Uniti, in linea definitiva, decide di attribuire la paternità dell’invenzione ad Antonio Meucci, in considerazione del fatto che «se Meucci fosse stato in grado di pagare la tassa di $10 per mantenere l’avvertenza dopo il 1874, nessun brevetto avrebbe potuto essere rilasciato a Bell». Un fatto è certo: Graham Bell, abile businessman, accumulò un bel patrimonio. La verità sul primato dell’invenzione è stata infine ristabilita. Rimane la soddisfazione morale per un Meucci morto defraudato e in povertà.

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VISITA IL MUSEO GARIBALDI_MEUCCI A STATEN ISLAND NEW YORK

Museo Garibaldi-Meucci

 

 

 

 

 

 

 

 

ANTONIO MEUCCIall’anagrafe Antonio Santi Giuseppe Meucci (Firenze, 13 aprile 1808 – New York, 18 ottobre 1889), è stato un inventore italiano, celebre per lo sviluppo di un dispositivo di comunicazione vocale accreditato da diverse fonti come il primo telefono, il cosiddetto telettrofono. Il brevetto del telefono fu ufficialmente intestato per la prima volta ad Alexander Graham Bell, che è anche noto nella cultura popolare mondiale e nella comunità scientifica internazionale come l’inventore dell’apparecchio. Una risoluzione approvata dal Congresso degli Stati Uniti d’America l’11 giugno 2002 ha comunque riconosciuto a Meucci l’invenzione del telefono, indicandolo ufficialmente come l’inventore e disconoscendo il dubbioso operato di Bell. Numerose enciclopedie accreditano Meucci come l’inventore del telefono. (Da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

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Intervista a Massimo Sideri sul suo libro “La sindrome di Eustachio. Storia italiana delle scoperte dimenticate”

Massimo Sideri – Storia italiana delle scoperte dimenticate

 

L’innovazione è stata a lungo italiana e lo è ancora, ma schiacciati come siamo dalla propaganda da Silicon Valley che confonde consapevolmente innovazione con successo commerciale ce ne siamo dimenticati, o forse non l’abbiamo mai saputo. Massimo Sideri, firma del ”Corriere della Sera” ed esperto di innovazione, sfoglia il passato remoto e prossimo isolando una serie di cortocircuiti scientifici e tecnici che sono da attribuire a uomini di genio italiani e che curiosamente sono poco noti.
Dagli occhiali al vuoto, dal pianoforte alla matita, dal copyright ai primi libri tascabili, dal microchip alle cellule staminali, una lista curiosa che rivela i risultati della creatività italiana all’opera.

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Massimo Sideri
La sindrome di Eustachio Storia italiana delle scoperte dimenticate

 

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