Giovanni Verga – L’amante di Gramigna

A Salvatore Farina.

Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l’abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà il merito di essere brevissimo, e di esser storico — un documento umano, come dicono oggi — interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore. Io te lo ripeterò così come l’ho raccolto pei viottoli dei campi, press’a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l’efficacia dell’essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne. Il misterioso processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotteraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano contradditori, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l’argomento di un racconto, e che l’analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narro oggi, ti dirò soltanto il punto di partenza e quello d’arrivo; e per te basterà, — e un giorno forse basterà per tutti.

Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi, con metodo diverso, più minuzioso e più intimo. Sacrifichiamo volentieri l’effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno impreveduta, meno drammatica forse, ma non meno fatale. Siamo più modesti, se non più umili; ma la dimostrazione di cotesto legame oscuro tra cause ed effetti non sarà certo meno utile all’arte dell’avvenire. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell’uomo interiore? La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le virtù dell’immaginazione, che nell’avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi?

Quando nel romanzo l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa, che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l’impronta dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sòrta spontanea, come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato d’origine.

Parecchi anni or sono, laggiù lungo il Simeto, davano la caccia a un brigante, certo Gramigna, se non erro, un nome maledetto come l’erba che lo porta, il quale da un capo all’altro della provincia s’era lasciato dietro il terrore della sua fama. Carabinieri, soldati, e militi a cavallo, lo inseguivano da due mesi, senza esser riesciti a mettergli le unghie addosso: era solo, ma valeva per dieci, e la mala pianta minacciava di moltiplicarsi. Per giunta si approssimava il tempo della messe, tutta la raccolta dell’annata in man di Dio, ché i proprietari non s’arrischiavano a uscir dal paese pel timor di Gramigna; sicché le lagnanze erano generali. Il prefetto fece chiamare tutti quei signori della questura, dei carabinieri, dei compagni d’armi, e subito in moto pattuglie, squadriglie, vedette per ogni fossato, e dietro ogni muricciolo: se lo cacciavano dinanzi come una mala bestia per tutta una provincia, di giorno, di notte, a piedi, a cavallo, col telegrafo. Gramigna sgusciava loro di mano, o rispondeva a schioppettate, se gli camminavano un po’ troppo sulle calcagna. Nelle campagne, nei villaggi, per le fattorie, sotto le frasche delle osterie, nei luoghi di ritrovo, non si parlava d’altro che di lui, di Gramigna, di quella caccia accanita, di quella fuga disperata. I cavalli dei carabinieri cascavano stanchi morti; i compagni d’armi si buttavano rifiniti per terra, in tutte le stalle; le pattuglie dormivano all’impiedi; egli solo, Gramigna, non era stanco mai, non dormiva mai, combatteva sempre, s’arrampicava sui precipizi, strisciava fra le messi, correva carponi nel folto dei fichidindia, sgattajolava come un lupo nel letto asciutto dei torrenti. Per duecento miglia all’intorno, correva la leggenda delle sue gesta, del suo coraggio, della sua forza, di quella lotta disperata, lui solo contro mille, stanco, affamato, arso dalla sete, nella pianura immensa, arsa, sotto il sole di giugno.

Peppa, una delle più belle ragazze di Licodia, doveva sposare in quel tempo compare Finu «candela di sego» che aveva terre al sole e una mula baia in stalla, ed era un giovanotto grande e bello come il sole, che portava lo stendardo di Santa Margherita come fosse un pilastro, senza piegare le reni.

La madre di Peppa piangeva dalla contentezza per la gran fortuna toccata alla figliuola, e passava il tempo a voltare e rivoltare nel baule il corredo della sposa, «tutto di roba bianca a quattro» come quella di una regina, e orecchini che le arrivavano alle spalle, e anelli d’oro per le dieci dita delle mani: dell’oro ne aveva quanto ne poteva avere Santa Margherita, e dovevano sposarsi giusto per Santa Margherita, che cadeva in giugno, dopo la mietitura del fieno. «Candela di sego» nel tornare ogni sera dalla campagna, lasciava la mula all’uscio della Peppa, e veniva a dirle che i seminati erano un incanto, se Gramigna non vi appiccava il fuoco, e il graticcio di contro al letto non sarebbe bastato a contenere tutto il grano della raccolta, che gli pareva mill’anni di condursi la sposa in casa, in groppa alla mula baia. Ma Peppa un bel giorno gli disse:

— La vostra mula lasciatela stare, perché non voglio maritarmi —.

Figurati il putiferio! La vecchia si strappava i capelli, «Candela di sego» era rimasto a bocca aperta.

Che è, che non è, Peppa s’era scaldata la testa per Gramigna, senza conoscerlo neppure. Quello sì, ch’era un uomo! — Che ne sai? — Dove l’hai visto? — Nulla. Peppa non rispondeva neppure, colla testa bassa, la faccia dura, senza pietà per la mamma che faceva come una pazza, coi capelli grigi al vento, e pareva una strega. — Ah! quel demonio è venuto sin qui a stregarmi la mia figliuola! —

Le comari che avevano invidiato a Peppa il seminato prosperoso, la mula baia, e il bel giovanotto che portava lo stendardo di Santa Margherita senza piegar le reni, andavano dicendo ogni sorta di brutte storie, che Gramigna veniva a trovare la ragazza di notte in cucina, e che glielo avevano visto nascosto sotto il letto. La povera madre teneva accesa una lampada alle anime del purgatorio, e persino il curato era andato in casa di Peppa, a toccarle il cuore colla stola, onde scacciare quel diavolo di Gramigna che ne aveva preso possesso.

Però ella seguitava a dire che non lo conosceva neanche di vista quel cristiano; ma invece pensava sempre a lui; lo vedeva in sogno, la notte, e alla mattina si levava colle labbra arse, assetata anch’essa, come lui.

Allora la vecchia la chiuse in casa, perché non sentisse più parlare di Gramigna, e tappò tutte le fessure dell’uscio con immagini di santi.

Peppa ascoltava quello che dicevano nella strada, dietro le immagini benedette, e si faceva pallida e rossa, come se il diavolo le soffiasse tutto l’inferno nella faccia.

Finalmente si sentì che avevano scovato Gramigna nei fichidindia di Palagonia.

— Ha fatto due ore di fuoco! — dicevano; — c’è un carabiniere morto, e più di tre compagni d’armi feriti. Ma gli hanno tirato addosso tal gragnuola di fucilate che stavolta hanno trovato un lago di sangue dove egli era stato —.

Una notte Peppa si fece la croce dinanzi al capezzale della vecchia e fuggì dalla finestra.

Gramigna era proprio nei fichidindia di Palagonia — non avevano potuto scovarlo in quel forteto da conigli — lacero, insanguinato, pallido per due giorni di fame, arso dalla febbre, e colla carabina spianata.

Come la vide venire, risoluta, in mezzo alle macchie fitte, nel fosco chiarore dell’alba, ci pensò un momento, se dovesse lasciar partire il colpo.

— Che vuoi? — le chiese. — Che vieni a far qui?

Ella non rispose, guardandolo fisso.

— Vattene! — diss’egli, — vattene, finché t’aiuta Cristo!

— Adesso non posso più tornare a casa, — rispose lei; — la strada è tutta piena di soldati.

— Cosa m’importa? Vattene! —

E la prese di mira colla carabina. Come essa non si moveva, Gramigna, sbalordito, le andò coi pugni addosso:

— Dunque? … Sei pazza? … O sei qualche spia?

— No, — diss’ella, — no!

— Bene, va a prendermi un fiasco d’acqua, laggiù nel torrente, quand’è cos—.

Peppa andò senza dir nulla, e quando Gramigna udì le fucilate si mise a sghignazzare, e disse fra sé:

— Queste erano per me —.

Ma poco dopo vide ritornare la ragazza col fiasco in mano, lacera e insanguinata. Egli le si buttò addosso, assetato, e poich’ebbe bevuto da mancargli il fiato, le disse infine:

— Vuoi venire con me?

— Sì, — accennò ella col capo avidamente, — sì —.

E lo seguì per valli e monti, affamata, seminuda, correndo spesso a cercargli un fiasco d’acqua o un tozzo di pane a rischio della vita. Se tornava colle mani vuote, in mezzo alle fucilate, il suo amante, divorato dalla fame e dalla sete, la batteva.

Una notte c’era la luna, e si udivano latrare i cani, lontano, nella pianura. Gramigna balzò in piedi a un tratto, e le disse:

— Tu resta qui, o t’ammazzo com’è vero Dio! —

Lei addossata alla rupe, in fondo al burrone, lui invece a correre tra i fichidindia. Però gli altri, più furbi, gli venivano incontro giusto da quella parte.

— Ferma! ferma! —

E le schioppettate fioccarono. Peppa, che tremava solo per lui, se lo vide tornare ferito, che si strascinava appena, e si buttava carponi per ricaricare la carabina.

— È finita! — disse lui. — Ora mi prendono —; e aveva la schiuma alla bocca, gli occhi lucenti come quelli del lupo.

Appena cadde sui rami secchi come un fascio di legna, i compagni d’armi gli furono addosso tutti in una volta.

Il giorno dopo lo strascinarono per le vie del villaggio, su di un carro, tutto lacero e sanguinoso. La gente gli si accalcava intorno per vederlo; e la sua amante, anche lei, ammanettata, come una ladra, lei che ci aveva dell’oro quanto Santa Margherita!

La povera madre di Peppa dovette vendere «tutta la roba bianca» del corredo, e gli orecchini d’oro, e gli anelli per le dieci dita, onde pagare gli avvocati di sua figlia, e tirarsela di nuovo in casa, povera, malata, svergognata, e col figlio di Gramigna in collo. In paese nessuno la vide più mai. Stava rincantucciata nella cucina come una bestia feroce, e ne uscì soltanto allorché la sua vecchia fu morta di stenti, e si dovette vendere la casa.

Allora, di notte, se ne andò via dal paese, lasciando il figliuolo ai trovatelli, senza voltarsi indietro neppure, e se ne venne alla città dove le avevano detto ch’era in carcere Gramigna. Gironzava intorno a quel gran fabbricato tetro, guardando le inferriate, cercando dove potesse esser lui, cogli sbirri alle calcagna, insultata e scacciata ad ogni passo.

Finalmente seppe che il suo amante non era più lì, l’avevano condotto via, di là del mare, ammanettato e colla sporta al collo. Che poteva fare? Rimase dov’era, a buscarsi il pane rendendo qualche servizio ai soldati, ai carcerieri, come facesse parte ella stessa di quel gran fabbricato tetro e silenzioso. Verso i carabinieri poi, che le avevano preso Gramigna nel folto dei fichidindia, sentiva una specie di tenerezza rispettosa, come l’ammirazione bruta della forza, ed era sempre per la caserma, spazzando i cameroni e lustrando gli stivali, tanto che la chiamavano «lo strofinacciolo della caserma». Soltanto quando partivano per qualche spedizione rischiosa, e li vedeva caricare le armi, diventava pallida e pensava a Gramigna.

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Visite virtuali: Museo diocesano – Milano

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Il Museo diocesano di Milano nasce nel 2001 per iniziativa dell’Arcidiocesi di Milano con lo scopo di tutelare, valorizzare e fare conoscere i tesori artistici della diocesi nell’ambito del contesto spirituale che li ha ispirati. Dall’anno successivo è teatro dell’iniziativa Un capolavoro per Milano.

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IMMAGINE DI APERTURA – Guido Reni: San Giuseppe con il Bambino (Wikipedia)

Grazia Deledda – Il Mago

Vivevano in fondo al villaggio, uno dei più forti e pittoreschi villaggi delle montagne del Logudoro, anzi la loro casetta nera e piccina era proprio l’ultima, e guardava giù per le chine, coperte di ginestre e di lentischi a grandi macchie. Filando ritta sulla porta, Saveria vedeva il mare in lontananza, nell’estremo orizzonte, confuso col cielo di platino in estate, nebbioso in inverno: cucendo presso la finestra scorgeva una immensità di vallate stendentisi ai piedi delle sue montagne, e sentiva il caldo profumo delle messi d’oro ondeggianti al sole, e il sussulto del torrente che scorreva fra le rocce e i roveti montani. In quella casa piccina e nera, col tetto coperto di musco giallo e rossastro, ombreggiata da un vecchio pergolato, fra tanta festa di cieli azzurri e di immensi orizzonti silenziosi, da due anni, Saveria scorreva la vita più felice che si possa immaginare, accanto al suo giovane sposo dai grandi occhi ardenti e le labbra rosse come i frutti delle eriche fra cui conduceva i suoi armenti, la sola sua ricchezza. Si chiamava Antonio. Anch’esso dacché aveva sposato la piccola signora dei suoi sogni da pastore, viveva felicissimo; però una leggera nuvola era apparsa dopo due anni di completa felicità sul cielo sereno della sua esistenza. Saveria non lo aveva reso né ancora accennava a renderlo padre! Era una cosa ben triste! Egli l’aveva tanto sognato un bel marmocchio bruno come lui che appena in gambe l’avrebbe seguito su e giù, fra i boschi e le valli, aiutandolo nelle dure fatiche di pastore; un marmocchio che poi, fatto forte giovanotto, la gioia e la speranza dei suoi vecchi, ammogliandosi avrebbe a sua volta tramandato il loro nome e la discendenza dei loro armenti in un altro, e così via pei secoli dei secoli! Tutti gli avi di Antonio erano stati pastori: e questa gloria egli sognava di continuarla ma come fare se non veniva l’erede?

Tutto fu messo in opera; promesse, novene, pellegrinaggi. Antonio andò, scalzo e a testa nuda, a piedi, sino al celebre santuario della Madonna dei Miracoli, a Bitti, fece fare una processione, una messa solenne, e promise di dare tante libbre di cera lavorata alla Madonna quante ne avrebbe pesate il futuro figliuolino, ma tutto fu inutile. Saveria restava sottile, sottile, elegante nel suo costume dal corsetto giallo e la camicia ricamata, e la casa non veniva ancora rallegrata dagli strilli del sognato bambino né dalla nenia della mamma accompagnata dal cigolio della culla.

Era una ben triste, triste cosa! Se ne aveva già deposta l’ultima speranza allorché un giorno un’amica di Saveria venne a trovarla e le disse con profondo mistero, dopo i primi complimenti alla francese:

– Non sapete dunque, comare Sabé? Peppe Longu mi ha detto che voi non fate figli perché…

– Perché?… – chiese attenta Saveria con gli occhi spalancati.

– Perché? – seguitò l’altra abbassando la voce. – Ci scampi Iddio, ma voi lo sapete, Peppe è un mago di prima qualità, così almeno dicono tutti… e lui stesso mi ha detto che è per opera di una sua magia che voi non avete figli.

– Liberanosdomine! – esclamò Saveria ridendo e facendosi il segno della croce. Come tutte le donnicciuole del villaggio essa era superstiziosa e credeva alle magie, anzi una volta aveva visto coi suoi propri occhi un fantasma bianco vagare pei monti, ma che poi Peppe Longu, per quanto fosse mago, arrivasse a quel punto, ah, questo troppo! Ma l’altra proseguì, offesa dell’incredulità di Saveria, e tanto disse che finì per convincerla.

Dopo un’ora di chiacchiere accanto al focolare, sulle cui bracie Saveria aveva posto a bollire il caffè, ell’era così convinta della magia di Peppe che chiese pensosa alla comare:

– E… ditemi, non la potrebbe disfare questa opera infernale?

– Questo poi no, mi ha detto, questo no! Pare che abbia dell’astio contro vostro marito!…

All’imbrunire Antonio comparve in fondo alla strada rocciosa sul suo cavallino nero e la bisaccia gonfia di formaggio fresco e di ricotta. Mentre scaricava la sua entrata sotto il pergolato, Saveria lo informò di tutto: egli non rise punto, ma aggrottando le folte sopracciglia si contentò di scuotere la testa. E quando tutto fu rimesso in ordine, cavallo, bisaccia ed entrata, Antonio si sedette a piedi in croce al focolare e si fece ripetere la strana novità.

– Ma che diavolo avete con Peppe? Perché si vendica così orribilmente?

– domandò alla fine Saveria con grande serietà.

– Nulla!… – rispose Antonio. – A meno che non sia perché mi rido sempre delle sue magie!

– È male! Non hai visto come ha disperso le cavallette che rovinavano la vigna di Don Giovanni? E quelle di Jolgi Luppeddu?…

– È vero… è vero… ma! Vedremo! Domani gli parlerò.

– Ah, se sciogliesse la magia!… – esclamò Saveria.

Quella notte i due sposi sognarono nuovamente un bel bambino bruno; ma l’indomani, per quante preghiere Antonio gli facesse, il mago del villaggio ricusò assolutamente di disfare l’incantesimo.

Era un tipo alquanto misterioso quel mago: viveva come tutti gli altri uomini del mondo, però non lavorava mai.

È vero che oltre le magie pubbliche di cui menava vanto, come l’uccidere le cavallette e il sanare le pecore malate con semplici parole misteriose, per cui non accettava compenso alcuno egli riceveva molte visite notturne; però nessuno ci badava e generalmente si credeva che i genî che egli aveva al suo comando gli dessero il denaro e le provviste che abbondavano nella sua catapecchia. Ma forse Antonio la pensava diversamente perché, viste mal riuscite tutte le sue preghiere e anche le sue minacce, si recò una notte da Peppe e gli promise un bel luigi d’oro purché sciogliesse finalmente la fatale magia.

Sulle prime Peppe fece il sordo, si mostrò anzi scandalizzato, come un artista a cui si proponga un affare che spoetizzi i suoi ideali; ma poi, visto realmente lo splendore del luigi, chissà donde il pastore lo aveva tratto! cedé a poco a poco e gridò:

– Ebbene, sì! Lo faccio però per amicizia e pietà di Saveria; ma tu non lo meriti, tu che mi hai sempre deriso!…

Antonio protestò; Peppe allora l’avvertì di trovarsi l’indomani notte in un sito deserto della montagna, col fucile scarico, una tovaglia bianca e due ceri. Antonio lasciò la moneta al mago e promise tutto; però, allorché trovossi nella strada oscura, minacciò col pugno la casa rovinata da cui era uscito e sogghignò:

– Vedremo!

L’indomani notte fu il primo ad arrivare al convegno: era un sito orrido e dirupato reso fantastico dal chiarore croceo della luna al tramonto. Nella notte serena non spirava un alito di brezza, e i rovi fioriti, le liane nere e il musco olezzavano nel silenzio misterioso delle rocce illuminate dalla luna.

Il pastore depose il fucile che, secondo la raccomandazione di Peppe, non aveva caricato, la tovaglia, e i ceri su un masso e attese… Peppe non tardò. Le sue prime parole furono: – È giusta l’ora! Mezzanotte -.

Stese la tovaglia su una larga pietra nuda e isolata dalle altre, fissò i ceri in terra e fece stendere bocconi, per un secondo, il pastore. Quando si rialzò Antonio vide i ceri accesi e il fucile posto sulla tovaglia.

– Cominciamo! – disse Peppe.

E infatti cominciò a fare mille pantomime che Antonio seguiva con occhio torvo e con un sorriso di sdegno sulle labbra. Più che mai si sentiva in vena di deridere il mago; ma qual non fu il suo spavento quando Peppe rivoltosi alla pietra coperta dalla tovaglia, la interrogò in un linguaggio strano che probabilmente doveva passare per latino, e la pietra rispose, con voce flebile, lugubre, uscente di sotterra, nel medesimo linguaggio?… In pari tempo i ceri si spensero da sé senza che tirasse vento o che Peppe si chinasse su di essi. Si rivolse invece verso il pastore che tremava verga a verga e gli disse: – La pietra mi risponde che… il fucile risponderà se la magia è sì o no sciolta!…

– Come? – chiese Antonio richiamato in sé dalla voce del mago.

– Era scarico il tuo fucile?…

– Sì perdio! – esclamò il pastore.

– Ebbene, piglialo e spara in aria: se fa fuoco è segno che l’incantesimo è sciolto!

Antonio, oramai preparato ad assistere a tutte le meraviglie del mondo ma non a quest’ultima, si accostò alla pietra parlante, prese il fucile e sparò… Peppe cadde al suolo, senza emettere un solo gemito, col cuore trapassato da una palla.

Invece di sparare in aria, Antonio lo aveva preso di mira…

Dopo il suo involontario delitto, perché, nonostante tutto, credeva che il fucile non facesse fuoco, il pastore pensò di darsela a gambe ma poi rifletté che nessuno sapeva nulla di tutta questa faccenda, e… ripiegò la tovaglia, riprese i ceri e il fucile e ritornò al villaggio camminando sulle rupi in modo da non lasciare alcuna traccia dietro di sé, e passò tranquillamente il resto della notte con la sua adorata Saveria.

… Sempre incredulo in fatto di magie, il forte pastore dai grandi occhi ardenti non seppe mai spiegarsi come la pietra avesse parlato, come i ceri eransi spenti e come il fucile aveva fatto fuoco; però nove mesi dopo ebbe la gioia di pigliare fra le sue braccia robuste un bel marmocchio di cui Saveria lo rese padre. Allora si pentì amaramente di non aver sparato in aria; ma non potendo far rivivere il mago, si contentò di fargli dire una messa di suffragio nella vecchia chiesetta della montagna.

IMMAGINE DI APERTURA: Disegno di Luc Mahler da Pixabay 

Visite virtuali: Museo Poldi Pezzoli – Milano

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Il Museo Poldi Pezzoli è una casa museo situata nella centrale via Manzoni a Milano; fu interamente creato dal conte Gian Giacomo Poldi Pezzoli (1822-1879) che, mediante disposizione testamentaria del 1871, aveva provveduto a costituire una Fondazione artistica Poldi-Pezzoli che raccogliesse in perpetuo le opere d’arte da lui stesso collezionate e che si trovassero nell’abitazione all’epoca della sua morte. La fondazione autonome venne poi eretta in Ente morale con Regio Decreto nel 1887. Il museo è ospitato a pochi passi dal Teatro alla Scala all’interno del palazzo Moriggia dalla Porta, poi Poldi-Pezzoli, acquistato nel 1800 dai precedenti proprietari marchesi Moriggia.

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IMMAGINE DI APERTURA – Il cortile del Museo Poldi Pezzoli a Milano. Foto di Giovanni Dall’Orto (Wikipedia)

Matilde Serao – Una Fioraia

Date lilia…

La bimba camminava lentamente, rasentando il muro, per la via stretta e tortuosa dei Mercanti.

Ella non guardava nelle botteghe, non alzava gli occhi a quella lunga striscia di cielo che appariva fra le alte case, non guardava neppure dinnanzi a sé. Guardava le pietre, come se le contasse.

Camminava, senza curarsi del fango del selciato, degli urtoni che le davano, di qualche rara carrozza che passava. Quando arrivò alla chiesetta del Cerriglio, dirimpetto alla statua dell’Eccehomo vestito di rosso, coronato di spine, con gli occhi pieni di lagrime immobili, la fronte e il petto macchiati di sangue coagulato, la bimba gli dette uno sguardo indifferente e tornò indietro, con la stessa andatura rigida.

Era una mendica. Aveva fame, aveva freddo, aveva sete. Aveva le gambe nude, i piedini scalzi che si deformavano nella mota. In quel gelido giorno di febbraio, ella non portava che una camicia e un sottanino lacero e sfrangiato, mantenuto su, alla cinta, da uno spago. Aggrovigliato al collo, un brandello di ciarpa all’uncinetto. Niente altro. La bimba era molto magra, quasi stecchita: dagli strappi della camicia e del sottanino si vedeva una carnagione esangue, cinerea; sotto la ciarpa si vedevano le due ossa clavicolari sporgenti, come se volessero bucare la pelle; s’indovinava la meschinità malaticcia di quel busto legnoso di bambina. Le spalle erano aguzze, curve, come quelle di chi si raggricchia sempre per freddo o per chetare lo spasimo dello stomaco. Un volto serio e grave, con la medesima tinta plumbea del corpo; rugata la fronte breve; corrugate le sottili sopracciglia, troppo grandi gli occhi dalla palpebra bigia, sottolineati di bistro, incavernati, profondi; duro, rigido il profilo, già formato come quello di una donna; la bocca stretta, chiusa, le labbra pallide, senza fremiti, con due rughe agli angoli. Ella aveva sette anni.

Un giorno aveva avuto una madre scarna, mendica anche lei. Vagavano ambedue per le vie di Porto, cercando l’elemosina. Mangiavano spesso del pane e dormivano in un sottoscala, sulla paglia, la figlia col capo in grembo alla madre. Poi la madre era morta, di tifo: la bambina era rimasta sola, sul lastrico. Non pianse, non gridò, uscì per cercare l’elemosina, non ebbe nulla: quel giorno non mangiò e dormì all’aria aperta, sullo scalino della chiesa di Portanova, arrotondata come un cane.

Per tre anni la vita della bambina non aveva avuto varianti. Ella non sapeva nulla, non ricordava nulla, altro che un lunghissimo giorno in cui aveva avuto sempre fame. Dalla mattina cominciava le sue peregrinazioni. La strada dei Mercanti, lungo budello contorto, era la sua casa, ed ella ne conosceva tutte le viuzze, i vicoli ciechi, gli angiporti paurosi, le botteghe nere, i ruscelli fetidi, i portoncini angusti e bruni, illuminati da una luce fioca e grigia, le scalette smussate. Andava e veniva, senza posa, dalla piazzetta di Portanova, donde era il suo punto di partenza, sino alla cappella del Cerriglio, dove era il suo punto di arrivo. Si fermava a piazzetta di Porto, faceva un mezzo giro e riesciva all’antico Sedile, dava uno sguardo al simulacro del dio Orione attaccato alla muraglia che il popolo chiama Pesce Niccolò, poi saliva per Mezzocannone, bagnandosi i piedi nelle acque azzurre, rosse, violette dei tintori che lavoravano in certi antri lugubri, intorno a caldaie nere, agitandovi un miscuglio misterioso. Arrivata su, non osava andare più oltre e ridiscendeva ai Mercanti; non dava neppure un’occhiata alla taverna aperta sotto un porticato dove si friggevano pesci e pastette, dove si espandevano le vivezze rosse del soffritto e gli acuti odori delle pastinache in aceto. Voltava a destra per la scaletta lurida di santa Barbara, s’inerpicava fino al famoso biscottaio, ma i biscotti le facevano troppo gola e scappava via: al ridiscendere, si fermava innanzi alla porta dello stabilimento di bagni, guardando una vasca di macigno artificiale, dove non ci era acqua, ma dove si ergeva una musa dalle larghe foglie verdi: continuava la sua via sino al Cerriglio e tornava indietro, sempre col suo passo guardingo, sfiorando i muri, scivolando fra le gambe dei viandanti.

Quelle viuzze nere, quella strettezza, quella miseria, quelle case stillanti umidità, quei cattivi odori, quei portoni sospetti, quelle tinte cupe, quell’assenza di sole, quelle facce usuraie dei commercianti, quelle facce losche dei loro mediatori, quelle facce ebeti di male femmine, quella merce gretta, impolverata, avariata, erano tutto il suo mondo. Sentiva vagamente che di sopra santa Barbara, di sopra Mezzocannone, di sopra il Cerriglio, alla fine di via Principessa Margherita, vi era un altro mondo, ma ella temeva di arrischiarvisi, ne aveva una paura selvaggia. Anche giù nei Mercanti, ella aveva paura delle altre mendicanti che la picchiavano, dei cani che volevano morderla, delle guardie che potevano arrestarla: ma ella era furba a schermirsi da questi pericoli.

Lassù, il pericolo era ignoto. Quando arrivava a quei limiti, dava uno sguardo sospettoso in su, poi fuggiva, nascondendosi il capo ricciuto nel braccio, come se la perseguitassero.

Chiedeva l’elemosina, ma non gliela davano spesso. Tutta quella gente affaccendata a guadagnare una dura giornata, bottegai accaniti a imbrogliare i compratori contadini, facchini curvi sotto le balle, serve luride e straccione, non badavano a lei. Qualche galantuomo la prendeva per una piccola ladra e si tastava le tasche, dicendole una parolaccia; qualcuno, anche vestito decentemente, era povero, la guardava e si stringeva nelle spalle. A qualcuno faceva disgusto, e la scacciava con un gesto di noia. Ella chiedeva prima a voce alta, quasi imperiosa, un soldo per mangiare, non avendo mangiato il giorno prima, nella tortura dello stomaco che si ribellava: poi la voce si abbassava, diventava supplichevole, ansante, lamentosa, poche e gelide lagrime le scendevano per le guance. Essa continuava ad andare e venire, come per istinto, balbettando parole indistinte, sino a che la voce le si seccava nella gola riarsa: allora chiedeva l’elemosina con la intensità dello sguardo. Verso la fine della giornata, quando non le avevano dato nulla, era presa da una grande stanchezza, il capogiro la faceva vacillare, ella si trascinava sino ai gradini della chiesa di Portanova e vi rimaneva, immobile, accoccolata, come un batuffolo di stracci, donde sfuggiva un sordo lamento. Si rialzava, per girare ancora, fra i lumi che si accendevano, gli operai che ritornavano dal lavoro e l’odore di mangiare che usciva dalle botteghe socchiuse. Allora arrivava a raccogliere due centesimi o una fetta di pane o un osso di costoletta o uno scampoletto di trippa, e scappava a divorarlo, provando un bruciore insopportabile allo stomaco. Ma venivano spesso i giorni in cui non aveva nulla e si addormiva in un torpore malaticcio, senza aver mangiato altro che le bucce di aranci fradici, o masticato i baccelli dei piselli. Il sabato era il migliore suo giorno: al sabato una femmina giovane, col fazzoletto di seta rosso attorno al collo, la gonna corta e legata sullo stomaco, la pianella col tacco alto e il fiocco verde, la pettinessa d’argento nell’alto cocuzzolo dei capelli impomatati, le guance cariche di carminio, le dava un soldo. La giovane femmina stava per lo più accantonata a un portoncino, le mani nelle taschette del grembiule, lo sguardo vagante, la fisonomia stupida, canticchiando dalla mattina alla sera una canzoncina lenta: Spina de pesce,

Sta vita desperata quanno fenesce?

Ogni giorno, molte volte, la bimba le passava daccanto. Ma solo il sabato l’altra le dava un soldo: questo per cinque o sei mesi. Poi la donna scomparve. L’avevano buttata o s’era buttata nel pozzo.

In quella giornata di domenica la bimba si sentiva morire. Ogni tanto le mancavano le forze e si sedeva per terra. Le botteghe erano chiuse, i viandanti frettolosi non le davano retta, dirigendosi tutti alle strade superiori, scomparendo lassù: ella li seguiva macchinalmente, con lo sguardo. Entrò nella chiesa di Portanova. La chiesa era vuota, le parve immensa e paurosa; ebbe una sensazione di freddo, co’ suoi piedini nudi sul marmo; il sagrestano l’acchiappò e la mise fuori. Ella riprese la sua corsa nelle strade spopolate: si vide sola, disperata. Tutti erano andati lassù.

Allora, dimenticando la sua paura, spinta dalla fame, dall’istinto, superò la frontiera, e oltrepassato il larghetto di Rua Catalana, sali gli scalini di san Giuseppe. Fu stupefatta: vedeva quello che non aveva mai visto, la strada larga, i magazzini puliti, i palazzi bianchi, i giardini, il cielo. Dimenticava la sua fame davanti a così mirabile spettacolo: non vi pensò più dinnanzi a un negozio di giocattoli. Lassù tutto era bello: ed ella seguì la folla che si avviava per Fontana Medina, fermandosi ogni momento, eccitata, curiosa, scordandosi di chiedere l’elemosina. Solo le carrozze la spaventavano col continuo loro incrociarsi; ma seguiva il marciapiede. A piazza Municipio, vinta di nuovo dalla stanchezza, sedette sopra un banco, presso il giardino; ma dopo un poco saltò giù e corse anche lei verso san Carlo: là si perdette, piccina come era, nella folla che la trascinò verso san Ferdinando. Non vedeva niente, annullata fra la gente; aveva caldo, stava bene. Ogni tanto vedeva passare nell’aria un mazzetto di fiori, poi un altro, poi una pioggia di fiori: ogni tanto la folla si gettava da parte, per lasciar passare un equipaggio, dentro una signora bellissima, seduta in mezzo alle stoffe e ai fiori: visioni rapide, fuggevoli, fulgide, che quasi sgomentavano la bambina. Passò il tempo, così. Imbruniva: i fiori cadevano più lenti, il clamore era più basso, la folla si diradava.

Accanto alla bimba passò una leggiadra apparizione di donna, dall’abito nero, succinto e ricco, dal volto bianco e sorridente, dagli enormi brillanti alle orecchie delicate: portava in mano un cestino di fiori, a mazzetti e disciolti. Era una fioraia meravigliosa, che accumulava denari nel fondo del cestino.

— Signora, signora — mormorò una voce infantile — dammi un fiore.

E la fioraia, con un moto gentile e svelto, lasciò cadere nelle mani della bimba un manipoletto di garofani. La bimba sorrise, ficcò un garofano in un bucherello della sua camicia e volle anch’essa vendere i fiori, poiché ne aveva tanti. Ma da lei la gente non ne comprava. Uno studente le disse: quando sarai più grande, potrai vender fiori. Un grasso signore si pose a declamare contro l’accattonaggio e contro l’inerzia della questura. La bimba non comprese il senso, ma intese che la maltrattavano. Neppure lassù erano buoni con lei. Ella era lacera, scalza, brutta: i suoi grandi occhi spalancati mettevano paura, la sua testolina arruffata e selvaggia faceva paura. Ora la fame riappariva feroce, mettendole un fuoco nel petto, straziandola. Si trovava presso la Boulangerie française, donde usciva un odore di pane e di pasticcini che la faceva svenire. Offriva i suoi fiori macchinalmente, senza poter più parlare, con un singhiozzo lento che le sollevava il petto. Un soldato passò e comprò un garofano: dette un soldo. La bimba entrò nella panetteria e comprò un panino da un soldo. Le bastava. Voleva andar via. Ricominciava ad aver paura. Quelle carrozze la stordivano, lei che voleva passare dall’altra parte. Prese la rincorsa, abbassando il capo… Nella carrozza una signora gettò un grido e svenne.

Ma sulla via, presso il marciapiede, agonizzava una innocente creatura, con la gambina sfracellata. Agonizzava, giacente fra i garofani che le si erano sparsi d’attorno, stringendone uno sul petto, tenendo il panino nell’altra mano, con la faccia bianca e seria, la bocca socchiusa, coi grandi occhi meravigliati e dolorosi che guardavano il cielo.

IMMAGINE DI APERTURA: Disegno di Jo-B da Pixabay 

Visite virtuali: Pinacoteca di Brera – Milano

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La Pinacoteca di Brera è una galleria nazionale d’arte antica e moderna, collocata nell’omonimo palazzo, uno dei complessi più vasti di Milano con oltre 24000 metri quadri di superficie. Il museo espone una delle più celebri raccolte in Italia di pittura, specializzata in pittura veneta e lombarda, con importanti pezzi di altre scuole. Inoltre, grazie a donazioni, propone un percorso espositivo che spazia dalla preistoria all’arte contemporanea, con capolavori di artisti del XX secolo.

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IMMAGINE DI APERTURA – CaravaggioCena in Emmaus (Wikipedia)

Oliviero Ponte di Pino – I mestieri del libro

I mestieri del libro vuole offrire una prima, sintetica informazione sul mondo dell’editoria libraria, concentrandosi sul settore che comprende la maggior parte di ciò che si trova oggi sui banchi delle librerie: dai romanzi ai saggi, dalle raccolte di poesia alle opere storiografiche, ai manuali, ecc. E cerca di farlo seguendo il percorso del libro dall’autore al lettore, analizzando dunque le modalità attuali di produzione, commercializzazione, diffusione e consumo librari, riservando una particolare attenzione agli aspetti economici e di marketing e passando in rassegna il ruolo delle diverse figure professionali coinvolte.

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IMMAGINE DI APERTURA: Foto di Pexels da Pixabay 

Dave King, Renni Browne – Divento scrittore

Avete un manoscritto nel cassetto ma non riuscite a trovare un editore? Oggi, con il print on demand e le varie forme di pubblicazione on line, questa impresa sembrerebbe più a portata di mano, ma in realtà il sovraffollamento di scrittori in Rete rischia di farvi scivolare molto velocemente nell’anonimato. Per distinguersi, e trovare un editore vero, il vostro manoscritto deve avere una marcia in più. Questo significa lavorarci sopra per renderlo eccellente. Certo, potete sempre assoldare un editor esterno che metta mano al vostro romanzo, ma dopotutto, perché pagare un professionista quando potete farlo voi?

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IMMAGINE DI APERTURA: Foto di Steve Johnson da Pixabay  

Collezioni: Ca’ Granda – Ospedale Maggiore Policlinico a Milano

“I Tesori della Ca’ Granda” è uno spazio museale in cui sono esposti i più grandi capolavori pittorici provenienti dalla Quadreria dei Benefattori.
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Un grande ospedale all’avanguardia nella cura e nella ricerca biomedica, ma anche una storia millenaria, strettamente radicata nella cultura e nella società milanese. Una straordinaria varietà e ricchezza di beni culturali: l’archivio storico, le raccolte d’arte, le collezioni bibliografiche, gli strumenti e preparati scientifici, che aprono infinite prospettive sulla civiltà di Milano e della Lombardia lungo i secoli. La posa della prima pietra della Ca’ Granda avviene il 12 aprile 1456. A volere l’ospedale è Francesco Sforza, signore di Milano.

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IMMAGINE DI APERTURA – La Ca’ Granda, all’epoca sede dell’Ospedale Maggiore di Milano: tre finestre scolpite a rilievo (Wikipedia)

Alessandro Barbero – La spagnola, grande epidemia del 1918

L’influenza spagnola, altrimenti conosciuta come la grande influenza o epidemia spagnola, fu una pandemia influenzale, insolitamente mortale, che fra il 1918 e il 1920 uccise decine di milioni di persone nel mondo, la prima delle due pandemie che coinvolgono il virus dell’influenza H1N1. Essa arrivò ad infettare circa 500 milioni di persone in tutto il mondo, inclusi alcuni abitanti di remote isole dell’Oceano Pacifico e del Mar Glaciale Artico, provocando il decesso di 50-100 milioni su una popolazione mondiale di circa 2 miliardi. La letalità le valse la definizione di più grave forma di pandemia della storia dell’umanità: ha infatti causato più vittime della terribile peste nera del XIV secolo.

IMMAGINE DI APERTURA – Infermiera che indossa una maschera come protezione contro l’influenza. 13 settembre 1918. “Sta riempiendo una brocca da un idrante antincendio con un rubinetto attaccato”.