goWare ebook team – …Un’ultima cosa. Non vivete la vita di qualcun altro

 

Al pari dei discorsi di Winston Churchill del 4 giugno 1940, di John Kennedy del 20 gennaio 1961, di Martin Luther King del 28 agosto 1963 e di Nelson Mandela del 20 aprile 1964, il discorso di Steve Jobs a Stanford del 12 giugno 2005 cattura lo spirito del nostro tempo ed è qualcosa che ci aiuta a capire il mondo in cui viviamo. È il messaggio di una persona che ha cercato una propria strada nella vita e il suo impegno ha cambiato pacificamente il modo in cui viviamo, lavoriamo e ci relazioniamo. In questo discorso incontriamo il Jobs persona, il Jobs innovatore, il Jobs leader: una testimonianza di incommensurabile valore. Ecco perché goWare e Lenovys hanno pensato di proporlo al pubblico italiano in una nuova traduzione da leggere e da ascoltare nella intensa recitazione di Gianfranco Miranda, l’attore che ha doppiato Ashton Kutcher nel film “Jobs”. È il nostro regalo a 10 anni da quell’evento. 15 minuti che vi emozioneranno.

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IMMAGINE DI APERTURA – Steve Jobs’ 2005 Stanford Commencement Address (Fonte: You Tube).

Emilio Salgari – Alla conquista della luna, 1904

I RACCONTI DI AVVENTURE DI EMILIO SALGARI

Alla conquista della luna

Alcuni anni or sono, i pochi abitanti di Allegranza, un piccolo isolotto del gruppo delle Canarie, venivano bruscamente svegliati da un colpo di cannone il cui rimbombo s’era ripercosso lungamente fra quelle aride rocce, bruciate dall’ardente sole africano.

Un colpo di cannone per quegl’isolani, che vivevano così lontani da qualsiasi terra considerevole, e che solo a lunghi intervalli vedevano qualche piccolo veliero entrare nella baia dell’isolotto per provvedersi d’acqua ed imbarcare qualche partita di pesce secco, era un tale avvenimento da metterli nella più viva curiosità.

La nave che aveva annunziato il suo arrivo con quel colpo, non era uno dei soliti velieri, bensì un bel vapore dipinto in grigio e che inalberava sull’albero di maestra la bandiera brasiliana.

Non era di grossa portata; se fosse stato di mole considerevole non avrebbe potuto trovare fondo sufficiente nella piccola baia; tuttavia era un bel piroscafo che doveva stazzare almeno cinque o seicento tonnellate, come asseriva José Faja, il più vecchio e rispettato dei pescatori dell’isola e che nella sua gioventù aveva navigato il mondo in lungo ed in largo.

Tutta la popolazione, dunque, una quarantina di persone, fra uomini e donne, si era rovesciata sulla spiaggia, attratta da quella inaspettata novità.

In vent’anni era il secondo battello a vapore che s’era degnato mostrarsi agli sguardi degli isolani: meritava quindi la pena di andarlo ad ammirare.

Tutti si erano affollati attorno al vecchio Faja, che, nella sua qualità di marinaio, doveva saperla più lunga di tutti, chiedendogli il suo parere su quella visita straordinaria.

— Che cosa verrà a fare qui, che non vi è nulla da imbarcare fuorchè delle pietre? — si chiedevano tutti, guardando il vecchio.

— Non posso dirvi altro che è una bella nave a vapore, che deve camminare come una dorata — rispondeva l’ex marinaio. — Quando l’equipaggio verrà a terra, ne sapremo di più.

Il battello a vapore, dopo quel colpo di cannone, era entrato lentamente nella baia, scandagliando con precauzione il fondo, per non correre il pericolo di arenarsi; poi aveva gettato le sue àncore, senza occuparsi dei curiosi che si affollavano sulla riva.

Terminate quelle manovre, gli uomini che formavano l’equipaggio erano scomparsi sotto coperta e più nessuno si era fatto vedere, nè alcuna scialuppa era stata calata in mare.

Il vecchio Faja non sapeva che pensare. Se quella nave era entrata nella baia, non era certo per riposarsi. Qualche motivo ci doveva essere per approdare a quell’isolotto, che non offriva nulla di attraente, fuorchè rocce e rupi con pochi fili di erba e pochi alberi semibruciati dal sole.

Durante quella prima giornata, gl’isolani attesero invano che qualcuno sbarcasse.

Verso sera, invece, due grosse scialuppe furono calate dalla nave e trasportarono a terra un bel numero di casse accuratamente numerate ed una certa quantità di legname, che pareva destinato alla costruzione di una capanna o di qualche cosa di simile.

Faja, che sapeva qualche parola brasiliana, si provò ad interrogare i marinai e non ebbe alcuna risposta. Tutti quegli uomini parevano muti.

Senza darsi alcun pensiero degl’isolani, disposero le casse in bell’ordine, poi scavarono un fosso profondo, di forma circolare, ed eressero una palizzata abbastanza alta per impedire ai curiosi di vedere nell’interno.

Compiuti quei lavori e chiusa la palizzata con un robusto cancello di ferro con doppi chiavistelli, i marinai tornarono a bordo del piroscafo, senza aver pronunziato una sola parola.

— Non capisco nulla — disse il vecchio Faja, un po’ indispettito. — L’isola appartiene a noi e quegli stranieri ne dispongono come se fosse di loro proprietà. Se domani il comandante del piroscafo non ci darà spiegazioni, parola da marinaio che farò bruciare la cinta e anche le casse.

— E noi ti aiuteremo, Faja — gridarono in coro gl’isolani.

— Andiamo a dormire e a domani — disse il vecchio.

All’alba l’ex marinaio era già in piedi, ben deciso di recarsi dal comandante e di dirgli ad alta voce che quell’isola era proprietà del Governo spagnuolo e non già del brasiliano; invece, con sua profonda sorpresa, non vide più la nave.

I Brasiliani, approfittando del sonno degl’isolani, se n’erano andati, senza degnarli d’un colpo di cannone come saluto.

Alcuni pescatori, che si erano alzati per tempo al pari di lui, lo avevano raggiunto, mostrandosi non meno stupiti per quell’improvvisa partenza della nave.

Avevano però constatato che la cinta non era stata levata e che le casse non erano state toccate.

— Vecchio Faja — disse uno dei pescatori — ci capisci qualche cosa di quell’improvvisa fuga di quei misteriosi naviganti?

— Meno d’ieri — rispose l’ex marinaio.

— E quel recinto perchè l’avranno inalzato? — chiese un altro.

— E quelle casse che cosa conterranno? — chiese un terzo.

— Se contenessero delle macchine infernali cariche di dinamite per far saltare l’isola e provare la potenza di qualche nuovo esplosivo! — esclamò Faja, con spavento.

Quelle parole avevano terrorizzato di colpo quei bravi pescatori, i quali avevano una cieca fiducia nell’ex marinaio. Stavano per darsela a gambe per rifugiarsi sulle rive occidentali dell’isola, quando uno di loro li fermò, dicendo

— Vedo due uomini nel recinto!

Tutti si erano fermati. Se vi erano delle persone fra quelle casse, non vi era più da temere un’esplosione. Non sarebbero stati così stupidi da saltare in aria assieme al recinto.

— Andiamo a interrogarli — disse Faja, che aveva riacquistato prontamente il suo coraggio. — Si spiegheranno o li metteremo in un canotto e li affideremo alle onde.

Scese verso la riva seguìto dai pescatori e, giunto dinanzi al cancello, si annunziò con un clamoroso:

— Oh, signori! Che cosa fate qui?

I due stranieri erano occupati ad aprire delle casse, dalle quali traevano degli specchi colossali che deponevano al suolo, uno sull’altro, con infinite precauzioni.

Entrambi erano attempati, quasi calvi e portavano occhiali. Avevano più l’aspetto di scienziati o di professori che di gente di mare.

Vedendo Faja, uno dei due che aveva una lunga barba bianca e che pareva il più anziano, aprì il cancello e salutò cortesemente l’ex marinaio con un:

— Buon giorno, mio caro isolano.

Faja, un po’ sconcertato da quell’accoglienza e dall’aspetto grave di quei due personaggi, era rimasto qualche istante muto, poi fattosi animo rispose:

— Perdonate, signori, se noi siamo venuti a disturbarvi, ma…

— Niente affatto — rispose lo sconosciuto.

— Comprenderete… un po’ di curiosità… e poi l’isola appartiene al Governo spagnuolo, che mi ha nominato alcade, e…

— Vi capisco — disse lo sconosciuto, sorridendo. — Voi desiderate sapere, signor alcade, perchè noi siamo sbarcati senza chiedere il permesso e che cosa siamo venuti a fare qui. Rassicuratevi: non abbiamo alcuna intenzione di disputare al Governo spagnuolo la proprietà dell’isola, nè di recare danno alcuno ai suoi sudditi.

«Noi siamo due tranquilli scienziati brasiliani, incaricati di tentare un grande esperimento che farà epoca nel mondo: andiamo a tentare la conquista della luna.

— Oh! — esclamarono i pescatori, guardandosi uno con l’altro, con uno stupore impossibile a descrivere.

— Intanto — proseguì lo scienziato — siccome noi abbiamo occupato un terreno che appartiene al Governo spagnuolo, accettate, signor alcade, queste cento piastre.

Consegnò a Faja una borsa, poi con un gesto lo congedò, dicendo:

— Abbiamo molto da fare e vi prego di lasciarci tranquilli.

Faja, contento di quel tesoretto, se ne andò coi suoi pescatori, più che mai convinto di aver da fare con due pazzi.

La conquista della luna! Decisamente quei due stranieri, malgrado la loro serietà, dovevano avere il cervello sconvolto.

Comunque fosse, Faja diede ordine ai suoi compagni di non importunare in modo alcuno i due stranieri e di lasciarli fare il loro comodo.

La curiosità degl’isolani era diventata però così intensa che passavano delle giornate intere sulle rupi, che dominavano la spiaggia, e di conseguenza anche il recinto che era riparato da una piccola tela, la quale non impediva che si potesse comodamente scorgere ciò che facevano là dentro i due scienziati.

Questi passavano i loro giorni ora facendo delle lunghe osservazioni sul sole e sulla potenza del suo calore, ora a levare continuamente oggetti dalle casse.

Avevano già fabbricato una macchina strana, che rassomigliava ad una cupola, con la parte superiore formata da lastre solidamente incastrate in telai che parevano d’alluminio, e la inferiore coperta di specchi immensi e di una serie di doppie eliche, che si vedevano funzionare senza posa, anche dopo il tramonto dell’astro diurno.

Avevano già fabbricato una macchina strana...

Che cosa fosse, nessuno sarebbe stato capace di dirlo. Anche Faja che, avendo girato il mondo, doveva sapere tante cose e anche averne vedute molte, invano si lambiccava il cervello.

Solo cominciava a credere che quei due scienziati non fossero così pazzi come li aveva dapprima giudicati.

Erano trascorsi dieci giorni dalla partenza del misterioso piroscafo, quando un dopopranzo gl’isolani videro i due scienziati intenti ad abbattere il recinto.

Faja, avvertito che i due stranieri desideravano parlargli, si era affrettato a scendere sulla riva.

Lo scienziato dalla barba bianca lo ricevette e lo condusse dinanzi a quella strana macchina, i cui specchi percossi dal sole irradiavano un calore così intenso da non poter resistere.

— Noi stiamo per tentare il grande esperimento — gli disse.

— Quale? — chiese Faja.

— Di conquistare la luna.

— Ne siete ben certi? — chiese l’ex-marinaio, con tono di dubbio.

— Abbiamo, se non la certezza, almeno molta speranza — disse il vecchio. — Voi vedete questa macchina?

— Anche un cieco la vedrebbe, ma non so a che cosa potrebbe servire, specialmente con tutti quegli specchi.

— Chiamateli riflettori, signor alcade, o meglio ancora, insolatori.

«Basta orientarli a seconda della direzione dei raggi solari per ottenere uno sviluppo di calore così considerevole da mettere in movimento qualunque macchina.

«Essi danno a noi la forza necessaria per far funzionare gli apparecchi che si trovano sotto la cupola di cristallo, i quali dovranno mettere in moto tutte le ali ad elica, destinate a trasportarci in alto.

«Noi vogliamo tentare, con l’aiuto di quella novella forza, d’innalzarci a tale altezza non mai neppur sognata, fino ad uscire dall’orbita della terra e cadere sulla luna o su qualche altro astro, ciò che io ed il mio amico, dopo lunghi studi, crediamo possibile.

«Non sappiamo se il nostro tentativo, che può sembrarvi una pazzia, possa avere un esito felice o se finirà in un’orrenda catastrofe.

«Comunque sia, noi lasceremo alla scienza la nostra invenzione.

Prese un tubo di metallo, accuratamente chiuso, e lo consegnò all’ex marinaio, dicendo:

— Qui vi sono dei documenti riguardanti la nostra scoperta. Se un giorno una nave approderà alla vostra isola ed il suo comandante li reclamerà, voi non dovete esitare a consegnarli. Datemi la vostra parola, signor alcade.

— Ve lo prometto — rispose Faja.

— Datemi la vostra parola signor alcade. — Ve lo prometto — rispose Faja.

— Prendete ora queste cinquecento piastre che dividerete coi vostri pescatori, ed ora addio. Se non torneremo più sulla terra, avremo dimostrato la possibilità di conquistare gli altri mondi.

Strinse la mano all’alcade, salutò gli isolani, che erano accorsi in buon numero sulla spiaggia, poi raggiunse il suo compagno, chiudendo la porta della cupola.

Faja ed i pescatori si erano allontanati di parecchi metri, chiedendosi ansiosamente che cosa stava per succedere; d’altronde l’irradiazione proiettata da tutti quegli specchi era così ardente che le vesti degl’isolani minacciavano di prender fuoco.

I due scienziati, che si scorgevano benissimo attraverso la cupola di cristallo, eseguivano delle manovre misteriose attorno a certi apparecchi che rassomigliavano a piccole macchine a vapore, prive di camini.

Ad un tratto, gl’isolani videro le ali che si trovavano intorno alla cupola, un po’ sotto gli specchi, girare vertiginosamente e la macchina intera inalzarsi con la rapidità d’un uccello marino.

Scintillava come una massa di fuoco, lanciando in tutte le direzioni fasci di luce accecanti che impedivano quasi di osservarla, s’alzava sempre sopra l’isola, mantenendo una verticale quasi perfetta.

Per parecchi minuti Faja ed i suoi compagni poterono seguirla con gli sguardi, riparandosi gli occhi con le mani, poi scomparve fra la luce solare come se si fosse fusa.

Indarno essi l’attesero, credendo di vederla da un momento all’altro precipitare sull’isola o sul mare.

La notte scese e la cupola non fu più veduta tornare.

Viaggiava fra gli spazi sconfinati del cielo, oppure era caduta sull’oceano ad una grande distanza? Mistero!

Trascorse una settimana, poi un’altra, infine molte altre senza che alcuna nuova pervenisse a Faja. A poco a poco i due scienziati furono dimenticati e più nessuno ne parlò. D’altronde tutti erano convinti che essi fossero caduti in mare e che fossero già morti.

Tre mesi erano passati, quando un giorno gl’isolani videro accostarsi all’isola, a tutto vapore, una piccola nave da guerra della Marina spagnuola, che pareva provenisse da Lanzarote, una delle più importanti isole del gruppo delle Canarie.

Faja, che si trovava sulle rive occidentali dell’isola, occupato a pescare, subito avvertito, era accorso alla baia per ricevere il comandante della nave che rappresentava per lui la patria lontana.

Era appena giunto, quando una scialuppa montata da dieci marinai e dal capitano del bastimento prese terra.

— Chi è l’alcade? — chiese il comandante.

— Sono io, signore — rispose Faja.

— Siete possessore d’un documento consegnatovi tre mesi or sono dai signori Carvalho e Souza?

— Due scienziati brasiliani?

— Sì — rispose il comandante.

— L’ho io.

— Mandatelo a prendere e raggiungetemi sulla mia nave.

Un quarto d’ora dopo Faja saliva sulla piccola nave da guerra, portando il cilindro di metallo che non aveva mai osato aprire, quantunque più volte ne avesse provato il desiderio, vinto da una curiosità del resto perdonabile.

Il comandante lo aspettava nella sua cabina, tenendo in mano un lungo cilindro di metallo, accuratamente chiuso ed eguale in tutto e per tutto a quello che aveva ricevuto Faja dai due scienziati brasiliani.

— Ascoltatemi — disse il capitano, dopo d’averlo pregato di sedere. — Un mese fa, una nave francese, che veniva dai porti dell’America del Sud, rinveniva a quattrocento miglia dalle coste del Portogallo questo cilindro galleggiante sull’Oceano e contenente un documento benissimo conservato. Sapete leggere il portoghese?

— Sì, signore — rispose Faja.

— Leggete — disse.

Faja, con uno stupore facile ad immaginarsi, lesse le seguenti parole:

«Lanciato sulla terra a novemilacinquecento metri. La nostra macchina funziona sempre perfettamente, mercè il calore proiettato dai nostri specchi e condensato nei nostri motori.

«Se nulla accade di contrario, noi fra tre ore avremo lasciato la zona d’aria respirabile e continueremo la nostra ascensione verso la luna o verso un astro qualsiasi.

«Se non potremo mai più tornare sulla terra o se il freddo ci assidererà, come temiamo, chi vorrà sapere chi noi siamo e con quale macchina ci siamo alzati, si rivolga all’alcade di Allegranza (isole Canarie), a cui abbiamo rimesso i nostri documenti prima di lasciare definitivamente la terra.

«Carvalho e Souza»

«Membri dell’Accademia Scientifica di Rio de Janeiro».

— Che cosa ne dite? — chiese il comandante.

— Che ciò che hanno scritto quei due scienziati è perfettamente vero — rispose Faja.

— Questo documento — riprese il comandante — è stato rimesso al Governo spagnuolo, perchè cercasse spiegare questo mistero, e per ordine del Ministero della Marina sono qui venuto per accertare se questi documenti realmente esistono.

— Quei due scienziati sono partiti tre mesi or sono, su una macchina in forma di cupola, munita di specchi immensi e di certe ali in forma di eliche, e tutti gl’isolani hanno assistito all’innalzamento di quei due uomini.

— Vediamo questo documento.

Il comandante prese il cilindro e lo svitò senza fatica, dopo d’aver spezzato quattro suggelli in piombo che portavano le iniziali di Carvalho e di Souza. Dentro vi erano quattro fogli in pergamena, accuratamente arrotolati e coperti da una calligrafia eguale a quella che si scorgeva sul documento raccolto in mare dalla nave francese. Un quinto, invece, conteneva un disegno ben dettagliato d’una macchina che Faja riconobbe subito: era precisamente di quella di cui si erano serviti i due scienziati per inalzarsi.

Il capitano spiegò i fogli e cominciò a leggere:


«Rio de Janeiro, 24 luglio 1887.


«La notizia della fondazione della Società solare, costituitasi a Parigi, e la scoperta degl’insolatori, fatta dall’americano Calver, ha suggerito a noi l’idea di costruire una macchina che potesse funzionare senz’altro bisogno che del calore del sole e permettere di tentare un’esplorazione nello sconfinato firmamento.

Le splendide prove date dagl’insolatori, che ora funzionano così magnificamente in varie città africane, mettendo in moto delle macchine che vengono usate per la distillazione dell’acqua, ci hanno convinti della possibilità della cosa.

Dopo lunghi studi e lunghe esperienze, noi siamo riusciti a costruire degl’insolatori di tale potenza, da poter accumulare tanto calore da fondere perfino il ferro. Portare l’acqua allo stato d’ebollizione anche la più intensa, e mettere in moto delle macchine poderose senza aver bisogno del carbone; era dunque un gioco per noi.

«Ottenuta la forza, abbiamo costruito dei motori e quindi una macchina volante, munita di eliche sufficienti per l’inalzamento.

«La riuscita è stata così completa da tentare un grandioso progetto che da lunghi anni turbava il nostro cervello: di muovere, cioè, alla conquista della luna, o per lo meno di tentare un’esplorazione fuori dei confini dell’aria respirabile.

«A tale uopo e per poter resistere senza esporci ai freddi intensi che supponiamo, a ragione, di dover sfidare nel nostro inalzamento, abbiamo munito la nostra macchina volante di una cupola di cristallo, assolutamente chiusa, portando con noi cilindri di ossigeno per rinnovare l’aria interna.

«Riusciremo nella nostra temeraria impresa? Noi ne siamo fermamente convinti.

«I nostri insolatori ci forniranno abbastanza calore per poter far funzionare le nostre macchine anche di notte e per poter resistere ai grandi freddi, per quanto intensi possano essere. Quindi non possiamo temere di morire assiderati, nè di vedere le nostre macchine arrestarsi, il che accadendo, il nostro viaggio terminerebbe in una spaventevole caduta.

Noi speriamo un giorno di ridiscendere sulla terra. Se ciò non dovesse avvenire, considerateci pure come morti.

«Carvalho e Souza»

Il capitano, terminata la lettura, si era alzato, fermandosi dinanzi a Faja.

— Che cosa ne dite voi di tutto ciò? — gli chiese.

— Io nulla posso dire, signore, fuorchè d’aver veduto quei due scienziati inalzarsi dinanzi i miei occhi. È a voi, signor comandante, che volevo chiedere se credete che essi possano essere riusciti nel loro intento.

— Io sono convinto che non abbiano potuto attraversare la massa d’aria che circonda la nostra terra e che abbiano finito per ricadere, ammenochè continuino a girare intorno al globo. Si faranno delle ricerche e vedremo se si potrà sapere qualche cosa di quei due audaci.

La sera stessa la piccola nave da guerra lasciava Allegranza, conducendo con sè l’alcade, e faceva rotta per Cadice.

Il Governo spagnuolo e gli scienziati d’Europa si erano già vivamente preoccupati per fare delle indagini a fine di chiarire la sorte toccata ai due brasiliani, tanto più che due altri documenti, affatto simili al primo, erano stati pescati, uno nell’Atlantico meridionale e l’altro nell’Oceano Pacifico a duecentocinquanta miglia dalle coste del Chilì.

Furono mandati ordini in tutte le colonie e furono pregati i capitani delle navi di fare ricerche negli oceani, con la speranza di trovare almeno qualche frammento di quella macchina straordinaria, ma senza risultato.

Fu solo quattordici mesi dopo che si potè sapere qualche cosa dell’esito di quel viaggio che aveva tanto commosso il mondo scientifico.

Una nave inglese, proveniente dai porti della Cina, aveva raccolto un uomo che aveva trovato su un’isoletta disabitata delle isole Condor, a sud della penisola indomalese.

Era un vecchio di sessanta e più anni, che aveva il volto coperto da una lunga barba e non aveva indosso alcun indumento.

Dapprima era stato preso per un naufrago, poi da alcune frasi sconnesse il comandante della nave aveva potuto capire che quell’uomo, che doveva essere diventato pazzo, non era approdato su quell’isolotto con una nave, nè con una scialuppa.

Asseriva di essere caduto dal cielo dopo una lunga corsa attraverso gli spazi celesti, e di essere di nazionalità brasiliana e di chiamarsi Souza.

Asseriva di essere caduto dal cielo dopo una lunga corsa...

Condotto a Calcutta ed interrogato lungamente, aveva confermato, dopo lunghe esitazioni, quanto aveva narrato al capitano che lo aveva trovato nell’isolotto deserto.

Disgraziatamente quell’uomo era pazzo e non riusciva a dare chiare spiegazioni sul modo con cui era giunto su quella terra. La sola frase che ripeteva, era sempre la medesima

— Sono caduto dal cielo.

Condotto a Rio de Janeiro, non fu possibile stabilire se si trattava veramente del membro dell’Accademia scientifica che quindici mesi prima era partito assieme a Carvalho per tentare quel viaggio meraviglioso. Alcuni suoi vecchi amici avevano affermato di riconoscerlo per Souza, altri lo avevano negato; era bensì vero però che il viso del povero pazzo era coperto di cicatrici che parevano prodotte da profonde bruciature; e che dovevano renderlo irriconoscibile, anche ai suoi stessi amici.

Ad ogni modo vani furono tutti i tentativi per identificarlo.

Fu rinchiuso in una casa di salute dove visse alcuni anni, ripetendo sempre, a chi lo interrogava — Sono caduto dal cielo.

Si trattava del vero Souza o di un altro? Mistero.

Il fatto sta che, per quante ricerche fossero fatte, più nulla si potè sapere della macchina innalzatasi sull’isolotto di Allegranza.

È probabile che per qualche causa fosse caduta e che dei due scienziati il solo Souza – chi sa per quale miracolo – fosse sfuggito alla morte, salvandosi su quell’isolotto sperduto nell’Oceano Indiano.

LEGGI L’ORIGINALE SU WIKISOURCE: Alla conquista della luna / Emilio Salgari. – Milano : Sonzogno, 1936.

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Qual è la differenza tra arte moderna e contemporanea?

Landscape with Church (Landscape with Red Spots I) Wassily Kandinsky 1913
Dalla collezione di: Museum Folkwang

Moderna, contemporanea. Contemporaneo, moderno. Questi termini sono spesso usati in modo intercambiabile. Quindi c’è davvero qualche differenza tra loro? E se è così, perché? Una risposta è semplice: il tempo. L’arte moderna è venuta prima dell’arte contemporanea. La maggior parte degli storici e dei critici dell’arte collocano l’inizio dell’arte moderna in Occidente intorno agli anni Sessanta dell’Ottocento, continuando fino agli anni Sessanta del Novecento. Invece, arte contemporanea significa arte fatta ai nostri giorni…

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Qual è la differenza tra arte moderna e contemporanea?

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di pramit marattha da Pixabay

Alessandro Barbero – Dante e gli antenati

“Il papà non era cavaliere, il papà era un uomo d’affari, un usuraio. Il nonno stessa cosa, il bisnonno non se ne sa molto. Ma il trisnonno? A Dante bambino in casa di sicuro hanno raccontato: “Il trisnonno era cavaliere!”, “Lo ha fatto cavaliere l’imperatore!”, “È andato alle crociate!”. Ci sarà qualcosa di vero? Noi non lo sappiamo. Ma di sicuro era questo che si raccontava in casa Alighieri.”

Il più noto storico italiano disegna un ritratto di Dante a tutto tondo, avvicinando il lettore alle consuetudini, ai costumi e alla politica di una delle più affascinanti epoche della storia: in questo video, primo di una serie realizzata dalla casa editrice, Alessandro Barbero ci racconta il rapporto tra Dante e i suoi antenati. Un video ideato e prodotto dagli Editori Laterza e realizzato da Mu Produzioni.

IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Rhodan59 da Pixabay 

Alessandro Barbero racconta Dante

Nel silenzio Fernand Khnopff ha chiuso la porta su sé stesso

di Sergio Bertolami

6 – Il Simbolismo in Belgio: Fernand Khnopff.

Lo chiamavano “le Castel du rêve”, il castello del sogno, “la chapelle votive”, la cappella votiva, per l’estetica tutta personale e complicata. Eppure, era di una linearità esemplare, la sua casa. Non il palazzo in cui si è isolato Jean Floressas Des Esseintes, il protagonista di “A Rebours”, romanzo di Joris Karl Huysmans. Mi riferisco alla sofisticata residenza di Fernand Khnopff, tanto lontana nell’immaginario collettivo dalla “scatola” altrettanto sofisticata in cui Edmond Goncourt organizzava la domenica incontri di artisti, in soffitta, ricevendo fra i suoi amici Alphonse Daudet, Guy de Maupassant, Émile Zola. Il paragone tra Khnopff e Des Esseintes è opera di Dumont-Wilden, biografo di Khnopff che designa l’artista come «un Des Esseintes che non ha mai subito l’educazione romantica e non ha mai frequentato la soffitta d’Auteuil». Tre case, dunque; legate tra loro da un filo estetizzante; ma gli ambienti vissuti dai Goncourt e quelli visionari di Des Esseintes o di Khnopff , si delineano differenti quanto distanti.

Facade of the Villa Khnopff. © Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles/ AACB

I fratelli Huot de Goncourt abitavano una casa acquistata in boulevard Montmorency, nell’attuale quartiere di Auteuil a Parigi. Fernand Khnopff eresse, invece, dalle fondamenta la sua villa a Bruxelles, in Avenue des Courses, ai margini del verde del Bois de la Cambre. Le due case non hanno nulla in comune se non che sono delle case d’artista. Letterati i Goncourt, uno dei massimi pittori simbolisti Khnopff. I primi però erano tesi a valorizzare ed esaltare la bellezza del passato, il secondo a prefigurare il cambiamento del prossimo futuro. I fratelli Edmond e Jules de Goncourt si stabilirono in quel loro villino nel 1868. Due anni dopo – alla morte di Jules, il più giovane – Edmond avrebbe voluto vendere tutto e fuggire dai ricordi. Fu allora che cominciò a pensare a un’asta in cui smembrare, quando fosse sopraggiunta anche la sua ora, la collezione d’arte francese del Settecento e le preziose stampe orientali che avevano contribuito alla moda della «Japonaiserie» parigina. Nel Journal – il diario dei due fratelli rimasto famoso per la quantità di notizie, aneddoti, scene di vita – emerge spesso l’amarezza per il disinteresse verso la casa da parte dei visitatori, l’inadeguatezza dei loro commenti, incuriositi soltanto dall’età degli oggetti o dal loro valore commerciale. Ogni angolo, dal pavimento al soffitto, era invece degno d’attenzione, per la cura dei particolari, delle soluzioni, oltre che per le raffinate collezioni d’arte. Fragilissime. Non mancano note sull’inquietudine ansiosa del padrone di casa nel vedere sfiorare i propri tesori da mani incaute. Il catalogo in due volumi di questa casa d’artista, redatto da Edmond de Goncourt, è arricchito da evocazioni fotografiche e descrizioni. Accompagnano il lettore da una stanza all’altra, da percorrere come un museo. È infatti, tuttora, un museo da visitare.

Edmond Pelseneer, L’Atelier Fernand Khnopff 1900, Archives D’Architecture Moderne, Brussels

Anche le immagini della villa di Fernand Khnopff a Bruxelles le troviamo riprodotte su pochi, selezionatissimi libri. Comparvero nella prima biografia dell’artista, pubblicata dal suo amico Louis Dumont-Wilden nel 1907, poi nell’articolo del 1912 di Hélène Laillet. Oggi quelle foto, che ritraggono stanze e corridoi vuoti – così diversi dalla casa densa di oggetti dei fratelli Goncourt – sono le uniche testimonianze rimaste, perché l’edificio è stato abbattuto dagli eredi tra il 1938 e il 1940 per elevare un anonimo condominio.

Fernand Khnopff, Chiudo la porta su me stessa (1891), Neue Pinakothek, Monaco di Baviera
Fernand Khnopff, Le carezze (1896); Musées Royaux des Beaux Arts de Belgique, Bruxelles

Quegli intellettuali che conoscono Fernand Khnopff, lo ricordano soprattutto quale pittore e fra le sue opere rammentano senz’altro dipinti enigmatici come Chiudo la porta su me stessa (1891) oppure Le carezze (1896). Nondimeno, Khnopff assistito dall’architetto belga Edouard Pelseneer ha elaborato le linee eleganti ed eteree della costruzione che sarà la sua abitazione e il suo atelier. I primi schizzi furono probabilmente compiuti nell’ottobre del 1899; il progetto elaborato nel marzo 1900 e la costruzione conclusa nel 1902. Poche persone sono state ammesse al suo interno e fra queste Hélène Laillet che scrive: «Se hai la fortuna di entrare, il domestico apre silenziosamente la porta e ti fa passare in un’anticamera decorata interamente di bianco, con pareti di stucco lucido. Da una posizione di orgoglio, un superbo pavone indiano impagliato osserva con la coda dell’occhio; è il guardiano altero di questa austera dimora».

The Antechambre. © Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles/ AACB.

Villa Khnopff era internamente tinteggiata di bianco, blu e oro. Il nero laccava soltanto i telai di porte e finestre. L’articolo di Hélène Laillet offre al lettore una vivida descrizione degli ambienti. Persino le foto possono riuscire fuorvianti, perché, quando si scorgono grigi alle pareti o al soffitto, sono semplicemente ombre. «Un drappo serico di un blu grigiastro, artisticamente sbiadito, si scosta e Fernand Khnopff, uomo di mondo, ti dà il benvenuto. Ma non ha quasi il tempo di assumere questa maschera mondana prima che venga messa da parte; dall’altra parte del sipario di seta esiste solo la personalità dell’artista, si impone e si ritrova in ogni minimo dettaglio dell’armonioso ambiente. Sembra quasi impossibile rendersi conto che cinque minuti fa eri per le strade trafficate di Bruxelles, perché qui nessun suono dal mondo esterno turba la mente, nessuna finestra ti mette in contatto con la vita; la tua immaginazione ti porta via e ti senti lontano da tutto ciò che è basso, meschino e senza valore; sei nel regno del bello e in questa atmosfera purificata senti un bisogno impellente di silenzio per poter ottenere, solo un momento, qualcosa d’ideale. Sì, il silenzio è necessario in questo lungo corridoio bianco pieno di una radiosità dolce e riposante; la luce del giorno entra attraverso curiose finestre di vetro colorato su cui i colori del blu e dell’oro, in combinazione, formano fiamme e figure fantastiche».

The Corridor. © Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles/ AACB.
The White Room (Dining Room). © Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles/ AACB.

C’è qualcosa di vago e inquieto nell’atmosfera di queste stanze. Sapendosi poco compreso Khnopff si rifugia nella solitudine e nel silenzio. Pare che abbia voluto riproporre le parole di Alfred de Vigny «Solo il silenzio è grande, tutto il resto è debolezza». L’essenza della casa è immateriale. Se l’artista non ce lo dicesse, noi visitatori occasionali non ci accorgeremmo, per esempio, di essere entrati in sala da pranzo fino all’ora dei pasti, quando compare un tavolino, per poi scomparire subito dopo essere stato sparecchiato. Diversi gradini alla fine del corridoio conducono allo studio. Qui, rispetto alle altre stanze, pare di sentirsi più a proprio agio, ma il senso di mistero diviene, al contrario, maggiore. Di fronte alla porta c’è un altare sacro a Hypnos, composto da una vetrina in cristallo poggiante su un piedistallo in vetro, fuso da Tiffany; due chimere di bronzo dorato mettono in risalto la scritta “On n’a que soi”. È il motto distintivo del pittore: “Non abbiamo che noi stessi”. Khnopff ripete spesso queste parole. Hypnos – una copia della testa in bronzo conservata al British Museum, risalente al IV secolo a.C. – è il dio greco del sonno. «Hypnos – osserva Hélène Laillet – diffonde in tutta la casa l’atmosfera del sonno, un sonno che conduce ai sogni».

Bronze head from a statue of Hypnos, 350 – 200 B.C. The British Museum, London.
The main studio with the altar of Hypnos on the right. © Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles/ AACB.

L’atelier è diviso in due ambienti, separati da tendaggi: uno per i lavori completati, che sembra quasi una sala espositiva, l’altro per i lavori in corso. Non c’è un solo dettaglio che non denoti il desiderio di una completa armonia, come in quel motto inglese che il pittore ha fatto suo: “Make the best of everything”, Ottieni il meglio da tutto. Non è facile leggere la mente creativa di Khnopff, neppure osservando minuziosamente i numerosi disegni in cui ha espresso qualcosa di sé. Neppure nel vederlo all’opera. In una delle foto, l’artista si fa riprendere mentre lavora a un grande dipinto posto sul cavalletto. Anche la sua figura sembra parte della ricercatezza che si respira nella villa, dove lo spazio di lavoro e di vita sono stati trasformati in un tempio dell’arte.

Fernand Khnopff in his studio.
The Blue Room.© Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, Bruxelles/ AACB.

Al piano superiore, riposa dopo il suo lavoro, cullato dai suoni del pianoforte. Dal bay-window non vede altro che fogliame verde. In questa “Chambre bleue”, come in quella di Mme de Rambouillet, tutti gli oggetti sono pezzi unici e portano firme illustri: un quadro di Delacroix, alcune opere di Gustave Moreau. Immerso nel suo preziosismo seducente Khnopff sogna e compone opere bellissime. Quasi sottovoce, Hélène Laillet annota: «Nella sua casa, espressione del suo ideale, lontano dal mondo, tagliato fuori da tutte le influenze esterne, solo nella sua solitudine altezzosa, Fernand Khnopff ascolta soltanto la voce dell’arte, e lavora metodicamente allo sviluppo della coscienza di sé stesso. Quando i giovani pittori vengono a chiedergli un consiglio risponde: “Siate soprattutto sinceri; se non avete niente da dire, non dite niente”. “L’arte non è una necessità”, aggiunge».

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Emanuela Rinaldi – Fiabe e denaro, per educare al risparmio e all’economia

I bambini incontrano il denaro ancor prima dei quaderni di scuola. Lo vedono quando la mamma paga il conto dal fornaio, quando l’edicolante porge il resto al papà, quando sfogliano le illustrazioni di un libro che narra di oro, monete e tesori. Anche i personaggi delle fiabe possono giocare un ruolo significativo nell’orientare l’acquisizione di specifici valori e atteggiamenti sulla gestione del denaro, favorendo una corretta educazione finanziaria fin da bambini. Per avvicinare quindi genitori e insegnanti ad alcuni temi dell’educazione finanziaria in modo semplice, divertente e agevole, nasce la proposta dell’Associazione FarEconomia, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e del Consorzio PattiChiari di realizzare la versione “pocket” del libro “Fiabe e denaro. Un libro per educare al risparmio e all’economia”, che accompagnerà i lettori in un percorso di fiabe ed esercizi da proporre a casa e in classe.Età di lettura: da 5 anni.

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IMMAGINE DI APERTURA di Devi J da Pixabay 

Il patrimonio artistico della Camera dei deputati accessibile a tutti

Vai sul sito: arte.camera.it

Con la pubblicazione sul sito web della Camera dei deputati del portale arte.camera.it, il patrimonio artistico custodito dalla Camera dei deputati diventa accessibile a tutti. Si realizza così un importante avanzamento sul piano della fruizione e della valorizzazione delle opere d’arte presenti all’interno delle sedi della Camera. Si tratta di beni – quali dipinti, sculture, arazzi – di proprietà dell’Istituzione o alla medesima pervenute a titolo di deposito dalle più prestigiose istituzioni museali e artistiche del Paese nel corso del tempo, in particolare a seguito dell’ampliamento realizzato nelle prime decadi del Novecento da Ernesto Basile.

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Fregio della Camera dei deputati, 1912, Palazzo Montecitorio, Roma (Wikipedia e sito Camera dei deputati)

IMMAGINE DI APERTURA – Studente innamorato Mario Mafai (Roma 1902 – Roma 1965)

Joris Karl Huysmans: il sublimato di un’arte diversa

di Sergio Bertolami

5 – À rebours, per diletto dello spirito.

Per comprendere i primi anni del Novecento nell’arte, occorre considerare le oscillazioni fra due secoli. In qualche modo, occorre afferrare i concetti di baricentro e stabilità dell’equilibrio, come quando da bambini destava in noi meraviglia vedere due forchette conficcate in un tappo di sughero che rimaneva fluttuante su di un filo. Per comprendere l’arte che si svilupperà è necessario, perciò, tornare indietro e poi di nuovo avanti e poi ancora indietro, in un continuo processo di feedback. Il Simbolismo, al quale si è accennato, è il terreno in cui infatti affonderanno le radici artisti come Picasso, Duchamp, Ernest, Delvaux e tanti altri ancora. Interessa le arti figurative, così come interessa la letteratura. Per questo motivo, ci attarderemo nella casa di Jean Floressas Des Esseintes. È un personaggio immaginario, nato dalla penna di uno scrittore visionario e stravagante come Joris Karl Huysmans, che all’età di 54 anni deciderà di seguire la regola benedettina e da oblato laico prendere il nome di frère Jean, proprio come il suo famoso personaggio. Aveva presagito bene Jules Amédée Barbey d’Aurevilly dopo aver letto “À rebours“, in Italia conosciuto col titolo di “Controcorrente”: «Dopo un libro come questo, non resta altro all’autore che scegliere tra la canna di una pistola e i piedi della croce». L’opera evidenziava, infatti, il malessere esistenziale, una malattia dell’anima che in modo stravolgente ripetutamente si proporrà nel corso del Novecento.

Joris Karl Huysmans

Des Esseintes, raffinato quanto inquietante aristocratico, conta tra le sue passioni quella per l’arte. Erede di una fortuna familiare, decide d’immergersi nel silenzioso riposo di Fontenay, impegnato ad arredare la sua nuova casa in modo fastosamente stravagante, desideroso di sottrarsi a un’odiosa epoca d’ignobile volgarità. Troveremo in queste pagine ricerche estetizzanti: ambienti, mobilio, colori, abbinamenti, rispondono ai contrasti avvertiti nello spirito e nella mente. «Dopo essersi disinteressato dell’esistenza contemporanea, si era risolto a non introdurre nella sua cella larve di ripugnanze o di rimpianti; aveva quindi voluto una pittura penetrante, raffinata, che fosse immersa in un antico sogno, in un’antica corruzione, distante dai nostri costumi, distante dai nostri giorni». Des Esseintes ricerca soluzioni legate più alle idee che alla realtà oggettiva. Nella sua collezione pittorica annovera quadri che non hanno affatto lo scopo di adornare la sua solitudine. Al contrario: «aveva voluto, per il diletto dello spirito e la gioia degli occhi, alcune opere suggestive che lo gettassero in un mondo sconosciuto, gli svelassero le tracce di nuove congetture, gli scuotessero il sistema nervoso con eruditi isterismi, con complicati incubi, con visioni languide e atroci». È nel simbolismo di Gustave Moreau e di Odilon Redon che trova il rapimento di lunghe estasi. Acquista i loro capolavori.

La Salomé di Gustave Moreau nella visione di Des Esseintes

Per notti intere sogna davanti a Salomé che chiede ad Erode la testa di Giovanni Battista. «Nell’opera di Gustave Moreau, concepita al di fuori di tutti i dati del Testamento, Des Esseintes vedeva realizzata la Salomè sovrumana e insolita che aveva vagheggiato. Non era più soltanto la ballerina che strappa a un vecchio, con una torsione indecente delle reni, un grido di desiderio e di foia; che sfinisce l’energia, fiacca la volontà di un re, ondeggiando i seni, scuotendo il ventre, facendo vibrare le cosce; diventava, in un certo qual modo, la divinità simbolica dell’indistruttibile Lussuria, la dea dell’immortale Isteria, la Bellezza maledetta, eletta fra tutte dalle catalessi che le irrigidiva le carni e induriva i muscoli; la Bestia mostruosa, indifferente, irresponsabile, insensibile, che avvelena, come Elena di Troia, chiunque le si avvicini, chiunque la veda, chiunque ne venga toccato». Salomé, dunque, come una divinità simbolica è raffigurata fuori dal tempo, in uno straordinario palazzo dallo stile fantastico e maestoso, con abiti sfarzosi e chimerici. Cosa rappresentavano i simboli di foggia orientale che indossava? «Annunciava al vecchio Erode un dono di verginità, uno scambio di sangue, una piaga impura sollecitata, offerta all’espressa condizione di un omicidio? O rappresentava l’allegoria della fecondità, il mito indù della vita, un’esistenza tenuta fra dita di una donna, strappata, sciupata da frementi mani d’uomo colto da demenza, travagliato da una crisi della carne?». Non i vangeli di Matteo, né di Marco, né di Luca, si dilungavano sulle grazie deliranti e sulle attive perversioni della carnale danzatrice. Al contrario, era il pennello di Moreau a lasciarle intendere, a sollecitarle.

Odilon Redon, L’occhio, come un pallone bizzarro, si dirige verso l’infinito, litografia

Una serie di opere di Redon decorava, invece, le boiserie del vestibolo. Paesaggi secchi e aridi, pianure calcinate, nubi in rivolta, cieli lividi e stagnanti, soggetti sovrastanti come incubi. Questi disegni inauguravano un genere fantastico del tutto particolare, un fantastico fatto di malattia e di delirio, di miraggi allucinatori, terribili. «E, infatti, certi volti, divorati da occhi immensi, da occhi folli; certi corpi cresciuti oltremisura o deformati come attraverso una caraffa, evocavano nella memoria di Des Esseintes ricordi di febbre tifoidea, ricordi tuttavia rimasti nelle notti ardenti, delle orribili visioni della sua infanzia». La stessa febbre tifoidea che si porterà via Aurier, padre del Simbolismo pittorico.

L’idea di Des Esseintes non si ferma ai contemporanei. Per la sua camera da letto sceglie infatti un’opera di Theotokopulos, meglio conosciuto come El Greco. Una pittura sinistra, dai toni del lucido da scarpe e del verde cadavere, che ben si addice all’arredamento immaginato per la sua camera da letto. Solo due erano per lui le soluzioni: o farne uno eccitante alcova, come quella che un tempo aveva a Parigi, un luogo di depravazione notturna all’assalto di vergini dal finto candore; oppure allestire una sorta di cella monastica, un luogo di solitudine e raccoglimento. Combattuto con la sua nevrosi, Des Esseintes scioglie il nodo esistenziale: «A forza di girare rigirare la questione sotto tutti i suoi aspetti, concluse che lo scopo da raggiungere poteva riassumersi in questo: allestire con oggetti gioiosi una cosa triste, o piuttosto, pur conservandole il carattere di bruttezza, imprimere all’insieme della stanza, così trattata, una sorta di eleganza e di distinzione; ribaltare l’ottica del teatro dove miseri ornamenti fanno la parte di tessuti di lusso e costosi; ottenere l’effetto totalmente opposto, servendosi di stoffe magnifiche per dare l’impressione di cenci; in una parola, disporre una cella di certosino che avesse l’aria di essere vera e che, beninteso, non lo fosse». Lascio al lettore il piacere di scoprire nel libro colori e materiali utilizzati, mobili e accessori, per condurre questa esistenza da eremita, grazie alla quale godere dei vantaggi della clausura, senza però soffrirne gli inconvenienti: l’austerità, la disciplina militaresca, il sudiciume, la promiscuità, l’inoperosa monotonia.

IMMAGINE DI APERTURA – L’orologio al Musée D’Orsay – Foto di Guy Dugas da Pixabay 

Dino Finetti, Feroce Saladino – Mai dire mail – 1 (HALF-Book)

MAI DIRE M@IL, eccentrico “Racconto letterario”, come argutamente recita il sottotitolo, poiché la conversazione fra i due protagonisti avviene attraverso “lettere” virtuali – corrispondenza  di amorosi sensi –, essendo la trascrizione integrale di uno scambio di mail fra l’Autore e una sua “amica di penna” (o meglio: “di tastiera”) conosciuta in una community di Internet.
Si tratta, formalmente, di un epistolario, ma sarebbe più corretto definirlo un pamphlet, un dialogo improvvisato, una recita a soggetto fra un uomo e una donna sulla tematica dell’Amore e del Sesso, dove però si trova ben altro che l’ennesima stucchevole apologia delle emozioni sentimentali/erotiche: è un Simposio post-moderno in cui si denuncia l’inafferrabilità, l’assenza, la crudeltà, la disperazione del sentimento amoroso. Il carteggio privato che qui si dà in pasto alle più morbose curiosità, si rivolge a un vasto pubblico di onnivori ed eterogenei lettori, ai voyeur della parola scritta di genere erotico, alle smaniose ricercatrici di emozioni, agli incontinenti sentimentali, ai bulimici divoratori di passioni altrui, agli intossicati del sesso virtuale, alle sensibili creature perdute nei loro sogni d’amore: qui troveranno pane per i loro denti, avranno di che banchettare e sfamarsi.

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IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Gerd Altmann da Pixabay 

I viaggi del futuro? Così li raccontavano a fine Ottocento

Siete curiosi di sapere come se la immaginavano la vita quotidiana a fine Ottocento? Ad esempio, come sarebbe stato viaggiare? Magari alla pazzesca velocità di 150 chilometri orari? Leggiamo una parte del primo capitolo di un libro nato dalla fantasia di Paolo Mantegazza, scrittore, ma anche medico fisiologo e igienista. È uno dei precursori della fantascienza italiana, che nel 1897 descrisse una utopica società del futuro. Il suo viaggio immaginario avviene nell’anno 3000. Ogni problema è stato risolto da una tecnologia meccanica che ha fatto superare anche le vecchie ideologie. Nel suo romanzo ci si imbatte nei temi che nel corso del Novecento diventeranno nodi da sciogliere, come pacifismo, internazionalismo, eugenetica, controllo demografico, libertà sessuale per entrambi i sessi, sperimentazione farmacologica umana e animale. Se vi interessa potete andare a leggerlo per intero.

Paolo e Maria partono per l’Andropoli

«Paolo e Maria lasciarono Roma, capitale degli Stati Uniti d’Europa, montando nel più grande dei loro aerotachi, quello destinato ai lunghi viaggi.

È una navicella mossa dall’elettricità. Due comode poltrone stanno nel mezzo e con uno scattar di molla si convertono in comodissimi letti. Davanti ad esse una bussola, un tavolino e un quadrante colle tre parole: moto, calore, luce.

Toccando un tasto l’aerotaco si mette in moto e si gradua la velocità, che può giungere a 150 chilometri all’ora. Toccando un altro tasto si riscalda l’ambiente alla temperatura che si desidera, e premendo un terzo si illumina la navicella. Un semplice commutatore trasforma l’elettricità in calore, in luce, in movimento; come vi piace.

Nelle pareti dell’aerotaco eran condensate tante provviste, che bastavano per dieci giorni. Succhi condensati di albuminoidi e di idruri di carbonio, che rappresentano chilogrammi di carne e di verdura; eteri coobatissimi, che rifanno i profumi di tutti i fiori più odorosi, di tutte le frutta più squisite. Una piccola cantina conteneva una lauta provvista di tre elisiri, che eccitano i centri cerebrali, che presiedono alle massime forze della vita; il pensiero, il movimento e l’amore.

Nessun bisogno nell’aerotaco di macchinisti o di servi, perchè ognuno impara fin dalle prime scuole a maneggiarlo, a innalzare o ad abbassare secondo il bisogno e a dirigerlo dove volete andare. In un quadrante si leggono i chilometri percorsi, la temperatura dell’ambiente e la direzione dei venti.

Paolo e Maria avevano portato seco pochi libri e fra questi L’anno 3000, scritto da un medico, che dieci secoli prima con bizzarra fantasia aveva tentato di indovinare come sarebbe il mondo umano dieci secoli dopo.

Paolo aveva detto a Maria:

— Nel nostro lungo viaggio ti farò passar la noia, traducendoti dall’italiano le strane fantasie di questo antichissimo scrittore. Son curioso davvero fin dove questo profeta abbia indovinato il futuro. Ne leggeremo certamente delle belle e ne rideremo di cuore.

È bene a sapersi che nell’anno 3000 da più di cinque secoli non si parla nel mondo che la lingua cosmica. Tutte le lingue europee son morte e per non parlare che dell’Italia, in ordine di tempo l’osco, l’etrusco, il celtico, il latino e per ultimo l’italiano.

Il viaggio, che stanno per intraprendere Paolo e Maria, è lunghissimo. Partiti da Roma vogliono recarsi ad Andropoli, capitale degli Stati Uniti Planetarii, dove vogliono celebrare il loro matrimonio fecondo, essendo già uniti da cinque anni col matrimonio d’amore. Essi devono presentarsi al Senato biologico di Andropoli, perché sia giudicato da quel supremo Consesso delle scienze, se abbiano o no il diritto di trasmettere la vita ad altri uomini.

Prima però di attraversare l’Europa e l’Asia per recarsi alla capitale del mondo, posta ai piedi dell’Imalaia, dove un tempo era Darjeeling, Paolo voleva che la sua fidanzata vedesse la grande Necropoli di Spezia, dove gli Italiani dell’anno 3000 hanno come in un Museo raccolte tutte le memorie del passato.

Maria fino allora aveva viaggiato pochissimo. Non conosceva che Roma e Napoli e il pensiero dell’ignoto la inebriava. Non aveva che vent’anni, avendo data la mano d’amore a Paolo da cinque anni.

Il volo da Roma a Spezia fu di poche ore e senza accidenti. Vi giunsero verso sera, e dopo una breve sosta in uno dei migliori alberghi della città, cavarono fuori dall’aerotaco una specie di mantello di caucciù, che si chiama idrotaco e che gonfiato da uno stantuffo in pochi momenti si converte in un barchetto comodo e sicuro. Anche qui nessun bisogno di barcaiuolo e di servi. Una macchinetta elettrica, non più grande di un orologio da caminetto, muove l’idrotaco sulle onde, colla velocità che si desidera».

LEGGI L’ORIGINALE SU WIKISOURCE: Paolo Mantegazza – L’anno 3000 (1897)

IMMAGINE DI APERTURA di Karen Nadine da Pixabay