Questa mattina un po’ tutti abbiamo ricevuto sui nostri telefonini dei post spiritosi e figurine di buon augurio. Ne pubblichiamo uno, per sorridere insieme. «Stufo di illudermi ogni anno con la pace, la serenità, la gioia, l’amore e la salute, per quest’anno chiedo a tutti voi maggiore concretezza. Per il Nuovo Anno sono graditissimi assegni, contanti o monete sonanti. Grazie. E se avete bisogno dell’IBAN, non esitate a chiederlo. Auguri!».
Ci siamo domandati se rivolgervi gli Auguri in modo altrettanto spiritoso e spensierato o viceversa fare degli Auguri più formali e compassati. Dopo “ampia ed esauriente discussione” (come si usa scrivere nei verbali), abbiamo infine deciso di pubblicare un articolo già uscito, ma fra i più cliccati del sito, perché tra il serio e il faceto induce come al solito a riflettere. Per cui ora avete tre scelte: leggerlo, rileggerlo se lo avevate già letto oppure semplicemente accettare I NOSTRI AUGURI PER UN 2022 MIGLIORE DI TUTTI GLI ANNI FINORA TRASCORSI.
IMMAGINE DI APERTURA – Foto di Thomas Ulrich da Pixabay
Hilmar Friedrich Wilhelm Bleyl, noto agli amici come Fritz Bleyl (Zwickau in Sassonia 1880 – Bad Iburg 1966), è uno dei quattro fondatori del gruppo artistico Die Brücke (“Il Ponte”). Forse è il meno conosciuto, rispetto a Ernst Ludwig Kirchner, Erich Heckel e Karl Schmidt-Rottluff. Il meno conosciuto, perché prese parte al sodalizio che avviò l’Espressionismo tedesco soltanto per un paio d’anni. I quattro si erano incontrati, ancora studenti, nelle aule del Politecnico di Dresda. Fritz Bleyl conobbe Ernst Ludwig Kirchner durante il primo semestre di corso e divennero subito molto amici. Insieme si sono avventurati in lunghe passeggiate per studiare la natura e discutere delle loro idee artistiche. C’è chi dice che non siamo noi a scegliere la vita, ma è la vita a sceglierci. In questo caso il detto sembra calzare a pennello, perché Fritz, che studiava architettura solo per assecondare i desideri dei genitori, sognava di diventare un pittore, ma fu l’unico fra i quattro amici che condusse la sua esistenza facendo davvero l’architetto e insegnando ai giovani come diventare a loro volta degli architetti. A partire dal 1906, infatti, fu impegnato alla Bauschule (la Scuola Edile) di Freiberg e presso la Scuola di Falegnameria Applicata, dove insegnò disegno a mano libera e disegno ornamentale. È scritto ovunque che Bleyl scelse una “vita borghese” piuttosto che l’anticonformismo: si sposò nel 1907 con Gertrud Tannert e svolse una professione che gli permetteva di mantenere dignitosamente la famiglia. Il convincimento prevalse sulle aspirazioni di cambiare l’arte del nuovo secolo, così in quello stesso anno 1907 si svincolò dal perseguire gli intenti della Brücke e mollò tutto. Da quel momento in poi Bleyl continuò a insegnare e a lavorare, conducendo una vita tranquilla. E questo non è affatto indice di demerito.
Eppure, in quei primi anni i quattro amici condividevano tutti l’atteggiamento libertario e le idee rivoluzionarie di Kirchner. La ribellione contro la pittura tradizionale e accademica rispecchiava un sentimento comune fra la maggior parte dei giovani artisti dell’epoca. La vera novità che li caratterizzava era invece la nuova proposta estetica: un “ponte” fra la tradizione dell’arte tedesca (quella di Albrecht Dürer, Matthias Grünewald e Lucas Cranach il Vecchio) e il presente moderno, che infervorava di convinzioni innovative le avanguardie europee. Fritz Bleyl stesso descrisse le riunioni del gruppo della Brücke nel primo studio di Kirchner a Dresda, ricavato in un’ex macelleria. Era quello lo spazio «di un vero bohémien, pieno di dipinti sparsi dappertutto, disegni, libri e materiali d’artista. Era molto più simile all’alloggio di un artista romantico che alla casa di uno studente di architettura ben organizzato». L’asserzione suona come una sottile critica. Lo studio di Kirchner era in verità uno spazio dove incontrarsi liberi dalle convenzioni sociali. Schizzi e foto lo dimostrano. Vi si tenevano in gruppo esercitazioni di disegno dal vero, per cui, volendo rompere con le scrupolosità accademiche, iniziarono a fare rapide sessioni estemporanee di un quarto d’ora, prediligendo di riportare su carta atteggiamenti consueti, nel tentativo di catturare ogni spontaneità. Le modelle che ritraevano nude, in quei primi lavori, non erano delle professioniste come quelle che posavano nelle aule didattiche delle accademie. Appartenevano piuttosto alla cerchia di amiche e fidanzate che Kirchner raccoglieva intorno a sé nel proprio studio. In effetti, i rapporti che s’intrattenevano suggeriscono amori istintivi e allegre capriole. Bleyl ha descritto una di queste modelle, Isabella, una quindicenne del quartiere, «molto vivace, dai bei lineamenti, gioiosa, senza alcuna deformazione causata dalla stupida moda del corsetto e pienamente adatta alle nostre esigenze artistiche, soprattutto nella stagione in cui prendeva a germogliare la sua femminilità». Tutto sommato, uno stile di vita spregiudicato che forse poco si addiceva al carattere appartato di Bleyl.
Dal punto di vista artistico, in quei primi anni, Bleyl contribuì attivamente e con passione ai lavori della Brücke. Dal momento che si era indirizzato alla progettazione grafica toccava a lui, in quanto pittore e incisore, produrre manifesti, locandine e biglietti per le esposizioni aperte al pubblico dal gruppo. Da settembre a ottobre del 1906 si tenne la prima mostra collettiva, nello showroom di K.F.M. Seifert e Co. a Dresda. Tema scelto era, ovviamente, il nudo femminile, derivato dagli studi dal vero. Bleyl realizzò un manifesto litografico promozionale, stampato con inchiostro arancione su carta bianca. Il suo formato stretto e lungo si distingueva dall’usualità, più simile alle xilografie giapponesi anziché alle stampe contemporanee. Tutt’altra cosa rispetto al manifesto realizzato nel medesimo anno da Otto Gussmann per la Terza Mostra tedesca di arti applicate di Dresda. Immagine liberty di donna, quella di Gussmann, avvoltolata in un abito fluente, con una corona in capo, esibisce una lampada che i visitatori troveranno nei padiglioni in esposizione. Bleyl, al contrario, per pubblicizzare la collettiva artistica della sua Brücke, ritrae le curve sensuali di Isabella in un nudo solarizzato a figura intera, eretta in piedi sulla scritta Mostra del gruppo artisticoBrücke (Ausstellung kunstlergruppe Brücke). La censura, manco a dirlo, vietò – appigliandosi a una sottigliezza – la collocazione in pubblico del manifesto, ai sensi dell’articolo 184 della legge nazionale sulla pornografia. Non per il nudo in sé, ma per l’idea dei peli pubici che l’ombra sotto il ventre faceva intuire.
Gli anni studenteschi che vanno dal 1901 al 1906 sono stati oggetto di studi attenti e approfonditi sulla base della documentazione conservata al Politecnico di Dresda. La domanda spontanea che sorge è come mai quattro studenti che in teoria avrebbero dovuto interessarsi al disegno tecnico di piante ed alzati edilizi, alle geometrie prospettiche ed assonometriche, allo studio della storia dell’arte e della composizione architettonica, fossero presi piuttosto dal disegno a mano libera e da escursioni didattiche naturalistiche. La risposta è semplice, quasi scontata: l’ordinamento universitario, già avanti in quegli anni, offriva alla formazione degli studenti di architettura una vasta gamma di corsi, tra cui arredamento d’interni, disegno artistico, storia e critica dell’arte, nonché aspetti teorici e pratici delle arti applicate. Questo mette in dubbio le affermazioni gratuite che gli artisti della Brücke fossero totalmente autodidatti. Sono stati ricostruiti i corsi impartiti a Dresda in quegli anni, così come si è esaminato il semestre invernale di Kirchner del 1903-1904, trascorso nei laboratori della scuola d’arte Debschitz e della Obrist Art School di Monaco. Parimenti, sono state analizzate le minute delle lezioni di Hermann Obrist e dei due più noti professori di Dresda, Cornelius Gustav Gurlitt e Fritz Schumacher. Questo per comprendere quale influenza possano aver avuto sugli studenti dell’epoca le idee e le posizioni teoriche dei loro insegnanti.
Nel 1905, Bleyl completò gli studi universitari e, dall’anno successivo, iniziò a insegnare alla Bauschule. Per il resto dei suoi anni continuò a dividersi fra il lavoro didattico e la professione tecnica. Nel 1910 tornò a Dresda ed entrò nello studio dell’architetto Ernst Kühn fino al 1912, quando lasciò Dresda e lavorò sempre come architetto nell’ufficio immobiliare di Korff a Laage (Meclemburgo-Pomerania). Dopo la chiusura dell’ufficio, fu di nuovo a Dresda nel 1915/16 per coadiuvare Cornelius Gurlitt nel suo studio e sotto la sua guida completare la tesi di dottorato all’Università di Dresda. L’estro artistico Bleyl lo riservò privatamente al disegno e alla grafica, ma si astenne sempre dalle pubbliche esposizioni. Nel corso della Prima guerra mondiale, prestò servizio militare a Sensburg nella Prussia orientale e diresse le officine per disabili di guerra nell’ospedale di riserva di Görden, vicino al Brandeburgo. A guerra conclusa, negli anni Venti e Trenta, annualmente viaggiò per studio in Germania e all’estero. Visitò Boemia, Italia, Svizzera. Nel 1919 era stato nominato Consigliere di Stato per l’Educazione, nel 1940 divenne anche Consigliere di Stato per l’Architettura presso la Scuola Statale di Architettura di Berlino. Sempre dal 1940, trovò lavoro come insegnante e funzionario edile presso la scuola di edilizia di Berlino/Neukölln. Quando il suo appartamento nella capitale fu confiscato nel 1945, si trasferì prima a Calbe/Saale e dall’anno successivo decise di stabilirsi con suo fratello Herbert a Zwickau, dov’era nato, e ci rimase per tre anni, fino al 1948, per raggiungere quindi suo figlio vicino a Colonia. Dopo aver soggiornato in una casa di riposo a Knechtsteden e nell’insediamento forestale Schlebusch vicino a Leverkusen, a partire dal 1959 si stabilì definitivamente in Svizzera, a Lugano. Morì a Bad Iburg, in Germania, all’età di 85 anni.
Ernst Ludwig Kirchner (Aschaffenburg 1880 – Frauenkirch, presso Davos, 1938). È spesso considerato il rappresentante più tipico del gruppo Die Brücke, la personalità più interessante, il più dotato di talento e creatività. Senza dubbio è la guida spirituale del sodalizio artistico, il riferimento teorico, il principale organizzatore. Alla base del suo carattere è una irrequietezza esistenziale che lo porta a sperimentare nuove forme d’arte, esplorare percorsi alternativi. Tutto ciò è testimoniato dalla ricca produzione, che gli ha permesso di realizzare oltre mille tele e un numero maggiore fra disegni, acquerelli, incisioni, illustrazioni per libri e, in quanto architetto, anche decorazioni d’interni. Pur credendo in un lavoro di gruppo, normalmente preferiva dipingere in solitudine, alla ricerca di una libertà espressiva scissa da qualsiasi vincolo. A cominciare dai vincoli imposti dai critici, dai mercanti d’arte e dai collezionisti.
Visse l’infanzia nella bassa Baviera, dov’era nato il 6 maggio del 1880. Fino a nove anni risiedette a Francoforte per poi trasferirsi a Perlen, presso Lucerna, dove il padre, Ernst Daniel Kirchner – professore di chimica ed esperto in tecnologie industriali – assunse la direzione di una cartiera. Per questo motivo il giovane Ernst fu sempre spinto dalla famiglia a disegnare e dipingere. Il padre venne chiamato a Chemnitz, per insegnare tecniche sulla fabbricazione delle carte, e qui a Chemnitz Kirchner proseguì gli studi e ottenne il diploma del Realgymnasium. Quindi, si recò a Dresda per frequentare i corsi universitari alla Technische Hoschüle, desideroso di assecondare il percorso delineato dal padre. Sin dall’inizio a Dresda alternò interessi non solo verso l’architettura, ma anche verso le tecniche d’incisione, come la xilografia e le stampe. Fonte di ispirazione era il bidimensionalismo giapponese. Inoltre, poteva ammirare le opere dei moderni, come quelle di Seurat, di Gauguin e ancor meglio di Van Gogh, col suo linearismo ondoso e vibrante. Nel 1905 Kirchner abbandona definitivamente l’idea di abbracciare la professione di architetto e il 7 giugno, solo tre settimane prima dell’esame di laurea, fonda l’associazione artistica denominata Die Brücke (Il Ponte). Nel 1906 utilizza lo studio del collega Heckel al numero 60 della Berliner Straße. Nello medesimo anno il gruppo allestisce la prima mostra ufficiale negli spazi espositivi della fabbrica di lampade di Seifert, nel quartiere Löbtau.
Inizia un’attività di ricerca e di riflessione artistica. Nel 1908 visita varie mostre dove sono esposte opere Vincent van Gogh e dei Fauves. Durante l’estate si reca per la prima volta sull’isola di Fehmarn, nel mar Baltico. Nel gennaio del 1909 alla Galleria Paul Cassirer visita la prima personale di Matisse in Germania, a distanza di un mese, una mostra di Cézanne. Il Museo Etnografico di Dresda riapre i battenti a marzo del 1910 e Kirchner scrive agli amici Pechstein e Heckel: «Qui il museo etnografico è nuovamente aperto, anche se solo in piccola parte, ma è un godimento e ti si allargano i polmoni a vedere i famosi bronzi del Benin; alcuni oggetti dei pueblos messicani sono ancora esposti e anche sculture negre». Nelle sale osserva una trave dell’Isola di Palau e molti fra i reperti arrivati al museo, frutto di una spedizione tedesca intrapresa nei mari del Sud fra il 1908 e il 1910. «Una trave davvero meravigliosa… le cui raffigurazioni rivelano un linguaggio formale identico al mio». Questo primitivismo è, a tutti gli effetti, il terreno di fondazione per costruire un linguaggio personale, che possiamo vedere evolversi e definirsi nel tempo. Nel 1909, a corto di denaro, è costretto a trovare nuovi locali. L’avvocato e collezionista Gustav Schiefler descrive così il nuovo atelier dell’artista: «Le stanze erano decorate in modo fantastico con tessuti colorati che aveva realizzato usando la tecnica batik, con tutti i tipi di attrezzature esotiche e sculture in legno di sua mano. Un ambiente primitivo, nato per necessità, tuttavia fortemente segnato dal suo gusto. Qui ha condotto uno stile di vita disordinato, se paragonato agli standard borghesi, semplice in termini materiali, ma molto ambizioso nella sua sensibilità artistica. Lavorava febbrilmente, senza badare all’ora del giorno».
Legato a questi concetti è anche uno dei temi più sentiti di questo periodo: i nudi femminili in rapporto con la natura. In contrapposizione con i nudi accademici, i suoi lavori rappresentano espressivamente il sovrapporsi di diverse forme di primitivismo, con preciso riferimento all’Urzustand, letteralmente lo “stato originale”, la condizione umana primaria, arcaica, iniziale. Persone che entrano in mare è un dipinto del 1912. Il fascino di queste escursioni era una fuga spensierata dalla ristretta mentalità cittadina. Kirchner e i suoi amici consideravano i laghi di Moritzburg come un’area nella quale i confini inibitori tra arte e vita svanivano lasciandoli liberi di esprimersi. «Liberati dalla folla urbana, gli uomini e le donne nei dipinti di Kirchner si divertono sotto gli alberi, nuotano nudi nel mare, giocano con archi e frecce o fanno l’amore all’aria aperta, sciolti dai vincoli e dai tabù della civiltà… Spogliati dei loro vestiti e dei loro ornamenti civilizzati, artisti e modelle erano tutt’uno con la natura e conducevano la vita dei moderni primitivi» (Jill Lloyd, German Expressionism: Primitivism and Modernity). Uno stile esistenziale che in Germania era definito Künstler Boheme ovvero vita da Boheme artistica, che sconvolgeva il consolidato concetto sociale di “moralità”, quando ipocritamente erano in molti a sapere che all’epoca numerosi nudisti frequentavano le rive del Moritzburger Teiche, un’area di boschi e bacini lacustri a nord di Dresda in Sassonia. Per Kirchner l’essere umano rappresentato nelle sue opere appare in tutta la sua neutralità, come un elemento della natura, come un nudo immerso nella vastità di un paesaggio in cui cresce come una pianta o un fiore.
Tra le modelle si ricordano Marzella e Fränzi, che posano anche per Pechstein e Heckel. Un’altra modella è Dodo (la sua ragazza dell’epoca), visibile in opere tra il 1908 e il 1911. Marzella e Fränzi sono le figlie della vedova di un artista che viveva vicino a Kirchner. Sono spesso raffigurate, sia vestite che nude, all’interno dello studio ed anche associate a vari manufatti di ispirazione africana scolpiti dall’artista. In una rappresentazione vediamo un’elegante coppia borghese mentre prende del tè nello studio dell’artista, che in pochi tratti di penna fonde tre piani di immagini: nel primo piano spiccano i visitatori alla moda che conversano, al centro ci sono Marzella e Dodo nude e sullo sfondo si scorge il dipinto di Kirchner Danza del funambolo. Anche Fränzi compare in diverse opere, come Fränzi davanti a una sedia intagliata, dove il volto della ragazza è restituito da colori nient’affatto naturalistici, dietro a lei uno schienale in legno intagliato realizzato dall’artista. Sono composizioni pittoriche libere da pregiudizi che permettono a Kirchner e gli altri artisti della Brücke di conquistare presto un vago successo all’interno di una minuscola cerchia di collezionisti. Dopo una mostra a settembre del 1910 alla Galerie Arnold, una delle più importanti gallerie d’arte moderna di Dresda, ora potevano considerarsi realmente i nuovi esponenti dell’avanguardia tedesca.
Il linguaggio personale di Kirchner si evolverà, esplorando nuovi temi, dopo il 1911, quando si trasferisce a Berlino. La ragione principale di tale decisione è la ricerca di una affermazione definitiva della sua arte. Insieme alla sua nuova fiamma, Erna Schilling (1884-1945), dalla quale non si separerà più, Kirchner ricrea l’atmosfera del suo atelier di Dresda, addobbando il nuovo monolocale con arazzi primitivisti, pitture murali e sculture africanizzate da lui stesso scolpite. L’atelier di Berlino è anche concepito come spazio per una sua nuova impresa chiamata MUIM-Institut (che sta per Moderner Unterricht in Malerei, Insegnamento Moderno In Pittura), una scuola d’arte privata fondata col suo amico della Brücke Max Pechstein. L’idea riscuoterà talmente scarsi consensi da richiamare soltanto due studenti, peraltro amici intimi di Kirchner. Nel frattempo, le controversie e le divergenze di opinioni porteranno presto il gruppo della Brücke allo scioglimento. Nel 1913, infatti, il resoconto sull’attività dell’associazione, redatto da Kirchner, provoca lo scontento dei soci, che preferiscono mettere fine all’esperienza comune. Da ora in poi, l’artista affronterà una serie di traversie che lo formeranno nel profondo. I temi dell’uomo immerso nella natura, una volta che si trova a vivere l’atmosfera berlinese lasceranno spazio alle molte scene ambientate nelle strade della grande metropoli.
Questo ambiente urbano, del tutto nuovo per lui, lo attrae, tanto quanto lo respinge. In dodici dipinti ad olio Kirchner rappresenta Scene di strada, dai forti contrasti coloristici, caratteristici della sua produzione berlinese. All’epoca, la città si presentava già come una metropoli sempre più in espansione. Un centro vivace anche sotto il profilo artistico e culturale. Il gruppo della Brücke fa il suo esordio con una collettiva alla galleria Gurlitt, ma, anche dopo l’epilogo delle attività comuni, Berlino continua ad esercitare forti attrazioni su Kirchner, proprio per la sua vita convulsa. Nel 1931 in Omnibus scriverà un articolo autobiografico Über Leben und Arbeit (Sulla vita e sul lavoro), affermando: «Le luci della città moderna e il movimento delle sue strade sono per me un continuo stimolo che sempre si rinnova». Ecco, dunque, che ai nudi gioiosi e spontanei, raffigurati sulle coste dei mari del Nord o dei laghetti di Moritzburg, subentra la calca cittadina, che restituisce all’autore un senso panico, opprimente e claustrofobico. Un dinamismo che ritrova, per certi versi, nelle due mostre alla galleria Sturm di Walden del 1912, dove può osservare da vicino le opere dei futuristi italiani (Boccioni, Carrà, Russolo, Severini) imperniate proprio sulla città moderna. Nel suo diario scriverà, ponendo come titolo Le mie immagini di strada: «sono nate fra il 1911 e il 1914, in uno dei periodi di maggiore solitudine della mia vita, quando un’inquietudine tormentosa di giorno e di notte continuamente mi faceva uscire di casa, nelle lunghe strade piene di gente e di vetture».
Naturalmente prende appunti, schizzi, che tramuta in disegni, pastelli, incisioni a stampa. Diventa un testimone, del tutto soggettivo, della frenesia urbana, identificata nei nomi dei viali principali o delle loro traverse. Cinque donne per strada, è il primo quadro della serie. Si vedono cinque donne elegantemente vestite, donne da marciapiede, pronte ad attrarre clienti: una scena notturna della capitale subito prima della guerra, nell’autunno del 1913. A sinistra dell’immagine è appena rappresentata una ruota d’automobile, simbolo della mobilità in tempi moderni. In Scena di strada berlinese, alle spalle dei personaggi in primo piano, raffigura, invece, un servizio tramviario: un omnibus trainato da due cavalli sul quale i viaggiatori stanno prendendo posto ed altri che si accalcano sul predellino per salirvi. Individui disinteressati gli uni degli altri. Sul piano frontale spiccano quattro figure: due signori di spalle (uno gira distrattamente il capo, mostrando la sigaretta che pende dalle labbra) e due eleganti signore. Fin troppo vistose. Indossano cappelli con piume e soprabiti lunghi fino alle caviglie: sono due cocotte, nome dai molteplici sinonimi che oggi potremmo trasporre con escort d’alto bordo. Il contrasto è netto in questa città moderna: da una parte l’atmosfera esagitata, caotica, vociante e sferragliante, dall’altra la solitudine e l’alienazione dei più, quell’incomunicabilità anche fra la moltitudine, che ritroveremo frequentemente espresse nelle opere di molti altri autori nel procedere del Novecento. Ma il contrasto si ripercuote anche nell’animo dell’artista che scriverà nel 1916: «Siamo come le cocotte che ho dipinto, travolte, destinate a scomparire. Tuttavia, cerco sempre di riportare equilibrio nei miei pensieri e di creare un’immagine del tempo, ponendo ordine nel caos circostante: questo è il mio compito». Si può comprendere chiaramente come i temi di Kirchner ruotino sempre intorno alle persone e nel compenetrarsi con esse mostra tutta la sua angoscia. In queste rappresentazioni la critica alla società del proprio tempo diventa estremamente esplicita.
A Berlino Kirchner prende a frequentare gli ambienti letterari dell’avanguardia, come il Neue Club, un cabaret fondato da Kurt Hiller e Jakob van Hoddis nei cortili di Hackesche Höfe. Oppure, la cerchia degli intellettuali facenti capo alla Weltbühne, nata col nome di Die Schaubühne come rivista di puro teatro, che dal 1913 aveva cambiato nome per occuparsi di politica, arte e affari. Kirchner espone nella sua prima mostra personale, proprio a ridosso dello scoppio nel 1914 della Grande guerra. È richiamato alle armi, assegnato al 75° reggimento di artiglieria, ma il suo spirito libertario e irriducibile gli impedisce di attenersi alla disciplina militare. Più che come un dramma collettivo, vive il conflitto come un dramma personale: «enormi compiti ci aspettano; personalmente non potrò parteciparvi molto; sopporto tutto, meno questa sistematica distruzione che ora è di moda e della quale diventerò probabilmente vittima, sia che lo voglia o no». Ben presto è congedato per inidoneità al servizio militare. L’esperienza bellica sconvolge intensamente Kirchner, che a dicembre del 1915 è ricoverato nel sanatorio di Königstein, dove i medici lo reputano inguaribile. Il crollo fisico e mentale lo spinge verso la droga, dalla quale si libererà con fatica. A poco a poco, riesce a recuperare la fantasia creativa.
Gli sta accanto Erna Schilling, compagna della sua vita. Erna si occupa anche degli affari dell’artista, supplendo agli alti e bassi del suo esaurimento nervoso e badando al patrimonio finanziario ora in crescita, grazie alla vendita dei quadri. Dal 1923 la coppia si trasferisce nella “Wildbodenhaus” a Davos Frauenkirch (in Svizzera). Le montagne e la vita semplice dei pastori lo rincuorano. Ritrova lo spirito di gioventù. Scrive nel suo diario: «La nostra nuova casetta è una vera gioia per noi. Vivremo qui comodamente e in un grande nuovo ordine. Questo sarà davvero un punto di svolta nella mia vita. Tutto deve essere accomodato e la casetta arredata nel modo più semplice e sobrio possibile, pur restando bella e intima».
Nel 1926 rientra per la prima volta in Germania. Riceve l’incarico per un grande dipinto murale nel Museum Folkwang di Essen. L’artista elabora numerosi schizzi e studi, ma nel 1933, per via dei contrasti con la direzione e la situazione politica tedesca, il progetto di decorazione viene abbandonato. Due anni prima era stato nominato membro dell’Accademia Prussiana delle Arti di Berlino. Quando, però, i nazionalsocialisti prendono il potere in Germania, per l’artista diviene impossibile vendere i suoi quadri. Kirchner rimane inizialmente membro dell’Accademia, ma la sua arte risulta invisa al potere e nel luglio 1937 è infine destituito. Centinaia di opere sue vengono sequestrate e rimosse dai musei: sono ben 639, delle quali 25 dirottate a Monaco di Baviera, per essere esposte in una mostra diffamatoria di “Arte degenerata”, organizzata per propaganda dal partito nazionalsocialista, che dal 1933 al 1945 è l’unico partito ammesso in Germania. L’esposizione, voluta da Hitler, è inaugurata nel luglio 1937 e rimane aperta fino al mese di novembre dello stesso anno. Le difficili condizioni economiche, aggravate dalla malattia, che lo costringe a letto per lunghi mesi, acuiscono i problemi.
Dal 1932 è nuovamente dipendente dalla morfina e in una lettera all’amico Erwin Friedrich Baumann, architetto e scultore, gli descrive il pericolo della droga. Ricaduto nei propri drammi psicologici, come ai tempi della guerra, Kirchner vede un’unica soluzione plausibile, per affermare il proprio ideale di artista libero. Muore suicida a Davos il 5 giugno 1938, con un colpo al cuore. La sua pistola viene trovata a un metro di distanza dal corpo. Tuttavia, il colpo è così preciso da destare sospetti. Secondo il referto medico ufficiale «Il cuore è stato centrato così bene che la morte è risultata immediata»; ma l’esperto di armi Andreas Hartl, afferma per contro che tutto ciò era assai difficile, con il modello FN Browning 1910, a causa del dispositivo di sicurezza sull’impugnatura dell’arma. Per certo sappiamo che al momento del suicidio, secondo la sua compagna, sul cavalletto c’era il dipinto Schafherde (Gregge di pecore, 1938). «La sua casa sul Wildboden è difficilmente riconoscibile: nessuna porta, nessun fiore, nessuna visione chiara, finestre di studio cieche. Un grande gregge di pecore, intorno alla casa, blocca la via d’uscita, la via della libertà» (Albert Schretzenmayr).
Il primo decennio del Novecento vede il manifestarsi delle “avanguardie”, gruppi di artisti o singole individualità, che operano in rottura drastica con la tradizione, fanno circolare manifesti e diffondono programmi, accompagnati da pubbliche manifestazioni considerate dal perbenismo comune come provocatorie. Nelle arti figurative, tra le avanguardie artistiche stiamo considerando l’Espressionismo, con le più importanti esperienze esercitate da Die Brücke e Der Blaue Reiter. Nelle pagine a seguire si potranno leggere almeno i tratti essenziali del Fauvismo e Cubismo. Ci accorgeremo come progressivamente queste correnti saranno sempre più accomunate da una forte tendenza non figurativa, tanto da convergere nell’astrattismo, distinguendo, così, De Stijl, Costruttivismo, Futurismo, Raggismo, Dadaismo, Surrealismo. La letteratura in proposito è notevole e variegata, per questo è consigliabile leggerla direttamente, anziché accontentarsi delle sintesi approssimative che si trovano dappertutto. Il fil rouge, che qui seguiremo, cercherà di essere utile come indirizzo agli approfondimenti.
Al momento, rimaniamo concentrati sull’Espressionismo, che, come si è visto, si sviluppa a partire dal 1905, e continuiamo a descrivere gli ambiti della cultura artistica tedesca. In pittura i precursori possono farsi risalire a Ensor o Munch, che fra i primi hanno rappresentato il mondo reale direttamente attraverso il filtro della propria personalità. Caratteristica principale è che gli espressionisti tedeschi manifestano una visione del mondo quasi sempre tormentata, tragica e desolante. Tra i maggiori rappresentanti ho citato, finora, solo quelli appartenenti al gruppo della Brücke, che a partire dal 1913 decidono di sciogliersi e continuare a esprimere in modo autonomo le proprie esperienze. Nelle note seguenti, comincerò col parlare dei quattro studenti di architettura, che dettero vita a Dresda nel 1905 proprio al sodalizio della Brücke: Ernst Kirchner (1880-1938), Fritz Bleyl (1880-1966), Erich Heckel (1883-1970), Karl Schmidt-Rottluff (1884-1976). L’idea, infatti, è realizzare delle schede individuali, attraverso le quali descrivere i tratti salienti delle singole personalità e inserire almeno le loro opere più significative. Questa scelta permetterà di seguire negli articoli lo svolgersi delle tematiche artistiche, che per loro natura si intrecciano e si evolvono, mentre le schede dei protagonisti permetteranno di soffermarci su particolarità e dettagli.
Oltre ai tradizionali festeggiamenti, la fine dell’anno coincide anche con i bilanci e non solo quelli economici. In particolare quello del libro Il Signore di Notte, un libro giallo ambientato nella Venezia del 1605, è insolitamente lungo perché abbraccia un periodo di diciotto mesi, cioè da quando è stato pubblicato. I lettori lo hanno definito appassionante, avvincente, interessante, coinvolgente, di spessore storico e addirittura istruttivo, con riferimento in tal caso alle informazioni storiografiche che contiene. Infatti, pur restando un giallo fitto fitto con una trama di pura fantasia, nel racconto rivivono personaggi realmente esistiti all’epoca e divagazioni su usi e costumi dell’antica Venezia, fatti e fatterelli, aneddoti e perfino favole. Il tutto contestualizza il racconto e aiuta il lettore a calarsi nell’atmosfera della città dei dogi tra la fine del Rinascimento e l’inizio del Barocco. Come la corposa bibliografia in coda al libro testimonia, questo ha comportato un certosino lavoro di documentazione per collocare fatti e interpreti al posto giusto e nel momento giusto. Poi ci sono le recensioni, le segnalazioni e i rilanci delle notizie da parte dei media che hanno sfiorato quota trecento.
La trama scorre agile fin dall’inizio, quando in una misera casupola viene rinvenuto il cadavere di un nobile sull’orlo della rovina. Sul luogo si precipita il protagonista, Francesco Barbarigo, uno dei sei Signori di Notte, magistrati e insieme capi della polizia, tutori dell’ordine pubblico in città. Sulle prime pensa che il caso sia una passeggiata, ma presto le cose si complicano tra scontri, agguati e nuovi omicidi o quelli che riemergono dal passato.
La figura del Barbarigo sta agli antipodi rispetto a quelli di certi investigatori ai quali TV e letteratura gialla ci hanno abituato, quelli che sanno tutto, che capiscono tutto e risolvono tutto. Lui invece è pasticcione, goffo, confusionario, inesperto e pure arrogantello. A volte fa sorridere per i suoi esilaranti fallimenti, altre infastidisce. Indaga a casaccio sull’onda dell’improvvisazione o si lancia in congetture improbabili. È anche un uomo complicato, contorto, sempre indeciso e preoccupato di salvare la faccia, mentre a getto continuo affiorano in lui brutte reminiscenze di un passato che non riesce a buttarsi alle spalle.
Per lo più incappa in una relazione strampalata con una dama tanto bella quanto indecifrabile. Vorrebbe fosse un rapporto disinvolto, giusto per il proprio comodo, ma lo assale la paura dell’innamoramento, situazione che ha già vissuto e con mai assopito dolore. Il timore di perdere la dama da una parte e quello di ripetere la brutta esperienza dall’altro gli procurano nuove angosce oltre a quelle che già lo divorano a causa degli impicci delle indagini nelle quali si è infilato.
In soccorso dell’investigatore improvvisato accorre un capitano delle guardie che ha tutta l’esperienza che a lui manca. Il connubio tra i due porterà alla risoluzione del caso, ma dovranno penare un bel pezzo per arrivarci.
Per ulteriori informazioni sul libro giallo “Il Signore di Notte” contattare l’autore Gustavo Vitali – 335 5852431 – skype: gustavo.vitali – gustavo (AT) gustavovitali.it – sito ufficiale – pagina facebook – immagini di libero utilizzo
31 – Die Brücke, perché l’uomo è un ponte, non una meta
Il movimento artistico che rappresentò il primo momento dell’Espressionismo tedesco è quello costituito nel 1905 da quattro studenti di architettura del Politecnico di Dresda, per la precisione il Collegio tecnico reale (Königliche Technische Hochschule): Fritz Bleyl, Ernst Ludwig Kirchner, Erich Heckel, Karl Schmidt-Rottluff. I primi due, i più maturi, avevano 25 anni, gli altri due, i più giovani, avevano rispettivamente 22 e 21 anni. Condividevano il programma di elaborare, piuttosto che nuove forme architettoniche, una pittura svincolata dai canoni naturalistici e accademici. I temi fondanti erano sostanzialmente simbolici, rivolti soprattutto alle introspezioni dell’animo e ai turbamenti esistenziali. Il gruppo nasceva sull’impronta di altre associazioni tedesche, come Die Scholle (la Zolla) e Die Phalanx (la Falange) di Monaco, con il proposito di richiamare a sé gli artisti rivoluzionari o comunque in fermento. A dimostrarlo era chiaramente la denominazione scelta, Die Brücke (Il Ponte), per fare da “collegamento” tra i diversi nuclei di agitazione innovatrice. Il nome pare sia stato suggerito da Schmidt-Rottluff, ispirato da un brano tratto da Così parlò Zarathustra (Thus Spoke Zarathustra) di Friedrich Nietzsche: «L’uomo è una corda, tesa tra il bruto e il superuomo, — una corda tesa su di una voragine. Pericoloso l’andar da una parte all’altra, pericoloso il trovarsi a mezza strada, pericoloso il guardar a sé, pericoloso il tremare, pericoloso l’arrestarsi. Ciò che è grande nell’uomo, è l’essere egli un ponte e non già una meta: ciò che è da pregiare nell’uomo, è l’essere egli una transizione ed una distruzione».
Nel 1906 furono chiamati a prendere parte alla Brücke anche il danese Emil Nolde, il tedesco Max Pechstein, lo svizzero Cuno Amiet e il finlandese Akseli Gallén-Kallela. Nel 1908 accolse l’invito anche l’olandese Kees van Dongen, colui che rese attivo il contatto con i Fauves di Parigi; per ultimo, nel 1910, si unì al gruppo il tedesco Otto Müller. Altri artisti, in modo più o meno assiduo, fecero parte del sodalizio: ancora un olandese, Lambertus Ziji, il ceco Bohumil Kubista e il tedesco Franz Nölken. Dalle origini geografiche dei componenti emerge palesemente il tentativo di costituire un parterre internazionale. Lo scopo, d’altra parte, era anche auto-promozionale, giacché i componenti si proponevano di organizzare esposizioni di gruppo in modo da promuovere, in patria e all’estero, l’attività collettiva. Per stringere un legame con i collezionisti, i membri della Brücke ebbero la buona idea di costituire un circolo di “membri passivi”, la cui quota di adesione annuale di dodici marchi (che divenne di venticinque dal 1912) dava diritto a una tessera, un almanacco e una cartella di xilografie eseguite dagli artisti dello stesso sodalizio. In pratica i soci ebbero modo di essere costantemente informati sulle assemblee, sugli incontri pubblici e sulle circa settanta esposizioni realizzate negli anni a seguire. Ricevettero regolarmente i Brücke Mappen, sorta di resoconti dell’attività, ed anche l’attesa cartella di grafiche a tiratura limitata. Grazie all’interessamento di Heckel, si trovarono gli spazi espositivi necessari. Dopo un esordio poco più che privato, la prima vera manifestazione pubblica non sortì pressoché alcun effetto. Tenuta nel 1906 nella sala vendite della fabbrica di lampade K.F.M. Seifer & Co, l’esposizione passò del tutto inosservata, ma nessuno si perse d’animo, perché alla prima mostra di dipinti ne seguì un’altra di stampe. L’anno successivo si optò per la Galleria Richter, nella Prager Strasse. Questa volta il gruppo riuscì ad incassare l’attenzione della critica, che, però, si manifestò ostile e denigratoria.
I quattro fondatori della Brücke provenivano da famiglie borghesi e, per quanto riguarda l’esperienza artistica, secondo alcuni, erano quasi del tutto autodidatti. Questo non è affatto vero e avremo modo di constatarlo. Nel 1901 Ernst Ludwig Kirchner, figlio di un ingegnere, inizialmente avrebbe voluto intraprendere la professione di architetto, una volta conclusi gli studi al Politecnico. È qui che fece amicizia con Fritz Bleyl. Soprattutto s’imbatté in una serie di mostre d’arte che lo convinsero a deviare il suo percorso di vita. A Monaco, tra il 1903 e il 1904, frequentò per due semestri i corsi della scuola d’arte di Wilhelm von Debscitz ed Hermann Obrist, seguì gli incontri della Secessione, che lo delusero non poco, prese direttamente atto dei lavori Jugendstil. Sempre a Monaco, in questi anni, vide una mostra di post-impressionisti belgi e francesi organizzata dall’associazione Phalanx, presieduta da Kandinskij, e a Dresda, nel 1905, ammirò opere di Van Gogh alla galleria Arnold che negli anni seguenti avrebbe portato anche lavori di Munch, Gauguin, Seurat, Klimt. Il 1905 è, soprattutto, l’anno in cui Kirchner e Bleyl concludono il percorso di studi universitari. Decidono, tuttavia, di dedicarsi alle arti figurative, unendosi a Erich Heckel, che l’anno precedente, dopo la maturità a Chemnitz, si era iscritto ad architettura come il suo compagno di liceo Karl Schmidt-Rottluff. Il gruppo della Brücke era, a tutti gli effetti, completo.
Costituitosi, come sappiamo, nello stesso anno in cui i Fauves esposero le loro prime opere al pubblico del Salon d’Automne a Parigi, il sodalizio della Brücke rappresentò a tutti gli effetti l’avvio dell’arte moderna in Germania. L’humus più favorevole al germinare della nuova arte fu la cultura del post-impressionismo: dal simbolismo allo Jugendstil, al “naturalismo lirico” delle scuole di Worpswede e di Dachau. Influenzati dai pittori più espressivi del momento – Munch, Ensor, van Gogh, Gauguin – entusiasmati dalla rivelazione dell’arte nera e oceanica, che Kirchner ebbe modo di approfondire fin dal 1904 al Museo Etnologico di Dresda, i membri della Brücke si orientarono da subito in senso antimpressionista. Non erano affatto interessati a descrivere le “impressioni”, piuttosto sentivano l’urgenza di proiettare sulla tela le risonanze emotive dei propri sentimenti individuali. Il manifesto del gruppo è inciso da Kirchner in una xilografia: «Con una profonda speranza nel progresso, in una nuova generazione di creatori e di pubblico, chiamiamo a raccolta l’intera generazione di giovani e come la gioventù è legata al futuro, desideriamo procurarci libertà d’azione e di vita, contro le vecchie forze così profondamente radicate. È al nostro fianco chiunque corrisponda con immediatezza e sincerità a quanto lo spinge a creare».
Il programma, formulato da Kirckner nel 1908, è sintetizzabile nei suoi tratti salienti: «Aspirazione ad un rinnovamento totale dell’arte tedesca col suo completo affrancamento degli influssi dell’arte francese; interpretazione di tutta la vita come arte; esaltazione della forza intatta e creativa della gioventù e della carica emozionale della vita e dell’eros; immersione nell’interiorità profonda e oscura dell’io e nelle radici del reale: senso della sacralità primigenia del vivere e liberazione dalla schiavitù della sfera del sociale, secondo quel senso antico del “sacro” che l’Europa e la Germania soprattutto esprimevano nelle sculture medievali e che anche nel mondo moderno si manifesta nella scultura dei popoli primitivi; un esasperato pessimismo con intenti di ribellione morale; ritorno, dunque, dell’uomo (che attraverso il sociale si è alienato la propria autenticità) a se stesso, in un coinvolgimento totale sia della sfera etica sia di quella politica» (Lara-Vinca Masini).
Sono questi i temi che gli artisti della Brücke ritrovano nella lettura di Nietzsche, Kierkegaard, Wedekind, Freud, Ibsen, Strindberg. In altre parole, sono distanti dai valori che permeano l’etica borghese, rigettano l’ottimismo positivistico incentrato sull’illusione di una società sempre in perenne progresso. Punto fermo sono invece le esperienze soggettive, legate ad un’arte irrazionale. Denominatore comune è, infatti, la convinzione che l’emotività interiore e passionale – costante dello spirito germanico e nel contempo ripresa di istanze di derivazione romantica – non possa essere espressa attraverso concetti e parole, ma unicamente con la forza delle immagini. Pur essendo legati da palesi analogie, queste idee rappresentano la differenza sostanziale tra Fauves ed espressionisti della Brücke. «I membri del gruppo tedesco ignorano l’edonismo raffinato e mentale dei loro compagni francesi e tendono all’urlo, alla protesta, al grido dell’anima, anteponendo alla conchiusa bellezza dell’immagine le dissonanze e gli scatti derivanti da una viva partecipazione morale. Le semplificazioni formali, i contorni marcati, le stesure di colori puri e squillanti in uno spazio non naturalistico sono tipici del primo stile della Brücke» (Eraldo Gaudioso).
Il primitivismo evidente in quest’arte espressionista tedesca è sempre assunto come evocazione di una autenticità primordiale, che trova le proprie radici anzitutto nel romanticismo e nell’area simbolista, ma che ora tende ad un tono del tutto particolare. Lungamente represso dalla società, ora esplode, dal profondo dell’inconscio, nello Urschrei, il grido primordiale, e si confonde nello «sforzo di una strutturazione astrattistica, spesso specificamente geometrica» laddove «per “geometria” intenderemo l’astrattizzazione deformatrice e ricostruttrice delle forme naturali». (Ladislao Mittner). «L’esperienza del “primitivo degli artisti di Brücke è stata attinta dal tessuto vivente delle loro vite nella Germania coloniale, piuttosto che semplicemente dalle teche polverose dei musei etnografici» (Jill Lloyd). Queste componenti primitivistiche appaiano manifeste nelle grafiche e in particolare nelle opere xilografiche, recuperate dalla tradizione popolare e dagli incisori tedeschi quattrocenteschi. Per comprendere meglio, basti immaginare l’artista al lavoro, la relazione prodigiosa tra la soggettività dell’impulso gestuale mentre scava il legno e le caratteristiche organiche che costituiscono la sua materia.
Gli artisti del gruppo frequentano la Pinacoteca di Dresda, per formarsi con la visione dei maestri, ma sono attratti soprattutto dalle stampe del Gabinetto delle incisioni, che raccoglie le grafiche di autori moderni come Henri de Toulouse-Lautrec e molte stampe giapponesi. Pechstein compie un viaggio a Parigi nel 1907 e stringe rapporti con i Fauves. Fino al 1908 sono anni di intenso lavoro comune, si frequentano assiduamente e, dipingendo insieme, rinsaldano la propria identità di gruppo. Trascorrono i mesi estivi alla ricerca di spunti naturali e primitivi. Se Gauguin s’era spinto fino a Tahiti, loro raggiungono le coste del Mare del Nord o del Baltico. Nel 1910 Pechstein, Kirchner ed Heckel soggiornano a Moritzburg, vicino Dresda, per dipingere nudi e paesaggi. Per tutto il mese di settembre dello stesso anno, in sei – Pechstein, Kirchner, Schmidt-Rottluff, Müller, Amiet ed Heckel – espongono ottantasette tele alla galleria Arnold di Dresda. Sempre nel 1910, in occasione della XX Secessione di Berlino, l’esclusione di 27 artisti, tra i quali membri della Brücke, costituisce l’occasione per una frattura e la formazione di una Neue Sezession. E in quanto a secessioni,in quello stesso anno, Kirchner, Heckel e Schmidt-Rottluff, partecipano all’esposizione del Sonderbund di Düsseldorf, il cui nome completo testimonia di per sé il carattere contrastato di queste associazioni di artisti: Sonderbund westdeutscher Kunstfreunde und Künstler, ovvero Lega separata degli amanti dell’arte e degli artisti della Germania occidentale.
Dal canto suo, anche il sodalizio della Brücke comincia a mostrare le prime incrinature, dopo anni in cui si era lavorato con unità di intenti, grazie ad affinità di sentimento e di stile. Nolde era uscito dal gruppo nel 1907 e lo stesso aveva fatto Fritz Bleyl, lasciando non solo i compagni per insegnare e sposarsi, ma anche la pittura, così da mettere a frutto la propria laurea in architettura. L’anno stesso si stacca anche Kees van Dongen. Nel 1908 Pechstein da Dresda si trasferisce a Berlino e due anni dopo Kirchner, Schmidt-Rottluff, ed Heckel vi si stabiliscono anche loro. Lasciare Dresda per la capitale è un passo importante, perché, nelle aspettative, trasferirsi da una città relativamente intima e barocca al più ampio ambiente culturale della metropoli, potenzialmente permette di trovare un pubblico molto più reattivo verso il loro lavoro. Scrive Kirchner, ammiccante, a Erich Heckel nel 1911: «Rimarrai totalmente sorpreso quando metterai piede a Berlino. Siamo diventati una famiglia numerosa e qui puoi ottenere tutto ciò di cui hai bisogno: donne e un riparo». In effetti, per un paio d’anni, la città in rapida crescita offre la frenesia e lo stimolo artistico che stanno cercando. Insieme continuano a dipingere oppure a frequentare i ritrovi degli artisti e degli intellettuali, come il caffè Grossenwahn (megalomania), il cui nome sintetizza con ironia tutto il programma. La pittura del gruppo, trattando tematiche di carattere sociale e di costume, assume un carattere ancor più violento in un crescendo drammatico di deformazioni. Oltre alle relazioni, non difettano neppure le partecipazioni alle mostre, come le tre del 1912, che rappresentano, in qualche modo, il canto del cigno della Brücke. Quella tenuta alla galleria Gurlitt dal Der Blaue Reiter (Il cavaliere azzurro), gruppo che si era formato a Monaco di Baviera nel 1911. Una seconda esposizione alla galleria Der Sturm di Herwarth Walden (12 marzo – 12 aprile). Infine la Mostra internazionale d’arte del Sonderbund di Colonia (25 maggio – 30 settembre). Quest’ultima è una concentrazione di artisti di spicco. Ci sono personalità come Picasso, Matisse, Munch e molti pittori indipendenti. Non mancano naturalmente i due gruppi della Brücke e del Blaue Reiter. In quest’occasione Kirchner ed Heckel hanno il compito di decorare una cappella edificata per l’occasione.
Già dai primi mesi del 1912, però, serpeggia il dissenso all’interno della Brücke, causato da interessi contrastanti e dalle accese rivalità che caratterizzano il mondo dell’arte berlinese. Ormai, le divergenze sono all’ordine del giorno. Come conseguenza naturale la competitività finisce col dissolvere l’affiatamento fra gli artisti del gruppo. Sebbene insieme continuino a organizzare mostre collettive a Berlino, la stretta coesione personale va allentandosi col tempo e, quel che è più, i membri si spostano verso differenti orientamenti artistici. Con il movimento del Blaue Reiter, condotto da Kandinskij e Marc, il gruppo della Brücke ha praticamente fine. Pechstein che comincia a mostrare segni di avvicinamento alla nuova formazione, viene espulso nel 1912. La cartella di stampe, preparata per i “membri passivi” con i suoi lavori, è sospesa. L’anno seguente, quando a Kirchner tocca redigere il resoconto dell’attività associativa, il suo testo appare troppo soggettivo. Nella cronaca si rappresenta come la figura di spicco. Con una certa dose autoreferenziale si riferisce a sé stesso in terza persona. Chiaramente, gli altri artisti del gruppo, non si trovano adeguatamente apprezzati.
In questo contesto, il Giudizio di Paride, un olio su tela, dipinto da Kirchner nel 1913, potrebbe avere un significato differente rispetto a un’interpretazione insolita e moderna di uno dei temi mitologici più popolari nell’arte. Figurativamente rappresenta il concorso di bellezza tra Venere, Minerva e Giunone, il cui premio, una mela d’oro, è assegnato da Paride a Venere. Qui Kirchner dipinge tre moderne dee con i loro sensuali lineamenti, simili a maschere esotiche e primitive, ispirate dalle fattezze di Erna (la sua fidanzata). Sfilano di fronte a un Paride seduto in penombra con una sigaretta in bocca. Una delle dee esibisce uno specchietto, simbolo di vanità. Forse il dipinto è semplicemente il ribaltamento delle argomentazioni che hanno portato allo scioglimento del gruppo: non Kirchner, ma i suoi compagni rispecchiano ostentazioni e vanaglorie che gli attribuiscono. È la fine. A maggio del 1913 i “membri passivi” ricevono i cartoncini che annunciano lo scioglimento formale del gruppo. La lite fra i membri della Brücke è netta e insanabile. Negli anni a seguire, per gran parte della vita. il rapporto rimane talmente difficile da portare Kirchner a rifiutare con veemenza qualsiasi associazione con loro. Nel 1919, ad esempio, arrivò a dichiarare: «Dal momento che la Brücke non ha mai avuto nulla a che fare con il mio sviluppo artistico, qualsiasi menzione al gruppo in un articolo riguardante il mio lavoro è del tutto superfluo». La realtà artistica, per fortuna, supera i più aspri rancori, perché l’esperienza comune in realtà non andrà persa. Anche se in maniera autonoma, i vecchi amici che avevano dato vita all’Espressionismo della Brücke continueranno tutti a portare avanti le istanze elaborate insieme sino al momento dello scioglimento.
Galleria d’arte sotto forma di puzzle. A cura di Laura Gentile
Bimba su di una poltrona (Petite Fille dans un fauteuil bleu) blu è un dipinto a olio su tela (89,5 × 130 cm) realizzato nel 1878 da Mary Cassatt. L’atteggiamento della bambina, che manifesta idealmente una sorta di ribellione alla postura tradizionale, e che rispecchiava anche gli atteggiamenti anticonvenzionali dell’autrice, fu considerato una posa sconveniente e il dipinto venne rifiutato all’esposizione del Salon des Artistes di Parigi. È conservato nella National Gallery di Washington.
Proviamo a realizzare una galleria con opere d’arte famose. Facciamolo però in modo diverso, per rilassarci mentre impariamo a guardare i particolari attraverso le minuscole tessere di un puzzle da montare. Quanti minuti impiegheremo? Naturalmente ciò dipenderà dal numero dei pezzi, perché ognuno potrà scegliere il livello di difficoltà. Buon divertimento.
L’idea di Adolf Behne che il nuovo movimento Espressionista rappresentasse «il ridestarsi di tendenze che hanno sempre dominato l’arte nelle sue epoche più felici» non è nuova. Spesso la troviamo riproposta nella letteratura artistica, riguardo a opere di ogni età storica nelle quali hanno prevalso esasperazioni emotive. Anche per Kasimir Edschmid – che dell’Espressionismo fu uno dei maggiori teorici (Über den Expressionismus in der Literatur und die neue Dichtung, Sull’espressionismo in letteratura, 1919) – la nuova tendenza poteva considerarsi all’interno di una categoria sconfinata dell’arte. Tuttavia, facendo prevalere questo concetto critico (dettato da un particolare fascino per certe istanze irrazionali) rispetto ad una vera e propria definizione storiografica (con i suoi limiti temporali ben definiti) finiremmo con avvalorare il detto biblico Nihil sub sole novum (Nulla di nuovo è sotto il sole). Ecco perché, in queste brevi note, intenderemo l’Espressionismo in un’ottica rigorosamente storica, ovvero come quel fenomeno artistico collocabile nei primi anni del Novecento, iniziato intorno al 1905 e conclusosi, al più tardi, durante il corso degli anni Venti.
Anticipatrice della nuova tendenza fu la pittrice Paula Modersohn-Becker, morta trentunenne di parto. Nei quasi 14 anni di lavoro ha lasciato ben 750 dipinti, circa 1000 disegni e 13 acqueforti. Tuttavia, la piena attuazione formale si concretizzò con il gruppo della Brücke (il Ponte) costituito a Dresda nel 1905. Nondimeno, basta sfogliare più di un volume per rendersi subito conto che il nuovo movimento necessita di essere messo attentamente a fuoco, perché l’Espressionismo non è altrettanto circoscritto e chiaro come l’Impressionismo, identificabile nelle otto mostre parigine tenute tra il 1874 e il 1886. Un gustoso episodio sembra testimoniarlo. Durante una seduta della giuria che alla mostra della Secessione di Berlino del 1910 doveva selezionare i quadri da ammettere alla pubblica esposizione, al momento di dovere valutare un dipinto di Max Pechstein, ci si chiese se potesse essere ancora definito “impressionista”. La risposta, pare del mercante d’arte Paul Cassirer, fu che gli sembrava “piuttosto espressionista”. La questione sollevata non era nell’attribuzione del dipinto di Pechstein ad una corrente anziché ad un’altra, ma che il termine “espressionista”, all’epoca, era indifferentemente adoperato: sia per gli artisti d’avanguardia, quanto per i pittori di tendenze ben differenti. Il termine “espressionista” era una specie di calderone, dove ci si metteva di tutto e di più.
Qualche altro esempio potrebbe chiarire meglio il discorso. Nel 1901, il pittore Julien-Auguste Hervé usò il temine “expressionisme” riferendolo a due suoi dipinti accademici esposti al Salon des Indépendants di Parigi. Dal canto suo, Matisse, in Note di un pittore uscite nel 1908, cerca di spiegare sotto il profilo critico il termine “expression”. Per lui l’espressività di un’opera non ha nulla a che fare con la dimensione psicologica, con i motivi angoscianti o dolorosi, ma deriva dalla «semplificazione delle idee e della composizione». Siamo in un’ottica completamente divergente dal significato che, qualche anno più tardi, verrà riconosciuto alla nuova corrente. Eppure, in Germania, nel 1910, c’era chi definiva “espressionisti” lo stesso Matisse e i Fauves francesi. Nel 1911 il catalogo della XXII mostra della Secessione berlinese chiamava “espressionisti” i quadri di alcuni pittori francesi come Braque, Derain, Friesz, Vlaminnck, Marquet, Dufy. Si era ad aprile; mentre a giugno dello stesso anno il vocabolo “espressionisti” era usato per definire altri artisti francesi che esponevano a Düsseldorf. Bisognerà leggere la rivista Rheinlande, per trovare nel numero di dicembre un articolo (Über Expressionisten, Sugli impressionisti) di Paul Ferdinand Schmidt, che usa il termine esteso anche ad artisti tedeschi. Tuttavia, è su Der Sturm, considerato il più importante organo letterario del movimento, che lo storico dell’arte Wilhelm Worringer utilizza per primo il termine “espressionismo” con prerogative simili alle attuali. Nonostante ciò, generalmente, il concetto rimane ancora assai confuso, se vediamo comparire i nomi di Marinetti e Rivière accanto a quelli di Döblin e Apollinaire in un saggio su Baudelaire apparso sempre sullo Sturm, ma nel 1912. A marzo dello stesso anno, Herwarth Walden apre nella sua galleria Der Sturm di Berlino una importante mostra, ma usa il termine “espressionisti” solo per i francesi. D’altra parte, anche la prefazione del catalogo della mostra Sonderbund di Colonia rimane nel generico senza sbilanciarsi: «Questa quarta esposizione desidera offrire un panorama del movimento pittorico più recente, l’espressionismo, affermatosi sulla scia del naturalismo e dell’impressionismo: esso mira a una semplificazione e intensificazione delle forme espressive, monumentali». L’anno successivo la galleria Cohen di Berlino apre una esposizione intitolata “Rheinische Expressionisten” (Espressionisti renani), e fra questi troviamo citati Campendonck, August ed Helmut Macke, Nauen ed Ernst.
Per grandi linee siamo giunti al 1914, quando Paul Fechter a Monaco diviene noto al pubblico grazie al suo saggio critico Der Expressionismus, il cui testo si riferisce chiaramente agli artisti della Brücke, del Blaue Reiter e a Kokoschka. All’apparire di questa prima monografia dedicata all’espressionismo, il movimento è ormai considerato quasi esclusivamente come un’avanguardia nazionale tedesca: «Dresda e Monaco – scrive Paul Fechter – si contendono l’onore di essere patria della nuova arte». La realtà politica è impregnata di bellicoso nazionalismo per la guerra ormai alle porte. L’attenzione artistica è rivolta oltre frontiera al successo del futurismo, incentrato anche questo sull’esaltazione patriottica. Così arte e politica si fondono, spingendo a trascurare, se non addirittura accantonare, le origini delle prime esperienze Fauves. Occorre tuttavia precisare che proprio gli espressionisti tedeschi in Germania si schierarono decisamente contro la guerra. In ogni modo, il termine Espressionismo divenne sempre più di uso comune e, dal 1914 in poi, per “espressionisti” s’intenderanno, pertanto, soprattutto gli artisti operanti in Germania. Più equilibrati ed obiettivi furono, comunque, gli scritti già citati di Hermann Bahr (nel 1916) e Kasimir Edschmid (tra il 1917 e il 1919).
Se oltre ai critici, citati finora, volessimo fare riferimento agli artisti stessi, noteremmo che pure loro usavano la parola “espressionismo” con difficoltà. Marc, presentando L’Almanacco del Blaue Reiter uscito a Monaco nel 1912, parla di Fauve tedeschi. Kandinskij nel suo fondamentale volume Lo spirituale nell’arte impiega il termine una sola volta. Non avevano, dunque, un nome preciso coloro che oggi consideriamo espressionisti nel senso proprio del termine? Niente affatto: erano identificati, certamente, ma come “neopatetici, astrattisti, eternisti, futuristi, attivisti”. Non sono, questi, nomi occasionali, ma attinenti allo spirito che i primi espressionisti manifestarono pubblicamente. Indicativo, ad esempio, è il nome di “neopatetici”, perché il pathos rappresentava il grido dell’anima dell’artista, una forza d’urto tempestosa, lacerante, esasperata; e al contempo negli interlocutori suscitava sentimenti di commozione, di mestizia, di pietà. Il nuovo movimento tendeva all’identificazione romantica di arte e vita. Per questo motivo in vari autori troviamo che l’Espressionismo tedesco è spesso riconosciuto come il nuovo Sturm und Drang (Tempesta e Impeto), con riferimento a uno dei più importanti movimenti culturali tedeschi sviluppatosi tra il 1765 e il 1785. Come allora, il linguaggio delle arti figurative e della poesia tornavano ad essere rivoluzionate. Non si può, infatti, dimenticare lo stretto rapporto esistente fra arti e letteratura. Oggi molti conoscono Oskar Kokoschka come pittore, ma quanti ricordano i suoi drammi giovanili? Assassino, speranza delle donne è una sua rappresentazione teatrale espressionista scritta nel 1907. Pure Ernst Barlach, oltre ad essere stato uno dei pochi scultori espressionisti fu anche scrittore; lo stesso vale per Theodor Däubler che a lungo esitò fra pittura e poesia, per decidersi infine a seguire la strada della scrittura.
Si comprenderà, dunque, che la definizione di una poetica dell’Espressionismo, dei suoi limiti geografici o la sua periodizzazione, sono temi particolarmente complessi. In anni recenti la critica d’Arte ha proposto qualche spostamento e accomodamento, peraltro senza giungere a un inquadramento condiviso da tutti. Il termine Espressionismo è oggi solitamente riferito alle manifestazioni sviluppate in area tedesca, sebbene, come s’è detto, l’origine sia da rintracciarsi nell’area francese dei Fauves e di Matisse. Per altri versi, anche di recente, alcuni critici parlano di un Espressionismo tedesco e di un Espressionismo francese; mentre c’è chi preferisce circoscrivere il fenomeno alla Germania e all’area mitteleuropea, mantenendo ancora attiva la distinzione netta col fenomeno francese del fauvisme. Distinzioni precise vanno poste anche per quanto concerne i limiti cronologici. Sono differenti quando si parla di arti figurative, di architettura, di letteratura e chiaramente della nuova arte come era allora considerato il cinema. In particolare, per la pittura e la grafica, la tendenza probabilmente più corretta è quella di circoscrivere gli anni dell’Espressionismo al periodo compreso tra la nascita di Die Brücke e l’inizio della Prima guerra mondiale, quando la coesione del gruppo vero e proprio si deteriora. Nel dopoguerra, si svilupperanno nuove tematiche relative alla satira sociale, dapprima con la dura ottica “veristica” di George Grosz e di Otto Dix, successivamente con il cosiddetto “realismo trascendente” di Max Beckmann. Più breve il periodo che racchiude l’effimero espressionismo architettonico, che nasce e si sviluppa nel 1918 per sfumare intorno al 1921. All’incirca contemporanea è l’apparizione di un Espressionismo cinematografico, segnato nel 1920 dal suo film simbolo: Il gabinetto del dottor Caligari.
Galleria d’arte sotto forma di puzzle. A cura di Laura Gentile
La Rue Montorgueil a Parigi. Festa del 30 giugno 1878 (La Rue Montorgueil à Paris. Fête du 30 juin 1878) è un dipinto del pittore francese Claude Monet, realizzato nel 1878 e conservato al Musée d’Orsay di Parigi. Rue Montorgueil è un boulevard che, partendo dall’enorme complesso commerciale di Les Halles, si inoltrava nelle viscere urbane del secondo arrondissement di Parigi. In La rue Montorgueil Monet sceglie di raffigurare proprio la società parigina al massimo del suo fulgore, una società che cresce e che con i radicali mutamenti sociali e industriali dell’Ottocento tendeva a farsi sempre più dinamica e frenetica. Il pittore, mantenendosi su un punto di vista alto, nell’opera rappresenta la rue Montorgueil in un tripudio di tricolori francesi svolazzanti: evidente è il concorso di folla accorsa in strada per celebrare la «festa della pace e del lavoro», ricorrenza in auge a partire dal 1878 nella quale si celebrava l’entusiasmo nazionale della Francia dopo la disastrosa sconfitta franco-prussiana.
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