22- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Del mito, del simbolo e d’altro

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte terza: La vigna

Del mito, del simbolo e d’altro

Una piana in mezzo a colline, fatta di prati e alberi a quinte successive e attraversate da larghe radure, nella mattina di settembre, quando un po’ di foschia le spicca da terra, t’interessa per l’evidente carattere di luogo sacro che dovette assumere in passato. Nelle radure, feste fiori sacrifici sull’orlo del mistero che accenna e minaccia di tra le ombre silvestri. Là, sul confine tra cielo e tronco, poteva sbucare il dio. Ora, carattere, non dico della poesia, ma della fiaba mitica è la consacrazione dei luoghi unici, legati a un fatto a una gesta a un evento. A un luogo, tra tutti, si dà un significato assoluto, isolandolo nel mondo. Così sono nati i santuari. Così a ciascuno i luoghi dell’infanzia ritornano alla memoria; in essi accaddero cose che li han fatti unici e li trascelgono sul resto del mondo con questo suggello mitico.

Ma il parallelo dell’infanzia chiarisce subito come il luogo mitico non sia tanto singolo, il santuario, quanto quello di nome comune, universale, il prato, la selva, la grotta, la spiaggia, la casa, che nella sua indeterminatezza evoca tutti i prati, le selve ecc., e tutti li anima del suo brivido simbolico. Neanche nella memoria dell’infanzia il prato, la selva, la spiaggia sono oggetti reali fra i tanti, ma bensí il prato, la spiaggia come ci si rivelarono in assoluto e diedero forma alla nostra immagine. (Che poi queste forme primordiali si siano ancora arricchite dei sedimenti successivi del ricordo, vale come ricchezza poetica ed è altra cosa dal loro significato originario).

Quest’unicità del luogo è parte, del resto, di quella generale unicità del gesto e dell’evento, assoluti e quindi simbolici, che costituisce l’agire mitico. Una definizione non retorica di questo sarebbe: fare una cosa una volta per tutte, che perciò si riempie di significati e sempre se ne andrà riempiendo, in grazia appunto alla sua fissità non piú realistica. Nella realtà naturale nessun gesto e nessun luogo vale piú di un altro. Nell’agire mitico (simbolico) è invece tutta una gerarchia.

L’impresa dell’eroe mitico non è tale perché disseminata di casi soprannaturali o fratture della normalità (queste anzi suppongono, nel credente, la consapevolezza di una normalità, ciò che non è gran che propizio al concepire mitico); bensí perché essa attinge un valore assoluto di norma immobile che, proprio perché immobile, si rivela perennemente interpretabile ex novo, polivalente, simbolica insomma. Devi guardarti dal confondere il mito con le redazioni poetiche che ne sono state fatte o se ne vanno facendo; esso precede, non è, l’espressione che gli si dà; nel suo caso si può ben parlare di un contenuto distinto dalla forma (seppure di una forma, anche sommaria, non possa mai fare a meno); e prova ciò il fatto che il vero mito non muta valore, lo si esprima a parole, a segni, o a mimica. Il mito è insomma una norma, lo schema di un fatto avvenuto una volta per tutte, e trae il suo valore da questa unicità assoluta che lo solleva fuori del tempo e lo consacra rivelazione. Per questo esso avviene sempre alle origini, come nell’infanzia: è fuori del tempo. Un uomo apparso un giorno, chi sa quando, sulle tue colline, che avesse chiesto dei salici e intrecciato un cavagno e poi fosse sparito, sarebbe il genuino e piú semplice eroe incivilitore. Mitica sarebbe questa rivelazione di un’arte, quando quel gesto fosse, beninteso, di un’unicità assoluta, non avesse presente e non avesse passato, ma assurgesse a una sacrale eternità che fosse paradigma a ogni intrecciatore di salici. E un’aia tra tutte, dov’egli si fosse seduto, sarebbe santuario; ma questa appare già una concezione posteriore, piú materialistica, nel senso di naturalistica. Genuinamente mitico è un evento che come fuori del tempo Così si compie fuori dello spazio. L’aia del mio eroe dev’essere tutte le aie: e su ognuna di esse il credente assiste al ricelebrarsi della rivelazione. L’unicità materiale del luogo (il santuario) è una concessione alla matter-of-factness del credente ma soprattutto alla sua fantasia sempre bisognosa di espressione corposa, sempre piú poetica che mitica. Del resto, dire per esempio Olimpo era dire, in un certo momento della preistoria greca, qualcosa come montagna, come tutte le montagne. Allo stesso modo che Ercole era ogni eroe di villaggio che tornasse dall’avventura, ciascun mito trovando la sua espressione s’incarnava in determinazioni culturali e geografiche che variavano coi luoghi.

Bisogna tener fermo a questa febbre d’unicità da cui trasuda il mito. È qui un nòcciolo senz’altro religioso. La vita si popola e arricchisce di eventi insostituibili che, appunto perché accaduti una volta per tutte e sovrastanti alle leggi del mondo sublunare, valgono come moduli supremi della realtà, come suo contenuto, significato e midollo, e tutte le vicende quotidiane acquistano senso e valore in quanto ne sono la ripetizione o il riflesso. Un mito è sempre simbolico; per questo non ha mai un significato univoco, allegorico, ma vive di una vita incapsulata che, a seconda del terreno e dell’umore che l’avvolge, può esplodere nelle piú diverse e molteplici fioriture. Esso è un evento unico, assoluto; un concentrato di potenza vitale da altre sfere che non la nostra quotidiana, e come tale versa un’aura di miracolo in tutto ciò che lo presuppone e gli somiglia. Altra definizione non si può dare del simbolo se non che anch’esso è un oggetto, una qualità, un evento che un valore unico, assoluto, strappa alla causalità naturalistica e isola in mezzo alla realtà. Il piú semplice dei simboli, un fazzoletto che l’innamorato ha avuto in dono dalla bella, è tale in quanto ha acquistato un valore assoluto che lo carica di significati molteplici, e questi durano finché dura l’esaltazione amorosa.

Nessun bambino ha coscienza di vivere in un mondo mitico. Ciò s’accompagna all’altro noto fatto che nessun bambino sa nulla del «paradiso infantile» in cui a suo tempo l’uomo adulto s’accorgerà di esser vissuto. La ragione è che negli anni mitici il bambino ha assai di meglio da fare che dare un nome al suo stato. Gli tocca vivere questo stato e conoscere il mondo. Ora, da bambini il mondo s’impara a conoscerlo non – come parrebbe – con immediato e originario contatto alle cose, ma attraverso i segni di queste: parole, vignette, racconti. Se si risale un qualunque momento di commozione estatica davanti a qualcosa del mondo, si trova che ci commoviamo perché ci siamo già commossi; e ci siamo già commossi perché un giorno qualcosa ci apparve trasfigurato, staccato dal resto, per una parola, una favola, una fantasia che vi si riferiva e lo conteneva. Al bambino questo segno si fa simbolo, perché naturalmente a quel tempo la fantasia gli giunge come realtà, come conoscenza oggettiva e non come invenzione. (Che l’infanzia sia poetica, è soltanto una fantasia dell’età matura). Ma questo simbolo, nella sua assolutezza, solleva alla sua atmosfera la cosa significata, che col tempo diviene nostra forma immaginativa assoluta. Tale la mitopeia infantile, e in essa si conferma che le cose si scoprono, si battezzano, soltanto attraverso i ricordi che se ne hanno. Poiché, rigorosamente, non esiste un «veder le cose la prima volta»: quella che conta è sempre una seconda.

Il concepire mitico dell’infanzia è insomma un sollevare alla sfera di eventi unici e assoluti le successive rivelazioni delle cose, per cui queste vivranno nella coscienza come schemi normativi dell’immaginazione affettiva. Così ognuno di noi possiede una mitologia personale (fievole eco di quell’altra) che dà valore, un valore assoluto, al suo mondo piú remoto, e gli riveste povere cose del passato con un ambiguo e seducente lucore dove pare, come in un simbolo, riassumersi il senso di tutta la vita. A questo «temps retrouvé» non manca del mito genuino nemmeno la ripetibilità, la facoltà cioè di reincarnarsi in ripetizioni, che appaiono e sono creazioni ex novo, Così come la festa ricelebra il mito e insieme lo instaura come se ogni volta fosse la prima.

La poesia è altra cosa. In essa si sa d’inventare, ciò che non accade nel concepire mitico. La ragione perché la poesia può nascere sempre e dovunque e invece ogni popolo finisce per uscire dal suo stadio mitologico, è che per trasformare in fede l’invenzione non basta volere. L’ingenuità della barbarie per cui la fantasia è conoscenza oggettiva, non ritorna, una volta violata. Il miracolo dell’infanzia è presto sommerso nella conoscenza del reale e permane soltanto come inconsapevole forma del nostro fantasticare, continuamente disfatta dalla coscienza che ne prendiamo. La vita di ogni artista e di ogni uomo è come quella dei popoli un incessante sforzo per ridurre a chiarezza i suoi miti. Ma non si può fare che in essi non sia il foco vitale, la ratio ultima perché inconsapevole, della vita interiore. Il tonico potente che se ne assorbe, l’unica e sola ispirazione degna di questo nome abusato, ne è prova. Soltanto, non bisogna vietarsi esteticamente lo sforzo piú assiduo per ridurli a chiarezza, cioè distruggerli. Soltanto ciò che ne rimarrà dopo questo sforzo (e qualcosa non può non rimaner sempre, se è vero che lo spirito è inesauribile), potrà valere come fonte di vita.

La poesia cerca sovente di rinverginarsi, ricorrendo al simbolismo, alle memorie dell’infanzia e anche ai miti. Confessa di sentire in queste forme spirituali un’alta tensione immaginativa che le fa gola, e s’illude che per derivare questa tensione nel suo campo basti un atto della volontà. Ricalca le forme del mito e del simbolo, sperando che in esse torni a battere magicamente il cuore. Ma dimentica che essa sa d’inventare, e che il mito vive invece di fede.

Nelle formule prese a prestito dorme un assoluto che, soltanto se accolto come rivelazione vitale prima che poetica, può ridestarsi. Tuttavia accade talvolta che intorno allo scheletro vecchio cresca e fiorisca una nuova carne che è tutt’altro da quello che il creatore s’attendeva e sapeva. Non si parla qui della poesia, che è sempre possibile, specie quando la si vuole, e in definitiva dipende soltanto dalla pazienza e dall’occhio netto. Ma di quell’immagine o ispirazione centrale, formalmente inconfondibile, cui la fantasia di ciascun creatore tende inconsciamente a tornare e che piú lo scalda con la sua onnipresenza misteriosa. Mitica è quest’immagine in quanto il creatore vi torna sempre come a qualcosa di unico, che simboleggia tutta la sua esperienza. Essa è il foco centrale non soltanto della sua poesia ma di tutta la sua vita. Quanto piú essa è capace e robusta, tanto piú ampia e vitale è la poesia che ne sgorga. Ma, inutile dire, non appena il creatore se n’è reso conto criticamente e continua a sfruttarla, la poesia si spegne.

Quest’ispirazione affonda le radici nel passato piú remoto dell’individuo e traduce la quintessenza della sua scoperta delle cose. A volte, attraverso gli schemi ch’egli s’illude di riesumare, trapela in brevi immagini marginali, quasi casuali; piú sovente s’incarna in situazioni assorbenti, poderose e monotone, che qualunque sia il tema della favola scoppiano sempre uguali a se stesse e ne dànno il senso vero. Di esse il creatore non saprebbe dir altro se non che sono il suo mito, il suo evento unico, che ogni volta ha un carattere di rivelazione inaudita come per il credente una festa rituale. Dentro di sé le contempla, quando giunge a vederle, come si contemplarono un tempo i dolori di Dioniso o la trasfigurazione di Cristo. Esse sono misteri, nel senso religioso piú genuino.

Hai descritto Così quella che Baudelaire chiama l’«extase». La spontaneità dell’ispirato che è tutt’altro dai «subtils complots» del poeta. Per battezzare le cose occorre l’ingenuità della fede, e ogni battesimo è un miracolo come nel culto. Qui davvero si è ispirati, poiché davanti all’assoluto, a ciò che è unico, ci si raccoglie e insieme abbandona, e soltanto tempre straordinarie di creatori riescono a conservare sotto questa tensione religiosa la prontezza e l’agilità del mestiere poetico. Quasi sempre è proprio l’ispirazione – questa ispirazione – che deteriora la poesia, la diluisce, la spreca. Quel tanto di disciplina formale che si possedeva, crolla sotto l’indeterminato del sentimento incontenibile. Sono rari i creatori che sanno far coincidere la profonda esigenza formale implicita nell’impronta del loro piú remoto contatto col mondo e i mezzi espressivi forniti a tutta una generazione dalla cultura. È loro compito un compromesso, un parziale tradimento dell’ingenuità, un tentativo di vedere, nel gorgo del mito che li afferra, il piú nitidamente possibile ma soltanto fino al punto che la bella favola non si dissolva in naturalità. Per questo accade che taluni si salvino facendo altro da ciò che attendevano e sapevano. Ma i piú forti, i piú diabolicamente devoti e consapevoli, fanno ciò che vogliono, sfondano il mito e insieme lo preservano ridotto a chiarezza. È questo il loro modo di collaborare all’unicità del miracolo.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

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