24- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – L’adolescenza

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte terza: La vigna

L’adolescenza

Il giorno in cui ci si accorge che le conoscenze e gli incontri che facciamo nei libri, erano quelli della nostra prima età, si esce d’adolescenza e s’intravede se stessi. C’era in noi un tesoro che non sapevamo, un accumulo di lente abitudini cui d’improvviso scopriamo un viso nuovo, sorprendente, ricco di tutto il fascino e l’arcano del mondo della fantasia. Nulla è mutato nelle cose e persone della nostra piccola esistenza, siamo mutati noi: attraverso lo stupore che ciò che della vita abbiamo veduto e sentito sia lo stesso che muove e accende le alte fantasie dei libri, abbiamo capito di ammirare: abbiamo scoperto, afferrato un mondo, il nostro mondo.

Un’epoca in cui non ammirassimo, si perde nell’indistinto. Poiché prima dei libri ci furono le favole, le immagini, i giochi, ci furono i canti e le feste. A rigore, di età in cui nessuna fantasia esterna premesse sul nostro animo ci fu soltanto quella inconsapevole dell’infanzia. I libri sono venuti più tardi: essi hanno affrettato e condensato un processo che nulla sostanzialmente distingue dall’azione onnipresente della cultura prelibresca. Non appena ascoltammo e parlammo, eccoci nella sfera dello spirito, della fantasia incarnati.

Ora, l’ammirazione, e cioè la facoltà di vedere come unica e normativa la forma di una realtà, nasce sempre nel solco di una precedente trasfigurazione di questa realtà. Noi ammiriamo soltanto ciò che abbiamo già una volta ammirato. E d’istanza in istanza, finiamo ben per risalire a quella volta che l’ammirazione ci venne dall’esterno, cioè attraverso la parola, il segno, ci venne comunicata come frutto spirituale incarnato. Nessun ragazzo, nessun uomo ammira un paesaggio prima che l’arte, la poesia – una semplice parola anche – gli abbiano aperto gli occhi. Ognuno ripensi a un’ora estatica della sua fanciullezza, e troverà sotto l’entusiasmo e la rivelazione, la traccia di gusto, libresca o no, che la sua qualsiasi cultura gli ha segnato. L’invenzione di nuovi paesaggi – di nuove figure, persone, miti, di nuove forme – è cosa dell’età ben più provetta in cui l’impronta delle fantasie esterne cede finalmente al privilegiato fervore di chi ha saputo foggiarsi nuove ammirazioni portando alla luce con sforzo gli stampi istintivi del suo essere. Ma questo accade di rado. Di solito tutti – non esclusi i professionisti della fantasia – vivono di figure prese a prestito. Questo vale, almeno, per tutte le adolescenze. Che cessano appunto quando si capisce che la passata visione della realtà somiglia ed è quella esterna dei libri – degli altri.

Ogni qualvolta non giunse questo molteplice suggello culturale a popolarci di figure e forme la realtà, i giorni della nostra infanzia-adolescenza trascorsero stranamente e non ebbero, appunto, forma alcuna. Ma in essi si compí – meraviglioso e ordinario – l’incontro muto con tutta la realtà, ed è un peccato che, a ripensarci, noi c’imbattiamo di solito, per evidenti ragioni, soltanto nei momenti di trasfigurazione culturale, in quei momenti cioè quando un’espressione esterna c’illuminò di luce più o meno avventizia l’esperienza. Quali tappe della nostra consapevole educazione questi spiccano nel ricordo. Ma c’è tutta una plaga d’indistinte giornate, di cui chi riesce a cogliere e fermare l’atmosfera sfiora il segreto della propria natura più gelosa. In esse incontrammo la nostra realtà, la meno influita e incantata di cultura e quella che sotto tutte le rivelazioni future serberà inconfondibile l’impronta dell’istinto. C’è in esse come un solido suolo, un fondamento ultimo, uno schietto e incancellabile stampo. Tutto viene di là. La stessa meraviglia che un giorno proveremo ravvisando nelle illuminazioni dell’arte i volti e i sentimenti della nostra prima età – scoprendo di che cosa era fatto quell’entusiasmo – questa meraviglia ci verrà dal contrasto con le mute giornate che han potuto preparare e presentire tanta vita. Ce lo dicono le più belle forti fantasie.

«Ebbi in quel mar la culla…»
«……………….. Ivi, fanciullo,
la deità di Venere adorai».

L’infanzia di Zacinto s’illumina di cultura greca; ma è soprattutto la cultura greca che s’è arricchita e rinsanguata a quegli incontri infantili. Il fatto casuale della nascita in Grecia diventa il lievito di tutto un mondo libresco già disseccato. Più tardi nel secolo si incontreranno fantasie più scaltrite, nelle quali l’apporto culturale sarà sempre meglio eclissato dal momento scuro dell’infanzia; fino all’estremo tentativo di chi nella ricerca del tempo perduto ravviserà la vita vera e tutta l’arte.

E non è un caso che Proust per raggiungere il suo passato più geloso si sia servito della pura sensazione, che nella sua nudità pare fatta apposta per accostarci al mondo larvale delle origini istintive.

Ma il travaglio di distinguere nel ricordo fra barlumi originari e visioni riflesse comincia tardi, comincia con una giovinezza spirituale che si fa attendere molto al di là di quella fisica e talvolta non verrà mai. È necessario a questo scopo impadronirsi di se stessi – una conquista paziente – al punto di saper trascurare i ricordi gloriosi e confinarsi a scavare le zone monotone e neutre. Sono queste le piaghe di semplice vita infantile, istintive, vergini – per quanto è possibile – d’incontri culturali compreso il linguaggio. La difficoltà massima è nel fatto, sopra osservato, che il ricordo ci conserva soltanto ciò che in noi fanciulli fu, già, espresso, vale a dire ispirato da fuori. Occorre per ciò non tanto risalire il fiume della memoria, quanto rimettersi con abnegazione nello stato istintivo, o in ciò che ne resta. Con che si viene a dire che il modo proustiano di affidarsi alla sensazione impensata, non basta. Non basta perché la sensazione, sia pur bruta, in quanto ricordo è tutt’altro che immune da compiaciute coloriture di gusto; non basta perché il difficile non è risalire il passato bensí soffermarcisi; non basta infine perché noi intendiamo per stato istintivo quello stampo schietto che influisce sull’intera nostra realtà intima. E per ritrovare questo stato, più che sforzo mnemonico si richiede scavo nella realtà attuale, denudamento della propria essenza. Se avremo visto con chiarezza il nostro fondo, non potremo non aver toccato anche ciò che fummo fanciulli.

A questo punto dell’indagine il tempo dilegua. La nostra fanciullezza, la molla di ogni nostro stupore, è non ciò che fummo ma che siamo da sempre. La durata non tocca gli istanti interiori: altrimenti quel sussulto di gioia, che ci accoglie nel ricordo assoluto, riuscirebbe inspiegabile. Qui ricordare non è muoversi nel tempo, ma uscirne e sapere che siamo. L’infanzia a ripensarla suggerisce nostalgia non tristezze: di essa ci manca unicamente quella maggior facilità – la purezza iniziale – di vivere nell’essere genuino. Invece la malinconia del passato si svolge sul piano evidente dei giorni, si attacca alle parvenze; per essa il ricordo è tutto fatto di durate e concrescenze, di scoperte di gusto che come viticci c’impigliano agli altri, alle cose, alla storia.

Succede dunque questo fatto curioso: noi viviamo l’esser nostro più autentico quando ancora non sappiamo ammirare, cioè cogliere quel che ci accade. Le prime occhiate consapevoli le gettiamo su uno schema che ci viene dagli altri, dall’esterno; l’idea stessa di occhiata è qualcosa che accettiamo, che imitiamo dagli altri. Lo sforzo di passare di là dalla durata è ancora una norma che la durata c’insegna…


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

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