Bologna, Palazzo Albergati: proroga al 2 ottobre delle mostre “OLIVIERO TOSCANI” e “PHOTOS!” 

Oliviero Toscani.
80 anni da situazionista

La mostra Oliviero Toscani. 80 anni da situazionista, a cura di Nicolas Ballario, ripercorre la carriera del grande fotografo, oltre 100 fotografie mettono in scena la potenza creativa e la carriera di Oliviero Toscani attraverso immagini più e meno note.
“80 Anni da situazionista” è il titolo che è stato scelto proprio questa grande retrospettiva, non solo per celebrare la vocazione di Toscani, ma anche per gli 80 anni che il fotografo ha compiuto proprio poche settimane fa.

Toscani mediante la fotografia ha fatto discutere il mondo su temi come il razzismo, la pena di morte, l’AIDS, la guerra, il sesso, la violenza, l’anoressia e molto altro. Ci saranno tutte le sue campagne più famose in mostra, quelle che hanno scosso l’opinione pubblica attraverso affissioni e pagine di giornali, ma anche un Toscani meno conosciuto, come quello dei primissimi anni.

Dunque tra i lavori in mostra il famoso manifesto Jesus Jeans ‘Chi mi ama mi segua’Bacio tra prete e suora del 1992, i Tre Cuori White/Black/Yellow del 1996, No-Anorexia del 2007 e moltissime altre, ma anche le immagini realizzate per la moda (da Donna Jordan a Claudia Schiffer, fino a quelle di Monica Bellucci) e addirittura quelle del periodo della sua formazione alla Kunstgewerbeschule di Zurigo.
In mostra anche decine di ritratti che hanno “cambiato il mondo”, come Mick JaggerLou ReedCarmelo BeneFederico Fellini e i più grandi protagonisti della cultura dagli anni ’70 in poi. E ancora, una sala è dedicata al progetto Razza Umana, con il quale Oliviero Toscani ha solcato centinaia di piazze in tutto il mondo per fotografare chiunque lo desiderasse, dando vita al più grande archivio fotografico esistente sulle differenze morfologiche e sociali dell’umanità, con oltre 10.000 ritratti.
La mostra è consigliata da Sky Arte.

Allestimento

PHOTOS!
I capolavori della Collezione Julián Castilla:
Cartier-Bresson, Doisneau, Capa, Man Ray
e i più grandi fotografi del ‘900

Per la prima volta in Italia, Palazzo Albergati di Bologna ospita la straordinaria Collezione Julián Castilla con la mostra PHOTOS!

Alfred Stieglizt, Man Ray, Henri Cartier-Bresson, Vivian Meier, Robert Capa, André Kertèsz, Alberto Korda e Robert Doisneau,nonché fotografi spagnoli come Carlos Saura, Ramón Masats, Oriol Maspons, Isabel Muñoz, Cristina García Rodero o Chema Madoz e molti altri sono i protagonisti indiscussi, con i loro memorabili scatti entrati ormai nell’immaginario collettivo come fermo-immagine del secolo scorso, di un viaggio imperdibile nella storia della fotografia.

Un accostamento di oltre 70 opere, di grandi maestri spagnoli e internazionali, che rendono l’esposizione bolognese unica al mondo.
Considerata una delle collezioni private più importanti d’Europa, appartenente a Julián Castilla, noto collezionista d’arte spagnolo, copre più di un secolo di arte fotografica, dalla nascita della fotografia moderna all’inizio del XX secolo a quella attuale del XXI secolo. Una narrazione che passando per la creazione dell’Agenzia Magnum e lo sviluppo del fotoreportage, dall’evoluzione della fotografia di moda, al racconto del presente, si confronta oggi con le sfide contemporanee nell’era digitale.

La maggior parte delle opere della sua collezione storica sono in bianco e nero. L’ultima fotografia, datata febbraio 2005, è degli artisti Christo e Jeanne-Claude, che ritraggono la loro monumentale installazione di 37 chilometri a Central Park, composta da un totale di 7.503 “porte” (pannelli di tessuto arancione).

La mostra PHOTOS!, con il patrocinio della Regione Emilia Romagna e del Comune di Bologna, in collaborazione con Museo d’Arte Contemporanea di Villanueva de los Infantes, vede come sponsor Poema ed è curata da Cristina Carrillo de Albornoz.
La mostra è prodotta e organizzata da Arthemisia.


Informazioni e prenotazioni
didattica@arthemisia.it
T +39 06 915 110 55

Siti internet
www.palazzoalbergati.com
www.arthemisia.it

Ufficio Stampa
Arthemisia
Salvatore Macaluso | sam@arthemisia.it
T. +39 06 69380306

Relazioni esterne Arthemisia
Camilla Talfani | ct@arthemisia.it
M. +39 335 7316687 | +39 345 7503572

Pisa, Museo della grafica: Davanti alla Stella Polare

Il Museo della Grafica (Comune di Pisa, Università di Pisa)  è lieto di invitarvi all’evento

DAVANTI ALLA STELLA POLARE
31 AGOSTO 1922

di Alessandro Tosi 
con le note e il canto di Franco Bonsignori e Carla Giometti
interventi poetici di Lorenzo Gremigni
voci di Edoardo Barsotti, Fabiano Cambulo e Leonardo Ferri
Mercoledì 31 agosto 2022, ore 19:00

Per ulteriori informazioni cliccare il logo:

Museo della Grafica – Lungarno Galilei, 9 – Pisa
Tel. 050/2216060 (62-66-67)
E-mail: museodellagrafica@adm.unipi.it.
www.museodellagrafica.sma.unipi.it

Roma, Palazzo Bonaparte: Grande successo della mostra “JAGO. THE EXHIBITION” che chiude a oltre 140mila visitatori

Curata da Maria Teresa Benedetti, l’esposizione JAGO. The Exhibition è prodotta e organizzata da Arthemisia con la collaborazione di Jago Art Studio.
L’evento è consigliato da Sky Arte.

JAGO
The exhibition

Palazzo Bonaparte, Roma

Jago
Venere, 2018
Marmo, 70x70x193 cm
Photo by Jago
TESTO CRITICO DI VITTORIO SGARBI

Sono state lunghissime le file che, questo fine settimana, hanno caratterizzato gli ultimi giorni di apertura della prima grande mostra dedicata a JAGO e ospitata a Palazzo Bonaparte di Roma.
Infatti, sono 140.382 i visitatori e gli appassionati del lavoro del giovane scultore italiano che, dallo scorso 12 marzo, hanno contribuito al successo della mostra.

Amato per il suo indiscusso talento creativo ma anche per la sua grande forza nell’utilizzo dei mezzi di comunicazione, tra visite guidate, firmacopie e incontri con l’artista, sono circa 80.000 i giovani under 35 che, catturati dall’inconfondibile stile di Jago, si sono rivelati un elemento fondamentale per il successo della mostra, riscontabile nell’attiva partecipazione a tutte le attività collaterali organizzate in occasione dell’esposizione stessa, ma anche sul web e nelle migliaia di interazioni e condivisioni sui social network.

Un grande orgoglio per Arthemisia, da sempre impegnata a diffondere, far conoscere e far avvicinare il grande pubblico all’Arte, sempre con un occhio di riguardo alle esigenze dei più affezionati fruitori dell’arte più “classica” ma anche in grado di saper intercettare nuove realtà nel mondo del contemporaneo.

A nome di tutta Arthemisia, sono davvero lieta – dice la Presidente Iole Siena – del grande risultato ottenuto dalla mostra. Un progetto nato da un incontro quasi del tutto casuale con Jago, che ho apprezzato fin da subito per la sua capacità, come artista ma anche come comunicatore, per la sua onestà e i suoi principi. È l’emblema dell’artista contemporaneo. Insieme all’instancabile e visionaria Maria Teresa Benedetti, tra noi si è istaurato un feeling immediato che ci ha portato ad affrontare questa sfida, che oggi si conclude con un esito strabiliante.
Senza mai aver paura, Arthemisia da sempre è alla ricerca di nuovi progetti da proporre al suo pubblico e la sola idea – peraltro confermata in questo caso – che l’arte possa giungere in maniera così forte ai giovanissimi non fa che renderci fieri di quel che facciamo. Perchè questa è la nostra missione: amiamo l’arte e vogliamo che sempre più gente possa amarla.

La mostra JAGO. The Exhibition è stata prodotta e organizzata da Arthemisia con la collaborazione di Jago Art Studio e curata da Maria Teresa Benedetti.
L’evento è stato consigliato da Sky Arte.

LA MOSTRA


Emblema dell’artista contemporaneo, che unisce talento creativo e rara abilità comunicativa,
Jago afferma di sé: “mi considero un uomo e uno scultore del mio tempo. Utilizzo il marmo
come materiale nobile legato alla tradizione ma tratto temi fondamentali dell’epoca in cui vivo. Il
legame col mondo è fortissimo. Guardo a ciò che mi circonda, gli do forma e lo condivido.”
Scultore e comunicatore, Jago incarna la complessa figura dell’artista che si affida solo a sé
stesso senza mediazioni, assumendosi per intero il compito di dialogare con il mondo.
Attraverso le sue opere fornisce al pubblico una lettura personale della storia, risignificandola e
utilizzando un materiale nobile come il marmo, appartenente alla tradizione, e procedimenti
esecutivi classici (dal disegno al modello, dal bozzetto d’argilla al calco in gesso), insieme
all’adozione della figura umana come soggetto prevalente.
Un codice e un linguaggio si esprimono nell’asperità di superfici ruvide, lontane dalla
levigatezza, dalla lucentezza e dalla grazia di molte sculture del passato, ribadendo l’aspetto
contemporaneo di un’inevitabile corrosione del tempo.
Nella puntuale ricerca di stimoli sempre nuovi, emerge in Jago un preciso interesse per
elementi apparentemente inanimati da valorizzare, tale è il caso del sasso, scarto del processo
di cavatura del marmo gettato nel fiume, forma capace di sollecitare emozioni e sviluppi.

È il caso dell’opera giovanile La pelle dentro dove la capacità dell’arto di penetrare in maniera
veemente all’interno della materia è in grado di enucleare una forma che lo rappresenti. Il
lavorio incessante dell’acqua sul sasso diviene metafora dell’intervento creativo e la mano è
emblematicamente assunta a strumento principe di ogni possibile realizzazione. È la mano dello
scultore, strumento fondamentale per ogni operazione creativa.
In Memoria di sé l’immagine di un bambino rispecchia lo scorrere dell’esistenza di un adulto. È
un inno alla vita nel modo di unificarne gli aspetti fondamentali attraverso la circolarità delle
emozioni.
Altrove, come in Excalibur, il sasso è assunto sfrontatamente a contenitore per la
rappresentazione del kalašnikov, vistoso strumento della violenza in atto. Un rapporto tra
l’aggressività e l’antico ideale cavalleresco citato nel titolo è segno di ironico contrappasso o
ampliamento di contenuti ambiguamente presenti.
Dagli elementi evidenti in natura Jago passa a entità più scopertamente fisiche e anatomiche.
Si allude ad Apparato Circolatorio, rappresentazione iconica del battito cardiaco in ognuna delle
sue fasi dedicata a un amico scomparso. Un cuore continua a battere al di là della vita, nel
pensiero di chi è stato amato. Ecco un modo di connotare di significati un’operazione nata
all’insegna dell’individuazione di meccanismi biologici.
La nudità del pontefice emerito in Habemus Hominem è sigillo di un gesto di radicale
spoliazione. Il corpo di Papa Benedetto XVI risulta denudato, il volto sorride con inedita
dolcezza, il busto emaciato fa emergere l’umanità creaturale di chi è tornato a essere uomo.
Venere è bruscamente sottratta a significati tradizionali, privata di giovinezza e di ogni
seduzione estetica, scelta allusiva a valori altri assertori di una diversa verità. Ciò non esclude
che l’atteggiamento delle braccia si richiami ancora ad un’antica grazia.
Simbolico indizio di sofferenze atemporali è la figura del Figlio Velato, proveniente dalla
Cappella dei Bianchi nel napoletano rione Sanità. Il fanciullo che giace inerme su una lastra
marmorea racconta di una sorte oscura e drammatica, lo scacco di tanti innocenti che
affrontano un cammino ricco di insidie, senza riuscire a toccare un approdo.
Allo stesso modo una forte carica evocativa si riscontra nella Pietà, icona simbolica dell’arte di
Jago, accolta in Santa Maria in Montesanto a Roma da un pubblico di straordinarie dimensioni.
Un uomo desolato sorregge il corpo inanimato di un adolescente, offrendo un’impressione di
grandiosità scabra e solenne.
Come brusca successione temporale, additiamo la presenza nell’esposizione di un piccolo feto
scolpito in marmo (The First Baby), affidato alle cure dell’astronauta Luca Parmitano. Portato
nello spazio nel 2019, tornato in Terra l’anno successivo, rappresenta un modo di dilatare la
presenza umana verso confini sempre più ampi.
Una mostra – per citare la curatrice Maria Teresa Benedetti – nella quale “Si può essere sedotti
dai nuovi linguaggi ampiamente adottati nella pratica artistica contemporanea, avvertire
l’innegabile appeal della digital life, ma si può anche intuire la necessità di non escludere la
storia, custode di valori che arricchiscono il nostro presente, pure così dirompentemente
diverso.”

L’ARTISTA

Jago
Photo by Dirk Vogel

JAGO è un artista italiano che opera nel campo della scultura, grafica e produzione video.
Nasce a Frosinone (Italia) nel 1987, dove ha frequentato il liceo artistico e poi il Accademia di Belle Arti (lasciata nel 2010).

Dal 2016, anno della sua prima mostra personale nella capitale italiana, ha vissuto e lavorato in Italia, Cina e America. È stato professore ospite al New York Academy of Art, dove ha tenuto una masterclass e diverse lezioni nel 2018. JAGO ha ricevuto numerosi premi nazionali e internazionali quali: la Medaglia Pontificia (consegnatagli dal cardinale Ravasi in occasione del premio delle Pontificie Accademie nel 2010), il premio Gala de l’Art di Monte Carlo nel 2013, il premio Pio Catel nel 2015, il Premio del pubblico Arte Fiera nel 2017 e ha inoltre ricevuto l’investitura come Mastro della Pietra al MarmoMacc del 2017.

All’età di 24 anni, su presentazione della storica dell’arte Maria Teresa Benedetti, è stato selezionato dal prof. Vittorio Sgarbi per partecipare alla 54a edizione della Biennale di Venezia, esponendo il busto in marmo di Papa Benedetto XVI (2009) che gli è valso la suddetta Medaglia Pontificia. Questa scultura giovanile è stata poi rielaborata nel 2016, prendendo il nome di “Habemus Hominem” e divenendo una

delle sue opere più significative. L’opera, che raffigura la spoliazione del Papa emerito da suoi paramenti, è stata esposta a Roma, nel 2018, presso il Museo Carlo Bilotti di Villa Borghese, con un numero record di visitatori (più di 3.500 durante la sola inaugurazione).
A seguito di un’esposizione all’Armory Show di Manhattan, JAGO si trasferisce a New York. Qui inizia la

realizzazione del “Figlio Velato”, opera ispirata al Cristo Velato del Sanmartino, esposta permanentemente all’interno della Cappella dei Bianchi nella Chiesa di San Severo fuori le mura. La ricerca artistica di JAGO occupa una complessa cornice concettuale che, tuttavia, fonda le sue radici nelle tecniche ereditate dai maestri del Rinascimento, tentando di instaurare un rapporto diretto con il pubblico mediante l’utilizzo dei video e dei social network, attraverso i quali condivide il processo produttivo delle sue opere.

Nel 2019, in occasione della missione Beyond dell’ESA (European Space Agency), JAGO è stato il primo artista ad aver inviato una scultura in marmo sulla Stazione Spaziale Internazionale. L’opera, intitolata

“The First Baby” e raffigurante il feto di un bambino, è tornata sulla terra a febbraio 2020 sotto la custodia del capo missione, Luca Parmitano. Da maggio 2020 Jago risiede a Napoli, dove lavora nel suo studio nella Chiesa di Sant’Aspreno ai Crociferi e dove, a inizio novembre, ha realizzato l’installazione “Look Down” in Piazza del Plebiscito, mentre il 1 ottobre 2021, installa l’opera “Pietà” nella Basilica di Santa Maria in Montesanto, in Piazza del Popolo a Roma.


La mostra seguirà i seguenti orari:
Tutti i giorni dalle 11.00 alle 21.00
(la biglietteria chiude un’ora prima)

Siti internet
www.mostrepalazzobonaparte.it
www.arthemisia.it

Social e Hashtag ufficiale
@arthemisiaarte
@jago.artist
#JagoBonaparte

Ufficio Stampa
Arthemisia
Salvatore Macaluso | sam@arthemisia.it
T. +39 06 69380306

Museo Arte Orientale di Venezia: La fornace di Yaozhou, tra l’VIII e il XIII secolo, diventò la manifattura più influente di tutto l’impero

VIVACI TRASPARENZE 
Ceramiche di Yaozhou dalla collezione Shang Shan Tang 

A cura di Sabrina Rastelli 

07.09>23.10.2022

MAOV Museo di Arte Orientale di Venezia
Ca’ Pesaro, S.Croce 2076, Venezia 

Vivaci Trasparenze: ceramiche di Yaozhou dalla collezione Shang Shan Tang è una mostra di ceramiche interamente dedicata alle manifatture di Yaozhou, situata a circa 100 km a nord di Xi’an, nella Cina settentrionale (dove si trova il celeberrimo esercito di terracotta del Primo Imperatore), che si terrà al Museo d’Arte Orientale di Venezia dal 7 settembre al 23 ottobre 2022, con l’organizzazione di Fondazione Università Ca’ Foscari e MAOV.

Università Ca’ Foscari Venezia, con il suo Dipartimento di Studi sull’Asia e Africa Mediterranea, e Museo d’Arte Orientale della Direzione regionale Musei Veneto tornano ancora una volta a collaborare per la realizzazione di eventi di elevato profilo scientifico e insieme divulgativo, in una sinergia di intenti utile e necessaria per la diffusione della conoscenza delle culture extraeuropee.

La fornace di Yaozhou, attiva tra l’VIII e il XIII secolo, rivoluzionò la produzione di ceramiche del genere celadon, diventando la manifattura più influente di tutto l’impero. In ambito ceramico la Cina detiene diversi primati: è stata infatti il primo paese ad inventare la porcellana tra la fine del VI e l’inizio del VII secolo (mentre in Europa ci sono riusciti mille anni dopo gli alchimisti alla corte di Augusto il Forte (1670-1733) a Meissen), ma, ancora prima, nel XIII secolo a.C., lì erano stati realizzati oggetti dal corpo altamente refrattario rivestito con uno strato di invetriatura verde (con varie sfumature), comunemente noti in Occidente con il nome di celadon e in Cina come qingci (gres con invetriatura verde-azzurra). Questo genere ceramico ha riscosso un successo enorme proprio per le sue tonalità verdi-azzurre che evocano la giada, il materiale simbolo della Cina, o la patina sui bronzi antichi, altro emblema della millenaria civiltà cinese.

Le 96 opere in esposizione provengono tutte da una collezione privata straniera, la上善堂 Shang Shan Tang, alla lettera “Sala del sommo bene”, che include una delle raccolte di ceramiche di Yaozhou più complete al mondo, con esemplari di eccellente qualità, che testimoniano lo sviluppo della manifattura

Tutti i pezzi saranno esposti nella suggestiva sala 12 del Museo d’Arte Orientale, che nel 1928 fu destinata a ospitare le porcellane cinesi di quella che fu un tempo la collezione di Enrico di Borbone. Lo storico allestimento ideato da Nino Barbantini è stato preservato da allora e armonizza gli straordinari pezzi asiatici con i caratteri di un appartamento rococò, adorno di specchi e stucchi settecenteschi, creando un ambiente di grande fascino.

Chicago cat. No. 18
Vaso istoriato
Grès con invetriatura verde-azzurra
Fornaci di Yaozhou
Dinastia Song Settentrionale (960-1127)
H. 15.5 cm
Collezione Shang Shan Tang

No. 24a 
Vaso meiping con motivo di peonie 
Grès con invetriatura verde-azzurra
Fornaci di Yaozhou
Dinastia Song Settentrionale (960-1127)
H. 28 cm
Collezione Shang Shan Tang

La fornace delle meraviglie

La storia della fornace di Yaozhou è sorprendente: da opificio modesto, nel X secolo si era già specializzata nella produzione di celadon di alta qualità (fino a quel momento appannaggio delle manifatture meridionali), attraverso una serie di conquiste tecnologiche dettate dall’esigenza di risolvere difetti e inconvenienti. Nota in seguito soprattutto per la fabbricazione di celadon dalla tonalità verde oliva con motivi decorativi incisi o impressi sotto l’invetriatura, era stata impiantata per produrre ceramiche con coperta nera per uso quotidiano domestico e il genere a smalti policromi sancai (“tre colori”) destinato per lo più ai corredi funerari. La Cina settentrionale era nota per la produzione di porcellana e gli artigiani di Yaozhou si cimentarono anche nella fabbricazione di ceramica bianca (falsa porcellana), realizzata coprendo le impurità presenti nelle argille del corpo con uno strato di ingobbio bianco prima dell’applicazione della vetrina trasparente incolore. I risultati erano però deludenti: più che bianco, il rivestimento risultava di un giallo poco attraente che indusse i fuochisti ad avventurarsi nel complesso, e per loro sconosciuto, sistema della cottura in atmosfera riducente (priva di ossigeno). Le analisi chimiche hanno mostrato che la ricetta per corpo e invetriatura rimase invariata, ma grazie alla cottura in riduzione, la coperta risultava di un verde più che soddisfacente, quando il titanio contenuto nell’ingobbio non interferiva ingiallendola. Per ovviare a questo problema, i ceramisti iniziarono a rivestire completamente gli oggetti prima di ingobbio bianco e poi di vetrina. Tale metodo presentava però un’altra sfida: durante la cottura, l’invetriatura diventa una potentissima colla, rendendo quindi necessario limitare il più possibile i punti di contatto del piede di ogni oggetto con il fondo del contenitore nel quale veniva inserito per la cottura. Anche in questo caso i vasai di Yaozhou dimostrarono grande ingegno raffinando progressivamente la tecnica fino a concepirne una che lasciava soltanto tre piccole cicatrici sulla base. Tale pratica è comunemente associata alle celebratissime ceramiche Ru (prodotte dalla fine dell’XI secolo per un centinaio di anni) e considerata una grande conquista dei ceramisti di Ru, ma in realtà furono i colleghi di Yaozhou a inventarla centocinquanta anni prima. Una nuova sfida si presentò nell’XI secolo, quando i fuochisti adottarono il carbone (in sostituzione della legna che scarseggiava) come combustibile per alimentare le fornaci. La diversa resa del carbone rispetto alla legna impose modifiche significative alla pianta dei forni, mentre il rapido raffreddamento alla fine del ciclo di cottura garantiva invetriature trasparenti (al contrario di quelle precedenti che invece erano translucide). La trasparenza era importante affinché i motivi decorativi eseguiti sul corpo sottostante fossero ben leggibili: il nuovo gusto estetico, infatti, prediligeva oggetti intensamente ornati, ma, sotto una coperta translucida, i decori apparivano nebulosi; perciò, i fuochisti di Yaozhou sfruttarono la piena maturità raggiunta dalle vetrine cotte nei forni alimentati a carbone, raffreddandole rapidamente. Quanto alla sfumatura verde oliva che contraddistingue le coperte di questo periodo, recenti analisi chimiche hanno indicato una modifica della ricetta, probabilmente dovuta alla composizione delle materie prime locali, caratterizzata da un aumento della percentuale di titanio, responsabile di questa tonalità.

L’invetriatura opalina tornò in auge tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo con le ceramiche Ru, molto apprezzate dall’imperatore Song Huizong (r. 1100-1126) che le volle utilizzare a corte. Ancora una volta i ceramisti di Yaozhou seppero rispondere prontamente alla nuova moda, creando la cosiddetta vetrina “chiaro di luna”, dall’aspetto simile alla giada, translucida, brillante, morbida, e caratterizzata da una tonalità di verde molto tenue (al contrario del celeste tipico degli esemplari Ru). Nel XIII secolo le manifatture di Yaozhou andarono in disuso per essere riscoperte attraverso una serie di campagne archeologiche soprattutto negli anni ‘90 del secolo scorso che ne hanno dimostrato il ruolo cruciale nello sviluppo della storia della ceramica cinese.

Dalla tecnologia ai temi decorativi

Per apprezzare appieno la produzione di Yaozhou, la mostra è organizzata per temi, a partire da quello tecnologico in modo da cogliere la sofisticatezza degli esperimenti condotti nel tempo dai ceramisti di Yaozhou, sempre pronti a raccogliere le sfide poste dalle caratteristiche intrinseche alle materie prime locali, a innovare costantemente la produzione e ad adattarsi alle mode del momento. Alcune teche sono centrate intorno ai motivi decorativi intagliati, incisi, o impressi che contraddistinguono i celadon di Yaozhou: peonie (metafora della sensualità femminile), crisantemi (simbolo dell’autunno e della saggezza che si acquisisce con gli anni), loti (introdotti con il buddhismo), bambini che giocano (augurio di progenie numerosa e discendenza ininterrotta), anatre mandarine in uno stagno (emblema di fedeltà coniugale), mini sculture raffiguranti tartarughe applicate sul fondo di piccole tazze per dare l’impressione che stiano nuotando nel liquore che vi si verserà, animali mitologici che evocano storie straordinarie. Altre vetrine sono invece incentrate sulla funzione delle forme utilizzate in ambito domestico, ma anche religioso (soprattutto buddhista). Una teca è dedicata agli esemplari contrassegnati da iscrizioni, una delle quali di particolare importanza poiché indica che già all’epoca delle Cinque Dinastie (907-960), le fornaci di Yaozhou avevano raggiunto l’eccellenza nella fabbricazione di celadon, tanto da essere incluse nel sistema di tributi per la corte imperiale. Se le manifatture di Yaozhou sono famose per le loro ceramiche dal colore verde oliva, è importante sottolineare che esse eccelsero anche nella produzione dei generi rosso ruggine e nero, quest’ultimo monocromo o chiazzato di rosso con un effetto molto moderno, e infatti una vetrina accoglie le varie tipologie mettendone in evidenza i colori.


SCHEDA INFORMATIVA

VIVACI TRASPARENZE
Ceramiche di Yaozhou dalla Collezione Shang Shan Tang
07.09.2022 > 23.10.2022

INAUGURAZIONE
dalle ore 17 alle ore 19 con presentazione e visita alla sala espositiva. Entrata libera

A CURA DI
Prof. Sabrina Rastelli Phd
Professore ordinario di Archeologia e Storia delle Arti e filosofia dell’Asia orientale presso l’Università Ca’ Foscari Venezia
Curriculum Vitae

DOVE
MAOV Museo d’Arte Orientale di Venezia
Ca’ Pesaro, Sestiere di Santa Croce n. 2076, Venezia

ORARI DI VISITA
Dal martedì alla domenica
10.00 > 18.00  La mostra è compresa nel ticket d’ingresso al Museo

ORGANIZZAZIONE
Fondazione Università Ca’ Foscari – MAOV Museo d’Arte Orientale di Venezia

UFFICIO STAMPA
FG Comunicazione – Venezia 
Cristina Gatti 
cristina.gatti@fg-comunicazione.it

Per ulteriori informazioni

Università Ca’ Foscari Venezia
Ufficio Comunicazione e Promozione di Ateneo
Settore Relazioni con i media
Paola Vescovi (Direttrice): Tel. 366 6279602
Federica Ferrarin (Referente di settore): Tel 366 6297904
Enrico Costa (Senior Media Relations Officer): Tel. 337 1050858
Email: comunica@unive.it
Le news di Ca’ Foscari: news.unive.it

Direzione regionale Musei Veneto – Museo di Arte Orientale di Venezia
Ufficio Comunicazione Direzione
Vincenza Lasala
0412967627
vincenza.lasala@cultura.gov.it

Direzione Museo
Dott.ssa Marta Boscolo Marchi
0412967628 – 0415241173
marta.boscolo@cultura.gov.it

Venezia, Itinerarte Gallery Leblon Art Experience: Il dietro le quinte dell’acclamato film “NAVALNY”

Itinerarte Gallery
Leblon Art Experience

Dorsoduro 1046 – Campo della Carità – Venezia

“NAVALNY”

05.09 – 10.09.2022

Opening 05.09.2022
ore 18:00


L’esposizione multimediale, che comprende anche spezzoni del film, è costituita prevalentemente dagli schizzi e i bozzetti che il regista ha realizzato nel corso delle riprese del documentario.

Lo Spazio Leblon Art Experience che ha fra i suoi obiettivi quello di divenire un luogo di incontro, inclusione, dibattito artistico e culturale.

Lunedì 5 settembre 2022 a partire dalle ore 18:00, nell’ambito della 79a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, presso la Galleria Itinerarte, rinnovato spazio espositivo in Campo della Carità di proprietà di Maria Novella Papafava dei Carraresi, si terrà l’Opening di una mostra molto particolare e coinvolgente curata dal giovane artista brasiliano Nicolas Fiedler, che sta portando avanti il progetto Leblon Art Experience.
Si tratta della rappresentazione artistica del “dietro le quinte” dell’acclamato film NAVALNY, che narra il tentato omicidio del leader dell’opposizione russa Alexei Navalny.

Il regista Daniel Roher con la produzione di CNN Films e HBO Max, ha realizzato il film e la mostra che si potrà vedere a Venezia, proprio nello stesso periodo in cui Alexei Navalny era in esilio in Germania.
Questa coincidenza temporale ha permesso di arricchire il film con le dichiarazioni dirette di Navalny, consentendo un maggiore approfondimento sia al docufilm sia alle opere che saranno esposte a Venezia.

L’esposizione multimediale, che è costituita prevalentemente dagli schizzi e i bozzetti che il regista ha realizzato nel corso delle riprese del documentario, comprende anche spezzoni del film, che è incentrato sulle dinamiche politiche che hanno preceduto e seguito l’avvelenamento di Alexei Navalny e che indaga sui suoi responsabili.
Il film di Roher racconta, dunque, la recente storia dell’attivista russo e delle sue battaglie contro la corruzione, anche come ex candidato alla Presidenza della Russia, la cospirazione che aveva il fine di avvelenarlo e pone molti elementi di riflessione sulla visione del futuro della Nazione e in generale sulla libertà di opinione e di espressione da parte degli organi di informazione a livello globale.

L’esposizione veneziana, che ci permette di approfondire le difficili tematiche trattate dal documentario, è realizzata da CNN Films, HBO Max, Think-Film Impact Production e i vari collaboratori che a diversi livelli hanno concorso affinché questo lavoro potesse andare in porto.  Lo Spazio Leblon Art Experience che ospita questo evento, si pone fra i suoi obiettivi quello di divenire un luogo di incontro, inclusione e dibattito artistico-culturale.

Alexei Navalny è attualmente detenuto in una prigione di massima sicurezza in Russia e la sua reclusione è stata pesantemente criticata da molti gruppi per i diritti umani in tutto il mondo. La prima mondiale del film è avvenuta al Sundance Film Festival del 2022, dove ha vinto il Festival Favorite Award e il Documentary Audience Award. Il film NAVALNY è attualmente disponibile per lo streaming tramite HBO Max negli Stati Uniti e in gran parte dell’Europa.


Curatore|Nicolas Fiedler
Organizzatore | CNN Films, HBO Max e Think-Film Impact Production
Location | Itinerarte Gallery Leblon Art Experience | Dorsoduro 1046 – Campo della Carità – Venezia
Durata della Mostra|5 settembre – 10 settembre 2022 
Per maggiori informazioni: Danielle Turkon Wilson, CEO di Think-Film Impact Production, dturkov@tfip.org . 

PER INFO:
Davide Federici comunicazione e ufficio stampa 
www.fg-comunicazione.it
info@davidefederici.it
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29- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Storia segreta

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte terza: La vigna

Storia segreta

Per questa strada passava mio padre. Passava di notte perch’era lunga e voleva arrivare di buon’ora. Faceva a piedi la collina, poi tutta la valle e poi le altre colline, finché sbucavano insieme il sole in faccia e lui sull’ultima cresta. La strada saliva alle nuvole, che si rompevano nel sole sopra il fumo della pianura. Io le ho viste queste nuvole: luccicavano ancora come oro; mio padre disse, ai suoi tempi, che quand’erano basse e infuocate gli promettevano una buona giornata. Allora sui mercati correvano pezze d’oro.

Ancor oggi i passanti vanno verso la pianura piegati innanzi col mantello sulla bocca. Non si guardano intorno, neanche se il tempo è sereno. Le ombre cadono dietro, sulla strada, e li seguono adagio. La collina li segue, col suo orizzonte uguale. Io conosco quest’orizzonte, ciascuno degli alberi piccoli che incorona le creste. So che cosa si vede da sotto quegli alberi.

Mio padre a prima luce non scendeva in pianura. Girava per coste e cascine a cominciare il mercato. Parlava nei cortili con gente assonnata. Facevano colazione. Bevevano un bicchiere taciturni sulla porta. Mio padre conosceva tutti quanti e sapeva le stalle di tutta la strada; sapeva le disgrazie, i bisogni, le donne. Parlava poco. Quando incontrava nei cortili altri sensali, stava zitto e lasciava che dicessero.

Anni e anni fa – era vedovo, e noialtri, bambini – qualcuno gli aveva detto di smetterla e attaccare il biroccino. Ma era inverno e lui diceva che il cavallo avrebbe patito su per quelle stradette. Col mantello sugli occhi e il berretto di pelo, partiva nella nebbia e saliva alla Bicocca due vallate lontano. Ci stava la Sandiana, ch’era la figlia di un suo amico, giovane e disperata da quando si vedeva sola in quelle vigne. Mio padre aveva in mente di portarsela in casa e farsi fare ancora un figlio. Ma lei passava le giornate addosso al fuoco, in una stanza come un pollaio, e non faceva che ripetere ch’era sola e che aveva paura. Poi si seppe che un sensale di fuori le aveva parlato di vendere e andarsene a vivere tranquilla in città. Mio padre sospettava qualcosa e pestò molta neve per venirne in chiaro, finché un giorno alla Bicocca trovò quell’altro che si scaldava i piedi al fuoco. Ma ancora non capiva chi poteva comprare la terra: sapeva l’idea di tutti là intorno. La donna diceva di no; mio padre tornò verso sera e trovò i figli del sensale che caricavano la roba. Allora capí di esser vecchio. La Sandiana andò a stare vicino al mercato.

Non parlava di queste cose con noi. Si sapevano dalla gente e dai sospiri che cacciava in quegli anni. Adesso, le volte che scendeva in città, passava a farsi il sangue cattivo là sotto. Era in un cortiletto basso, coperto di vite vergine, dove il rumore del mercato arrivava appena. Il sensale, venduta la terra, era tornato ai suoi paesi. La Sandiana aspettava, seduta alla stufa come una gatta. Per un pezzo mio padre le mandò un piatto caldo. Quell’inverno lo passò all’osteria. Veniva a sedersi, guardava il va e vieni, il fumo, i sensali, e pareva che ascoltasse i discorsi. Lasciava che gli affari li facessero gli altri. Pensava ancora a quella vigna.

La Sandiana per tutto l’inverno non uscí dal cortile. Senza terra, sapeva di non valere più niente; e, sul patto, era incinta. Si sfogava con la donna che le portava da mangiare, e diceva che i vecchi sono peggio dei giovani. Mandò a dire a mio padre che si voleva ammazzare. Mio padre lasciò che passasse l’inverno; poi riprese a battere le colline. A marzo gli dissero che s’era sgravata.

Allora venne a cercarla, e le propose di portarsela in casa. Dicono che la Sandiana, dimagrita, piangesse; ma so che mio padre dovette tagliar corto e dirle che veniva da noi per far la donna dove non ce n’erano, e non la padrona. Ma neanche la serva. Non eravamo signori.

Così diede una stanza alla Sandiana e al bambino, e lui continuò a dormir solo. L’idea di fare quel figlio era sfumata con la vigna. Neanche nell’estate, che la Sandiana rifiorí come una sposa e allattava, mio padre cambiò. Partiva col buio, e la Sandiana si levava a preparargli la roba. Tra loro parlavano appena. Noialtri ragazzi, messi su dalla serva, tendevamo l’orecchio per sentire qualcosa. La Sandiana piaceva anche a noi. Ci accudiva e aiutava.

Verso sera, d’estate, andavamo con lei per le campagne. Sapevamo la strada per dove tornava mio padre, e bastava che la tenessimo d’occhio dall’alto. Noi portavamo la Sandiana a vedere i nostri posti, e lei sapeva dirci il nome dei campanili e dei paesi più lontani. Ci descriveva quel che lassú da quei boschi si vedeva in pianura, e quel che faceva la gente nelle casupole isolate. Ci parlava di suo padre e di quando alla Bicocca erano in tanti, fratelli e sorelle, e la sera giravano con le lanterne a chiudere stalle e cantine. Raccontava di quando d’inverno i suoi nonni sentivano il lupo raspare alla porta e continuavano a vegliare e intrecciare cavagni. Prendevamo i sentieri attraverso le vigne, e chi primo arrivava, gridava e agitava le braccia sul cielo. Correva anche lei.

Quell’anno ero cresciuto, e nell’inverno avrei dovuto andare a scuola in città. La Sandiana mi diceva che ci sarei stato bene e avrei scordato il paese. Mi sarei vergognato di casa e di noialtri. Io capivo che aveva ragione, eppure, anche adesso che l’estate finiva, guardavo le strade, le nuvole, le uve, per stamparmi ogni cosa dentro e vantarmene poi. Avrei voluto anch’io esser nato alla Bicocca coi suoi vecchi e aver conosciuto i fratelli e provato quelle notti che venivano i lupi. Di questo avrei voluto vantarmi, e ascoltando la Sandiana sapevo che me ne sarei vantato. Così era fin da allora: godevo non le cose che facevo ma quelle che sentivo dagli altri. Non sembravo mio padre.

La casa della Sandiana era in mano a due vecchi, mezzadri di un signore che l’aveva ricomprata e che nessuno conosceva. Andavamo sovente su quella collina e di là si vedevano i pini, neri dietro la casa, alti in mezzo alle vigne come campanili, pieni d’uccelli che volavano. La Sandiana ci portò una volta fin nel cortile; c’era un cane che la riconobbe e le corse addosso saltando. Allora uscí la vecchia, e si parlarono e girarono insieme nella casa e sull’aia. Noi aspettammo nel cortile, sotto il pagliaio, e tiravamo dei sassi nel pino più grosso. Io guardavo il sentiero che dai beni portava al pozzo. Non ero mai stato in un cortile più vuoto, sembrava abbandonato: anche il cane che mugolava di sopra con le donne non l’avevo mai visto: non la voce di un cane ma più fiera. Pensavo a quei tempi che i fratelli della Sandiana giravano i boschi. Il bosco era nero, profondo, sull’altra sponda della collina. Quando tornò con la Sandiana e si lamentavano insieme, la vecchia ci disse che voleva darci qualcosa – una cotogna – ma non ne trovò. La Sandiana rideva, contenta.

Il cane voleva venire con noi; lo legarono al filo. Per tornare passammo da un altro sentiero, e per tutta la strada la Sandiana non parlò: disse soltanto di non dire a mio padre ch’eravamo saliti lassú, perché era troppo lontano. Ma quella sera mi chiese se sapevo che mio padre ci fosse venuto quell’estate. Le risposi che avrebbe dovuto domandarlo alla vecchia, e lei allora stette zitta.

Un mattino trovammo mio padre in cucina. Non era domenica, ma tutto aveva l’aria insolita. Tornò la Sandiana dal cortile con una faccia agitata e i capelli negli occhi. Il bambino piangeva e mandarono la serva a calmarlo. Mio padre comandava e scherzava. Non era ancora il giorno ch’io dovessi partire, e non capivo il perché dell’agitazione, ma poi lo seppi da una parola della serva. La Bicocca era nostra; mio padre l’aveva comprata.

Partirono sul biroccino lui e la Sandiana. La serva quel giorno fu cattiva e ci disse, come fossimo uomini, che ormai la padrona era l’altra e la Bicocca era sua e di suo figlio. Aspettammo tutto il giorno che tornassero. Io speravo che almeno girare nel bosco la Sandiana mi avrebbe lasciato, e per meritarmelo accudii il bambino che – la serva diceva – era ormai mio fratello. Pensavo più di tutto a quei fratelli morti, e godevo a sapere che sarebbero stati anche i miei. Quella sera la serva disse a mio padre che bisognava far festa e andò a prendere il vino.

Tanti anni eran passati e dovevano ancora passare, nell’inverno andai in città e cambiai vita; ci tornai l’anno dopo, divenni un altro; venivo in paese per le vacanze e Così mi sembrò di esser stato ragazzo soltanto d’estate. La Sandiana era sempre la stessa; il bambino era morto; Così il tempo in casa nostra non passò quasi più. Tutti gli anni l’estate fu come quando non andavo ancor via, un’unica estate che durò sempre.

Tutti gli anni io guardavo le nuvole, le uve e le piante per vantarmene in città, ma, non so come, pensavo a tutt’altro laggiú e non ne parlavo. Doveva aver ragione la Sandiana che mi chiedeva sempre se i compagni mi avevano canzonato e se sarei tornato ancora nella vigna. Ma nella vigna io ci tornavo felice e le chiedevo se veniva anche lei. Il giorno stesso che rientravo a casa facevo il giro delle strade e dei sentieri, e quei mattini mi svegliavo contento se era sole e più contento se pioveva, perché non c’è che l’acqua fresca per metter voglia di girare la campagna. La Sandiana rideva se tornavo bagnato e infangato e mi diceva che sarebbe venuta anche lei – una volta.

Non venne, ma una sera ci prese il temporale sulla strada, e noialtri ragazzi avevamo paura del tuono, la Sandiana del lampo. A me il lampo piaceva, quella luce violetta improvvisa che inondava come un’acqua, ma la Sandiana raccontò ch’era di zolfo e che uccideva con la scossa. — Se non è niente, – le dicevo, – si vede una luce che passa. — Tu non sai, – mi rispose, – dove tocca ammazza. Mamma mia —. Io allora fiutavo nell’aria bagnata e sentii finalmente l’odore del lampo: un odore nuovo, come d’un fiore mai veduto, schiacciato tra le nuvole e l’acqua. — Senti? — le dissi; ma la Sandiana si premeva con la mano sulle orecchie, sotto il portico dov’eravamo rifugiati. Il profumo ci durò fino a casa: era fresco, pungeva dentro il naso come quando si tuffa la faccia nel catino. La Sandiana diceva che quello era vento passato sui boschi, ma non l’avevo mai sentito prima: era davvero l’odore del lampo. — Chi sa dove è caduto, — disse.

Ma non volle venire a cercarlo. Doveva esser caduto nei boschi, sapeva troppo di selvatico. Ora capivo perché tante cose strane si raccontano dei boschi, perché ci sono tante piante, tanti fiori mai veduti, e rumori di bestie che si nascondono nei rovi. Forse il lampo diventa una pietra, una lucertola, uno strato di fiorellini, e bisogna sentirlo all’odore. Di terra bruciata ce n’era sí, ma la terra bruciata non sa quel profumo d’acqua. La Sandiana mi rispondeva e diceva di no. Nel bosco della Bicocca c’era uno spacco dentro il tufo. La Sandiana diceva ch’era stato un terremoto prima ancora che noialtri nascessimo. Nessuno se non qualche biscia poteva passarci. Ma io avevo visto una volta lassú un bel fiore lilla e chi sa che il suo odore non fosse lo stesso del lampo. Capivo che il tuono facesse gli spacchi ma il temporale cadeva dal cielo e qualcosa di bello doveva portare. — Macché, – disse la Sandiana, – tutto quello che nasce, è fatto di terra; acqua e radici sono in terra; dentro il grano che mangi e il vino d’uva c’è tutto il buono della terra —. Io non avevo mai pensato che la terra servisse a fare il grano e a mantenerci, tanto più adesso che studiavo. Se anche avevamo la Bicocca, non eravamo contadini. Ma quando mangiavo le frutta, capivo.

Le frutta, secondo il terreno, hanno molti sapori. Si riconoscono come fossero gente. Ce n’è delle magre, delle sane, delle cattive, delle aspre. Qualcuna è come le ragazze. Ci sono fichi e uva luglienga alla Bicocca che sanno ancora di Sandiana. Io ne ho mangiate di ogni sorta, e specialmente la selvatica, le prugnole e le nespole acerbe.

Specialmente le prugnole mi facevano gola. Ancora adesso lascio tutto per le prugnole. Le sento a distanza: fanno siepi spinose, verdissime lungo le forre, in mezzo ai rovi. Alla fine d’agosto i rami ingrossano di chicchi azzurri, più scuri del cielo, agglomerati e sodi. Hanno un sapore brusco e asperrimo che non piace a nessuno eppure non mancano di una punta di dolce. Con novembre son tutte cadute.

Che le prugnole sappiano di succhi selvatici, si capisce anche dai luoghi dove crescono. Io le trovavo sempre all’orlo delle vigne, dove il coltivo finisce e più nulla matura se non l’arido del terreno scoperto. Allora non pensavo a queste cose; avrei solamente voluto che mio padre, la Sandiana e tutti quanti mangiassero prugnole. Degli altri non so; la Sandiana diceva che le mordevano la lingua. — Per questo mi piacciono, – dicevo io, – loro sí che si sente che crescono nella campagna. Nessuno le tocca eppure vengono. Se la campagna fosse sola farebbe ancora delle prugnole.

La Sandiana rideva e diceva: — Sapessi… — Sapessi cosa? Fin che un giorno mi disse che di là dai suoi boschi dopo un’altra vallata, alla Madonna della Rovere la costa era tutta una prugnola. — Ci andiamo? – Era troppo lontano. – Ma nessuno le coglie? — chiedevo.

A questo ci pensavo sempre. Non soltanto non bastavo a scoprire tutte quelle delle nostre strade, ma tante colline c’erano al mondo, tanta campagna sterminata, e dappertutto prugnole, su per le rive, nei fossi, in luoghi impervi, dove nessuno anche volendo arriva mai. Me le vedevo con le foglie ricciute, coi rametti pesanti di frutto, immobili, in attesa di una mano che non sarebbe mai venuta. Oggi ancora mi pare un assurdo tanto spreco di sapori e di succhi che nessuno gusterà. Raccolgono il grano, raccolgono l’uva, e non ce n’è mai abbastanza. Ma la ricchezza della terra si rivela in queste cose selvagge. Nemmeno gli uccelli, selvaggi anche loro, non potevano goderne, perché le spine dei rametti li ferivano negli occhi.

Allora pensavo alle cose, alle bestie, ai sapori, alle nuvole che la Sandiana aveva conosciuto quando stava nei boschi, e capivo che tutto perduto non era, che ci son delle cose che basta che esistano e si gode a saperlo. Anche le prugnole, diceva la Sandiana, non se ne mangia più di due tre alla volta. Ma è un piacere sapere che ce n’è dappertutto.

Già a quel tempo bastava che dicesse un paese, e mi pareva di vederlo. I suoi paesi erano fatti di cascine, di canneti e di raccolti, come i miei. Mi pareva di esserci stato o di poterci andar domani. Qualcuno ne spuntava dietro ai boschi. Eppure se salivo in biroccino con mio padre partivo come alla scoperta. C’era di mezzo quel selvatico che lei non sapeva ma io mettevo dappertutto.

Una strada e un canneto sono cose comuni, per lo meno da noi, ma avvistati Così in lontananza sotto una cresta e sapendo che dietro ci sono altre creste altri canneti e per quanto si passi tra loro ne restano sempre dove noi non andremo e qualcuno c’è stato e noi no – ecco questo pensavo ascoltando la Sandiana. Invidiavo mio padre ch’era stato in tanti luoghi e aveva fatto quelle strade e quelle creste giorno e notte. Che fosse fatica lo seppi più tardi. Ora mi accontentavo di guardarlo la sera quando saliva taciturno i tre scalini o aspettava noialtri. In quel momento non pareva più mio padre. Gli si capiva in faccia che veniva da lontano e ch’era stanco – aveva negli occhi anche lui quel selvatico. Era tanto stanco che, se la Sandiana lo chiamava, veniva senza risponderle. Dei paesi tra loro non parlavano mai.

Qualche volta ci portava in biroccino per un tratto, ma poco, perché il cavallo faticava già troppo con lui. Andammo sempre più lontano a piedi. Solamente al principio e alla fine dell’estate facevo con lui lo stradone della città e lui guidava, io pensavo a quei giorni che laggiú c’era stata la Sandiana, e mi pareva tanto tempo perché allora la città non l’avevo mai veduta. Gli chiedevo s’era vero che da giovane ci scappava di nascosto, e lui brusco, scherzando, diceva che ci andavano i vecchi soltanto, a vedere la festa, e tornavano a piedi la notte mentre loro ragazzi contavano le botte e guardavano i riflessi in lontananza. — Adesso hanno troppi palazzi, – diceva, – e si vergognano di noi delle campagne. Si divertono al chiuso. Non vale più la pena di venirci —. Nel fresco dell’alba stavo attento per accorgermi dove finiva lo stradone e cominciavano i palazzi e c’era sempre come un fumo dorato e nebbioso che sembrava un’altr’aria e uno c’entrava a poco a poco e, una volta arrivato, pareva impossibile che ci fossero ancora dei paesi e delle colline. Lontano, chi sa dove, c’era il mare. Lo dicevo a mio padre, e lui rideva, brusco.

Adesso che il tempo è passato e quelle estati le ricordo, so che cosa volevo dalla Madonna della Rovere. Una siepe di prugnole mi chiudeva l’orizzonte, e l’orizzonte sono nuvole, cose lontane, strade, che basta sapere che esistono. La Madonna della Rovere è sempre esistita, e dappertutto, sulle coste, sulle creste dei paesi, ci sono chiese e masse d’alberi impiccolite nella distanza. Dentro, la luce è colorata, il cielo tace; e donne come la Sandiana ci stanno in ginocchio e si segnano, qualcuna c’è sempre. Se una vetrata della volta è schiusa, si sente un soffio di cielo più caldo, qualcosa di vivo, che sono le piante, i sapori, le nuvole.

Queste chiese di cresta sono tutte Così. Ce n’è sempre qualcuna più lontana, mai vista. Nel porticato di ciascuna è tutto il cielo e vi si sentono le prugnole e i canneti che il cammino non basta a raggiungere. Tanto vale fermarsi a due passi e sapere che tutta la terra è un gran bosco che non potremo mai far nostro davvero come un frutto. Anzi, le cose che ci crescono a due passi hanno il loro sapore da quelle selvatiche, e se il campo e la vigna ci nutrono è perché affiora alle radici una forza nascosta. Mio padre direbbe che al mondo tutto viene dal basso. Io non so né sapevo di questo, ma la Madonna della Rovere era come il santuario delle cose nascoste e lontane che devono esistere.

Quando anni fa morí mio padre, trovai nel mio dolore un senso di calma che non mi aspettavo eppure avevo sempre saputo. Andai in chiesa e al cimitero; rividi le donne col velo sul capo e i quadretti della Via crucis, sentii l’odore dell’incenso e di terra scavata. Più abbattuta di me, la Sandiana pregò sulla tomba; poi ritornammo a casa insieme e lei ci preparò la cena. Da molto tempo non tornavo, e il cortile mi parve più piccolo. Parlammo di mio padre e della Bicocca, della vendemmia e della morte, poi a notte avanzata rimasi solo alla finestra.

In quei giorni ripensai molte cose che avevo dimenticato. Pensai che mio padre ora esisteva come qualcosa di selvatico e non aveva più bisogno di girare giorno e notte per dirmelo. La chiesa, com’è giusto, l’aveva inghiottito, ma la chiesa anche lei non va di là dall’orizzonte e mio padre sotterra non era cambiato. Da corpo di sangue era fatto radice, una radice delle mille che tagliata la pianta perdurano in terra. Queste radici esistono, la campagna ne è piena. I finestroni colorati della chiesa non cambiano niente, e anzi fanno pensare che nulla muta neanche fuori sotto il cielo, e che quanto è lontano o sepolto continua a vivere tranquillo in quella luce. Ora in tutte le cose sentivo mio padre; la sua assenza pungente e monotona condiva ogni vista e ogni voce della campagna. Non riuscivo a richiuderlo dentro la bara nella tomba stretta: come in tutti i paesi di queste colline ci son chiese e cappelle, Così lui mi accompagnava dappertutto, mi precedeva sulle creste, mi voleva ragazzo. Nei luoghi più suoi mi fermavo per lui; lo sentivo ragazzo. Guardavo dalla parte dell’alba la strada e la città nascosta in fondo dove – quanto tempo fa? – lui era entrato un mattino, col suo passo campagnolo e raccolto.

Parlavamo di lui. La Sandiana bambina l’aveva veduto ballare e sapeva la voce che aveva a quei tempi. Diceva che invece di aiutare in campagna, lui già allora era sempre per strade e comprava i cavalli. Comprava e vendeva, ma più che il commercio gli piaceva girare. Lui sí che i paesi li aveva veduti. Nostra madre l’aveva trovata in città e sposata senza dirlo a nessuno, poi tornato in paese e rifatta la pace aveva dato un grosso pranzo di nozze. La prima delle mie sorelle era nata due giorni dopo quel pranzo.

Allora mio padre era allegro e manesco. La Sandiana diceva che a quarant’anni si mise coi suoi fratelli e andava in giro con loro scherzando come un giovanotto. Si vedevano sempre alla Bicocca ma lei non pensava che l’avrebbe sposato. Ci veniva mia madre a cercarlo quando stavano fuori la notte. Mia madre era giovane, sempre spaventata, e sembrava una figliola accanto a lui. Chi avrebbe pensato che doveva morire la prima. La Sandiana scordava mio padre e parlava di donne, di loro.

Io tacevo e rivedevo la città nella nebbia. Non era questo che cercavo di lui. Le donne l’avevano fatto mio padre, ma c’era qualcosa di più antico di questo, di più segreto e sepolto per sempre. Voglio dire, un ragazzo. Come me anche mio padre era entrato in città, non per chiudersi in scuola ma per fare fortuna. C’era entrato selvatico e non era cambiato. Mi chiedevo che cosa l’aveva cacciato laggiú, quale rabbia, quale istinto, lui che pure era nato in un campo. La città sonnolenta gli era parsa superba alla fine, e non ci s’era mai fermato, ma le sue donne le aveva trovate laggiú, anche l’ultima, anche quella che veniva dalla Bicocca. Forse sapeva tutto questo da principio. Forse anche lui cercava in città l’ignoto, il selvatico.

Qui mi voltavo alla Sandiana e le chiedevo se mio padre non aveva mai pensato di fermarsi in città. Lei sembrava non capire e mi diceva che in quel caso non avrebbe comperato la Bicocca. Invece capiva benissimo: la risposta era quella. A mio padre piaceva venire in città da una terra: il suo lavoro si faceva sopra un’aia, e d’aia in aia la città glielo pagava. Palazzi e mercato per lui volevano ancor dire pezze d’oro, carrate di sacchi e di botti, campagna. Nella città non conosceva veramente se non quelli che venivano dai campi come lui. Con gli altri scherzava. Così era stato da ragazzo e Così era morto.

Adesso era inutile salir quelle creste per essere solo con lui. Mi bastava incontrare un canneto, un fico storto contro il cielo, una terra vangata, per commuovermi e contentarmi. Quel che c’era lontano, di là dalle creste, la città, la pianura fumosa, se ne stava sepolto, nulla più che una chiesa coperta dagli alberi sull’orizzonte.

Invece i gerani che la Sandiana teneva sulla finestra, mi parevano davvero città. Avevano un colore vivacissimo come soltanto i rosolacci, ma dalla forma complicata e dalle foglie si capiva che non crescono in terra. S’avvicinava l’ora che ne avrei veduti molti in pianura, sui terrazzi delle ville. Quando vedevo la Sandiana alla finestra per bagnarli, mi pareva che anche lei fosse qualcosa di mai visto, di scarlatto come loro.

La Sandiana era come una forestiera; quel che faceva lei sembrava sempre nuovo, tanto più adesso che non c’ero che d’estate. Quando andavamo alla Bicocca la seguivo dappertutto, nelle stanze rossastre, sui solai, davanti alle finestre. C’erano contro i muri cassapanche massicce, sempre chiuse, e i pavimenti di mattoni eran coperti di grano, di patate, di meliga. Per traversarli bisognava scalzarsi. La Sandiana girava, toccava e vedeva. — Chi sa che freddo fa d’inverno in queste stanze — dissi una volta. — Non fa freddo dappertutto? — mi disse lei, brusca. Sembrava che fosse la casa di un altro e che lei ci tornasse per impararla sempre meglio. Era felice, si capiva.

— Vedi, tuo padre, – diceva, – ha comperato tutto questo per voialtri.

Non appena arrivava, tirava su l’acqua dal pozzo e la portava in cucina. Se i contadini erano fuori a far fieno o qualcosa, si legava un fazzoletto sul capo e ci andava anche lei. Io salivo i sentieri di punta a cercare le prugnole in fondo alle vigne, e di là vedevo che si muoveva in mezzo al campo. Già allora mi piaceva appiattarmi in quella solitudine, nell’incolto sotto gli ultimi filari, a due passi dal bosco. Poi mi prendeva la paura e ritornavo a rompicollo dal sentiero. Vedendomi correre ridevano tutti.

— Se scappi, – dicevano, – la paura ti acchiappa.

Era qualcosa, la paura, che per tutti esisteva. La Sandiana mi disse che dovevo resistere. — Se stai fermo al tuo posto, la paura si spaventa. Ma se scappi ti vien dietro come il vento di notte —. Le risposi che avevo paura anche al chiaro. — Quand’è chiaro la devi guardare negli occhi. Lei scappa a nascondersi —. Ma l’idea di guardar la paura mi spaventava ancor di più. — Tu l’hai vista? – le chiesi. – Com’è?

— Se l’hai vista anche tu.

— Io no.

La Sandiana rideva. — Stacci attento alla prima occasione. Vedrai com’è fatta.

Questi discorsi mi mettevano in orgasmo. — Non è soltanto la paura, – dicevo. – Quando sto solo nella vigna o sotto il portico, aspetto qualcosa. Mi par sempre che deva succedere. Delle volte ci vado apposta. Se non fosse che scappo vedrei che cos’è.

— E tu fermati, — diceva la Sandiana.

— È una cosa come quando per stirare metti il ferro alla finestra. Sopra la brace si vede il cielo tremare. Hai già visto?

— Sí.

— Tu in campagna non vedi mai niente?

— Ne vedo sí.

— No, tu ridi. A me sembra che dalla terra esca un calore continuo che tien verdi le piante e le fa crescere, e certi giorni mi fa senso camminarci perché dico che magari metto il piede sul vivo e sottoterra se ne accorge. Quando il sole è più forte si sente il rumore della terra che cresce.

A nessun altro confidavo queste cose. Ma la Sandiana diceva che avevo ragione; raccontava che una volta aveva un fiore che si apriva ogni mattina sotto il sole e si muoveva.

— Ce ne sono nei boschi?

— Chi lo sa, – disse la Sandiana. – Nei boschi c’è di tutto.

Nei boschi andavamo qualche volta per funghi, ma bisognava che avesse piovuto, e la Sandiana ne trovava più lei sola che tutti noialtri. Lei sapeva il terreno e ficcava la mano sotto le foglie marce: non si sbagliava mai. Delle volte io passavo, guardavo, non ce n’era nessuno. Veniva lei, sembrava che le fossero cresciuti sotto i piedi. Mi diceva ridendo che i funghi crescono di colpo, dalla sera al mattino, da un’ora all’altra, e che conoscono la mano. Sono come le talpe, si muovono; li fa l’acqua e il calore. Peccato che la strada era lunga, sapevo venirci soltanto con lei. Partivamo da casa al mattino e arrivavamo sulle creste sudati. Passavamo una valle e una costa, perdevamo i sentieri. Quelle notti, nel letto, tutta quanta la collina mi pareva un vivaio caloroso di pioggia e di funghi, che solamente la Sandiana conosceva a palmo a palmo.

— Mio nonno diceva, – mi disse una volta, – che ogni fatica che si fa in campagna, ritorna in forza dentro il sangue nella notte. C’è qualcosa nel terreno, che si respira sudando. E diceva che è meno fatica camminare sui beni che non sulla strada. Era già vecchio e non voleva mai saperne.

— Perché sulla strada?

Chiedevo ma avevo capito. La Sandiana mi guardò se dovesse scherzare.

— Perché. Sulla strada non zappi.

— Ma è terreno anche quello.

— Vallo a chiedere a lui.

Alla Bicocca nella balza di tufo, proprio dietro la casa, c’era uno scavo profondo che faceva cantina, e là dentro tenevano attrezzi, carrette, robe. Mi misi in testa che l’avesse scavato quel nonno. Col tempo la muraglia di roccia s’era fatta grigia, ma nel fondo dov’era più scuro, sudava ancora umidità e c’era un pozzetto. Qui ci cresceva il capelvenere. Ragazze in paese dissero che il capelvenere è una bella pianta, e la Sandiana andò una volta per sbarbarne e farne un vaso. Io le tenevo la candela.

— Qui siamo sotto la collina, — dissi.

— È più fresco che sopra.

Fin che restammo sottoterra io pensavo a suo nonno e dicevo che l’acqua è il sudore delle radici. Lo dicevo tra me perché avevo paura che la Sandiana mi burlasse. Ma non mi tenni che le chiesi se non vengono sotterra anche i gerani. — Sei matto, — gridò. Poi mi chiese perché.

— Si somigliano.

— Come?

— In campagna non vengono.

La Sandiana mi chiese: — Non siamo in campagna?

Allora capii ch’era inutile dirlo e m’accorsi ch’era vero, la campagna non è solamente la terra ma tutto quello che c’è dentro. Mi venne voglia di restarmene là sotto, e che fuori piovesse, crescessero gli alberi, passasse la sera e il mattino. «Qui di notte è già buio, – pensai, – dentro la terra è sempre notte».

Ci tornai qualche volta da solo, ma come dappertutto dov’era silenzio, tendevo l’orecchio perplesso. Dalla soglia spiavo nel buio. Credevo di udire il gorgoglío dell’acqua che sudava dal tufo, inzuppava la volta, scorreva tutta la collina. Pensavo a quel vecchione che camminava solamente sui sentieri. Lui sí che doveva sapere che cosa è campagna. Ma adesso era morto e sepolto, e con un passo ero in cortile sotto il cielo.

Quel che dicevo alla Sandiana accadeva nell’ora che tutti dormono, tra pranzo e merenda, quando il sole brucia e ancora adesso esco a girare. Esco in mezzo alle case, nel riverbero bianco, e penso a quello che pensavo allora. Credo che mi annoiavo e anelavo il momento che la giornata riprendesse, ma è nella noia che toccavo il fondo della giornata e dell’estate. Nulla accadeva, nemmeno una voce, nei cortili e sulle coste, e questo vuoto m’incantava come se il tempo si fermasse nell’aria. Venivo al punto che ogni cosa era possibile e vigeva; solamente, non capivo perché in tanto fervore ogni cosa tacesse. Allora guardavo le formiche in terra, o le piante lontano, minuscole anch’esse sulla grande costa; e le formiche irrequiete e le piante sembravano smarrite anche loro nel tempo. La collina è tutta fatta di cose distanti, e a volte rientrando salivo a osservarla nella finestra dei gerani. Tra i gerani e le creste calcinate nel sole c’era comune la distanza, la ricchezza nascosta. Io guardavo dai fiori alle creste ma senza sapere perché lo facessi; né l’avrei detto alla Sandiana che mi voleva canzonare. Mi serviva piuttosto anche lei da finestra, e molte volte la guardavo come guardavo quei gerani, fioriti in città. Anche lei c’era stata a suo tempo.

La città aveva viuzze raccolte, dove s’aprivano portoni sui giardini improvvisi. Li intravedevo andando a scuola e pensavo che fossero una nuova campagna più segreta e più bella. Sapevo certo che mio padre non li aveva mai guardati e non osavo domandargliene. Ma la Sandiana ch’era stata in quelle viuzze, doveva averli conosciuti; e cercai di riconoscere la sua vite vergine, che d’inverno era rossa più del fuoco. Né mio padre né lei me ne avevano mai detto nulla; da chi l’avessi sentito non so. Ma nei cortili non mettevo piede, m’accontentavo di passare; quando c’era una vite mi chiedevo perché la Sandiana non fosse rimasta, e immaginavo di venirci adesso, di salire le grandi scale solenni, di stare con lei nel palazzo. Qualche volta d’inverno venivano insieme a vedermi la domenica, e avevo il permesso di uscire con loro, con lei; ma dei tempi ch’era stata in città non le sapevo mai parlare. Mi portavano fino al mercato dove mio padre comandava merenda; poi lui si fermava con l’oste discorrendo, noialtri uscivamo a vedere la gente a passeggio. Prendevamo dai portici fino al Castello; c’erano donne ben vestite, signori, soldati, e ragazzi come me ma più ricchi, e tutti andavano adagio, si fermavano un poco, tornavano, facendosi segno e vociando. M’incantavano nel freddo le porte dei caffè piene di fumo e dorate, ma la Sandiana mi tirava per la mano, se mi staccavo s’inquietava, e assisteva tra curiosa e impaziente fin che avessi veduto ogni cosa. Preferivo le volte che aveva da fare e tagliavamo nella folla, correvamo le viuzze deserte dei miei giardini. Faceva freddo, ma potevo sempre dirle quali fiori ci fossero nella bella stagione e le chiedevo chi ci stesse nei palazzi e se non c’era mai salita. Lei mi chiedeva di dov’erano i compagni, e invidiava i più ricchi, ma diceva che i ricchi non stanno mica nei palazzi, ci fa troppo caldo e l’aria è chiusa, vanno invece in campagna dove hanno le ville, nelle montagne e al mare. Così parlavamo del mare; conoscevo diversi che d’estate ci andavano, lei stava a sentire e mi chiedeva se da uomo ci avrei condotti i miei bambini. Ma io non pensavo a bambini, pensavo a me stesso su coste lontane e a lunghi viaggi; passavamo davanti ai portoni e Così i fiori più ricchi e nascosti si confondevano col mare nel mio cuore. Pensavo allora alla finestra dei gerani come a uno sfondo di luoghi marini. La sera rientravo dai compagni carico di frutta, e ne davo ai più degni e mangiavamo ripetendoci le storie più assurde.

Così la ricchezza, ch’era tutta la giornata di mio padre, per me si faceva fantasticheria e perdeva quell’astio con cui la sentivo agognata da tutti. Non capivo quell’astio. Non capivo, a dir vero, cosa fosse ricchezza. Mi pareva qualcosa di esotico che di là dall’orizzonte promettesse stupori, come una luna di settembre ancor nascosta dalle piante. Non capivo i rapporti del grano e dell’uva coi palazzi e la vita in città. La Sandiana che girava la Bicocca misurando i raccolti con occhio cattivo, mi scoraggiava: io cercavo le prugnole. Una volta senza dirmelo fece roncare una riva d’incolto per metterla a grano: arrivai ch’era tutto finito e i cespugli buttati: le diedi dei nomi, minacciai, tirai calci – lei rise. Non capiva le lacrime, e perciò non piansi. Tanto feci che divenne cattiva e lo disse a mio padre, che mi picchiò. Mi canzonarono poi tutta la sera perché non capivo le cose. Io piansi di nascosto, e per vendetta mi vietai per un pezzo di guardar la collina attraverso i gerani. Ma la guardavo dai canneti della strada, dove basta fermarsi e si è soli, e anche qui la lontananza, filtrata dal canneto, pareva nitida e più azzurra, tra fiorita e marina. A salire più in alto – ma ci andavo di rado e non solo – s’intravedeva la pianura; e minuscole chiazze sperdute nel vago, ch’eran case o paesi, parevano vele, arcipelaghi, spume. Eran queste le cose che portavo con me nell’inverno in città; e non le dicevo, le chiudevo orgoglioso nel cuore. Ascoltavo i compagni parlare e vantarsi; io stavo zitto, non perché non godessi a sentirli, ma piuttosto capivo che le cose proprio vere non si riesce a raccontarle. Non soltanto è necessario che chi ascolta le sappia, ma bisognava già saperle quando si sono conosciute, e insomma è impossibile saperle da un altro. Io stesso mi chiedevo quando avevo cominciato a sapere, ma era come se mi avessero chiesto quando avevo conosciuto mio padre. La Sandiana un bel giorno era venuta a star con noi, eppure nemmeno di lei ricordavo che prima non c’era. A quei tempi sapevo soltanto che niente comincia se non l’indomani.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

ALEcomics, l’arte del fumetto torna nella Cittadella di Alessandria

ALEcomics, il festival della “nona arte” torna nella Cittadella di Alessandria

L’arte del fumetto, la cultura pop , board & videogames, cosplayers, 40mila metri quadrati di esposizione

 3-4 settembre 2022

www.alecomics.it

Sabato 3 e domenica 4 settembre ad Alessandria torna ALEcomics , giunta alla sua ottava edizione. Il tema di quest’anno sarà il viaggio tra i miti del lontano Oriente con un focus sulla cultura giapponese. Per un intero week end, le verdi mura della Cittadella di Alessandria racchiuderanno uno scorcio della Terra del Sol Levante. 

Il festival è realizzato da appassionati per gli appassionati, ma anche per chi si avvicina per la prima volta al mondo della nona arte e del gioco. Quarantamila metri quadrati di esposizione tra fumetti, ospiti illustri, board & videogames, esibizioni dal vivo e soprattutto moltissimi Cosplayers.

Tutti i membri dello staff sono infatti prima di tutto lettori, giocatori, cosplayer o artisti e creativi che prestano il loro contributo per realizzare due giorni di eventi ricchi di contenuti ed attrattive per migliaia di visitatori.

ALEcomics unisce i mondi di illustrazione, gioco e musica, offrendo contenuti di carattere culturale e dal forte richiamo internazionale. Durante i due giorni di festival è possibile incontrare grandi ospiti, assistere a spettacoli e concerti e prendere parte a laboratori, workshop e conferenze in un fitto programma di eventi.

Cristina D’Avena sarà la Special Guest di sabato 3 Settembre ore 17:00. La Regina delle sigle animate torna in Cittadella con un magico show e le sue indimenticabili canzoni. Domenica 4 settembre alle ore 18,00 saranno di scena i Gem Boy, con la loro dirompente carica di energia ed amabile irriverenza.     

Fulcro della manifestazione ALEcomics è la fiera-mercato, che ospiterà le attività commerciali che propongono materiale editoriale e fumettistico, ma anche merchandising legato al mondo della “nona arte”, dell’animazione e del gioco. Oltre alla parte commerciale sono presenti svariate attività:

– contest dei Cosplay

– Presentazioni delle novità editoriali dell’anno,

– Sessione di incontri/firme con Ospiti e Autori, illustratori, doppiatori, fumettisti di fama,

– Talk con artisti di fama internazionale.

La mascotte del festival sarà l’ Uomo Nero in abiti da monaco, magistralmente illustrato da Giorgia Lanza nel manifesto.


L‘edizione 2022 è prevista per i giorni 3– 4 Settembre;
gli orari della manifestazione aperta al pubblico saranno dalle 10:00 alle 19:00 entrambi i giorni.

Per info su costi e biglietti www.alecomics.it , email info@alecomics.it

Organizzazione ASSOCIAZIONE CULTURALE ALECOMICS 
con il patrocinio del Comune di Alessandria

Ufficio Stampa
Melina Cavallaro

Uff. stampa & Promozione FREE TRADE Roma 
Valerio De Luca resp. addetto stampa

28- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Il colloquio del fiume

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte terza: La vigna

Il colloquio del fiume

Dopo l’ultimo incontro sulla riva del fiume vagabondai nei prati come facevo da ragazzo. La giornata non voleva finire. Io sapevo che un giorno quelle ore le avrei ricordate come ricordo i pomeriggi abbandonati di tanti anni fa. Ero ridotto come un bambino, troppo ammaccato per sentir altro che il mio corpo, e le angosce mi camminavano davanti come guide. Le seguivo istupidito.

Fabbriche e cupole lontane non superavano le siepi. La campagna diceva il suo vuoto. Senza dubbio ero già entrato nello stato di coscienza in cui tutto può accadere perché più nulla importa. La cocente distrazione che mi aveva cacciato, si chiariva per ciò che era veramente – un distacco –, e mi trovavo staccato da me stesso al punto che guardandomi intorno ogni cosa era impensata. Saltai senza sforzo, senza volerlo, un corso d’acqua, e camminavo sull’orizzonte come nel sentiero. Ricordi remoti mi salivano agli occhi, quasi fossi felice. E intanto notavo ogni cosa; ripensavo le piante capovolte nel fiume e potevo esitare tra il mondo di sopra e quello di sotto, non sapendo quale fosse il più verde. «Si riflettono nel cielo dell’acqua», dicevo, e studiavo le nuvole bianche, quasi fossero anch’esse un riflesso.

Il fatto è che qualcuno mi chiamava. Non so perché recalcitrassi. Avrei voluto esser disperso nel mio dolore, e invece sapevo che mi ero distratto e qualcosa mi cresceva dentro che mi occupava tutto quanto. Se quand’ero ragazzo mi avessero detto che mi attendeva quel pomeriggio, avrei risposto che un ragazzo non ha nulla da spartire con i grandi e sarei scappato via. Ora il ragazzo mi chiamava, e non volevo riconoscerlo. Non pensavo che a questo. Fin che sul prato fu lui solo, resistetti. Ma poi comparve anche la scalza, pelle fosca e robusta, il vestito a fiorami. Riannusai, come fosse presente, l’odor dell’estate. Mentre tutto sgorgò, rimasi immobile non potendo far altro, e guardavo esitante le siepi e il sentiero. Rispondevo al ragazzo, a voce bassa, ansioso come un abbandonato. E mi diedi al ricordo.

La donna era scalza, come allora. Allora era salita sul treno sotto i fiorami sventolanti, spinta alla vita da quell’uomo, contadino scuro in faccia come lei, che l’aveva rincorsa ridendo. Avevano in mano una cestetta tutta fradicia, e ci avevano guardati dal bianco dell’occhio. Il treno tornava in città e molti ridevano, pensando sul marciapiede le piante sudice della donna. Ridevano in faccia a quei due, messi di buon umore dalla loro goffaggine. La scalza non guardò il ragazzo – era seduta abbandonata stringendosi all’uomo, e aveva ancora paglie nei capelli. Di dove venissero nessuno sapeva. Venivano da quelle colline, le avevano negli occhi e nel sudore. Soltanto il ragazzo non rise.

— Io di te non ho riso, – dissi alla scalza che mi venne incontro. – Quel ragazzo lo sa.

— Sí, – disse la voce. – Quand’eri ragazzo eri più buono con le donne.

Volsi l’occhio, come a dire che in presenza del ragazzo era meglio tacere.

— Non eri un ipocrita allora. Non avevi di questi riguardi.

— Sí che li avevo, – dissi convinto. – Uno è sempre lo stesso.

Il ragazzo lasciava che parlassimo noi. Anzi pareva che sbirciasse per il prato, pronto a prendere la fuga non appena guardassimo altrove.

— Ma allora era giusto. Allora non sapevi che cosa è una donna.

Mi guardò, con gaiezza, dal bianco dell’occhio.

— Adesso dovresti saperlo.

Allora le dissi: — Sempre Così giovane sei?

Le guardavo la gola e parlavo sommesso. Mi aspettavo un’ingiuria, una smorfia, uno scatto.

Invece fu un rauco sospiro, intonato alla veste e ai capelli arruffati. — Perché me lo chiedi? – disse, e indicò il ragazzo. – Lo sa lui, non ti basta?

La veste ebbe un sussulto sui polpacci.

— Sei sempre la stessa, – dissi animato. – Non dimentico più quella sera d’estate.

La scalza sorrise di nuovo.

— Ne parliamo sempre. Vuol sapere che cosa facevo, di dove venivo, se quel giorno avevamo pescato. Se non fosse per lui non sarei qui.

— Non ti chiede chi fosse quell’uomo?

— Che uomo?…

Mi guardava sorpresa, poi rise.

— Va’, – disse forte. – Lui non è come te. Mi vuol bene. Preferisce il mio vestito a fiori. Diversamente gli farei paura –. Il ragazzo si venne accostando e pareva guardarsi le scarpe. – Gli piace l’odore del sole di allora. Lo vedi?

Tendendo la mano lo prese alla nuca, con quel gesto come si fa ai gatti. Il ragazzo si scrollò e scostò il capo, ma non se ne andava e rimase a guardarci in silenzio. La scalza sorrise – dell’aspro sorriso che le suonava nella voce come ruggine di sole.

— Lo vedi? – mi disse. – Quel che pensa, lo mostra.

— Ti nascondo qualcosa? — chiesi.

Allora mi diede uno sguardo terribile – lo sguardo che avevo temuto da un pezzo – ma senza deporre il sorriso di prima, che parve fasciarlo. Compresi il pericolo che c’era in quegli occhi. Se mi voleva giudicare ero perduto. Col cuore in tumulto, risposi:

— Hai ragione. Sono pieno di cose vigliacche e cattive. Come te. Siamo tutti Così. Il tempo passa.

La scalza ascoltava. — Non sei più una bambina e capisci anche tu. Ma quest’oggi non ho fatto del male. E chi mi ha schiacciato non è come te.

Le ultime parole le dissi alla terra. Sentii l’erba frusciare e vidi appena il piede nudo, che già la mano mi palpava la nuca e io mi scostavo scontroso e felice. La voce mi disse: — Non parli con lui?

Capii ch’ero solo, e tornai vagabondo alla riva del fiume, sul greto tranquillo. Li trovai già seduti sui sassi. Mi sedetti tra loro e poggiavo il mento sul ginocchio.

Il ragazzo si alzò e tirò un sasso a fior d’acqua. — Era meglio se non vi parlavo, – cominciai. – Non è la prima volta che vengo sul fiume.

— Dillo a lui, — cantò la scalza.

— Lui lo vedi com’è. Non saprei cosa dirgli. Tutte le volte che lo guardo se ne scappa. A lui basta tirare le pietre e salire sugli alberi.

— E se fosse Così che ti parla?

Guardavo l’acqua e non capivo più me stesso. Quell’orrendo sciacquío che avevo in testa da tutto il pomeriggio, pareva adesso un’altra cosa, un sommesso parlare. E non pensavo più alla sera e all’indomani: lasciavo che il giorno morisse sull’acqua e il mio solo pensiero era che i due non se ne andassero.

— Altre volte, – dissi, – ho aspettato la sera Così. Chi sa dove.

— Nella vigna, — disse il ragazzo di scatto.

— Nella vigna, – dissi. – Sí. Ma cos’altro ricordo che una vigna e un sentiero di canne, e un glicine sempre uguale sul balcone? Adesso a volte mi vergogno. Si può pensare giorno e notte a queste cose? Eppure, scava scava, è tutto qui.

— Il sentiero va nei boschi, – disse il ragazzo acceso. – E le canne finiscono al pozzo. I boschi coprono mezza collina e si vedono dal terrazzo.

Allora sorrisi e dissi: — È vero.

— D’estate, – disse il ragazzo, – quando l’uva matura, nella vigna non si sente un filo muovere: se uno sta zitto è come urlasse tanto forte da non sentir più.

— E con questo? — disse la scalza.

Il ragazzo ci guardò — È il rumore del sole che cuoce la terra.

Io dissi: — È come il tempo, che sul terrazzo del glicine è fermo. Per tutta l’estate. Soltanto, verso sera c’è come uno scatto e poi viene il fresco, e di là dalle piante si sente parlare e discorrere.

Il ragazzo mi sgranò gli occhi addosso. Mi ascoltava attento. Io sapevo che cosa accadeva e avrei voluto dirgli tutto. Ripresi:

— Anche nei boschi il tempo è fermo. Ma a vederli dal pozzo sembra sempre che nel prato in mezzo ai roveri debba succedere qualcosa. Chi sa mai se di notte non esce qualcuno in quel prato. Tu lo sai?

Rispose in fretta: — Non posso andarci fin lassú.

— Ma lo sai?

Intervenne la scalza: — È un ragazzo.

Noi ci guardammo dentro gli occhi: nei suoi, bambini, opachi, c’erano informi tante cose che dovevano accadere.

— Sciocco, – dissi, – la vigna e il terrazzo non sono niente. Conta solo la paura e il batticuore. E a due passi dalla vigna ne trovi.

— Non tormentarlo, – aggiunse lei. – Lo sa bene.

— Basta sentir passare il treno, — disse il ragazzo.

Non gli chiesi perché. Dissi alla scalza:

— Il tempo è fermo, ma c’è il mondo che aspetta. Capisci? Tutti i treni che passano portano via. Allora sí che verso sera batte il cuore, quando si sente cantare di là dalle piante.

— Come adesso.

Ascoltai lo sciacquío, dal greto alla riva di fronte, incerto nella sera. La campagna era vuota.

— Le notti d’estate, – disse forte la scalza, – andavamo a ridere e cantare sotto il paese. Quante volte ci andammo. Tu no?

Il ragazzo taceva, scontroso.

— Non mi lasciavano, – risposi. – Qualche volta scappavo.

— E cantavi Così?

Allora mi giunse nell’aria vaga una voce, e non era più il fiume. Si levava lontano, di là da quei prati, di là dalle nuvole – una voce di collina e di vigna, come un coro smorzato. Non risposi alla scalza. Ascoltavo nel canto scoppi netti di risa e parole. Serrai gli occhi felice.

— Cambia il vento e si sente, – disse lei. – Da un paese all’altro. Cantavi anche tu?

— Ascoltavo dal terrazzo nel buio.

— Ma quando scappavi?

— Avrei voluto andare in cima alle colline. Non ero mai solo abbastanza.

Riudii l’aspro sorriso. La scalza si piegò all’indietro quasi a toccarmi – non vidi il ragazzo – e mi disse: — A sfogliare la meliga andavi?

Feci per prenderle la faccia, e si scansò. — Avevi tutto questo, – disse, – e ti vergogni della vigna e del terrazzo?

— Di niente mi vergogno. È passata.

— Non hai più il batticuore?

Allora le presi la faccia e sentii sotto le dita la bocca schiusa e ridente. La scalza mi stette un momento vicina; mi passò un sospiro rauco sulla gota, poi disse: — Ricordati la vigna e il terrazzo.

Sentii che sfuggiva e non potevo trattenerla. Le dissi sul viso: — Ritorni?

La voce rispose: — D’estate.

La penombra del fiume era tutta sciacquío. Tesi l’orecchio a lungo, se ancora coglievo l’aerea canzone di prima. Poi quando fui solo, proprio solo, mi alzai sotto il cielo e andai via.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.

Teramo, Piazza Sant’Anna: eXtramuros – #1 Rassegna cinematografica Opere Rock: la guerra, la pace, la contestazione

Il 29 agosto 2022 prende il via eXtramuros, un progetto che nasce per “aprire” metaforicamente le porte della città di Teramo a chi vi ha vissuto e sta facendo esperienze importanti altrove e a chi vuole “uscire” e cerca un’ispirazione. Promosso dall’Associazione blowart, da un’idea di Luca Pilotti, curato da Roberta Melasecca, con il patrocinio e il contributo del Comune di Teramo, con il patrocinio di Cittadellarte Fondazione Pistoletto, eXtramuros si articola su di un asse temporale ampio, da agosto 2022 a giugno 2023, e prevede numerosi e diversificati appuntamenti che si snodano attraverso un percorso di riflessione e di indagine multidisciplinare. 

eXtramuros inaugura il suo percorso, a Piazza Sant’Anna, con la rassegna cinematografica “Opere Rock: la guerra, la pace, la contestazione” con la direzione artistica di Leonardo Persia e in collaborazione con Cinemusica Nova.

Di seguito il programma: 

29 agosto – ore 20.30
Conversazione con l’eXtramuros Marianna de Sanctis, Cineteca di Bologna: “Forbici, pinze e bisturi per conservare la magia del cinema”.
Ore 21.30 Hair (1979) di Milos Forman

30 agosto – ore 20.30
Conversazione con l’eXtramuros Giacinto Palmarini, attore: “Risorgere, risorgere, risorgere”
Ore 21.30 Jesus Christ Superstar (1973) di Norman Jewison

1 settembre – ore 20.30
Conversazione con Nico Piro, giornalista, inviato di guerra autore di “Maledetti pacifisti”: “Maledetti pacifisti – “Noi che non ci piace il PUB”
Ore 21.30 Quadrophenia (1979) di Franc Roddam

2 settembre – ore 20.30
Conversazione con Marco Chiarini – regista. “Apoteosi delle furie distruttive, ovvero come farsi male da soli”
Ore 21.30 Il fantasma del palcoscenico (1974) di Brian De Palma

eXtramuros vuole promuovere uno scambio virtuoso con l’obiettivo di riflettere sui modelli sociali, economici e culturali del passato -non in chiave retorica o celebrativa ma sotto forma di indagine- e rappresentare la contemporaneità nelle sue numerose e veloci trasformazioni. La manifestazione è pensata per favorire e promuovere lo sviluppo di un sistema di relazioni e di interscambio tra Teramo e i Teramani che vivono fuori dalle sue mura, tra le realtà in cui hanno trovato una dimensione e la loro città natale, con il fine di arricchire quest’ultima attraverso il patrimonio delle loro esperienze, nei rispettivi ambiti in cui queste ultime si sono formate e si svolgono.

Il progetto possiede un duplice intento: per una parte può identificarsi con una “stardust memories”, per evidenziare i mutamenti sociali, di costume, culturali, storici, politici, urbanistici ecc., attraverso dibattiti e incontri con autori e personaggi di rilevanza locale e nazionale, ma anche attraverso i racconti dei teramani, le mostre e le proiezioni audiovisive; dall’altra parte mira a mettere in comunicazione tra loro le esperienze, soprattutto professionali, artistiche, imprenditoriali dei Teramani extramuros con la loro Città, favorendo l’interscambio di conoscenze e gli spunti per la visione futura: una sorta di “ritorno ad Itaca”.

L’obiettivo è, dunque, quello di costruire una città aperta, dentro e fuori le porte, con il coinvolgimento quei Teramani che quelle porte le hanno attraversate per andare incontro ad un futuro che li ha visti altrove, accettando l’invito di eXtramuros di raccontare la loro storia, come vedono Teramo e cosa immaginano per il futuro della città. 

eXtramuros affronterà, dunque, alcune tematiche principali che costituiranno il filo d’oro di tutto il percorso: la città che non si vede ma che c’è; i mondi da ricostruire; il lavoro nuovo, quello che c’è, quello che possiamo “inventare”; umanesimo e scienza; pandemia, guerra e cultura; io mi ricordo, i racconti dei teramani. eXtramuros, pertanto, aderisce ai 17 Obiettivi ONU per lo Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030: in particolare lavora sull’obiettivo 8.Lavoro dignitoso e crescita economica e sull’obiettivo 11.Città e comunità sostenibili. Argomenti che saranno sviluppati con incontri, racconti e allestimenti artistici, coinvolgendo la collettività e le comunità locali. 

Dal mese di ottobre al mese di dicembre eXtramuros si concentrerà, invece, su di un ambito di riflessione e di narrazione di esperienze affrontando le seguenti tematiche: la comunità e la città; il lavoro, quello che c’è, quello da inventare; la dimensione artistica e culturale, progettazione, programmazione, modelli specificatamente riferiti ad una realtà come quella teramana in cerca di una nuova dimensione. Gli incontri si svolgeranno in luoghi simbolo della trasformazione urbana, sociale e culturale, in base alla loro disponibilità (Ie location saranno presto comunicate). Tutti i personaggi coinvolti, i cui nomi saranno presto resi noti, sono operatori culturali di alto profilo, i quali, partendo da Teramo città di origine, hanno trovato successo professionale in altre città italiane e/o all’estero e che, dunque, possono donare esperienze e casi studio. 

Sociologi/Antropologi/Umanisti affronteranno il tema Un Paese ci serve. Costruire la comunità; Architetti/Artisti/Visionari porteranno le loro esperienze e visioni sulla La città che non c’è (ma si può costruire). La città che c’è (ma non si vede); Ingegneri/Tecnici si confronteranno su Andare, tornare: il lavoro da immaginare; Registi/Attori/Curatori dialogheranno su La cultura, le relazioni i luoghi: come si costruisce un eco-sistema virtuoso; e Direttori Enti Istituzionali illustreranno La settima arte e la scrittura per lo schermo.

Dal mese di febbraio 2023 eXtramuros presenterà invece “Io racconto“, una serie di sei incontri con operatori culturali teramani che hanno una conoscenza approfondita della città in tutte le sue sfaccettature. I racconti verteranno sulla Teramo archeologica, la Teramo della cronaca cittadina, la Teramo dell’informazione, la Teramo dell’industrializzazione degli anni ’60, la Teramo del Premio Teramo, ecc..

Nel mese di marzo 2023 il progetto percorrerà le strade e i principali luoghi di interesse della città alla scoperta dei quartieri perduti e di quelli ritrovati: verranno coinvolte delle guide d’eccezione che proveranno ad offrire nuove visioni e prospettive. 

eXtramuros concluderà il suo viaggio nel mese di maggio 2023 con due momenti espositivi e performativi presso la Biblioteca Delfico e presso l’Arca. Le mostre saranno collegate al tema della manifestazione e avranno come loro caratteristica quella di favorire un coinvolgimento attivo del pubblico. Saranno invitati cinque artisti che operano a livello nazionale e internazionale a riflettere sui temi proposti da eXtramuros (i cui nomi saranno resi noti entro il mese di dicembre 2022), in particolare sulle relazioni tra umanesimo e scienza, sulla città che non si vede ma che c’è e sui mondi da ricostruire in questo particolare momento storico. Le mostre coinvolgeranno la comunità locale e saranno curate dalle curatrici Roberta Melasecca, Simona Isacchini e Michela Becchis. La mostra sarà documentata da apposito catalogo. 

Tutti gli aggiornamenti sul progetto saranno disponibili sulla pagina facebook
www.facebook.com/extramurosteramo


INFO

eXtramuros
Con il patrocinio di: Comune di Teramo
Con il patrocinio di: Cittadellarte Fondazione Pistoletto ONLUS
Promosso da: Associazione blowart
Ideazione: Luca Pilotti
Direttore artistico: Roberta Melasecca
Coordinamento organizzativo: Pina Manente
Curatela mostre: Michela Becchis, Simona Isacchini, Roberta Melasecca
Rassegna cinematografica: in collaborazione con Cinemamusica Nova – direzione artistica Leonardo Persia
Graphic design: Imago comunicazione 
Thanks to: Edil Italy

eXtramuros
www.facebook.com/extramurosteramo

Contatti
Roberta Melasecca

roberta.melasecca@gmail.com – tel. 3494945612
www.interno14next.it – www.melaseccapressoffice.it – www.festivaldeltempo.it

27- Letture estive: “Feria d’agosto” di Cesare Pavese – Nudismo

La scelta delle letture estive è talmente impegnativa che si preferirebbe essere già a settembre. Naturalmente stiamo scherzando, perché i suggerimenti offerti sono talmente tanti che potremmo trascorrere tutto il tempo a passarli in rassegna. La Redazione Il Libraio, ad esempio, fornisce una lunga e documentata lista di Libri da leggere: oltre 200 consigli per l’estate 2022. Dovete solo acquistare il libro che preferite e portarvelo sotto l’ombrellone.

In verità, l’espressione “libro da ombrellone” sembra alquanto irriverente trattandosi di letture, che certo non vorremmo fossero del tutto disimpegnate e superficiali. La proposta che vi facciamo è, quindi, (ri)scoprire un bel libro di un grande autore italiano del Novecento. Un libro solo, da leggere, capitolo dopo capitolo, dovunque voi siate.

Feria d’agosto di Cesare Pavese, raccoglie brevi racconti incentrati sugli anni giovanili dell’autore: la vita in campagna, le vigne, l’infanzia in contrapposizione col mondo degli adulti, la voglia di lasciare quelle colline e conoscere il mondo. Infine, la città, le case, le feste, le amicizie. Sono temi che si ritrovano anche in altri capolavori di Cesare Pavese. Sono i temi che per tutto il mese d’agosto ci accompagneranno sulle pagine di Experiences. Buona lettura e buone ferie, per voi e per noi.

Parte terza: La vigna

Nudismo

Son tornato al torrente dove venivo quest’inverno, e come succede in quest’ore calde mi è venuta l’idea di mettermi nudo. Non mi vedevano che gli alberi e gli uccelli. Il torrente è incassato in uno spacco della campagna. Se si ha un corpo, tanto vale esporlo al cielo. Le radici che sporgono dalla parete, sono nude.

Mi bagnai nella pozza, dove disteso toccavo fondo. È un’acqua tiepida, che sa di terra. Di tanto in tanto ci tornavo; cuocevo al sole tutto il tempo, buttato sull’erba, scorrendomi addosso le stille come sudore. Non sapevo più di carne ma d’acqua e di terra. Mi vedevo sulla testa tra le punte degli alberi la pozza nuda del cielo. Ci stetti fino a sera.

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Sono ormai parecchi giorni che passo nudo il pomeriggio sotto il cielo. Mi espongo e aggiro inquieto sull’erba e sul terriccio della pozza. Rarissimi istanti – quando mi butto gocciolante sopra l’erba – perdo coscienza e mi dimentico il corpo. Non che risenta l’abbandono e la tristezza di quand’ero bambino e mi spogliavo per lavarmi. Ora mi spoglio anzi con foga, smanioso di ritrovarmi e riapparire, e il cuore mi batte violento. Ma nel battito c’è un’ansia, c’è l’attesa di qualcosa, che scuote la mia solitudine. Voglio dire che faccio come sapessi d’esser visto.

Non parlo della gente. Per venire al torrente, traverso campagne dove villani e ragazze sparse mietono, ma non c’è da pensare che qualcuno mi sorprenda in questa buca ch’è parata da cespugli e da balze. Sento muoversi anche una quaglia o una lucertola, e farei sempre in tempo a coprirmi. È un’altra la mia inquietudine, del resto non priva di godimento. Ogni volta il mio stato di assoluta nudità mi sbigottisce e mi stupisce, quasi fosse una gran cosa attuarlo qui senza un pensiero. Ogni volta che stendo sull’erba le mie lunghe gambe e rovescio la nuca, so che il sole mi vede e mi fruga quale sono dalla testa ai piedi e non c’è nulla di diverso da me a un sasso, a un tronco, a una biscia screziata, se non appunto il turbamento che provo a mostrarmi. Ormai l’acqua e il sole mi han tornito e velato, e anche in questo mi par di capire che la natura non sopporta il nudo umano e con tutti i suoi mezzi si sforza, come fa coi cadaveri, di appropriarselo. Ma le occorre del tempo, e dovrei stare giorno e notte in mezzo a lei. Ogni giorno invece ricompaio, e torno nudo spogliandomi. Così le resisto e insieme mi abbandono ai suoi sguardi con quel godimento che posso. C’è qui una conca di erbe alte, acquitrinose, sempre in ombra, dove alle volte mi aggiro. L’erbe mi dànno al ventre e i piedi sguazzano, ma non è il fresco che cerco. Entro qui per nascondermi, e uscirne improvviso, più nudo di prima.

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Gli strilli e le voci di uccelli sul mio capo mi dicono che non conto gran che. Qui tutto continua come se io non ci fossi, e dal fondo di questo burrone levando lo sguardo vedo passare qualche nuvola e stormire le punte degli alberi, quasi tra noi fosse un abisso. Il vento non giunge quaggiú. Non appena buttato, dimentico le campagne e le strade – è mio orizzonte quello breve della pozza, e guardo una farfalla o un tronco d’albero con stupidaggine testarda, come palpo col corpo il terreno che copro. A intervalli passa l’ombra di una nuvola, e allora fa fresco, tutta la macchia si trasforma: le piante che svanivano nel sole, si profilano, fan selva, si riflettono in acqua, i colori si smorzano, lo sguardo distingue. Allora mi alzo e mi riscuoto, sono nudo come un tronco sotto la corteccia, fresco e nudo come l’aria che tocco. Vedo che il cielo dietro gli alberi è nudo anche lui. Nudo e raccolto.

Cresce l’ombra e osservo il bosco o l’acqua ferma. Non saprei dire quel che vedo e che penso. Le parole sono erba e radici, sono sassi, mota, fulgore – non ce n’è altre – ma il mio corpo non le accetta. Entrar nell’erba, entrar nel sasso: questo il mio corpo lo direbbe, ma non basta. Questa conca è una materia senza nome; bisogna muoversi, sentirla, toccarla. Devo fare uno sforzo per non stringere le radici, arrampicarmi su nel bosco, tra le spine e i tronchi verdi, e camminarci. Mi contengo tastando il mio corpo.

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Se qualcuno giungesse quando appena mi son rovesciato grondante, credo che non mi muoverei. Sono indolente come un tronco. L’acqua e il sole mi vanno facendo ogni giorno più fosco; credono Così di cancellarmi, di coprirmi, ma non sanno che invece m’imbestiano. M’indurano il corpo a sopportare e far da sé. M’è già presa la smania, quando arrivo sudato, d’impiastricciarmi di mota raccogliendola a manate e spalmandomela addosso, e poi starmene al sole fin che cola. È un modo di coprirmi, anche questo. Così quando mi lavo, mi pare di uscire dall’acqua più nudo.

Per quanto la pozza sia quasi stagnante, e l’acqua viscida, mi basta allungarmici per uscirne deterso. C’è dentro una vena più cruda, fredda, che io cerco sguazzando di schiena o accoccolandomi come un rospo sotto i radiconi dello strapiombo. L’intorbida subito il limo, e tutto il pomeriggio non basta a schiarirla: si direbbe che il sole vi addensa i suoi vapori più estuosi. È immagine di un cielo nell’afa; nella sua opacità non riflette più nulla. Mi pare di uscirne sudato, mi scorrono gocce dal petto alle cosce.

Dopo queste bagnate è più forte il sentore di pantano e di mota. Tutta quanta la conca cuoce al sole. Si sentono frulli, fruscii, tonfi, richiami che paiono venir da chi sa dove e non sono a tre passi. È in qualcuno di questi momenti che dimentico d’essere nudo. Chiudo gli occhi, e tutta quanta la campagna, le frutte, i viottoli, le coste, i viandanti, riprendono di là dagli alberi esistenza e spazio, ogni cosa un sentore, un sapore, la sua realtà. Tutto va e viene intorno a me, che mi cuocio sull’erba. Perché dovrei muovermi se venisse qualcuno?

Ma non viene nessuno. Viene il tedio, questo sí. Prendo il sole e prendo l’acqua, mi aggiro e mi siedo sull’erba, guardo, fiuto, ritorno nell’acqua, mai che accada qualcosa. L’ombra di un albero si allunga a poco a poco, fin che copre il mio letto consueto. Un fresco diverso comincia a vestire la conca, e il fortore di mota e di morte si avviva. Ora posso sentirlo come sento il mio corpo, che è più grande e più nudo. E non viene nessuno. Ma non posso andar io?

La prima volta che pensai questo capriccio, allibii, ma sorrisi a me stesso. Adesso, per levarmene il gusto, corro su dal sentiero per cui scendo alla conca, e mi fermo tra i cespugli bassi sull’erba del piano. Non c’è ormai più difesa tra me e la campagna. Vedo oltre i tronchi le pianure del grano. Mi butto nell’erba supino al cielo, nell’ultimo sole. Non temo contatti, nemmeno le stoppie.

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Han finito di mietere. La campagna è deserta. Faccio tutta la strada senza incontrare nessuno. La pozza mi attende e io rimpiango i giorni andati. Quel rischio era bello.

Mi tornano in mente i bagnanti del Po. Specialmente le donne che si credono nude perché cambiano d’abito. Vanno e vengono sopra il cemento o la sabbia, e si fanno dei cenni, si guardano dietro, si parlano e offendono come in salotto. Poi si mettono al sole e qualcuna si sfila il costume dalla spalla per prenderne un palmo di più. Tutti quanti si svestono, tutti si cercano, e non uno che dica ciò che tutti hanno in mente – che il corpo è ben altro. Hanno avuto il coraggio di mettersi in gruppo, non han quello di fare ciò che tutti vorrebbero.

Mi piaceva, in questi giorni passati, traversare le campagne sotto gli occhi delle donne, dei mietitori e dei buoi. Buona gente che non sapeva dove andavo, che poteva in qualunque momento venire al torrente per bagnarsi la faccia o abbeverare, e scoprire tra i rovi il mio corpo annerito. Loro almeno, se pensano di prendere un bagno, si spogliano senza riguardi. O forse non lo prendono, se non da ragazzi. Camminavo rasente ai mannelli di grano, che hanno la spiga abbrustolita, giusto il colore del mio corpo, e vedevo le mani scure tendersi, le schiene curvarsi, i fazzoletti rosseggiare. Ciò che mostrano del corpo è color del tabacco, e perfino la camicia e i calzoni hanno aspetto di terra come scorza di tronchi. Questa è gente che può tralasciare di mettersi nuda; è già nuda da sé. Quando passo tra loro, mi pesa il vestito che indosso, mi sento festivo come un bue infiocchettato. Vorrei che sapessero che sotto son nero. Che, insomma, sono nudo.

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È accaduto. Una, almeno, lo sa.

Ero entrato nell’acqua per lavarmi il terriccio. Galleggiavo supino allargando le braccia e mi vedevo il cielo chiaro dentro gli occhi. Non pensavo a nulla. Mi rizzai barcollando sulla mota sommersa e mi chinavo a prender acqua per inondarmi, quando una donna traversò la conca. Era grande, una sposa, con un fascio di frasche sul fianco. Mi venne incontro né stupita né attenta – mi vide chino palpar l’acqua – poi deviò nel burrone col suo fascio, e sguazzando in un’acqua di scolo sparí tra le erbacce. Era scalza. Ne vidi la schiena robusta riapparire nel sole tra il verde, poi sentii che sfrascava più in là.

Era scesa dal sentiero per cui corro quando vado a buttarmi sull’erba. Mi dovette vedere fin da lassú, eppure continuò la sua strada con calma, né pensò a voltarsi dopo che fu passata.

Ritto nell’acqua, nudo, l’ascoltai allontanarsi. Ero certo più scosso di lei. Sulla pelle mi correvano le gocce d’acqua. Uscii sull’asciutto, e ancora non mi pareva vero. Come non l’avevo sentita? Una donna ha un altro passo da noialtri. Ma non è questo che pensavo. Pensavo che mi aveva guardato senza curiosità né rossore, come una cosa naturale. Se si fosse fermata magari ridendo a parlarmi, sarebbe stato diverso: io mi sarei coperto, l’avrei forse toccata, ma in ogni caso non sarei Così agitato. Eppure era giovane, perché qui le spose sfioriscono presto.

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Scende il fresco, e mi sento più nudo. Ripenso agli occhi della donna, abbronzata anche lei. Sarà tutta abbronzata? Certo non ne ha bisogno: non è questo che importa. A lei importa essere sana e far dei figli vigorosi. Prende del sole quanto basta, camminando. Lo stesso sole che matura le campagne e fa frutto, e che qui bevono nel vino. L’uva annerisce anche coperta dalle foglie. L’importante è che sotto sia il corpo.

Era vestita di una gonna scura sulle gambe forti, e andava senza riguardo tra pietre e radici. La vedo procedere intenta nel bosco e sfrondare le gaggie che lassú crescono belle. Siccome strapiombano sulla parete del burrone e ne sporgono le radici, mi par di vedere sottoterra e, in alto, il cielo. Qui è la parte celata del bosco, i sentimenti, il tenebrore, il fondo. La donna a quest’ora è lontana. Ho davanti la nuda balza venata di sasso, che mi dice che anche il bosco ha un suo corpo, come tutta la campagna, coperto di terra, terra esso stesso vestita di piante, nudo e vero come siamo tutti. Mi palpo la pelle che serba il buon tepore del sole. Sono felice che la donna mi abbia visto.

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Quando torno, mi fermo a discorrere ai bivi. C’è sempre qualcuno che sa cosa dire. Ieri ho visto Marchino e gli ho detto di dove venivo. – Bisogna che anch’io faccia il bagno, – disse. È un uomo fosco con due dita di barba e gli occhi duri. Ma ha di queste gentilezze. Non ha chiesto di venire con me.

Mi disse che andava domani alla bocca della gora dove l’acqua è corrente. — Se volete venire, — mi fece. Gli obbiettai che io non porto brachette. — Sapete, – rispose. – Con me non ce n’è bisogno.

Siamo andati stasera alla gora dove la diga fa lago, e la riva è un sabbione di salici battuto dal sole. I ragazzi a quest’ora sono tutti in pastura. Ci spogliammo e posammo la roba a un poco d’ombra, poi entrammo nell’acqua. Era un’acqua argentina, carezzante e sabbiosa. Marchino nuotò a grandi spruzzi. Io mi stesi nell’acqua e galleggiai guardando il cielo. In quegli istanti penso sempre alla campagna, alle punte degli alberi, alla vita che va.

Quando uscimmo dall’acqua guardai meglio Marchino. Doveva aver mietuto seminudo quell’anno, perché non aveva di pallido che il ventre e le cosce. Peloso, del resto, di un pelo biondiccio di solleone. Camminava tranquillo, e si piegò per allungarsi sulla sabbia. Distolsi lo sguardo.

Tra una chiacchiera e l’altra tornavamo nell’acqua a bagnarci la testa. Marchino lasciava che dicessi le cose e rispondeva a suo agio dopo un pezzo. Certe volte parlava, ch’io pensavo già ad altro. Mi piaceva il suo petto nodoso che anche nel respiro non si muoveva.

Mi disse che dovevo aver preso gran sole, tant’ero nero. — Non l’ho preso lavorando, – risposi. – Voi piuttosto. Bisognerà annerirvi tutto. Se no, che figura farete, a un’occasione? — Parlavamo con la nuca sulla sabbia. Lui si piegò e vide lo scherzo. Dopo un poco rispose: — Quando sono a quel punto, non pensano a noi.

Io rividi la donna del bosco e capii che Marchino era fatto per lei. Avrei voluto anche dirglielo ma come potevo? Marchino non avrebbe capito. È da lui non pensar queste cose.

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Sono entrato fra gli alberi sopra il burrone, nella penombra calda. Rifaccio la strada della sposa, camminando con cautela. La campagna è tutt’altro che semplice. Basta pensare quanta gente c’è passata. Ogni riva, ogni macchia ha veduto qualcosa. Ogni luogo ha un suo nome.

Per le finestre delle foglie occhieggia il cielo, e sotto il cielo la collina e il piano sono un tappeto di campi. La loro dolcezza ha sapor di sudore. Ma questa dolcezza sommerge anche il bosco, tutti gli angoli incolti del bosco, che tradisce la sua nudità. È qui, in questi luoghi selvatici – sovente un cespuglio, una pietra – che terra e campo sono nudi e si rivelano.

Mi fermo al ciglione dei tronchi. Di qui riprendono i coltivi e le fatiche. Poche macchie d’ontano e gaggia sullo spacco dell’acqua facevano tutto l’incolto. Non posso procedere, poiché sono nudo. Stavolta ho capito perché per spogliarsi bisogna scendere allo spacco e perché i contadini si vestono per andare sul campo. Lavorare è vestire la terra.

Per questo la donna mi guardava tranquilla. Sapeva che mi ero nascosto e che quello era un ozio. Vedermi era come vedere se stessa. Non sapeva che avevo pensato di uscire sui campi. Tutto ha un nome in campagna ma non questo gesto. E né lei né Marchino ci pensano.

Intanto, cade il sole anche qui. Sento l’erba agitarsi e frusciare; uccelli passano; un ronzío più profondo assorda terra e cielo. La campagna appare nuda ma non è. Dappertutto il sudore la copre di caligine riarsa. Mi chiedo se c’è un fosso, una costa, un pezzo solo di terra che mani non abbiano scavato e rifatto. Dappertutto è segnato di sguardi e parole umane. Viene dai campi come un alito tranquillo, che non penetra qua sotto dove l’acqua la mota il sudore stagnano e non dicono nulla. Io ogni giorno ci trovo la vita, ma poi mi stendo, corpo nero, come un morto.


Edizione completa sulla pagina dedicata a Feria d’agosto di liberliber.it . Testo digitalizzato da Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it, revisionato da Catia Righi, catia_righi@tin.it, e Ugo Santamaria.